Dopo Valzer con Bashir (2008) e The Congress (2013), il regista israeliano Ari Folman decide di affiancare il suo tratto stilistico alla penna di una ragazzina arguta degli anni ’40 e alla concretezza impavida della sua controparte contemporanea. Con Anna Frank e il diario segreto, presentato fuori concorso a Cannes 2021 e da domani nelle sale italiane, ci imbarchiamo nella costruzione di un mondo che affonda le radici nella storia della famiglia Frank, ma trova appigli e corrispondenze socio-politiche nella nostra attualità, per sensibilizzare e avvicinare anche il pubblico dei più piccoli – le prime due opere di Folman sono chiaramente indirizzate alle menti adulte – all’importanza del consegnare la Memoria nelle mani di chi saprà cosa farne.
Ripercorrere Anna Frank per scoprire Kitty
Protagonista di Anna Frank e il diario segreto è Kitty, l’amica immaginaria di Anna a cui era dedicato il famoso diario. È proprio dall’inchiostro delle pagine che prende vita graficamente Kitty, nella casa di Amsterdam dove la famiglia di Anna si è rifugiata per due anni, oggi diventata museo. Kitty è spaesata e totalmente inconsapevole della realtà in cui si è risvegliata: così, decide di intraprende un viaggio per ritrovare Anne, che crede ancora viva.
In realtà, i viaggi di Anna Frank e il diario segreto, sono due: in primis quello, appunto, della memoria storica, che ripercorre gli eventi dell’Olocausto per svelare anche ai più giovani come, tuttora, le minoranze fungano da capro espiatorio e siano costrette a nascondersi nei palazzoni di una Amsterdam ostile, che non appare tanto diversa da quella da cui dovette rifuggire la famiglia Frank. Ma in mezzo al grigiore che pervade la città, che vediamo solamente ritratta durante la stagione invernale, spuntano i colori di una pellegrina misteriosa: il viaggio personale di Kitty è il secondo a cui ci riferivamo, che stabilisce un punto di contatto tra ieri e oggi e, al tempo stesso, assume la forma di un vero e proprio coming-of-age, con la ragazzina che deve imparare a muoversi in una città che non le appartiene, senza guida e una backstory, che può appoggiarsi solo alla Storia in senso lato per trovare il suo personale cammino.
Kitty è, indubbiamente, un personaggio politico, una fantasiosa Greta Thumberg che, facendosi carico della curiosità e dell’ingegno che contraddistinguevano il carattere di Anna – come emerge chiaramente dal diario – riesce ad analizzare accuratamente tutti i luoghi della città intitolati alla sua amica-creatrice (la biblioteca di Anna Frank, il teatro di Anna Frank, il ponte di Anna Frank..) per capire che salvare significa portare in alto, salire la scala di un palazzo gigante ma invisibile agli occhi di una Amsterdam storicentrica, colorarne i muri per essere visti, senza più la paura di nascondersi.
L’immaginazione diventa politica
“Cosa può essermi più utile dei miei ricordi?“, risponde una Anna risoluta, dopo l’annuncio da parte della madre che dovranno lasciare la loro casa di Amsterdam per mettersi al sicuro, e ciascuno potrà portare con se solo un oggetto di valore. Allora il diario, la parola scritta, indipendentemente dalla lingua madre, diventa il simbolo di un’unione tra popoli che travalisca ogni pregiudizio e differenza ma, soprattutto, l’indifferenza. Kitty, e gli amici che incontrerà lungo la strada, si mettono in prima linea, partecipano attivamente al viaggio di una ragazzina che da smarrita e indifesa – deve lottare contro la sua invisibilità, fisica rispetto a chi visita il museo, concettuale rispetto agli adulti con cui si interfaccia ad Amsterdam – diventa donna, si storicizza a sua volta, ma accuratamente nel futuro, e ha la capacità e l’umiltà di sancire un vero e proprio passaggio di testimone tra due storie: quella della penna di Anna, che ha forzatamente dovuto interrompere la scrittura del diario, e quella della voce di Kitty che, una volta compiuto il suo lavoro, può tornare alla sua forma originaria di parola scritta, accanto a chi l’ha data alla luce.
Dedicando il film ai suoi genitori, ebrei polacchi sopravvissuti al campo di concentramento di Auschwitz, Ari Folman si conferma un maestro assoluto dell’animazione. È nel senso che riesce ad attribuire ad essa, nella conformazione visiva che assumono simbologie e metafore che l’occhio riesce immediatamente a cogliere, che il regista dimostra che la costruzione di mondi è quanto mai necessaria per fare cinema politico e che i nostri amici immaginari possono raccontare di noi e del futuro più di quanto pensiamo.

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