La finzione può essere
reale tanto quanto la realtà: c’è solo una linea molto
sottile che separa questi due piani, ed entrambi possono facilmente
oltrepassarla. Questo è il messaggio tagliente che Michael
Haneke volle lanciare nel 1997 con il suo home
invasion incredibilmente realistico e provocatorio,
Funny Games (1997). In questo film, che torna di
nuovo al cinema da lunedì 11 dicembre in versione restaurata, il
regista, come i suoi personaggi, gioca con lo spettatore,
manipolandolo ma senza mai sottovalutarlo, facendo sempre appello
alla sua intelligenza e cercando sempre in lui una reazione, che in
molti casi è di vero e proprio rifiuto.
Funny Games, la trama
La famiglia di
Georg (Ulrich Muhe),
Anna (Susanne Lothar) e del loro
giovane figlio rappresenta una fetta di borghesia davvero
suggestiva: ci vengono mostrati mentre giocano a indovinare brani
di musica classica mentre guidano il loro SUV nuovo di zecca verso
la loro residenza estiva. In questa atmosfera eccessivamente
placida e tranquilla, tensione diventerà sempre più palpabile.
Quando arrivano alla lussuosa tenuta dove trascorreranno i loro
giorni di vacanza, trovano Fred, il loro vicino di
casa e fratello di Georg, e due giovani ospiti che
giocano a golf. Mentre si sistemano, uno dei giovani bussa alla
loro porta e chiede delle uova. Il giovane, Peter
(Frank Giering), lascia cadere le uova sulla porta
e ne chiede altre per fare una commissione. La pressione
psicologica aumenta gradualmente, fino al punto in cui la
situazione porta i due giovani a rapire l’intera famiglia dalla
loro casa.
Il male è mascherato dalla cortesia
Il regista austriaco, uno dei più
provocatori del cinema europeo, raccoglie con Funny
Games il testimone da Stanley
Kubrick, che qualche decennio prima aveva scosso
le coscienze borghesi con
Arancia meccanica, e da Sam
Peckinpah, che con Cani di
paglia aveva già riflettuto sulla brutalità di una
violenza che non muove da nessuna ragione, bensì vuole soddisdare
il semplice divertimento di un gruppo di individui alienati.
In realtà, ci sono molte coincidenze
tra
Arancia meccanica e Funny
Games. Innanzitutto, i criminali sono vestiti di bianco
immacolato e il capobanda assume una sorta di leadership
culturale che lo porta a esprimersi in modo raffinato e ad
adottare maniere squisite, come quella di offrirsi di sistemare la
gamba della vittima dopo averle inferto un tremendo colpo con una
mazza da golf. Questa cortesia al limite del parossismo, in cui
ogni richiesta è accompagnata da un “per favore“,
contrasta nettamente con la violenza nascosta che si cela dietro
l’apparenza educata degli aggressori, stucchevole nella sua
sollecitudine, e che va a creare un effetto molto disturbante per
lo spettatore. Le infinite inquadrature fisse che
Haneke inserisce per disturbare chi sta
guardando contribuiscono non poco a questo effetto:
un’inquadratura fissa di un uomo con una gamba maciullata che
squarcia il silenzio della notte con un urlo tremolante è molto più
inquietante di un rapido montaggio di colpi sonori. In fondo, è la
stessa idea che David Lynch ha magistralmente
catturato nel prologo di Velluto blu: il male
nascosto dietro una facciata di pace e tranquillità.

“The villain takes it all”…
Funny Games è un
film che sfida le convenzioni cinematografiche e di genere.
Innanzitutto perché uno dei suoi personaggi principali, Peter,
rompe continuamente la quarta parete parlandoci attraverso
lo schermo. Ci interroga, ci intimidisce, cerca di dialogare con
noi per conoscere il nostro punto di vista. Tenendo presente il
tono generale del film, questo dettaglio, brillante, postmoderno e
incredibilmente lucido, è volutamente offensivo, perché
sappiamo in ogni momento di essere in una rappresentazione, un
teatro scomodo dove le cose accadono, senza avere chiaro il come e
il perchè.
Nella sequenza forse più ispirata
dell’intero film, Peter prende il telecomando
della TV e riavvolge ciò che è appena accaduto, come se il
film fosse una videocassetta – e, in realtà, non è altro che questo
– semplicemente perché quanto accaduto non è conforme ai suoi
gusti. Ci troviamo, senza alcun dubbio, di fronte a uno dei più
chiari esempi di Deus ex machina sullo schermo
cinematografico, nonchè a una delle situazioni più disperate per
qualsiasi spettatore, che prende coscienza di qualcosa che già
sospettava: i cattivi stanno per vincere. Questa non è comunque
l’unica volta in cui compare questa figura classica della tragedia
greca: ne sono esempi le mazze da golf che perdono la loro natura
di oggetti “nobili” per quella di oggetti contundenti e, ancora, il
coltello che l’autore ci mostra sfacciatamente, instillando in noi
l’inutile speranza che in seguito servirà a ristabilire l’ordine e
a fare un po’ di giustizia.

La tortura dello sguardo insistente
La vera tortura inscenata da
Funny Games non è comunque fisica, bensì
psicologica. I comportamenti contrastanti tra il pensiero
sadico dei cattivi e la loro apparente gentilezza creano
un’atmosfera di vera tensione in cui ci si chiede se la famiglia
abbia almeno un’esile speranza di salvezza. Il tipo di tensione che
lascia lo spettatore allo sbando in un luogo ostile in cui non sa
con certezza cosa accadrà – in altre parole, si sente vulnerabile.
Come se non bastasse, la mancanza di una colonna sonora che aiuti a
colmare l’assenza di speranza rende ancora più difficile assistere
al calvario di questa famiglia a danno di due giovani uomini che,
nonostante il loro inconfutabile status di villain a livello
diegetico, sono comunque incredibilmente affascinanti. A partire
dai loro dialoghi, possiamo supporre siano grandi consumatori di
prodotti culturali e allo stesso tempo ne siano talmente
influenzati che torturare e uccidere è per loro una consuetudine.
Sono il risultato della desensibilizzazione alla violenza
che i media stessi hanno provocato, soprattutto la televisione e il
cinema.
La società ha raggiunto un punto in
cui le disgrazie umane sono una fonte di piacere nel mondo della
finzione così come nella realtà, sembra volerci dire
Haneke, e Paul e
Peter ne sono un esempio vivente. Non sono però
solo loro a provare piacere nella violenza, ma anche coloro a cui
Paul parla: noi, cioè il pubblico. Siamo
partecipi del modo in cui questi giovani torturano una famiglia e
questo ci fa disprezzare l’atto stesso del guardare ma, allo stesso
tempo, alimenta la nostra curiosità morbosa, perché stiamo
volutamente decidendo di guardare un film in cui sappiamo che un
gruppo di persone verrà torturato. Dunque, chi sono i veri
villain?
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