“You can dance, you can jive,
having the time of your life. Ooh, see that girl, watch that scene,
digging the dancing queen…”.
È sulle note della canzone degli
ABBA, storico gruppo musicale da cui nasce Mamma mia!
(musical e film), che Tully danza nell’ultimo episodio della
seconda parte de L’estate in cui imparammo a volare
2. Un brano non casuale, quello scelto per l’ultima
scena, che scolpisce e incornicia nella memoria tutto quello che
sono state le protagoniste della serie fino alla fine: giovani
(nonostante l’età che avanza), libere e invincibili. Quando nel
2021 la serie debuttò su Netflix, il
pensiero che fosse una delle solite dramedy trite e
ritrite è affiorato nella mente di chiunque. Eppure Maggie
Friedman (Le
streghe dell’East End) è stata brava (dobbiamo per forza
usare il passato) e, con l’aiuto della piattaforma, ha portato in
catalogo una storia che, pur avvalendosi dei soliti cliché del
caso, è riuscita a farsi valere.
Nella quale i luoghi comuni
menzionati sono stati inseriti in maniera ingegnosa e funzionale in
un racconto che nella prima stagione non è mai scivolato nel
banale. Qualche affanno si è poi iniziato a intravedere con
l’arrivo della
prima parte della seconda season, rilasciata a
dicembre scorso, nella quale è stata evidente un po’ di stanchezza
da parte della showrunner che, dal romanzo di Kristin Hannah, aveva
saputo plasmare uno show con una precisa visione narrativa.
Regalandoci sia una bella storia di amicizia alla
Telma e Louise di
Ridley Scott, che due protagoniste complesse e complete (e con
degli attributi, finalmente). Il blocco finale, arrivato in
piattaforma ad aprile, cerca così di dare una degna conclusione al
percorso di Tully e Kate, scegliendo saggiamente di non continuare
a tessere le fila di una storyline che, a ben guardare,
sarebbe dovuta terminare molto prima.
L’estate in cui imparammo a volare
2, trama seconda parte

Tornata dal suo viaggio in Alaska,
Tully (Katherine
Heigl) viene accolta dalla spiacevole notizia della
malattia di Kate (Sarah Chalke), attraverso la
quale però le due amiche riescono a riallacciare i rapporti. Nel
frattempo torniamo agli anni Settanta, in cui le due sono alle
prese con nuovi amori, professori irresistibili, teatro e una morte
scioccante. Un salto temporale ci porta agli anni Ottanta, inizio
anni Novanta, alle porte sbattute in faccia a lavoro da uomini
sessisti e alla nascita della piccola Mara avuta con Johnny
(Ben Lawson). Siamo poi di nuovo negli anni
Duemila: Kate decide di risposare il marito mentre nel frattempo
inizia la chemio per potersi sottoporre a un intervento che, in
teoria, dovrebbe salvarle la vita. Fra alti e bassi, le due
migliori amiche affronteranno la sfida più grande di sempre:
riuscire a superare il cancro di Kate e fare i conti con una morte
che potrebbe arrivare.
Perdersi nel racconto
La prima parte de
L’estate in cui imparammo a volare 2 ci
aveva lasciato con un grosso punto interrogativo: Tully sta per
sposarsi con Johnny? Dopo il litigio fra le due migliori amiche a
causa dell’incidente, l’episodio si era concluso con la scoperta
del cancro di Kate. A questo era seguito un flashforward
in cui si vedeva Tully prepararsi per un imminente matrimonio.
Giocando con l’ambiguità e i dialoghi della scena, la serie aveva
fatto intendere che fosse lei ad essere attesa all’altare e Johnny
lo sposo in ansia del suo ritardo. I continui dubbi
seminati nel racconto sono stati, d’altronde, una
delle carte vincenti dello show, il quale non ha fra
l’altro mai smesso di arricchire l’intreccio con colpi di scena e
cambi di rotta. Una strategia furba ma efficace, soprattutto perché
sfruttata in tutti e tre gli archi temporali, con l’obiettivo di
alimentare ancor di più la curiosità dello spettatore.
E se all’inizio è servito per dare
maggiore spessore e colore alla storia e più tridimensionalità a
Tully e Kate, nella seconda stagione ha finito per essere
un problema, oltre che una tortura. Le domande hanno
trovato subito risposta e i plot twist sono diventati
scontati, inseriti come filler per far progredire un racconto
andatosi a incepparsi nei suoi stessi ingranaggi, appesantendone le
dinamiche e non suscitando più nessuna reazione. Il continuo
saltare dagli anni ’70, agli ’80/’90, per poi tornare agli anni
2000 è riuscito solo a generare confusione, rendendo la fruizione
monotona e, in alcuni casi, superficiale e grigia. Troppa carne al
fuoco, troppi punti da voler toccare e nessuno su cui focalizzarsi
davvero poiché impegnati più a seguire il solito schema, che il suo
effettivo contenuto. Da qui, una frettolosità di
scrittura e una reiterazione di eventi che hanno fatto
spegnere la narrazione. La quale avrebbe dovuto focalizzarsi di più
sul presente e sulla attuale crisi delle protagoniste per risultare
impattante, facendo delle sequenze del passato solo dei brevi
ricordi di supporto al contesto.
L’amicizia salva… ma non questa
volta
Neanche l’amicizia fra Tully e Kate,
vero carburante della storia, riesce a far mantenere alta la
concentrazione. Gli unici momenti che riescono a coinvolgere,
suscitando un minimo interesse, sono quelli in cui le protagoniste
devono confrontarsi con la malattia di Kate. Per Tully, infatti, la
sua morte le cambierebbe per sempre la vita, impedendole di essere
felice. Un inserto interessante, che stimola una semplice
ma dolorosa riflessione sull’affrontare una possibile dipartita
delle persone che amiamo, soprattutto se queste sono
pilastro portante della nostra esistenza. Sulla paura di rimanere
soli se chi abbiamo accanto dovesse abbandonarci e sulla forza che
dovremmo trarre dall’amore che quella stessa persona ci ha
trasmesso, trasformandolo in motore della vita.
Concetti bellissimi nella loro
importanza, che proprio per questo avrebbero meritato di essere
approfonditi meglio sullo schermo, e dei quali abbiamo solo
un’insoddisfacente assaggio. Bisogna però ammettere che, pur avendo
giocato in sottrazione e con tutte le incrinature presenti, i
momenti di pathos, per quanto brevi, risultano commoventi.
Lo sono, in verità, per due ragioni. La prima è la più lampante:
c’è un impegno, specie negli episodi finali (e nell’ultima scena),
a voler costruire immagini dalla lacrima facile, emotivamente e
visivamente toccanti. Seppur consapevoli, è innegabile la loro
riuscita.
Questo ci porta al motivo numero
due, ossia la brillantezza del lavoro svolto in precedenza.
L’attimo è reso struggente più dal ricordo che noi
spettatori abbiamo di Tully e Kate che dalla composizione
della messa in scena. È questo, in realtà, che che fa galoppare
davvero l’emozione. Merito di Maggie Friedman e del suo aver
sviluppato personaggi definiti e una relazione fra le protagoniste
solida e compiuta nella prima stagione, restituendoci una
conoscenza a tutto tondo di Tully e Kate. Un’operazione mirata a
empatizzare con loro puntata dopo puntata, e che alla fine è
servita a rendere il finale de
L’estate in cui imparammo a volare 2
tutto sommato significativo, più dolce che amaro.
Pur con le sue notevoli sbavature.