Il cinema è fatto di
sguardi. Occhi che si posano su immagini impresse su un
telaio bianco, le cui forme e colori disegnano un mondo con una
lingua tutta propria, in cui perdersi è inevitabile, e a volte
persino necessario. Perché la settima arte è la
dimensione fittizia perfetta per evadere da una realtà in cui
sentirsi scomodi o ingombranti non è evento raro. Allora si cerca
altrove, in uno spazio fatto di luci e ombre, dove il solo guardare
diventa piacere viscerale, desiderio, bramosia, anche ossessione.
Essere spettatori delle vite altrui e trarne godimento è
un’esperienza che si può vivere con l’arte cinematografica, lì dove
il pubblico diventa voyeur eccitato, e si abbandona dentro
la cornice di un’inquadratura in cui ci si appropria di personaggi,
luoghi e situazioni. Un concetto che dagli albori del cinema ha
visto la sua massima rappresentazione in La finestra
sul cortile di Alfred
Hitchcock, film-manuale in technicolor datato 1954 che
quest’anno compie settant’anni, e che non sembra invecchiato di un
giorno.
La finestra sul cortile, la “regia pura”
Un lungometraggio fondato
su un concetto di regia puro, un vero e proprio manuale
per i filmmaker. Un thriller costruito ad hoc, come lo sono in
fondo anche gli altri della filmografia del maestro del
brivido, in cui le architetture scenografiche, esaltate
dal gioco visivo di inquadrature studiate, esprimono chiaramente
quale sia il significato del cinema stesso, esaltandolo, e come noi
dall’altra parte ne assorbiamo l’essenza. Un inno, perciò, a ciò
che è il linguaggio filmico, ma in particolare a chi ne fruisce,
diventandone a sua volta protagonista.
Pur essendo una storia di detection,
La finestra sul cortile
si impianta su una trama lineare visivamente stratificata: Jeff,
interpretato da un meraviglioso
James Stewart
(che aveva già lavorato con Hitchcock in
Nodo alla gola),
è un fotoreporter costretto su una sedia a rotelle a causa di un
infortunio, che passa le sue giornate a guardare il vicinato dalla
finestra, entrando nelle quotidianità degli inquilini dei palazzi
di fronte. Man mano che il suo sguardo penetra nelle abitazioni,
invadendo la loro privacy, Jeff inizia a familiarizzare con la loro
routine, fino a quando un giorno non ipotizza l’assassinio della
signora Thorwald, perpetrato dal marito. Convinto di quanto crede
di aver visto, Jeff inizia a indagare con il solo uso dello
sguardo, finché la sua fidanzata, Lisa, un’incredibile e
elegantissima
Grace Kelly,
non decide di aiutarlo.
Jeff: spettatore e regista
Truffaut aveva
spiegato bene, in un’intervista, la natura di La
finestra sul cortile: “In questo film abbiamo un
uomo immobile che guarda fuori, poi ciò che vede e poi la sua
reazione. Ciò rappresenta la più pura idea cinematografica”.
Dove per idea cinematografica si intende quel meccanismo proprio
del cinema per cui osservazione e reazione sono strettamente
legate. È il cosiddetto Effetto Kuleshov, per il
quale ogni inquadratura acquisisce di senso grazie a quella che la
segue e la precede. Un principio su cui si fonda il film di
Hitchock, per dimostrare quanto siano potenti non solo gli
strumenti del cinema, ma anche la visione spettatoriale che ne
deriva. Con Jeff, il cineasta fa un’esericizio di tecnica –
magistrale – per raccontarci due figure
chiave della settima arte: il regista con la
sua macchina da presa, e il pubblico.
Per quanto riguarda il regista,
attraverso una meticolosa scelta di inquadrature, sembra che il
fotoreporter operi allo stesso modo di un cineasta: modella la sua
storia in base a ciò che capta al di là della sua finestra, dunque
sceglie cosa osservare, e soprattutto chi, a quale porzione di
spazio dare rilievo e cosa far essere importante e incisivo.
Taglia, cuce, seleziona delle immagini per dare forma a un racconto
che nel frattempo si concretizza. Allo stesso tempo, però, nella
sua immobilità, Jeff diventa lo spettatore, che
esaminando l’altro si immedesima, ipotizza e si fa coinvolgere a
tal punto da farsi delle idee, senza però poter agire. Proprio come
chi è in sala, seduto sulla poltrona, che subisce gli eventi senza
poter intervenire. Un’analogia che si riscontra anche nella
funzione dello sguardo, l’unica che il protagonista può esercitare:
fra Jeff e ciò che accade c’è una distanza che non si può colmare o
accorciare, e così per lo spettatore. Nessuno dei due può
influenzare ciò che avviene, non può intervenire.
Hitchcock usa lo spazio scenico per restituire questo concetto,
avvalendosi di soli due ambienti: quello esterno, che è primario,
focalizzato sui palazzi che si vedono dalla postazione del
protagonista, dove si svolge l’omicidio e si costruisce il tono
thriller, e quello interno, la casa in cui Jeff è bloccato, il
controcampo del primo ambiente.
Per ognuno di essi riserva
un tipo di inquadratura, scegliendo le
soggettive – la ripresa favorita e primaria del
film – quando Jeff è nell’atto dell’osservare, con zoom e
raccordi sull’asse nel momento in cui ricorre alla macchina
fotografica e imposta alcuni teleobiettivi. È in quell’istante che
noi spettatori siamo Jeff a tutti gli effetti. Diventiamo una sola
cosa con il protagonista perché ci riconosciamo: guardiamo come lui
guarda, ragioniamo come lui ragiona. Maciniamo pensieri, giusti o
sbagliati che siano, e abbiamo un’opinione come Jeff. Il culmine di
tale processo è quando l’assassino – Thorwald – si rende conto di
essere guardato e guarda a sua volta, ma direttamente in camera. I
suoi occhi incrociano quelli di Jeff, ma sembrano volgersi verso
noi spettatori, che nel frattempo ci siamo identificati con lui –
l’obbiettivo primario di Hitchcock – e veniamo trascinati
totalmente nella narrazione. Ci sentiamo in trappola, colti alla
sprovvista e spaventati. Ecco che qui Hitchcock ci mostra la prima
grande abilità del cinema: inghiottirci in un racconto fittizio in
cui però il processo di elaborazione, percezione e sentimenti sono
tutto, fuorché fasulli.

Il cinema come evasione dalla
realtà
Nella costruzione del suo discorso
narrativo e del suo protagonista Jeff, Hitchcock tiene a
sottolineare il valore del cinema come sfera dentro la quale
entrare per alienarsi dalla realtà vissuta, se la condizione in cui
si è non è confortevole. Il cinema, i film, sono
l’opportunità da una parte per estraniarsi, dall’altra per
riflettere su se stessi mentre guardiamo l’altro, che può
anche diventare il nostro doppio. Come se fosse in una sala
cinematografica, in cui la finestra diventa lo schermo dove si
svolge lo spettacolo, Jeff si stacca dalla sua realtà domestica,
nella quale sente il peso della responsabilità che ha nei confronti
della sua amata Lisa, per proiettare la sua attenzione sui
condomini che gli si palesano di fronte. La ragazza, molto più
giovane di lui, nel fargli visita ogni giorno, sfrutta l’occasione
per ricordare a Jeff del loro matrimonio, e di quanto sia
necessario iniziare i preparativi per le nozze. Il fotoreporter
però non è disposto a legarsi ufficialmente a lei poiché reputa i
loro stili di vita incompatibili, e vorrebbe che la loro relazione
rimanesse così per timore che, una volta sposati, si distrugga un
equilibrio che crede intoccabile.
Per evadere da quello che è
il suo contesto quotidiano, Jeff direziona il suo
impegno mentale sulle coppie degli appartamenti di fronte a
sé, proiettando sugli altri i suoi timori per la sua
relazione e trovando, specie i coniugi Thorwald, la conferma alle
sue paure, rispetto alle varie sfumature – anche negative – che può
avere un rapporto d’amore, e a come si può trasformare in un
rapporto tanto conflittuale che può portare all’omicidio. Lo
spettatore, similmente, opera allo stesso modo. Nel racconto che si
modella sullo schermo, Jeff trova una via di fuga che lo distoglie
dalle sue dinamiche personali, ma anche uno spunto che lo spinge a
riflettere ancora di più su quello che lo affligge. Come se,
rintracciando delle affinità con quelle persone, vedesse una
rappresentazione di sé e di un suo possibile futuro. È qui, dunque,
che Hitchcock dimostra quanto la macchina del cinema ha una doppia
funzione e svolge due compiti che si intrecciano l’uno all’altro,
facendoci capire quanto, pur non accorgendocene in maniera conscia,
la materia narrativa, ma soprattutto le immagini filmiche, possano
influenzare il nostro privato e essere rivelatrici.
Rendendoci, di conseguenza, parte integrante della
storia.
Il piacere del guardare
La tematica più centrale messa in
campo da Hitchcock in La finestra sul
cortile, che si lega a doppio filo al concetto di
spettatore, è il piacere del guardare, il
voyeurismo, su cui il maestro del brivido fa una
disamina quasi filosofica. Se il cinema è evasione e universo
parallelo attraverso cui ragionare su alcuni aspetti della propria
vita (come abbiamo detto poc’anzi), è anche dimostrazione di quanto
l’essere umano sia attratto dalle esistenze altrui e provi assoluto
godimento nel guardarle. Jeff è, infatti, rapito da ciò che può
vedere dalla finestra del suo appartamento, pezzi di vita
quotidiana che gli si dipanano davanti agli occhi e di cui non
riesce a fare a meno. Il fotoreporter rappresenta un’altra
caratteristica dello spettatore al cinema, interessato ai
personaggi che si muovono sullo schermo, desideroso di fare
ingresso – pur tacitamente – nel loro intimo quotidiano e così
interpretarlo. È un’attrazione la sua, una pulsione viva, un potere
che solo lui possiede, lo stesso che accomuna il protagonista
hitchcockniano al pubblico in sala, e a cui non riesce a sottrarsi,
tanto che Stella – l’infermiera che si prende cura di Jeff – a un
certo punto gli dirà “siamo diventati una razza di
guardoni”, dichiarando la sua, ma anche la nostra, posizione
voyeuristica (e spettatoriale).
Ecco perché quando nel film Lisa si
intrufola nella casa di Thorwald, diventando oggetto di visione e
soggetto attivo della diegesi, cresce in Jeff l’interesse per lei
che prima, quando gli era accanto, non provava. La ragazza è
entrata di diritto nella narrazione, è protagonista del racconto da
lui “fruito”, e riesce a guadagnarsi la sua attenzione totale, fino
a che il suo gesto da eroina non distenderà il loro rapporto (Jeff
si renderà conto di quanto tiene a lei) e risolverà, in ultimo, la
crisi.
La finestra sul
cortile è dunque un manifesto sul cinema e lo
spettatore e, come scrive Paolo Bertetto in
L’interpretazione dei film, è “un processo che insieme
esibisce e analizza non solo l’orizzonte tecnico del cinema, ma
anche quello comunicativo, e che progressivamente ci fa vedere come
funziona la macchina cinema, come si realizza il rapporto
spettatoriale, come si costruisce la visione filmica, come si
sviluppa la narrazione e la messa in scena cinematografica.”
In definitiva, uno dei capolavori indiscussi del
cinema, da vedere, studiare, ricordare in eterno.