“Per non dimenticare”. Una frase che
si sente spesso quando si parla dell’Olocausto e che prendiamo in
prestito per introdurre
Till, il nuovo film di Chinonye
Chckwu. La regista sceglie di tornare in sala con una
storia vera che scosse l’America degli anni ’50. Nel 1955 un
bambino afroamericano, Emmett Till, fu linciato, torturato e ucciso
per motivi razziali nel Mississippi, e poi gettato in un fiume dove
fu ritrovato qualche giorno dopo completamente sfigurato.
Till, lo diciamo subito, è una storia dolorosa,
pesante e purtroppo ancora attuale.
Eppure, nonostante l’impatto emotivo
forte, questa pellicola diventa necessaria in una società ancora
non del tutto guarita dal razzismo. L’omicidio di Emmett Till è un
fardello di cui l’America si dovrà per sempre fare carico, ma
grazie al quale ad oggi gli afroamericani possono vantare diritti e
libertà che quel periodo storico aveva loro negato. L’attivismo di
Mamie Till e la sua lotta per la giustizia hanno fatto nascere un
movimento che portò all’approvazione di quello che si conosce come
Civil Rights Act del 1957. Till è
in sala dal 16 febbraio.
Till, la trama

1955. Mamie (Danielle
Deadwyler) e suo figlio Emmett (Jalyn
Hall) vivono una vita tranquilla a Chicago, dove il colore
della loro pelle sembra essere quasi tollerato. La situazione però
è molto più grave a Sud, in particolare nel Mississippi, dove il
quattordicenne è mandato per un periodo da zii e cugini. Seppur
Mamie sia dubbiosa su questo viaggio, viene convinta da sua madre
Alma (Whoopi
Goldberg) e così Emmett arriva nella cittadina di
Money per trascorrere una bella vacanza in famiglia.
I problemi arrivano quando, dopo una
giornata nei campi di cotone, il ragazzo si reca con i cugini in un
negozio di alimentari e incontra una donna bianca, alla quale fa un
fischio di apprezzamento. Tre giorni dopo, il marito di lei si reca
a casa dei Mobley e rapisce Emmett, il quale verrà ritrovato morto
nel fiume Tallahtchie. La violenza usata dai suprematisti bianchi
contro il quattordicenne sfigurato e linciato, porterà Mamie a
diventare attivista nel Movimento per i diritti civili degli
afroamericani.
Una forte rappresentazione del
dolore
Non si può iniziare a parlare di
Till senza fare questa premessa: il titolo
confonde. Chukwu ha ben chiaro ciò che vuole portare sullo schermo
e non è il coraggio di una madre, come si legge all’inizio, bensì
il dolore e la disamina del lutto. Questi gli
elementi da cui si parte e che costituiscono la cifra dominante di
tutto il film. Till, sin dalla prima inquadratura,
sceglie come mostrare al suo spettatore la sofferenza di cui si fa
consapevole portatore, e che lo accompagnerà fino ai titoli di
coda. Lo fa costruendo un doppio rapporto con la protagonista
Mamie: intimo e, quando necessario, distaccato. Per permettere una
completa identificazione e, al tempo stesso, un riguardo verso la
storia che sta raccontando, la regista si focalizza totalmente sul
filmico, al quale affida il compito di condurci nel tormento di
Mamie.
Essa comincia il racconto dosando da
subito i movimenti di macchina, con una cura al dettaglio che non
lascia spazio a interpretazioni. Ogni frame è
calibrato, ogni angolatura ponderata, in un’operazione
attenta e quanto più meticolosa possibile. Conosciamo il cinema
come universo sfaccettato in grado di essere sia abile affabulatore
che impeccabile trasposizione del reale, e Till è
proprio su quest’ultimo aspetto che gioca il suo discorso
narrativo. Il focus, in questo caso, è sulla donna in quanto madre.
Mamie è seguita con cautela per tutta la durata del film; la
macchina da presa considera i suoi tempi e i suoi spazi per non
restituire la spettacolarizzazione del dolore ma il totale rispetto
per esso.
Degna di nota la sequenza in cui
Mamie scopre la morte del figlio Emmett. Una carrellata lentissima
in avanti ne mostra il viso sconvolto, soffermandosi sul suo
sguardo per pochi secondi. La drammaticità della scena ha già
raggiunto il suo picco massimo senza che il dialogo o un musica di
commento arrivino per corroborarlo. Dopo aver catturato quel
sentimento, con una Deadwyler magistrale, una
carrellata all’indietro riprende Mamie di spalle, per lasciarle la
privacy di cui necessita. La regista decide così di
fotografare solo l’accaduto, anche quando si
tratta di momenti di maggior pathos: non conta quanto ci si
soffermi su quello strazio, ma come questo riesca a scuotere
nell’immediato grazie alla potenza di poche ma giuste immagini.
Il mea culpa di Hollywood
Till, dietro la
tragica vicenda che colpì la famiglia Bradley, si impregna di
tematiche ancora purtroppo contemporanee. Quella dalla risonanza
più forte è il razzismo: nel contesto storico in
cui il film si svolge, gli afroamericani non avevano alcun diritto,
i bianchi si imponevano politicamente e socialmente. È il tema su
cui Chuckwu si sofferma di più, proprio perché fa da cornice e da
motore scatenante alla storia. La regista non si fa scrupoli ad
esporre la condizione limitante e remissiva delle persone
di colore, insistendo su quell’odio che si diffondeva in
maniera insensata, proprio come un virus, tra la popolazione
americana.
L’omicidio di Emmett, per volere di
Chuckwu, ci ricorda quanto in realtà gli americani non siano stati
poi così tanto diversi dai nazisti all’epoca della Seconda Guerra
Mondiale. La domanda che sorge, mentre si osserva il corpo linciato
e il viso malridotto del quattordicenne, è questa: qual era la
differenza con i tedeschi? Un ennesimo bagno di vergogna di
Hollywood per quel che è stato e per quel che, seppur in
forma più lieve, ancora è. La storia non si può cambiare, ma
insistere su alcuni temi è necessario per cercare di spingere
sempre più al margine un’ideologia cieca.
Till, perciò, vuole
essere ennesima testimonianza di un odio basato sull’ego degli
uomini, sulla loro credenza di essere superiori ad altri solo
perché in una posizione di vantaggio, e sulla loro brama continua
di potere. Till è un film che non cambia mai tono,
se non nelle ultime battute in tribunale, in cui il dramma si
sostituisce alla lotta per la giustizia e per i propri diritti. Un
mea culpa fra i tanti che il cinema sente di dover ancora fare,
nonostante non basti questo a cancellare quel che è stato.