Cori enigmatici, melodie
infantili, ritmi frenetici, percussioni ossessive, sintetizzatori
angoscianti. Tutto questo è PAURA – ITALIAN HORROR
MUSIC. La raccolta, da oggi disponibile in digitale,
include ora il remix di DJ Paul del pezzo Giallo in
Tensione di Daniele Patucchi e Cannibal holocaust – main theme di Riz
Ortolani. I brani presenti all’interno della compilation hanno dato
un grande contributo all’atmosfera del cinema horror italiano e
hanno arricchito le colonne sonore di film esoterici e
soprannaturali degli anni ’70 e dei film splatter e slasher degli
anni ’80.
DJ Paul è un DJ
statunitense, noto come membro del gruppo hip-hop Three 6 Mafia. Il
suo remix di Giallo in tensione di Daniele Patucchi arricchisce il
brano rendendolo la traccia energica e mantenendo allo stesso tempo
l’intensità e l’inquietudine della versione originale.
Questa repack nasce come
nuova edizione di PAURA (2021), già disponibile in una versione
doppio vinile e in un’esclusiva deluxe box a forma di pietra
tombale che include un doppio vinile splattered rosso con versione
alternativa dell’artwork, un poster, una fanzine con i manifesti
dei film inclusi nella raccolta ed un esclusivo 45 giri in vinile
rosso contenente le 2 bonus track: L’Ossessa di Marcello Giombini e
Le Facce della Morte di Daniele Patucchi.
La raccolta PAURA – ITALIAN HORROR MUSIC
La raccolta include brani
come Greta – Seconda Versione di Berto Pisano, caratterizzato da
atmosfere sospese e inquietanti e La Notte Che Evelyn Uscì Dalla
Tomba – versione lunga di Bruno Nicolai, con archi e organi che
creano un senso di mistero e decadimento gotico. Non mancano brani
come La croce delle sette pietre – tema del male di Paolo
Rustichelli, Notte nel bosco – evil bass di Andrea Maria Vitali,
caratterizzato da linee di basso profonde e cupe e Mio caro
assassino di Ennio Morricone, i cui protagonisti sono il flauto e
l’arpa che creano un’atmosfera di suspense e angoscia.
PAURA cresce e avvolge
l’ascoltatore in modo inquietante, offrendo un’esperienza che
alterna delizia e sgomento. L’album esplora l’eclettico repertorio
degli archivi CAM Sugar, costruendo un autentico viaggio sonoro
attraverso il labirinto del terrore. L’atmosfera è ulteriormente
arricchita dall’esclusivo artwork di Eric Adrian Lee, che
reinterpreta l’iconografia classica del cinema horror all’italiana,
donando all’opera un tocco visivo che cattura lo spirito del
genere.
La raccolta PAURA trascina
chi la ascolta in un viaggio emozionante attraverso alcune delle
più affascinanti e inquietanti composizioni mai scritte per il
cinema horror. Questo progetto dà spazio ai celebri maestri della
musica cinematografica come Ennio Morricone e Riz Ortolani, e
portando alla luce il contributo di compositori fondamentali per il
cinema italiano, come Daniele Patucchi, Marcello Giombini e Berto
Pisano. La raccolta si arricchisce inoltre di contributi
straordinari, tra cui la storica vocalist Edda Dell’Orso, musa di
Morricone, e i Goblin, il leggendario gruppo musicale noto per la
loro lunga collaborazione con il regista Dario Argento. PAURA non è
solo una celebrazione della musica horror, ma anche un omaggio alle
figure che hanno saputo creare l’atmosfera unica di questo genere
cinematografico.
PAURA include, inoltre,
‘Bargain with the Devil #3’ di Franco Micalizzi. Il brano è tratto
dalla colonna sonora del film ‘Chi Sei?’, il cui tema principale è
stato oggetto di campionamento da parte della leggenda Hip Hop Pete
Rock nella traccia ‘After the Storm’ di Kali Uchis con la
partecipazione di Tyler, The
Creator e Bootsy Collins. La canzone è soltanto una delle molte
opere presenti negli archivi CAM ad essere campionate da acclamati
artisti contemporanei come James Blake (Bruno Nicolai), Drake
(Marcello Giombini), Tei Shi e Blood Orange (Luigi Ceccarelli), un
fenomeno che mette in luce l’importanza del catalogo dell’etichetta
come una costante fonte di ispirazione per beatmaker e
collezionisti.
Dal 14 novembre
arriva nelle sale italiane Snot e Splash – Il mistero
dei buchi scomparsi, il nuovo film del regista
finlandese
Teemu Nikki, distribuito da I Wonder
Pictures e Unipol Biografilm
Collection.
La storia di Snot e Splash – Il mistero dei buchi
scomparsi
Commedia per tutte le età, Snot
e Splash racconta le avventure di due fratelli sempre in
lite, Snot (Hugo Komaro) e Splash (Urho Kuokkanen), che, durante le
vacanze invernali, si recano nella piccola città di Acquainbocca
per fare visita alla nonna. Scopriranno presto che tutto è
cambiato. I due si ritrovano a inseguire un misterioso ladro di
buchi e la loro avventura si trasforma in una corsa contro il tempo
per salvare gli abitanti di Acquainbocca, e non solo. Nel cast
anche Kati Outinen, Pekka Strang, Jari Virman, Sampo Sarkola.
Prodotto da It’s Alive
Films, Snot e Splash – Il mistero dei buchi
scomparsi andrà ad arricchire il “Teemu Nikki
Universe“, un affascinante insieme di storie capaci di
incantare il pubblico di tutte le età, scoperte e distribuite in
Italia da I Wonder Pictures, e successivamente
disponibili su IWONDERFULL. La nuova opera di
Teemu Nikki si distingue per il suo mix unico di umorismo, azione e
avventura, a cui si aggiungono elementi visivi spettacolari e
personaggi indimenticabili. Nikki, noto per la sua capacità di
trattare temi universali con leggerezza e ironia, crea un ambiente
in cui il pubblico può riconoscersi, mentre i protagonisti
affrontano sfide che mettono alla prova non solo le loro abilità,
ma anche il loro legame fraterno.
In Snot e
Splash, il regista utilizza una palette visiva vivace e un
design innovativo, catturando l’immaginazione degli spettatori più
giovani e invitandoli a esplorare un mondo fantastico, ricco di
sorprese. Con dialoghi spiritosi e situazioni comiche, il film
intrattiene e coinvolge, offrendo momenti di pura gioia e risate.
Nikki continua a consolidare la sua reputazione come uno dei
registi più innovativi del panorama cinematografico contemporaneo,
capace di creare storie che parlano tanto ai bambini quanto agli
adulti, mantenendo sempre viva l’attenzione del pubblico.
Snot e Splash – Il
mistero dei buchi scomparsi è ora anche un
libro illustrato, curato dallo scrittore
Manlio Castagna e dall’illustratore
Gianluca Garofalo, edito da Salani Editore,
presentato in anteprima durante l’edizione 2024 del Lucca Comics & Games e in libreria
dal 29 ottobre.
Presentata alla Festa del
Cinema di Roma nella sezione Freestyle,
Avetrana – Qui non è Hollywood è la serie
tv di Pippo Mezzapesa che ricostruisce in quattro
episodi la tragica vicenda di Sarah Scazzi, quindicenne pugliese
scomparsa il 26 agosto 2010, il cui corpo senza vita fu ritrovato
in un pozzo più di un mese dopo. La serie è tratta dal libro
Sarah. La ragazza di Avetrana, di Carmine Gazzanni e
Flavia Piccinni.
Avetrana – Qui non è
Hollywood, un titolo eloquente
Pippo Mezzapesa – regista pugliese
saldamente legato alla sua terra, autore di lavori come
Il bene mio e
Ti mangio il cuore – intraprende qui
un’operazione rischiosa. Il caso di Sarah Scazzi è stato tra quelli
che hanno suscitato più clamore ed eco mediatica degli ultimi anni.
Eco che ha volte si è trasformata persino in fenomeni di morbosità
e fanatismo. La domanda che ci si pone accostandosi alla visione è
se e come Mezzapesa intenda evitare il rischio di essere
considerato l’ennesimo tentativo di lucrare sulla vicenda.
Da questo punto di vista, il qui
non è Hollywood del titolo, sembra essere una vera e propria
dichiarazione di intenti. La critica all’assalto mediatico
scatenatosi nella piccola cittadina pugliese fin dalle prime
notizie della scomparsa di Sarah, e poi via via incrementato, fino
a diventare quasi una forma di assedio alla città, è evidente fin
dall’avvio della serie. Basti citare il riferimento ai veri e
propri tour organizzati da provider senza scrupoli sui luoghi della
tragedia. Ciò spinge a riflettere sui meccanismi di massa che si
innescano da più parti in questi casi. Non sono infatti solo i
media a sfruttare al massimo la notizia, ma anche chiunque possa.
La gente comune, dal canto suo, sembra cedere spessissimo al
richiamo di una curiosità malata. Si può dibattere se sia opportuno
trattare o meno di questi fatti di cronaca in una serie tv. Ciò che
conta, però, è come viene trattata la vicenda.
Vanessa Scalera, Imma Villa, Giulia Perulli, Mimmo Mancini, Paolo
De Vita in Avetrana – Qui non è Hollywood – Foto Credit Ph Lorenzo
Pesce
Luci, ombre e atmosfere
inquietanti in Avetrana – Qui non è
Hollywood
In Avetrana – Qui non è
Hollywood il regista punta all’essenziale. Il film si
muove tra due poli opposti: il sole della provincia tarantina, la
pizzica, il mare, l’estate da una parte, i due nuclei familiari
protagonisti dall’altra, composti da personalità piene di lati
oscuri perfino a sé stesse e che si muovono in ambienti altrettanto
oscuri, come il luogo in cui si ritira Michele Misseri. Il film
riesce senza dubbio a creare attesa e angoscia nello spettatore,
mentre si immerge nell’analisi dei protagonisti.
Mancanza di amore e non
accettazione di sé
Mezzapesa vuole entrare nei
meccanismi psicologici dei personaggi, nel loro disagio, a partire
da quello di Sarah. Le due famiglie protagoniste sono legate da
rapporti di dipendenza perversi e distorti. La mancanza di amore
domina su tutto. È quella che prova Sarah, Federica
Pala, che ha sete di riconoscimento e affetto da parte
della madre Concetta, Imma Villa, la quale però
appare incapace di soddisfare questo bisogno. Sarah soffre anche la
mancanza del fratello, a Milano per lavoro. Ha sete di abbracci, li
chiede continuamente. Finisce per trovarli a casa degli zii,
Cosima, Vanessa Scalera, e Michele, Paolo
De Vita. Anche la loro figlia, Sabrina, la cugina di
Sarah, Giulia Perulli, ha sete di amore e
riconoscimento. Si sente sbagliata, è in lotta con sé stessa, col
suo corpo, non si accetta. Il legame con Sarah è stretto e appare
morboso, di odio e amore. Sarah ai suoi occhi sembra rappresentare
un modello irraggiungibile, ma al contempo è ancora una “bambina”
da manipolare. I coniugi Misseri non sono da meno e tutti insieme
compongono il quadro di due famiglie disfunzionali, i cui rapporti
malati non possono che sfociare in qualcosa di tragico e
indicibile.
Anna Ferzetti – Avetrana – Qui non è Hollywood – Foto Credits Ph
Lorenzo Pesce
Quattro episodi, quattro
punti di vista
La narrazione è divisa in quattro
episodi, ciascuno dal punto di vista di un personaggio: Sarah,
Sabrina, Cosima e Michele. Lo stesso regista cura la sceneggiatura
con Antonella Gaeta e Davide Serino, come già per Ti mangio il
cuore. Questa organizzazione della materia narrativa permette
di entrare ancora più a fondo nella psicologia dei personaggi, che
è poi l’elemento realmente inquietante del lavoro. Anche i dialoghi
sono molto ben costruiti, realistici e l’uso del dialetto
appropriato.
Le interpretazioni in
Avetrana – Qui non è Hollywood
Le interpretazioni dei protagonisti
sono tutte a fuoco, forse quella con meno guizzi è proprio quella
di Sarah, Federica Pala, mentre davvero efficace e di forte impatto
è quella di Sabrina, anche la più complessa. A darle corpo, con una
sorprendente trasformazione, è Giulia Perulli, che
attraversa un arco emotivo notevole, risultando sempre credibile e
trasmettendo allo spettatore angoscia e inquietudine profonde, non
senza momenti in cui affiora il desiderio di spensieratezza che una
giovane donna può avere. Parimenti disturbanti, ma più minimaliste,
le interpretazioni di Cosima Serrano, madre di Sabrina, una
straordinaria Vanessa Scalera, e Michele Misseri, il marito, zio di
Sarah, interpretato da Paolo De Vita. Nel cast anche Anna
Ferzetti, la giornalista, Giancarlo
Commare, Ivano, il ragazzo conteso tra Sarah e Sabrina,
Antonio Gerardi, il maresciallo.
Avetrana – Qui non è Hollywood è
un’operazione che può piacere o meno, ma che riesce nell’intento di
essere scomoda e disturbante sia per come dipinge i protagonisti,
sia perché mette bene in luce i meccanismi di certi fenomeni di
massa.
Sono diversi i motivi che rendono il
film del 1985 Witness – Il testimone uno dei più
grandi film americani di sempre. In primo luogo vi è la sua
sceneggiatura, scritta da William Kelley e
Earl W. Wallace, i quali vennero per questa
premiati con l’Oscar. Si tratta infatti di un epico racconto di
genere thriller, che fonde elementi consolidati ad altri più
innovativi, come l’ambientazione rurale e l’utilizzo della
filosofia amish. Si tratta inoltre del primo film americano di
Peter Weir,
regista ricordato per celebri film come L’attimo fuggente e
The Truman Show. Infine, a rendere grande il film vi
sono le interpretazioni dei suoi protagonisti, e in particolare
quella di Harrison Ford.
La storia di Witness – Il
testimone trae ispirazione da un episodio della serie
Gunsmoke, che proprio Kelley e Wallace avevano scritto. I
due diedero così vita ad una prima stesura della sceneggiatura di
circa 182 pagine, poi ridotte affinché il film potesse durare circa
due ore. Il progetto, però, rimase a lungo nel limbo. Il produttore
Edward S. Feldman, infatti, faticò a trovare uno
studios interessato a questo. La Fox, ad esempio, liquidò la cosa
affermando che loro non producevano film rurali. Fu infine la
Paramount ad acquisire i diritti per il film, che divenne da subito
uno dei maggiori successi dell’anno e ancora oggi è ricordato come
un grande esempio di cinema che coniuga alla perfezione scrittura e
visivo.
A fronte di un budget di 12 milioni
di dollari, il film arrivò ad incassarne ben 68 in tutto il mondo.
Un risultato particolarmente notevole, che portò il titolo a
diventare uno dei grandi protagonisti della sua stagione. Ottenne 8
nomination ai premi Oscar, vincendo quello per la miglior
sceneggiatura e per il miglior montaggio. In questo articolo
approfondiamo alcune delle principali curiosità relative ad esso.
Proseguendo qui nella lettura sarà infatti possibile ritrovare
ulteriori dettagli relativi alla trama e al
cast di attori. Infine, si elencheranno anche le
principali piattaforme streaming contenenti il
film nel proprio catalogo.
La storia ha inizio nel momento in
cui il piccolo Samuel Lapp, membro della comunità
amish insieme a sua madre Rachel, diventa il
testimone di un omicidio. Sul caso interviene il detective
John Book, il quale cerca di ottenere dal bambino
quante più informazioni possibili. Questi però è ancora scioccato
dall’accaduto e non riesce che a dar vita a pochi vaghi ricordi
circa l’aspetto degli assassini. Per evitare che madre e figlio si
allontanino o vengano perseguiti, Book decide di trascorre del
tempo con loro. Portato Samuel in centrale per degli accertamenti,
il bambino scorge però la foto di un uomo che riconosce come
l’assassino: si tratta del tenente della narcotici James
McFee.
Sorpreso e sconcertato dalla cosa,
Book decide di indagare a riguardo. Si rivolge allora al suo capo,
Paul Schaeffer, aggiornandolo sugli sviluppi
dell’indagine. Così facendo, però, capisce che dietro a
quell’omicidio si nasconde un’operazione molto più grande e
pericolosa. Per proteggere sé stesso, Samuel e sua madre, Book è
così costretto a rifugiarsi nella comunità amish, dove dovrà
concepire un modo per difendersi e risolvere quel caso. Coloro che
hanno motivo per mettere a tacere quella storia non tarderanno
infatti a manifestarsi, intenzionati ad uccidere ogni testimone
possibile.
L’attore Harrison Ford
dà qui vita ad uno dei suoi personaggi più memorabili, il detective
John Book. Per prepararsi al ruolo, egli decise inoltre di spendere
diverso tempo presso il dipartimento della omicidi della polizia di
Philadelphia. Così facendo ebbe modo di apprendere il mestiere e
risultare più realistico nella sua interpretazione. Questa venne
particolarmente lodata, e per la prima volta Ford ottenne una
nomination all’Oscar come miglior attore. Ancora oggi si tratta
della sua unica candidatura. Per il ruolo di Samuel, il bambino
amish, venne invece scelto l’attore Lukas Haas.
Questi si era reso noto grazie al film Testament, e
proprio vedendolo in questo il regista decise di affidargli
l’importante ruolo in Witness – Il testimone.
L’attrice Kelly McGillis, che l’anno dopo reciterà
in Top Gun, ottenne invece
la parte di Rachel Lapp. Per prepararsi al suo personaggio, questa
si trasferì a vivere in una comunità amish, dove imparò a svolgere
le principali attività. Ebbe inoltre modo di perfezionare il suo
accento, così da renderlo più simile a quello dei locali. Ad
interpretare Paul Schaeffer e James McFee vi sono invece gli attori
Josef Sommer e Danny Glover.
Quest’ultimo è principalmente noto per il suo ruolo da
co-protagonista nella saga di Arma Letale. Nel film
si ritrova infine anche l’attore Viggo
Mortensen, nei panni di uno degli agricoltori della
comunità. Per lui si è trattato del primo film della sua carriera,
e venne scelto per via del suo volto, giudicato particolarmente
adatto a rappresentare uno dei membri della comunità.
Il trailer del film e dove vederlo
in streaming e in TV
È possibile fruire del film
grazie alla sua presenza su alcune delle più popolari piattaforme
streaming presenti oggi in rete.Witness – Il
testimone è infatti disponibile nel catalogo di
Apple iTunes, Tim Vision, Paramount+ e Amazon Prime Video. Per vederlo, basterà
semplicemente iscriversi, in modo del tutto gratuito alla
piattaforma. Si avrà così modo di guardare il titolo in totale
comodità e al meglio della qualità video. Il film sarà inoltre
trasmesso in televisione il giorno sabato 19
ottobre alle ore 21:00 sul canale
Iris.
Ci sono eventi della storia che
sembrano nati per essere raccontati al cinema. Uno di questi è
certamente quello riguardante il velocista Jesse Owens e la sua
grande vittoria alle Olimpiadi di Berlino del 1936, in pieno regime
nazista. Il film Race – Il colore della vittoria
(qui la recensione), diretto da
Stephen Hopkins, porta sul grande schermo proprio
questo epico racconto, ricordando una volta di più il valore delle
azioni di Owens e il loro grande significato in quel preciso
contesto storico. Per riuscire in ciò, si avvale di un cast di noti
attori, i quali vanno a ricoprire quelli che sono i ruoli
principali del film.
Arrivato in sala nel 2016, il film
era in sviluppo già dal 2014. Questo si sarebbe basato sulla vita
dell’atleta fino alla sua storica vittoria ai giochi olimpici. Per
poter garantire la maggior fedeltà possibile alla reale vicenda, la
produzione si affidò al supporto della famiglia Owens, attraverso
la Jesse Owens Foundation. Non mancarono però anche alcune
modifiche a quanto avvenuto, con il fine di far acquisire una
struttura più cinematografica al racconto. Race – Il colore
della vittoria venne poi apprezzato dalla critica, che
esaltò il racconto e le interpretazioni dei protagonisti.
Arrivato in sala, il film si rivelò
un buon successo di pubblico. A fronte di un budget di soli 5
milioni di dollari, questo arrivò infatti ad incassarne ben 25 a
livello globale. Di produzione canadese, il titolo venne infine
nominato a ben otto Canadian Screen Awards, prestigioso premio
locale. Qui vinse in quattro categorie, tra cui quella per il
Miglior attore. In questo articolo, approfondiamo però non solo i
dettagli relativi alla trama e al cast di
attori, ma anche alla storia vera.
Infine, si elencheranno anche le principali piattaforme
streaming contenenti il film nel proprio catalogo.
Il film si apre sulla giovinezza di
Jesse Owens, che negli anni Trenta si divide
unicamente tra la famiglia e la sua passione per lo sport. La sua
tranquilla quotidianità viene ad essere stravolta nel momento in
cui sostiene un colloquio con l’allenatore Larry
Snyder. Intuendo le potenzialità del ragazzo, questi si
offre di allenarlo come velocista. Per Owens ha così inizio un duro
periodo di allenamenti, che gli permetteranno di ottenere grande
notorietà e di essere inviato come rappresentante degli Stati Uniti
alle Olimpiadi di Berlino del 1936. Per lui ha inizio un’avventura
che lo porterà nel cuore del regime nazista, dove dovrà dimostrare
di non essere secondo a nessuno, affermando il proprio valore
proprio sotto lo sguardo severo di Adolf
Hitler.
Il cast di attori
Come sempre, molto del successo di
un film è racchiuso nel suo cast di attori. Per assicurarsi di
trovare i giusti interpreti per ogni ruoli, i produttori svolsero
lunghi casting. Il ruolo di Jesse Owens venne inizialmente affidato
all’attore John
Boyega, il quale decise però di abbandonare il
progetto dopo aver ottenuto il ruolo di Finn in Star Wars: Il
risveglio della Forza. Al suo posto venne allora
scelto il poco noto Stephen James. Per
prepararsi al ruolo, James si sottopose ad un lungo allenamento
fisico, con il quale poté ottenere la fisicità richiesta come anche
la capacità di poter eseguire alcune delle sequenze di corsa
previste.
Jason
Sudeikis, noto per i suoi ruoli comici, si cimenta qui
con un’interpretazione drammatica dando volto all’allenatore Larry
Snyder. Date le scarse informazioni disponibili su Snyder, egli
decise di costruire la personalità di questo traendo ispirazione
dai personaggi ricoperti da Kevin
Costner in Bull Durham – Un gioco a tre mani,
e da Gene Hackman
in Colpo vincente. Il premio Oscar Jeremy
Ironsè invece presente nei panni di Avery
Brundage, presidente dei giochi olimpici. Carice van
Houten, nota per la serie Il Trono di
Spade, interpreta la regista tedesca Leni Riefenstahl,
mentre William
Hurt è Jeremiah Mahoney, presidente della Amateur
Athletic Union, il quale cercò di boicottare le Olimpiadi.
Quella di Owens è una storia che ha
inizio nei campi di cotone dell’Alabama, dove la sua famiglia
lavorava. Dopo essersi trasferiti a Cleveland, in Ohio, il giovane
inizio a sviluppare un grande passione per la corsa durante gli
anni del liceo. Dopo una serie di gloriose vittorie, egli ottiene
di poter entrare a far parte della Ohio State University, dove
conosce l’allenatore Larry Snyder. Grazie agli insegnamenti di
questo, Owens ha modo di sviluppare il suo talento, fino ad entrare
a far parte nella squadra olimpionica degli Stati Uniti. La sua
partecipazione alle Olimpiadi di Berlino del 1936 non venne accolta
particolare favore.
Owens ricevette infatti molte
pressioni per non gareggiare, ma egli decise di non curarsi di
queste e partire ugualmente alla volta della Germania. Qui si
dimostrò da subito un campione. Egli si trovò a stabilire un record
senza precedenti vincendo ben 4 medaglie d’oro. La
prima arrivò nella corsa dei 100 metri il 3
agosto, seguita da quella nel salto in lungo del 5
agosto e dalla corsa dei 200 metri il 6 agosto. Il
9 agosto egli ottiene l’ultima grande vittoria arrivando primo
nella staffetta 4×100. Particolarmente celebre
rimane però la gara del salto in lungo.
Qui in seguito alla sua vittoria,
Owens viene raggiunto dall’atleta tedesco Luz
Long, il quale si complimenta con lui dimenticando le
teorie sulla razza all’epoca tanto diffuse. Durante quella stessa
giornata, la vittoria di Owens viene salutata dallo stesso
Adolf Hitler. A lungo è stata riportata la
leggenda secondo cui il Fürher avrebbe lasciato lo stadio
inorridito da tale risultato. Con il tempo è invece stato
dimostrato come tale versione sia falsa, e che anzi vi è stato
anche un vero e proprio incontro privato tra il tedesco e lo
sportivo di colore.
Il trailer del film e dove vederlo
in streaming e in TV
È possibile fruire di Race –
Il colore della vittoria grazie alla sua presenza su
alcune delle più popolari piattaforme streaming presenti oggi in
rete. Questo è infatti disponibile nei cataloghi di Apple
iTunes, Tim Vision e Prime Video. Per vederlo, una volta
scelta la piattaforma di riferimento, basterà noleggiare il singolo
film o sottoscrivere un abbonamento generale. Si avrà così modo di
guardarlo in totale comodità e al meglio della qualità video. Il
film verrà inoltre trasmesso in televisione sabato 19
ottobre alle ore 21:10 sul canale
TwentySeven.
Quello del revenge movie è
da sempre un filone di film particolarmente popolari e acclamati,
dove l’eroe intraprende una spedizione punitiva nei confronti di
quanti hanno ucciso o rapito dei suoi cari. Negli anni sono diversi
i titoli che hanno riconfermato la fortuna di questo genere, da
Io vi troverò a Io sono vendetta.
Particolarmente interessante su questo tema è anche il tedesco
Nick – Off Duty, del 2016 e diretto da Christian Alvart
Il poliziotto Nick Tschiller è in
realtà una vera icona del panorama thriller-action tedesco,
protagonista di una saga che si rifà a Tatort,
serie poliziesca cult degli anni ’70. Nick – Off
Duty è poi l’avventura più personale e pericolosa cui ha
preso parte il poliziotto dai metodi spicci, che si snoda tra
Amburgo, Istanbul e Mosca con inseguimenti mozzafiato, sparatorie,
alta velocità e rischio.
Per gli appassionati del genere, si
tratta dunque di un titolo da non perdere, capace di regalare
numerosi momenti da brivido. In questo articolo, approfondiamo
dunque alcune delle principali curiosità relative a Nick –
Off Duty. Proseguendo qui nella lettura sarà infatti
possibile ritrovare ulteriori dettagli relativi alla
trama, al cast di attori e alla
spiegazione del finale. Infine, si elencheranno
anche le principali piattaforme streaming
contenenti il film nel proprio catalogo.
Cortesia di Syrreal Entertainment
La trama di Nick – Off Duty
Protagonista del film è Nick
Tschiller, un poliziotto di Amburgo che lotta contro il
crimine insieme al suo partner, il poliziotto Yalcin
Gümer. Il suo principale nemico è la mafia turca, che
qualche anno prima ha ucciso sua moglie. Un evento che ha segnato
profondamente anche la sua figlia adolescente,
Lenny, la quale decide infine di vendicare la
morte della madre partendo per Istanbul in cerca dei suoi
assassini. La ragazza, tuttavia, finisce in mano a una spietata
organizzazione di criminali russi.
Quando Nick scopre che Lenny è stata
portata a Mosca per essere venduta al mercato clandestino di
organi, parte insieme all’inseparabile Yalcin per la capitale russa
per salvare sua figlia. Sarà un viaggio lungo e pericoloso che
metterà a dura prova il poliziotto, che dovrà correre contro il
tempo per salvare la sua amata figlia, prima che sia troppo tardi.
Per riuscire nell’impresa, però, Tschiller dovrà contare anche
sull’aiuto dell’uomo che più odia al mondo: colui che ha ucciso sua
moglie, Firat Astan.
Il cast del film
Ad interpretare Nick Tschiller vi è
l’attore Til Schweiger – noto per il ruolo del
Sgt. Hugo Stiglitz in Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino -, mentre Fahri
Yardim interpreta il collega Yalcin Gümer.
Luna Schweiger è Lenny, figlia di Nick,
mentre Özgür Emre Yildirim interpreta
Süleyman Şeker, trafficante di essere umani. Completano il cast
Alyona Konstantinova nel ruolo di Dasha,
EgorPazenko in quello di
Boris Golidzyn, Tamer Tirasoglu nel ruolo di
Bülent e Evgeniy Sidikhin in quello di
Alexander Kinsky. Erdal Yildiz interpreta invece
il criminale curdo Firat Astan.
Cortesia di Syrreal Entertainment
Il finale del film
Nel corso del film, grazie alla
soffiata del criminale curdo Firat Astan,
colpevole di aver ucciso sua moglie, Tschiller scopre che sua
figlia si trova nelle mani del trafficante di esseri umani
Süleyman Şeker. Tschiller e Gümer scoprono poi che
a Lenny è stata impiantata una bomba con cui Şeker sta progettando
un attentato all’industriale Alexander Kinskij. I
due, riescono a rintracciare Lenny all’ultimo secondo, Gümer riesce
a eliminare Şeker con l’aiuto del collega russo Boris
Golidzyn e Tschiller rimuove con successo la bomba dal
corpo della figlia in tempo, riuscendo così a chiudere al meglio
quella vicenda.
Il trailer del film e dove vederlo
in streaming e in TV
Sfortunatamente il film non è
presente su nessuna delle piattaforme streaming attualmente attive
in Italia. È però presente nel palinsesto televisivo di
sabato 19 ottobre alle ore 21:20
sul canale Rai 4. Di conseguenza, per un limitato
periodo di tempo sarà presente anche sulla piattaforma Rai
Play, dove quindi lo si potrà vedere anche oltre il
momento della sua messa in onda. Basterà accedere alla piattaforma,
completamente gratuita, per trovare il film e far partire la
visione.
Nel 1979, a seguito di una violenta
rivoluzione, l’Iran cessa di essere una monarchia
per diventare una Repubblica. Nel 2003, la scrittrice e docente di
letteratura inglese Azar Nafisi dà alle stampe il
romanzo autobiografico Leggere Lolita a Tehran,
nel quale ripercorre quei primi delicati anni della nuova forma di
governo del suo Paese, che per un momento sembrò davvero essere sul
punto di grandi cambiamenti in meglio. Di questo suo scritto,
tradotto in 32 lingue e affermatosi come un bestseller dal grande
impatto, si ha oggi il film Reading Lolita in
Tehran, diretto da Eran Riklis.
Il regista israeliano di film come
Finale di coppa (1991), La sposa siriana (2004) e
Il responsabile delle risorse umane (2010), adatta
dunque per il grande schermo un’opera particolarmente brillante nel
modo in cui accosta classici della letteratura ad un contesto
sociale particolarmente agitato come quello dell’Iran degli anni
Ottanta, ritrovando in esso quegli stessi temi che animano i
romanzi di cui si parla. Il film ha però anche il pregio di
ribadire la continua attualità di quei discorsi già presenti oltre
quarant’anni fa e che anzi oggi più che mai sembrano ripresentarsi
con forza alla nostra attenzione.
La trama di Reading Lolita in Tehran
Azar Nafisi
(Golshifteh
Farahani), ex professoressa dell’Università di
Teheran, riunisce segretamente sette delle sue studentesse più
impegnate per leggere dei classici occidentali. Mentre i
fondamentalisti prendono il controllo, le donne tolgono il velo,
parlano delle loro intime speranze, amori e delusioni, della loro
femminilità e delle delusioni, della loro femminilità e della loro
ricerca di un posto in una società società sempre più oppressiva.
Leggendo Lolita a Teheran, celebrano il potere liberatorio
della letteratura celebrano il potere liberatorio della letteratura
nell’Iran rivoluzionario e formano il loro futuro.
Golshifteh Farahani in Reading Lolita in Tehran. Foto di Marie
Gioanni.
Quattro romanzi per raccontare Tehran
Quattro parti compongono il film,
proprio come quelle che dividono il romanzo di Nafisi: Il grande Gatsby, Lolita, Daisy Miller
e Orgoglio e pregiudizio. Ognuna di essere rappresenta lo
stato della figura femminile all’interno della Repubblica
Islamica dell’Iran. Quello che sembrava dovesse essere il
principio di grandi speranze, per cui molti espatriatri decisero di
tornare nella loro terra di origine, si rivela ben presto come un
sogno infranto, proprio come quello di Gatsby di poter amare ed
essere amato da Daisy. È però in particolare la fine della speranza
per le donne iraniane di poter godere di quelle libertà fino a quel
momento negate e che continueranno dunque ad esserlo.
A partire da qui si assiste dunque
alla dolorosa presa di consapevolezza che le cose non cambieranno,
ma anzi potrebbero anche peggiorare. Ma Azar Nafisi – interpretata
da Golshifteh Farahani, attrice vista in
Paterson e
Pirati dei Caraibi – La vendetta di Salazar – ha
ormai conosciuto l’Occidente, i suoi costumi e soprattutto la sua
letteratura. Non è dunque disposta a sottostare a quelle rigide
imposizioni che di fatto le negano ogni personalità e diritto di
espressione. Prima che sia troppo tardi, attraverso quei romanzi
proibiti riesce anche a toccare la mente di sette studentesse,
aprendo così loro una strada verso la ricerca di un’indipendenza
altrimenti negata.
Azar diventa dunque una mentore per
loro, richiamando alla memoria figure emblematiche come il John
Keating di Robin Williams in
L’attimo fuggente o la Katherine Ann Watson di Julia Roberts in Mona Lisa Smile. Insegnanti che riescono davvero a
fare la differenza, con la particolarità che tra queste la vicenda
relativa a Nafisi è realmente avvenuta ed ha dunque un peso che va
oltre il film, specialmente per via del fatto che – come già
accennato – costringe a confrontarsi con una serie di dinamiche che
con gli attuali conflitti sono tornate sulla bocca di tutti,
specialmente per quanto riguarda i diritti delle donne e il loro
incerto futuro.
Mina Kavani in Reading Lolita in Tehran. Foto di Eitan
Riklis.
Golshifteh Farahani sorregge il film sulle sue
spalle
Nel film vediamo dunque alternarsi
gli incontri di questo gruppo di donne e le situazioni con cui
quotidianamente devono scontrarsi. È in realtà proprio qui che si
ritrova il principale limite del film, che non bilancia
adeguatamente questi personaggi finendo per il favorirne alcuni
anziché altri. Di alcune delle donne che partecipano agli incontri
segreti organizzati da Azar sappiamo solo quello che viene detto
durante di essi, mentre di altre riusciamo ad avere anche qualche
scorcio della loro vita al di fuori di tale contesto. Se da una
parte ciò può spiegarsi con la volontà di non spezzare il racconto
attraverso troppi punti di vista, dall’altro non permette di
entrare davvero in sintonia con queste donne.
In generale, infatti, il film
affronta forse con un po’ troppo timore questa materia narrativa,
rendendo sì chiara l’orribile situazione a cui le donne iraniane
sono costrette, ma senza farcela provare per davvero, se non in
alcuni precisi momenti. Lo stesso rapporto tra Azar e le sue sette
allieve avrebbe probabilmente meritato un maggior approfondimento,
che permettesse di ricevere dalle loro interazioni ciò che occorre
sapere di ciò che avviene nel mondo esterno. Pur al netto di questi
limiti, però, Reading Lolita in
Tehran risulta un film in grado di arrivare a propri
obiettivi, che seppur smorzati da quanto poc’anzi riportato, trova
nei toni scelti e soprattutto nel volto di Golshifteh Farahani la sua forza.
In Concorso alla 81. Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica della Biennale di Venezia 2024,
IDDU (la
nostra recensione) è il nuovo film di Fabio
Grassadonia e Antonio Piazza, che hanno preso spunto dalla storia
vera di Matteo Messina Denaro per raccontare la loro versione della
mafia.
Nei panni del super-boss
Elio Germano mette ancora una volta alla prova il suo
talento, e con lui
Toni Servillo, che offre un ritratto sentito e ironico
di un politico di paese, vicino al “iddu”. In realtà quel
nome così indicativo (quasi come Colui che non deve essere
nominato) è un’alterazione della realtà, visto che Matteo Messina
Denaro si faceva chiamare U siccu.
Chi era Matteo Messina Denaro?
Denaro nasce in provincia di Trapani, a Castelvetrano, nel 1962,
in una famiglia di mafia, figlio di boss. Il padre era Francesco
Messina Denaro, capomandamento di Castelvetrano. Soprannominato
U siccu o anche Diabolik, Matteo era uno degli eredi
dei corleonesi, gli estremisti di Cosa Nostra che avevano sfidato
lo Stato con le stragi del 1992 e 1993, dopo la guerra di mafia
degli anni Ottanta.
Di lui si sa che aveva sempre un aspetto curato e alla moda, gli
piaceva indossare abiti firmati, fumare Malboro rosse e indossava
sempre dei Ray Bay classici, per mascherare un leggero strabismo.
Amava molto anche le armi e ha cominciato a uccidere prima dei
vent’anni.
Amava anche i videogiochi, e forse
questa sua passione per la tecnologia lo ha guidato nel grande
cambiamento che la mafia ha subito negli ultimi anni. Dal modello
“stragista” di Totò Riina, Messina Denaro ha traghettato
l’associazionismo criminale verso un modello imprenditoriale, forse
ancora più insidioso, basato sulla corruzione e il “cyber
crime”.
La sua lunga latitanza, durata per
30 anni, comincia nel 1993, quando fu arrestato Totò Riina. Fu
quello il periodo in cui affiancò Provenzano nel traffico
internazionale di droga.
I reati e le stragi di
Matteo Messina Denaro
Il fatto che abbia determinato un
cambio di rotta nella gestione della malavita organizzata, non
significa certo che non sia stato parte attiva di crimini violenti,
come detto, lui stesso amava usare le armi. Lui è stato uno degli
autori della strage di Capaci, in cui hanno perso la vita il
giudice Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, della
strage di via D’Amelio, che invece costò la vita al giudice Paolo
Borsellino e alla sua scorta. E proprio per mano sua è morto
Giuseppe Di Matteo, figlio di Santino, il collaboratore di
giustizia che per primo ha parlato della strage di
Capaci.
La cattura di Matteo Messina
Denaro
La mattina del 16
gennaio 2023 Matteo
Messina Denaro viene arrestato dai Carabinieri del ROS con la
collaborazione del GIS, in Via Domenico Lo Faso, un vicolo nei
pressi della clinica privata La Maddalena a Palermo, nel quartiere
San Lorenzo, dove il boss era in cura per un tumore al
colon.
«Procuratore,
finalmente ci siamo riusciti».
Queste sono state le parole del colonnello Arcidiacono che ha
eseguito l’arresto. Dopo
trent’anni di latitanza, Messina Denaro viene trasferito dalla
clinica a un carcere di massima sicurezza. Anche la sorella
Rosalia, che nel film Iddu è una formidabile Antonia Turppo, viene
arrestata lo stesso anno, accusata di associazione mafiosa.
Ad appena otto mesi dalla cattura, Messina Denaro muore
all’Ospedale dell’Aquila, rifiutando cerimonie
religiose.
Iddu e la storia dei
“pizzini”
Dalle dichiarazioni di Fabio
Grassadonia e Antonio Piazza, l’ispirazione per IDDU
è arrivata dalla
lettura dei numerosi pizzini
ritrovati nel corso dei lunghi anni di latitanza di Matteo Messina
Denaro. Con questo metodo di comunicazione analogico, il boss
gestiva vita privata e affari, lasciandosi però andare a piccole
considerazioni e vezzi che hanno permesso anche di ricostruire la
sua personalità.
Traendo molto liberamente ispirazione proprio da questi
pizzini,
Iddu
racconta la corrispondenza che il boss Matteo (Elio Germano), re
recluso di un mondo criminale, e Catello (Toni Servillo), politico
in decadenza, che però nella realtà non è mai esistito. Il suo
personaggio è il risultato di una somma di tutte quelle personalità
più o meno indimenticabili che nel corso dei 30 anni di latitanza
hanno scambiato i pizzini con il boss. Figure incriminabili, ma
anche persone insospettabili ma corrotte, un’umanità varia e
sfuggente che nel film cerca di collaborare con la giustizia per
favorirne l’arresto.
Dopo aver saltato il
Comic-Con di San Diego, la Sony ha fatto la voce
grossa al Comic-Con di New York, dove ha
presentato un first look di
Kraven – Il Cacciatore, un panel dedicato a
Venom: The Last Dance, ma ha anche dato spazio a Karate
Kid: Legends, mostrandone il trailer.
Il film riporta sul grande schermo
non solo Danny LaRusso di Ralph Macchio dal film
originale del 1984 e dalla serie Cobra Kai, ma anche Mr. Han di
Jackie Chan dal reboot di Jaden Smith del
2010. Il film è stato pubblicizzato come la riunificazione di
tutti i mondi di Karate Kid.
Il trailer di Karate Kid:
Legends inizia in un’accademia di arti marziali, dove
l’istruttore di arti marziali di Chan dal film del 2010 si presenta
per reclutare la giovane star del film, Ben Wang.
All’accademia, diamo anche un primo sguardo a Macchio, oltre a uno
scorcio di un ritratto del personaggio di Pat
Marita dal film originale. L’azione passa rapidamente a
New York e a un montaggio che mostra la città in alcuni dei suoi
aspetti più pericolosi, tra cui i bulli in metropolitana, e si
sente la voce di Chan dire: “Nella vita hai solo una domanda:
vale la pena combattere o no?”
Una sequenza di combattimento mostra
Wang che si lancia su un muro di mattoni, in stile parkour, in un
vicolo. In un momento più calmo, si siede su un marciapiede con
Macchio, che indossa l’iconico foulard del film. Tra una scena e
l’altra, tra cui sprazzi di incontri di arti marziali, sullo
schermo compaiono delle parole: “Quando le famiglie si
uniscono, inizia una nuova eredità”.
Cosa sappiamo di Karate Kid: Legends
Karate
Kid: Legends uscirà nelle sale italiane il 29 maggio,
distribuito da Sony.
Jackie Chan e
Ralph Macchio riprenderanno i loro ruoli per
continuare la mitologia del franchise originale, con Joshua
Jackson, Sadie Stanley e Ming-Na Wen a bordo. I dettagli sui ruoli che
ricopriranno i nuovi arrivati sono ancora segreti. Jonathan
Entwistle (The End of the F***ing World)
dirigerà da una sceneggiatura di Rob Lieber
(Peter Rabbit), con la produzione di Karen
Rosenfelt (The Summer I Turned
Pretty).
Fenomeno della cultura pop che
abbraccia quasi tre decenni, i film di Karate Kid
hanno guadagnato 618 milioni di dollari a livello globale,
stimolando la creazione della serie nominata agli Emmy
Cobra Kai, che ha introdotto il franchise a
un’intera nuova generazione in tutto il mondo.
Macchio riprenderà il ruolo di
Daniel LaRusso, che ha interpretato nella trilogia
cinematografica originale di Karate Kid iniziata
nel 1984 e ripreso nella serie Cobra Kai di
Netflix,
che ha da poco annunciato la sua sesta e ultima stagione. Chan
tornerà nel ruolo di Mr. Han, un maestro di kung fu ispirato al
personaggio del Maestro Miyagi, che ha allenato Dre Parker di
Jaden Smith nel film remake del 2010.
Spider-Man: No Way Home è stato un successo di
critica e commerciale, incassando ben 1,9 miliardi di dollari al
botteghino mondiale. Tuttavia, per quanto tutti amiamo il film, è
difficile negare che ci siano alcuni difetti.
Questi derivano principalmente
dall’impatto che COVID-19 ha avuto sul trequel; né Rhys Ifans né Thomas Haden
Church hanno potuto visitare il set del film, ad esempio,
e ciò ha portato a riciclare filmati di The Amazing Spider-Man e Spider-Man 3. Inoltre, c’è stato
molto schermo verde per le riprese. C’era anche molto
green screen.
Tom Holland è giustamente orgoglioso dei
risultati ottenuti con il blockbuster del 2021, ma in una nuova
intervista rivela che il COVID ha avuto un impatto negativo sulla
sua esperienza e ha presentato molte sfide indesiderate.
“Una delle cose più
spiacevoli di Spider-Man[: No Way Home] è che abbiamo girato nel
periodo di picco del COVID ”, ricorda. “Abbiamo
girato tutto in studio, il che ha significato, credo che nel
processo di realizzazione di quel film, potrei aver fatto tre
giorni sul set.Credo che questo si percepisca nel
film”.
“Quando camminiamo per New
York, hanno mandato una troupe a New York per riprendere le strade
con un jib per la motion camera.Poi hanno portato
quel pezzo di kit ad Atlanta e hanno rifatto il pavimento: ‘C’è una
comparsa qui.Qui c’è un cane.Qui c’è un marciapiede”.Poi dovevo
tracciare una mappa di quello che avrei fatto in un’inquadratura
preesistente”.
Cosa ha detto Tom Holland sulle riprese di Spider-Man: No Way
Home
Tom Holland alla 29esima edizione dei Critics’ Choice Awards
tenutasi – Foto di imagepressagency via
Depositphoto.com
Holland ha aggiunto:
“Questo mi farà sembrare molto difficile, ma l’ho superato
e abbiamo trovato una soluzione.La macchina da
presa si muoveva molto più lentamente di quanto Peter Parker
camminasse di solito.Peter Parker è molto
frizzante, molto veloce.Tutto consiste
nell’andare da A a B il più velocemente possibile, senza pensare, e
l’inquadratura che avevano era lentissima, con un angolo di ripresa
serpeggiante attraverso New York”.
“Si suppone che Peter abbia
fretta di arrivare dal Dottor Strange per fargli questa domanda, e
ho trovato davvero difficile rappresentare ‘sono stressato e di
fretta… ma cammino molto lentamente’, in realtà penso che
quell’inquadratura non sia nel film perché non ha
funzionato”.
È abbastanza facile comprendere le
frustrazioni di Holland, in particolare quando questo riduce la sua
esperienza nel ruolo di Spider-Man. Sia Spider-Man: Homecoming che
Spider-Man: Far From Home hanno trascorso molto
più tempo sui set reali, con riprese a New York City per alcune
scene.
Immaginiamo che una delle
condizioni poste da Tom Holland per
Spider-Man 4 sia che la storia non si
ripeta, cosa che non dovrebbe essere un problema ora che le
restrizioni del COVID non sono più in vigore. Potete vedere
l’intervista completa a Holland nel player sottostante.
Sony ha dedicato a Venom: The
Last Dance la parte conclusiva del suo panel al New
York Comic Con in svolgimento in questi giorni nella Grande Mela.
Hanno partecipato all’incontro Tom Hardy, anche sceneggiatore del film, la
regista/sceneggiatrice Kelly Marcel,
Juno Temple e
Chiwetel Ejiofor.
“È triste vederlo andare
via”, ha detto Hardy riguardo al suo ultimo giro come
antieroe. Marcel ha spiegato “partiamo sempre dai fumetti e dai
libri, inizia sempre da lì”. Tom Hardy ha dimostrato grande
attaccamento al ruolo, nonostante negli anni sia stato noto
principalmente per ruoli in film più piccoli. L’attore ha
dichiarato di sentirsi molto legato a Eddie Brock, perché lo ha
coinvolto a livello personale, come personaggio.
Il terzo capitolo della storia
cinematografica di Venom, riprende dalla fine di La Furia di
Carnage, con Eddie e Venom sono fuggitivi, dopo essere stati
scoperti coinvolti nel grande combattimento con il cattivo nel
finale del film precedente.
New entry nel cast, Chiwetel
Ejiofor interpreta un militare “che ha a che fare con
queste creature”. Nei panni della dottoressa Payne, il
personaggio di Temple non è d’accordo con quello di
Ejiofor. Temple e Hardy hanno recitato entrambi in Il
Cavaliere Oscuro il Ritorno, ma hanno ammesso di non aver
mai lavorato insieme in un dato giorno di produzione su quel set. E
questa è stata una buona occasione per i due talent britannici di
lavorare a contatto.
Marcel ha stimolato l’attenzione
dicendo che, sebbene questo sia l’ultimo film di
Venom, “ci sono altre storie di
simbionti” e questo terzo capitolo probabilmente indicherà ciò
che verrà dopo. “Vorrei combattere Spider-Man, vorrei
combatterlo ora”, ha esclamato Hardy alla folla. “Come Tom
o come Venom?” ha chiesto il moderatore. Hardy ha esclamato
raggiante: “Entrambi!” Succederà mai?
Tutto quello che c’è da sapere su
Venom: The Last Dance
In Venom: The
Last Dance, Tom Hardy torna a vestire i panni di Venom,
uno dei personaggi più grandi e complessi della Marvel, per l’ultimo
film della trilogia. Eddie e Venom sono in fuga. Braccati da
entrambi i loro mondi e con la rete che si stringe, il duo è
costretto a prendere una decisione devastante che farà calare il
sipario sull’ultimo ballo di Venom e Eddie.
Il film è interpretato da
Tom Hardy,
Chiwetel Ejiofor,
Juno Temple, Peggy Lu, Alanna Ubach, Stephen Graham e
Rhys Ifans. Kelly Marcel dirige una sceneggiatura da
lei scritta, basata su una storia di Hardy e Marcel. Il film è
prodotto da Avi Arad, Matt Tolmach, Amy Pascal, Kelly Marcel, Tom
Hardy e Hutch Parker. Venom:The Last
Dance uscirà nelle sale il 24 ottobre.
Il panel del Comic-Con di New York
della Sony Pictures si è appena concluso e per i presenti sono
stati proiettati i primi 8 minuti di Kraven – Il
Cacciatore.
Il filmato non è stato rilasciato
ufficialmente (ci aspettiamo un nuovo trailer all’inizio della
prossima settimana), ma alcuni frammenti sono trapelati online
insieme a un paio di nuove foto promozionali.
La sequenza di apertura vede Kraven
(Aaron
Taylor-Johnson) perseguitare e uccidere diversi nemici
in una prigione, e si dice che la violenza sia sorprendentemente
macabra. È stata mostrata anche una seconda clip, con “molteplici
uccisioni molto brutali”, tra cui l’assassinio tramite trappola per
orsi, ascia e ceppo d’albero – che, secondo quanto riferito, spacca
qualcuno a metà.
“È un predatore apicale, il
vertice della catena alimentare ”, ha detto Johnson.
“Kraven è un cacciatore, non un bracconiere.Come ogni cacciatore sa, a volte è necessario abbattere il
branco per mantenere l’ordine.Naturalmente,
quando inizia ad applicare questo concetto agli esseri umani, la
storia diventa piuttosto oscura”.
“Non si tratta solo di
Kraven.Abbiamo avuto l’opportunità di immergerci
nei personaggi Marvel in un modo davvero
fantastico ”, ha aggiunto il regista J.C. Chandor.
“Volevamo che lo spirito di questi personaggi fosse quello
che i fan desiderano e che fosse anche portato sullo schermo in un
modo nuovo… Abbiamo raggiunto un equilibrio tonale in cui io
stesso, come narratore e come regista, conosco gli attori in ogni
performance, non stiamo rompendo la quarta parete.Crediamo in questa storia come se fosse realmente
accaduta”.
“Quando si entra in quei
libri.È molto, molto intenso ”, ha detto
il regista a proposito del tanto discusso rating R del film.
“Quando lo studio ci ha dato l’opportunità di vedere se
volevamo fare questo film con un rating R, ci siamo detti di sì”,
ha detto.“È stata un’opportunità
straordinaria.Ci ha aperto la strada ad alcune
cose molto intense tipo Grindhouse da un lato, e dall’altro ad
alcune cose molto intense sui personaggi”.
Guardate le nuove foto e il filmato
ai link sottostanti.
Kraven
– Il Cacciatore, prodotto da Sony Pictures in
associazione con Marvel, che racconta la storia di
Sergei Kravinoff, personaggio creato da Stan Lee e Steve Ditko nel
1964 e uno dei villain più amati dell’universo di Spider-Man. Il
film diretto da J. C. Chandor (Margin Call) è interpretato
da Aaron Taylor-Johnson (Avengers: Age of Ultron,
Tenet, Bullet Train), Ariana De Bose (West Side Story),
Fred Hechinger (Butcher’s Crossing, Il Gladiatore II),
Alessandro Nivola (Amsterdam), Christopher Abbott
(Povere creature!) e Russell Crowe (Il gladiatore).
Kraven – Il Cacciatore,
scritto da Art Marcum, Matt Holloway e Richard Wenk, sarà solo al
cinema dall’11 dicembre prodotto da Sony Pictures e distribuito da
Eagle Pictures.
La trama di Kraven – Il
Cacciatore
Kraven – Il Cacciatore
racconta la violenta storia della nascita e del destino di uno dei
villain più iconici della Marvel. Aaron Taylor-Johnson
interpreta Kraven, un uomo la cui complessa relazione con il suo
spietato padre, Nikolai Kravinoff (Russell Crowe), lo conduce su un
cammino di vendetta con conseguenze brutali, motivandolo a
diventare non solo il più grande cacciatore del mondo, ma anche uno
dei più temuti
Sembra che le prime reazioni alla
proiezione de Il gladiatore 2 siano
talmente tanto entusiaste da lanciare il film, con il suo regista,
Ridley Scott, e il suo cast tra cui
Denzel Washington e Paul Mescal
verso la corsa agli Oscar; le prime reazioni definiscono il sequel
“epico”.
Il film è letteralmente esploso davanti al pubblico, dopo la sua
prima proiezione a Los Angeles di fronte a un pubblico di elettori
AMPAS e SAG. L’attesissimo sequel del film da Oscar
“Il Gladiatore” (2000) sta accendendo la
possibilità per Scott, candidato per tre volte all’Oscar ma mai
vincitore, di essere in lizza per vincere il suo ambito premio.
Inoltre, le sue star Paul
Mescale
Denzel Washington sono ora in gara nelle
rispettive categorie di recitazione.
Dopo aver ricevuto la sua prima
nomination all’Oscar come miglior attore per
Aftersun (2022), Mescal potrebbe ritrovarsi nella
categoria per il suo ruolo da protagonista in Il Gladiatore
2. Nel frattempo, Washington, che ha già due Oscar come
attore, potrebbe essere in lizza per un terzo, unendosi
potenzialmente a una piccola lista di tre volte vincitori di premi
come attore, tra cui Frances McDormand, Meryl
Streep, Jack Nicholson e Daniel
Day-Lewis. Washington gareggerà come
attore non protagonista.
Jillian Chilingerian di OffScreenCentral ha scritto:
“Incidete il nome di Denzel Washington sull’Oscar come miglior
attore non protagonista per “Il gladiatore 2″ proprio in questo
momento”. Scott Mantz, collaboratore di KTLA, ha
definito il film “un sequel epico”, affermando inoltre che
ha “grande azione, effetti visivi sorprendenti, performance
stellari su tutta la linea”. “‘Il Gladiatore II’ serve il
banchetto più ricco nelle scene d’azione epiche e nel tradimento
deliziosamente scurrile”, ha scritto il freelance Simon
Thompson.
Il film si svolge 16 anni dopo gli
eventi del primo film. La storia segue Lucio (Mescal), nipote
dell’ex imperatore romano Marco Aurelio e figlio di Lucilla
(Connie
Nielsen) e
Massimo (Russell Crowe). Lucio ora vive con la
moglie e il figlio in Numidia. Tuttavia, quando i soldati romani
guidati dal generale Marco Acacio (Pedro
Pascal) invadono, viene costretto alla schiavitù. Deve
combattere come un gladiatore per volere degli attuali giovani
imperatori, Caracalla e Geta (Joseph Quinn e
Fred Hechinger).
La campagna di premi di Scott è un
obiettivo importante per la Paramount Pictures, che sta anche
promuovendo il film biografico musicale di Robbie
Williams “Better
Man” e la tragedia degli ostaggi delle Olimpiadi di
Monaco del 1972 appena acquisita “September 5” in
questa stagione dei premi. Delle tre precedenti nomination di Scott
per la regia agli Oscar, che includono anche “Thelma &
Louise” (1991) e “Black Hawk Down”
(2001), “Il gladiatore” è stato il suo tentativo
più vicino alla vittoria, perdendo contro Steven Soderbergh,
candidato due volte per “Traffic” (la sua altra
candidatura era per “Erin Brockovich“).
Sebbene l’accoglienza della critica
nei confronti di Scott sia stata incoerente negli ultimi anni (ad
esempio, “Robin Hood” e “Exodus: Gods and Kings”), Il
Gladiatore 2 potrebbe essere il suo miglior lavoro da
“Black Hawk Down“.
Chi c’è nel cast de Il gladiatore 2?
Il gladiatore 2 è
diretto da Ridley Scott e
si basa su una sceneggiatura scritta da David Scarpa. A guidare
l’atteso sequel è Paul Mescal nel
ruolo di Lucio, il figlio di Lucilla e nipote dell’imperatore
Commodo del primo capitolo. A Paul Mescal si
aggiungono i membri del cast Connie Nielsen nel ruolo di Lucilla e
Derek Jacobi in quello di Gracco. Nel cast ci
saranno anche
Denzel Washington,
Pedro Pascal, Joseph Quinn, Fred Hechinger, May Calamawy, Lior
Raz e altri ancora.
Il gladiatore 2
è prodotto da Ridley Scott,
Michael Pruss, Douglas Wick e Lucy Fisher. Il film
è considerato una produzione in joint-venture tra
Paramount, Universal Pictures, Scott Free Productions e
Parkes/MacDonald Productions. Ricordiamo che Russell Crowe non è
coinvolto in alcun modo nel progetto, specialmente alla luce
del fatto che il suo Massimo muore, appunto, al termine del primo
film. La produzione de Il gladiatore 2 è
ripresa
all’inizio del mese dopo la fine degli scioperi a Hollywood.
Attualmente il film dovrebbe arrivare nelle sale il 14 novembre
2024.
Si è conclusa oggi la decima
edizione del MIA, il Mercato
Internazionale Audiovisivo – promosso da
ANICA (Associazione Nazionale Industrie
Cinematografiche Audiovisive e Digitali) presieduta da
Francesco Rutelli e APA
(Associazione Produttori Audiovisivi) presieduta da Chiara
Sbarigia e diretto per il 3° anno da Gaia
Tridente.
Presenze in crescita del
10% rispetto all’edizione 2023 con oltre 2800
partecipanti provenienti da 60 paesi del
mondo.
Il MIA cresce anche sui social con
un incremento del 30% di follower su Instagram e
del 16 % su Linkedin.
Oltre 600 i progetti
ricevuti quest’anno per il Co-Production Market e Pitching
Forum, con un +20% rispetto al 2023 e un
incremento del 12,5% nel numero di paesi di
provenienza, di tutti i continenti, che passano da 80 a 90.
In questi 10 anni, oltre
100 sono state le opere audiovisive “Made in
MIA” prodotte dopo la loro partecipazione al mercato di
coproduzione del MIA, un’attestazione di successo per la capacità
di selezione e per le importanti opportunità che il mercato offre
in termini ricerca di co-produttori e partner internazionali
(finanziari, distributivi e creativi).
“Il MIA continua a crescere e
si conferma un appuntamento di alto profilo capace di coinvolgere
tutta la filiera cineaudiovisiva. Nel decennale, conferma di saper
attirare sul sistema nazionale attenzione, interessi e risorse dei
player internazionali, di contribuire a far crescere la capacità
delle imprese italiane di sviluppare dialoghi e collaborazioni
fondamentali per la crescita dell’industria, del lavoro, del
prodotto e del soft power del nostro paese. Ogni anno aumenta il
riconoscimento internazionale e la partecipazione dei decision
maker sia nelle ricchissime iniziative e convegni, che nelle
attività di matchmaking b2b. Un successo che premia il grande
lavoro della Direttrice Gaia Tridente e del suo team, insieme a
quello costante di ANICA e APA”, ha dichiarato
Francesco Rutelli, Presidente di ANICA.
“Questa edizione del MIA ha
saputo attrarre ed aumentare la platea di pubblico internazionale,
un risultato che come APA rafforza la voce dei produttori del
comparto audiovisivo. L’internazionalizzazione del settore si gioca
sia nelle capacità del nostro comparto di ammodernarsi e saper
formare le nuove maestranze del settore, sia sul rendere più
competitivi i nostri territori. Sono certa che il percorso che
stiamo facendo e sui cui stiamo lavorando vada dritto in questa
direzione”, ha dichiarato Chiara Sbarigia, Presidente
di APA.
“Grazie alla sua forte identità
e credibilità, Il MIA si è ormai conquistato un posto importante
nelle agende degli operatori internazionali. È un mercato
curatoriale unico, attore strategico del mercato di coproduzione e
motore fondamentale per il finanziamento, la distribuzione e la
circolazione di opere e talenti. Rappresenta le istanze di un
intero ecosistema composto dalle diverse industrie e generi che
compongono l’audiovisivo, offre attività dedicate declinate per i
diversi formati tenendo conto sia della distribuzione in sala che
del consumo su TV e piattaforme. È uno specchio della
trasformazione del settore audiovisivo, in grado di coglierne e
anticiparne i mutamenti con particolare attenzione all’innovazione
tecnologica per le industrie creative”, ha dichiarato
Gaia Tridente, Direttrice del MIA | Mercato Internazionale
Audiovisivo.
Nel corso della giornata conclusiva
sono stati assegnati i MIA AWARDS 2024. Tra
questi, i nuovi MIA DEVELOPMENT AWARDS, istituiti
per celebrare il decimo anniversario del Mercato e attribuiti a 4
progetti selezionati nelle 4 categorie del Co-Production Market and
Pitching Forum. I MIA Development Awards sono stati assegnati da
giurie internazionali di esperti del settore. I premi, in denaro,
andranno a sostegno dello sviluppo dell’opera vincitrice per ogni
categoria.
Il MIA ha il supporto del
Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione
Internazionale, ICE-Agenzia per la promozione
all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese
italiane, e del contributo di Creative Europe
MEDIA. Riceve inoltre il sostegno del Ministero
della Cultura, del Ministero delle Imprese e del
Made in Italy e della Regione Lazio.
Sponsor ufficiale della
manifestazione è Unicredit. Il MIA gode del
patrocinio di Eurimages.
Luca Guadagnino è
nelle fasi finali delle trattative per portare al cinema una nuova
interpretazione del libro “American Psycho” di
Bret Easton Ellis per Lionsgate.
Il film, che sarà basato su una sceneggiatura di Scott Z.
Burns, non sarà un remake del film del 2000, ma un nuovo
adattamento del romanzo di Ellis.
Il primo adattamento cinematografico
con Christian Bale è stato diretto dalla regista
Mary Harron da una sceneggiatura di Harron
e Guinevere Turner.
Il film Lionsgate sarà prodotto da
Frenesy Films e la produzione esecutiva sarà affidata a Sam
Pressman, figlio di Edward R. Pressman, produttore del primo
adattamento, tramite la sua società Pressman Film. “Siamo
entusiasti di aggiungere un altro regista d’élite alla nostra
prossima avventura”, ha affermato Adam
Fogelson, presidente del Lionsgate Motion Picture Group.
“Luca è un artista brillante e il visionario perfetto per
creare un’interpretazione completamente nuova di questa potente e
classica PI”.
Il film più recente di Guadagnino,
Challengers, con Zendaya,Mike Faist e Josh O’Connor, è
stato un discreto successo di pubblico negli Stati Uniti. Il suo
nuovo film, Queer, con Daniel Craig e
Drew Starkey, uscirà negli USA con A24 il
27 novembre, mentre ha raccolto tiepidi consensi al
Festival di Venezia, dove ha debuttato.
Il regista è attualmente in fase di
post-produzione per “After
the Hunt“, con Julia Roberts. I
crediti precedenti includono “Io sono l’Amore”, “Suspiria”, “Bones
and All”, “A Bigger Splash” e “Chiamami col tuo nome”.
Dalla Blumhouse e dal visionario sceneggiatore e regista
Leigh Whannell, creatori dell’agghiacciante racconto di mostri
L’uomo invisibile, arriva un nuovo terrificante incubo: Wolf
Man.
Il candidato ai Golden Globe Christopher Abbott (Povere Creature!, It Comes at Night)
interpreta Blake, marito e padre di San Francisco che eredita la
casa d’infanzia nell’Oregon dopo la scomparsa di suo padre, che
viene dato per morto. Con il logorarsi del suo matrimonio con la
potente moglie Charlotte (la vincitrice dell’Emmy Julia Garner;
Ozark, Inventing Anna), Blake convince Charlotte a prendersi una
pausa dalla città e andare a visitare la proprietà con la loro
giovane figlia, Ginger (Matlida Firth; Hullraisers,
Coma).
Ma quando la famiglia si avvicina alla fattoria nel cuore
della notte, viene attaccata da un animale invisibile e, in una
fuga disperata, si barrica all’interno della casa mentre la
creatura si aggira attorno al perimetro. Con il passare della
notte, però, Blake inizia a comportarsi in modo strano,
trasformandosi in qualcosa di irriconoscibile, e Charlotte sarà
costretta a decidere se il terrore all’interno della casa sia più
letale di quello all’esterno.
Il film è interpretato da Sam Jaeger (The Handmaid’s Tale), Ben Prendergast
(The Sojourn Audio Drama) e Benedict Hardie (L’uomo
invisibile).
Wolf Man è diretto da Whannell, i cui precedenti film
con la Blumhouse includono L’uomo invisibile, Upgrade e Insidious 3
– L’inizio. La sceneggiatura è scritta da Leigh Whannell e Corbett
Tuck, Lauren Schuker Blum e Rebecca Angelo (Dumb Money).
Il film è prodotto dal fondatore e CEO della Blumhouse Jason
Blum e i produttori esecutivi sono Ryan Gosling, Ken Kao, Bea
Sequeira, Mel Turner e Leigh Whannell. Wolf Man è una produzione
Blumhouse e Motel Movies.
In occasione del premio
alla carriera e della presentazione del suo nuovo film da
regista, The Dead Don’t Hurt, Viggo Mortensen ha partecipato alla
Festa di Roma 2024. Ecco la nostra intervista sul
red carpet.
Vivienne Le Coudy è una
donna indipendente, che stringe una relazione con l’immigrato
danese Holger Olsen e si trasferisce con lui a Elk Flats, Nevada.
Quando Olsen decide di combattere nella Guerra Civile, Lascia
Vivienne a cavarsela da sola, in un luogo controllato dal corrotto
sindaco Rudolph Schiller e dal suo spregiudicato socio in affari
Alfred Jeffries.
L’attore e regista ha diretto
interpretato e scritto il film che vede protagonista Vicky
Krieps.
Viggo Mortensen tornerà ad interpretare Aragorn?
Come noto Peter
Jackson tornerà nella Terra di Mezzo come produttore di un
nuovo film de Il Signore degli Anelli che sarà diretto dall’attore
di Gollum, Andy Serkis. Il film, il cui titolo è
“Il
Signore degli Anelli: The Hunt for Gollum“, è previsto per
l’uscita nelle sale nel 2026. Nella stessa intervista, Viggo Mortensen ha detto la sua su un suo
possibile ritorno nei panni di Aragorn.
“Non so esattamente quale sia
la storia, non l’ho saputo”, ha detto. “Forse alla fine ne
sentirò parlare. Mi piace interpretare quel personaggio. Ho
imparato molto interpretandolo. Lo farei solo se fossi adatto in
termini di età e così via, se fossi adatto al personaggio. Sarebbe
stupido farlo altrimenti”.
Presentato alla Festa del
Cinema di Roma 2024 nella sezione Grand Public,
The Dead Don’t Hurt (I morti non soffrono) è la
seconda opera da regista di Viggo Mortensen, in
cui l’attore e regista rende omaggio ai codici del western, a quel
romanticismo che sopravvive e trova compimento anche negli ambienti
più ostili. Senza mai allontanarsi dalle proprie inquietudini,
esplora i legami tra l’archetipo dell’antieroe nomade e la donna
indipendente e fedele a se stessa, consegnando agli spettatori un
film nello stile dei classici e al tempo stesso profondamente
personale.
The Dead Don’t Die: raccontare
l’assenza
Tutto inizia alla fine, o
quasi: assistiamo alla morte di Vivienne LeCoudy
(Vicky Krieps, già splendida ne Il filo nascosto e
Il corsetto dell’imperatrice) e, da lì, torniamo
indietro, tra flashback e sequenze oniriche che raccontano
l’incontro della donna con l’uomo che chiama affettuosamente per
cognome, il danese Holger Olsen (Viggo
Mortensen). I due si innamorano e vanno a vivere nella
nella fattoria isolata di quest’ultimo, che è un falegname.
Si tratta anche di una storia molto
personale per il regista stesso, in quanto dedicata alla madre:
Grace Gamble Atkinson, con la quale la
protagonista ha dei parallelismi: Vivienne Le
Coudy sfida la società dell’epoca rompendo con le
abitudini prevalenti. Rifiuta di sposarsi, vuole guadagnarsi i
propri soldi per non dipendere da nessuno e sceglie come compagno
un uomo che si distingue dagli altri. Si tratta, come dicevamo, di
Holger Olsen, un immigrato danese che incontra a
San Francisco. Non volendo rinunciare alla sua indipendenza,
Vivienne accetta di viaggiare con lui per stabilirsi vicino alla
tranquilla cittadina di Elk Flats, che comincia a prosperare, e
dove iniziano una vita insieme.
Quando arrivano in questo luogo di
frontiera senza nome, oltre al loro tranquillo amore per le case di
legno e gli odori della natura, troveranno un subdolo sindaco
(Danny Huston), un potente rancher (Garret
Dillahunt) e il suo violento figlio (Solly
McLeod). Quando il tranquillo Holger
parte per combattere nella Guerra Civile, Vivienne
rimane sola di fronte al pericolo: proprio l’intrattabile Weston
che ha messo gli occhi su di lei. Quella che segue è una storia
tanto ortodossa nei modi quanto senza tempo (e quindi moderna)
nelle forme e nelle trame, che risuona nella brutalità del
presente
Il western come il luogo “impreciso” dell’avventura
In quella che è la sua seconda opera
da regista dopo il melodramma familiare
Falling, l’attore, opta per una storia
costruita dalla memoria dei suoi protagonisti e, in un certo senso,
dai ricordi di ciascuno degli spettatori: in fin dei conti, il
West, più che coincidere con punto cardinale o un genere
cinematografico specifico, indica il luogo impreciso
dell’avventura, del nuovo, di ciò che è ancora da scoprire. Non
occupa un posto sulla mappa perché appare congiuntamente alla
frontiera, al limite esatto dell’ignoto. Denomina ciò che ancora
non ha nome: per questo è uno spazio selvaggio, e per questo
appartiene a tutti.
Vicky Krieps in The Dead Don’t Hurt – Courtesy of Marcel
Zyskind
Il punto di vista di chi
rimane
È interessante che Viggo
Mortensen faccia un passo indietro per lasciare che il suo
western si affidi al personaggio femminile, un omaggio a coloro che
hanno aspettato il ritorno dell’eroe. Nel vecchio West americano,
aspettare significava muoversi in modo diverso: rendere fertile una
terra arida, creare legami con la comunità, crescere un figlio in
solitudine e, soprattutto, non nutrire false illusioni. Forse la
decisione di sceneggiatura più discutibile di The Dead
Don’t Hurt – l’improvvisa partenza di
Holger per combattere con gli Yankees nella Guerra
Civile – è anche la più saggia: con un pudore in linea con la
serenità del film, il laconico eroe si riserva un lungo momento
fuori campo che offusca il suo peso drammatico per sublimare la
luce femminile in un western che non si accontenta di essere
neoclassico.
È infatti Vivienne
a controllare la propria storia, a prendere decisioni rischiose, a
cercare di gestirsi autonomamente in un mondo in cui non è del
tutto comprensibile che una donna faccia certe cose. E mentre il
film va avanti e indietro tra i due protagonisti, il peso emotivo
della storia è su di lei: si può sapere fin dall’inizio qual è il
suo destino, ma il viaggio consiste nel capire le scelte che farà
prima di arrivarci.
Il film San Andreas
(qui
la recensione), con protagonista Dwayne
Johnson, segue la formula di un blockbuster estivo:
scatenare un disastro naturale che provoca un sacco di distruzione
in CGI. Un titolo dunque simile a lungometraggi come Greenland,
Geostorm o
il classico The Day After Tomorrow. Tuttavia, solo perché possiamo
mostrare città che si sgretolano a causa di terremoti massicci, non
significa che le cose accadranno davvero così nella vita reale.
Molti spettatori sono usciti dal cinema convinti che ciò che hanno
visto nel film San Andreas sia accurato e che
possa accadere. Tuttavia, prima di farsi prendere dal panico,
mettiamo in discussione la storia e separiamo i fatti dalla
finzione.
La storia vera dietro il film
Il titolo del film si riferisce alla
faglia di Sant’Andrea, realmente esistente e tenuta fortemente
sotto osservazione dai sismologi. La California, infatti, è spesso
scossa da terremoti di media e lieve entità, mentre sono più rare
le scosse più forti, o vero sopra al 7°. Secondo alcuni studi
recenti, la probabilità che un terremoto di magnitudo superiore a
6,5° avvenga entro il 2035 è estremamente alta. Ad oltre un
decennio dalla pubblicazione di questo studio, però, il fenomeno
non si è (fortunatamente) ancora verificato.
Un terremoto lungo la faglia di San
Andreas potrebbe creare un grande tsunami?
Secondo la sismologa del Servizio
Geologico degli Stati Uniti, Lucy Jones, il fatto
che la faglia di San Andreas si trovi per lo più sulla terraferma
non creerà mai uno tsunami di grandi dimensioni. Inoltre, gli
tsunami causati dai terremoti si creano nelle zone di subduzione,
luoghi in cui le placche tettoniche si scontrano e una placca viene
spinta sotto un’altra. Di conseguenza, il fondo del mare si deforma
e si crea uno tsunami. Da milioni di anni non c’è più una zona di
subduzione attiva sotto San Francisco o Los Angeles. Inoltre, la
faglia di San Andreas è verticale, quindi anche se un giorno
dovesse andare sott’acqua, non causerebbe uno spostamento del fondo
dell’oceano verso l’alto o verso il basso, necessario per uno
tsunami di grandi dimensioni.
Le dimensioni dello tsunami gigante
che vediamo nel film sono plausibili?
Sempre la sismologa Lucy Jones dice
che un grande tsunami è alto 15 metri. Non si avvicina nemmeno
lontanamente all’altezza dello tsunami del film, che si abbatte
sulla carreggiata del Golden Gate Bridge, a circa 270 piedi sopra
l’acqua. “Non possono essere più grandi della profondità
dell’oceano”, dice Jones. Anche lo tsunami stile onda da surf
mostrato nel film non si verifica. Gli tsunami sono muri d’acqua
che si innalzano, non onde che si sollevano.
Cortesia di Warner Bros.
Un terremoto di magnitudo 9,6
potrebbe davvero colpire San Francisco?
I terremoti di magnitudo 9 si
verificano solo nelle zone di subduzione. Come già detto, non c’è
una zona di subduzione attiva sotto San Francisco o Los Angeles da
milioni di anni. Nel film San Andreas, un
terremoto di magnitudo 9,6 colpisce San Francisco. Tuttavia,
l’intensità dei terremoti lungo la moderna faglia di San Andreas è
di circa 8,3. Il terremoto più devastante che ha colpito San
Francisco nella storia recente è stato quello del 1906, che si
ritiene sia stato di magnitudo 7,8 circa. Pur esagerando il
possibile magnitudo dei terremoti lungo il San Andreas, le scosse
di assestamento del film sono in linea con quelle che potrebbero
seguire un evento reale di quella portata.
Un terremoto in Nevada potrebbe
innescare un terremoto a Los Angeles, che a sua volta provocherebbe
un terremoto a San Francisco?
Nel film San
Andreas, un terremoto di magnitudo 9,6 colpisce San
Francisco, innescato da un terremoto di magnitudo 9,1 a Los
Angeles, dopo un terremoto di 7,1 in Nevada. La sismologa del
Servizio Geologico degli Stati Uniti, Lucy Jones, afferma che se si
adattano le magnitudo a quelle possibili lungo la vera faglia di
San Andreas, lo schema di innesco del film è plausibile.
Modelli simili si sono verificati
nella storia recente. Nel 1992, un terremoto di 7,3 ha colpito la
California meridionale e ha innescato un terremoto di 5,7 in
Nevada. Il terremoto di San Francisco del 1906 ha innescato
terremoti di magnitudo 5-6 nella baia di Santa Monica, nella
Imperial Valley, in Nevada e in Oregon. Questi sono noti come
“terremoti innescati” perché sono troppo lontani per essere “scosse
di assestamento”.
La faglia di San Andreas potrebbe
aprirsi per creare il canyon che vediamo nel film?
Come afferma la sismologa Lucy Jones
nel suo articolo sul film, “la voragine che vediamo rompersi
sul San Andreas nella California centrale appartiene al regno
dell’impossibile”. Se la faglia di San Andreas potesse aprirsi
nella misura mostrata nel film, non ci sarebbe attrito, ed è
l’attrito a creare un terremoto.
Cortesia di Warner Bros.
I sismologi possono prevedere i
terremoti?
Nel film San
Andreas, un sismologo del Caltech prevede il disastro
incombente e viene salutato come un eroe. Tuttavia, la dottoressa
Lucy Jones, vera sismologa, afferma che non esiste ancora un modo
per prevedere il momento in cui un terremoto colpirà.
“Purtroppo, è stato dimostrato che quello che fanno nel film
non funziona”, afferma Jones. Sono stati esplorati molti
metodi, tra cui estensimetri, segnali magnetici ed elettrici,
nonché il comportamento degli animali. Nessuno ha avuto
successo.
Jones afferma che l’unico momento in
cui i terremoti possono essere previsti con successo è subito dopo
il loro verificarsi. Questo include sia i terremoti innescati
(descritti in precedenza) che le scosse di assestamento, due
aspetti che il film coglie nel segno. Jones dice anche che un
aspetto positivo è che oggi i terremoti possono essere riconosciuti
così rapidamente dopo il loro inizio, che spesso le persone possono
essere allertate prima che il terremoto le raggiunga.
Qual è la parte più accurata del
film San Andreas?
Secondo la sismologa Lucy Jones, la
parte più accurata del film è la rappresentazione delle emozioni,
con personaggi più preparati e consapevoli che reagiscono in modo
più raccolto, aumentando le loro possibilità di sopravvivenza.
“E sono le emozioni che, come al solito, Hollywood ha reso
meglio dei fatti”, dice Jones. Come viene mostrato nel film,
conoscere il primo soccorso, sapere come “cadere, coprirsi,
aggrapparsi”, sapere che l’oceano si sta ritirando può
significare che si sta avvicinando uno tsunami, che le linee
telefoniche fisse funzionano ancora quando i cellulari non lo fanno
e la corretta esecuzione di un piano di emergenza possono rendere
le cose più sicure per se stessi e per tutti coloro che ci
circondano.
Il trailer del film e dove vederlo
in streaming e in TV
È possibile fruire di San
Andreas grazie alla sua presenza su alcune delle più
popolari piattaforme streaming presenti oggi in rete. Questo è
infatti disponibile nei cataloghi di Apple iTunes e Prime Video. Per vederlo, una volta scelta la
piattaforma di riferimento, basterà noleggiare il singolo film o
sottoscrivere un abbonamento generale. Si avrà così modo di
guardarlo in totale comodità e ad un’ottima qualità video. Il film
è inoltre presente nel palinsesto televisivo di venerdì 18
ottobre alle ore 21:20 sul canale
Italia 1.
Annabelle
2: Creation (qui
la recensione) alza la posta in gioco rispetto all’Annabelle
del 2014, con il regista David F. Sandberg che si
addentra nel passato del giocattolo più inquietante degli ultimi
anni per offrire un film dell’orrore che spaventa e affronta gli
effetti incontrollabili di una famiglia distrutta, oltre a
inserirsi meravigliosamente nel resto della serie. Il film è ricco
di una nuova mitologia per Annabelle, di collegamenti con
i film della saga di The Conjuring e in particolare
con
The Nun. Qui di seguit, esploriamo il significato del
finale del film.
La spiegazione delle origini di
Annabelle
Prima di Annabelle
2: Creation, tutto ciò che sapevamo su
Annabelle era che era una bambola antica posseduta da uno spirito
demoniaco noto come Ram. Le specifiche di entrambe le storie erano
piuttosto vaghe, ma ora, mentre abbiamo ancora domande sull’essere
stesso, sappiamo come è stato creato l’inquietante giocattolo e
come è stato collegato alla possessione. Nell’incipit del prequel,
apprendiamo che “Annabelle” fa parte di una serie esclusiva di
bambole della Mullins Toy Company, una piccola azienda gestita da
Samuel Mullins negli anni ’40, che era di gran moda nella sua
comunità urbana.
Nel film è implicito che la bambola,
che presto diventerà malvagia, era la numero 1 di 100, ma che
Mullins non ne fece altre a causa di una tragedia personale,
rendendola davvero unica nel suo genere. La tragedia personale è
stata la morte della figlia. Soprannominata Bee – che in seguito
scopriremo essere l’abbreviazione di Annabelle, che fornisce la
vera origine del nome della bambola – fu investita da un’auto
mentre tornava dalla chiesa. La famiglia Mullins cadde in
depressione, ma trovò conforto in quello che credeva essere il
fantasma di Bee. Il fantasma di Bee infestava la loro casa in modo
docile, convincendo i genitori in lutto a permetterle di risiedere
nella bambola.
Tuttavia, dopo averlo fatto,
scoprono subito che non si tratta affatto di Bee, ma di un demone
che vuole trovare una forma fisica. La bambola è servita come primo
passo, ma ora vuole assumere un essere vivente: Esther Mullins.
Attacca la madre quando è sola, ma viene salvata dal marito e la
bambola viene rinchiusa in un armadio rivestito di carta biblica e
bagnato con acqua santa. Tutto sembra andare bene fino a quando non
aprono la loro casa a un orfanotrofio (che ha già legami con la
magia occulta, anche se ci arriveremo tra poco).
Nel film stesso, ambientato nel
1957, lo spirito manipola le ignare ragazze per liberarlo,
permettendo a Ram di possedere Janice, malata di poliomielite. Dopo
una serie di scene spaventose in cui lo spirito tenta di reclamare
altre anime, Janice riesce a fuggire e a farsi adottare dalla
famiglia Higgins, cambiando il suo nome in modo piuttosto sadico
in, che altro, Annabelle. A questo punto, lo spirito sembra essere
sparito dalla bambola, che viene portata via dalla polizia. Il film
termina 12 anni dopo, nel 1969, quando Annabelle, ormai cresciuta,
uccide i suoi genitori adottivi, riportandoci all’inizio del primo
film e al ritorno della bambola. Il che solleva un sacco di
domande.
Come il finale si collega
all’originale Annabelle
L’Annabelle
originale, uno spinoff di The Conjuring che
spiega come la sua “star” sia finita nella collezione di oggetti
infestati degli investigatori del paranormale Warren, segue per la
maggior parte la neo-mamma Mia, inseguita dalla bambola infestata
che vuole possedere il suo bambino appena nato. Questa è stata
l’ultima volta che la bambola è emersa prima della famiglia che
l’ha denunciata ai Warren. Il film si apre proprio come finisce
Annabelle
2: Creation, il giorno in cui Annabelle uccide gli
Higgins; Mia riceve la bambola dal marito John e più tardi, quella
notte, vengono svegliati dai loro vicini di casa che vengono
aggrediti da due assalitori.
L’uomo viene ucciso dalla polizia,
ma la donna – Annabelle Higgins – prende la bambola e le taglia la
gola, con una goccia del suo sangue che finisce nell’orbita
dell’occhio. In seguito si scopre che i due erano “Discepoli
dell’Ariete”, un culto incentrato sulla resurrezione dello spirito
attraverso sacrifici rituali. È implicito che gli omicidi iniziali
abbiano portato l’Ariete ad Annabelle, portando ai suoi successivi
tentativi di possedere la figlia di Mia. Il film lega quindi la sua
storia, per lo più autonoma, alla più ampia mitologia con la sua
scena finale. I fan avranno notato il nome Higgins e come Janice
sia diventata l’attrice che ha interpretato la precedente
Annabelle, ma il vero colpo di scena arriva con la rivelazione di
Mia. Come la maggior parte dei prequel, si tratta di una stretta
connessione con il film originale.
Naturalmente, il prequel riformula
in qualche modo ciò che abbiamo visto nel 2014. Ora sappiamo che
Annabelle Higgins è in realtà una Janice posseduta, il che
significa che piuttosto che cercare di resuscitare il Ram, lei e il
suo complice stavano tentando qualcos’altro; probabilmente di
trasferire la sua anima in un altro contenitore, usando prima la
bambola come tramite. Il motivo non viene spiegato, ma è probabile
che si tratti di un problema legato all’età, dato che le successive
conquiste dello spirito riguardano i bambini, le cui anime sono più
pure o più facili da sconfiggere.
Ciò solleva la questione del ritorno
della bambola. Alla fine della parte di Annabelle
2: Creation ambientata nel 1957, è implicito
che la bambola è ora libera da tutte le forze nocive, ma in qualche
modo viene reinserita nella storia dell’Ariete dodici anni dopo,
quando riappare magicamente e Annabelle se ne riappropria. È una
coincidenza enorme che la Janice potenziata dall’Ariete e la
bambola precedentemente posseduta si ritrovino nello stesso
quartiere: come è successo e se è solo un contenitore perché è
ancora importante? Potrebbe trattarsi di una semplice retcon;
diversi elementi del film originale, come il fantasma di Annabelle,
7 anni, che aggredisce Mia, vengono alterati dal colpo di scena,
quindi c’è un elemento di canone libero e perdente. Tuttavia, la
scena dei mid-credits potrebbe fornire una spiegazione diversa.
Prima, però, vale la pena
sottolineare che ci sono altri collegamenti tra Annabelle
2: Creation e la più ampia mitologia di
Conjuring: il Ram prende il controllo di Janice
vomitandole in bocca una sostanza vischiosa e nera, proprio come la
madre di The Conjuring era posseduta dal demone di quel
film; e l’inganno di accogliere uno spirito in un contenitore per
poi scoprirlo come una forza oscura è stato un trucco ripetuto dai
demoni dell’universo.
Per gli appassionati di ossessioni
reali, nei momenti finali c’è anche un easter egg incredibilmente
bello: la bambola consegnata a Janice/Annabelle quando incontra per
la prima volta gli Higgins è una replica della vera bambola
Annabelle, un riconoscimento del fatto che tutto è iniziato da una
storia “vera” e che sottolinea come la mitologia di
Conjuring si sia evoluta da allora.
Dopo aver interpretato Pierre,
protagonista di The Quiet Son, film in concorso all’81esima edizione
della Mostra
del Cinema di Venezia, Vincent Lindon torna a
mostrarsi al grande pubblico alla 19esima edizione della
Festa del
Cinema di Roma, nel ruolo di Joseph. Con
Le Choix de Joseph Cross – abbreviato
Le Choix – diretto da Gilles Bourdos,
l’attore francese continua a vestire i panni di un uomo solido e
risoluto, che dopo aver lavorato tra i binari della ferrovia, ora
si occupa di cemento e costruzioni. Due mestieri che plasmano il
carattere, rendendo capace chi li svolge di affrontare imprevisti e
difficoltà senza scivolare in facili ansie.
E questo è ancor più evidente in
Joseph, che improvvisamente è costretto a guardare la sua vita
incrinarsi e in ultimo frantumarsi, ma che grazie al suo bagaglio
professionale riesce a mantenere un fragile equilibrio anche quando
tutto intorno crolla. Le Choix è presentato nella
sezione Progressive Cinema, ed è il remake
francese dell’acclamato Locke di Steven Knight, Accanto a Lindon, troviamo le
voci di Micha Lescot, Pascale Arbillot e Gregory Gadebois, che
mettono alla prova la resistenza del protagonista restando fuori
campo.
Le Choix, la trama
Joseph è un uomo caratterialmente
forte e concreto, una particolarità che condivide con gli edifici
che costruisce. Nel suo lavoro è sempre stato impeccabile, non ha
mai commesso un errore e adesso lo attende la colata di cemento più
grande del decennio. Non si aspetterebbe mai che la sera prima di
quell’evento la sua vita sarebbe stata sconvolta da una telefonata
che avrebbe cambiato le sue sorti. Senza pensarci due volte, Joseph
si mette in auto, pronto ad andare verso Parigi, dove c’è qualcuno
che lo aspetta. La notizia ricevuta, però, da potenzialmente bella,
diventa la causa primaria dello sgretolamento, pezzo dopo pezzo,
della sua esistenza. Come un palazzo robusto, ma dalle troppe
crepe, l’uomo deve tentare di non crollare, cercando di tenere in
piedi tutto quello per cui ha lavorato duramente, sia a livello
personale che professionale.
Thriller e dramma, i capisaldi di
una storia con poche emozioni
Ancora una volta, dopo il nostro
simile e recente thriller-noir Non riattaccare, con una bravissima Barbara Ronchi, e
ancor prima con, per l’appunto, Locke, ci troviamo a
confrontarci con tre elementi chiave che dominano per 77 minuti:
un’auto, un telefono (stavolta collegato al display di
bordo) e una strada. La notte, incombente e soffocante,
avvolge tutto, lasciando spazio solo a sprazzi di luce artificiale
provenienti dai lampioni che irrompono furenti nell’abitacolo. A
intermittenza fasci di luce gialla penetrano l’oscurità,
illuminando il volto di un uomo che sta lottando con il proprio
passato, cercando un riscatto attraverso una scelta che segnerà la
sua vita futura.
L’impianto narrativo ricalca quello
di Locke: telefonate incessanti, voci stanche, arrabbiate,
disperate, che si alternano senza sosta riempiendo il veicolo, alle
quali si aggiungono sospiri, imprecazioni, sguardi persi nel vuoto.
Ma mentre nell’opera di Knight l’Ivan di
Tom Hardy è sostenuto da una sceneggiatura concisa ed efficace,
il Joseph di Lindon si smarrisce in una scrittura sfocata e
traballante. Nonostante la staticità imposta dalla
location unica – ossia l’interno di una macchina – ciò che manca in
Le Choix è proprio l’emotività e la tensione palpabile,
elementi che dovrebbero crescere progressivamente e guidare il
ritmo del racconto.
Le telefonate, pur frequenti e
decisive per il protagonista, non hanno l’impatto adeguato per far
progredire la narrazione. Ogni problema sollevato sembra risolversi
in pochi secondi, senza un vero climax emotivo che porti a un punto
di svolta efficace e travolgente. Il risultato è di avere
davanti a sé un’opera monotona, incapace di generare vero interesse
o coinvolgimento.
Anche la regia, che avrebbe potuto
portare dinamismo a una situazione così statica, non riesce a dare
movimento o profondità, penalizzando la performance di Vincent
Lindon e il suo Joseph, con un lavoro insufficiente sulla
psicologia del personaggio. Nonostante il suo talento, il francese
qui fatica a portare sulle spalle il personaggio, non riuscendo mai
a creare una connessione autentica con lo spettatore. Ed è un vero
peccato, considerato il suo indubbio valore attoriale.
“La vita è il risultato delle
scelte che facciamo“, è l’affermazione che apre il nuovo film
di Gabriele Muccino (il tredicesimo in 27 anni di
carriera), dal titolo Fino alla fine. Presentato
nella sezione Gran Public della Festa del
Cinema di Roma 2024, il film rappresenta inoltre una nuova
incursione del regista nel mondo della gioventù e di tutta la sua
incontenibile voglia di passioni e vita divorata attimo dopo
attimo. Ciò era già avvenuto con i primi due film del
regista, Ecco fatto (1998) e Come te
nessuno mai (1999), per poi riproporsi nel 2016
con L’estate
addossoed ora, appunto, con questo suo nuovo
progetto.
Film che arriva quattro anni dopo il
maturo Gli
anni più belli, per narrarci però non di anni bensì di un
singolo giorno nella vita di cinque ragazzi. Un giorno che si
potrebbe ugualmente definire “il più bello” per la giovane
protagonista, almeno fino a quando non diventa un vero e proprio
incubo. Incubo dal quale, però, sembra possibile imparare comunque
qualcosa, come la bellezza del mangiare la vita prima che possa
farlo lei a noi, del lasciarsi andare e farsi guidare dalla
corrente, liberandosi dalle gabbie che ci costruiamo per poter
davvero fare esperienza del mondo e delle sue infinite
possibilità.
La trama di Fino alla fine
La protagonista è
Sophie (Elena Kampouris), una
giovane americana reduce da una vita di sacrifici e dolori. Durante
una vacanza a Palermo con la sorella, nelle ultime 24 ore prima del
ritorno in California, incontra Giulio
(Saul Nanni) e il suo gruppo di amici siciliani.
Desiderosa di vivere fino in fondo, Sophie decide di scegliere di
camminare sull’orlo del baratro trascinandosi in una vertigine
pericolosa, trasformando una semplice avventura in una battaglia
per la sopravvivenza, il riscatto e l’adrenalina pura. In questo
labile confine tra vita e morte, Sophie verrà risucchiata dal
fascino del pericolo, commettendo errori che marchieranno la sua
vita, cambiandola per sempre.
Enrico Inserra, Francesco Garilli, Lorenzo Richelmy, Elena
Kampouris e Saul Nanni in Fino alla fine. Foto di Valentina
Glorioso.
Le scelte che ci definiscono
Come si diceva in apertura, la vita
è il risultato delle scelte che facciamo e di certo Sophie si è
stancata di non scegliere e di lasciarlo fare agli altri per lei. È
così che basta una leggera spinta perché il vaso barcolli, cada e
vada in mille pezzi. Un momento di non ritorno che coincide con
l’incontro con Giulio e i suoi tre amici e a partire dal quale
assistiamo concretamente al modo in cui una serie di scelte
apparentemente innocue e prese con leggerezza possano portare a
conseguenze impensabili e drammaticamente irreparabili. È così che
quella che inizia come una banale serata di divertimento sfocia ben
presto in pericolosi atti criminali.
Naturalmente i segnali che le cose
avrebbero potuto prendere una brutta piega hanno iniziato ad
esserci quasi sin da subito, ma Sophie ha troppa voglia di staccare
la testa e dimenticare ciò che la tormenta ed è dunque disposta a
chiudere prima un occhio e poi anche l’altro. Come lei, li chiude
anche Gabriele Muccino, che sceglie giustamente di
non giudicarla mai per le scelte che compie e sembra chiedere al
pubblico di fare lo stesso. Allo stesso modo, non giudica neanche
Giulio e i suoi amici, ma anzi offrendo attraverso il più
“pericoloso” di loro – il Komandante di Lorenzo Richelmy – una sua personale risposta
a ciò che porta l’essere umano a compiere certe scelte.
Giovani in cerca d’amore
C’è infatti un preciso momento, che
potrebbe essere un po’ il cuore di Fino alla fine,
in cui Sophie apprendendo del difficile passato di Komandante lo
abbraccia e gli sussurra che lui non è cattivo. Lui, dinanzi a quel
gesto di affetto, appare totalmente spaesato e disarmato, come se
si rendesse conto per la prima volta che è proprio quello ad
essergli mancato nella vita e che forse avrebbe potuto salvarlo da
certe scelte sbagliate. I giovani protagonisti di Muccino sono
vittime dell’assenza d’amore, che sia quella data da un genitore o
dalla società che si prende cura di te. Per questo il regista non
li giudica – neanche li giustifica ovviamente – ma cerca piuttosto
una risposta al modo in cui sono cresciuti.
Enrico Inserra, Francesco Garilli, Lorenzo Richelmy, Elena
Kampouris e Saul Nanni in Fino alla fine. Foto di Valentina
Glorioso.
Vivere secondo le proprie regole, fino alla fine
Certo, in più di un momento occorre
sospendere non solo il giudizio nei confronti dei personaggi ma
anche l’attaccamento alla verosimiglianza (che di base è sempre un
po’ noiosa), specialmente di fronte ad alcune soluzioni narrative
senza le quali forse il racconto non avrebbe potuto procedere. Ma
anche davanti all’azione più impensabile, a cui sembra troppo
assurdo che qualcuno possa ridursi, è bene ricordare che nella
realtà di scenari di questo tipo se ne sentono sempre più
frequentemente e di storie finite male – troppo spesso con giovani
schiacciati dalla competitività, altro tema sottopelle del film –
ne sono pieni i telegiornali.
L’operazione di Muccino è dunque
delicata, non priva di elementi zoppicanti, ma indubbiamente
ragionata. Si avverte anche qui la cura nella costruzione delle
scene che lo contraddistingue e quanto il racconto si fa più
forsennato la regia riesce abilmente a sostenerne il ritmo,
portando verso una conclusione che pur nella sua tragicità risulta
quasi essere un invito a vivere fino in fondo, fino alla fine, fino
alle estreme conseguenze, inseguendo la libertà secondo le nostre
regole, così come Sophie la ricerca stabilendone finalmente delle
sue. Certo, non ridursi in tutto e per tutto come i protagonisti di
Fino alla fine è quantomai auspicabile.
Man mano che la data di uscita
negli USA di Karate
Kid: Legends si avvicina sempre di più, iniziamo a
farci un’idea più precisa di cosa tratterà l’attesissimo film.
Sebbene sia lecito supporre che il nuovo capitolo del franchise
riguarderà l’addestramento di un giovane ragazzo sotto la guida di
Daniel LaRusso (Ralph Macchio) e Han
(Jackie Chan), non abbiamo ancora scoperto come si
collegheranno i due diversi rami del franchise. Oggi è stato
rivelato un nuovo poster che conferma la data di uscita del 30
maggio 2025.
Il poster evoca la stessa energia
della trilogia originale di Karate Kid, con i
colori che abbiamo imparato ad associare ai poster precedenti del
franchise. In primo piano c’è Ben Wang
(American Born Chinese) nei panni
di Liu Fong, un combattente con la cintura rossa che sembra
piuttosto determinato a colpire per primo e con forza
chiunque si metta sulla sua strada. Dietro di lui, Macchio e Chan
condividono i riflettori come possibili mentori del ragazzo. Poiché
entrambi seguono lo stesso stile di mentore del defunto Mr.
Miyagi (Pat Morita), è possibile che il duo
unisca le forze per guidare una nuova generazione di
combattenti.
Inoltre, non sappiamo ancora come
la stagione finale di Cobra Kai si collegherà al
film in uscita. Considerando che Macchio fa parte di entrambi i
segmenti del franchise, il modo in cui Daniel LaRusso concluderà il
suo viaggio nella serie di successo di Netflix informerà il pubblico sullo stato d’animo
in cui si troverà l’allievo diventato maestro alla prima del film.
Finora Macchio è rimasto in silenzio sul destino del suo
personaggio e, in un’intervista rilasciata lo scorso
luglio, l’attore ha dichiarato che sia la serie che il nuovo film
hanno lo scopo di “essere sempre fedeli a LaRusso”.
Karate Kid: Legends ha
influenzato la sesta stagione di Cobra Kai?
Anche se fanno parte dello stesso
universo, Cobra Kai e Karate Kid: Legends
provengono da studi diversi. C’è un’ovvia connessione tra i
due, ma il co-showrunner Josh Heald ha
dichiarato a Collider che non c’è stata alcuna influenza diretta
del film nella serie. Lo sceneggiatore ha però rivelato di aver
avuto accesso alle prime versioni della sceneggiatura del nuovo
film e che il suo team è stato in grado di “dare alcuni pensieri e
appunti”. Ma ha confermato che Cobra Kai si
concluderà nel modo in cui è sempre stato pensato.
Non sappiamo inoltre quali
personaggi di Cobra Kai arriveranno in Karate Kid:
Legendsoltre a LaRusso. Sarebbe logico che Johnny
Lawrence (William Zabka) facesse un’apparizione,
dato che lui e LaRusso hanno aperto insieme il Miyagi-Do. Ma
è possibile che il nuovo film porti LaRusso in un viaggio
completamente diverso dalla San Fernando Valley.
Dopo l’avventura seriale con
A casa tutti bene, Gabriele
Muccino torna al cinema con Fino alla
fine, suo nuovo lungometraggio dopo Gli
anni più belli, con il quale esplora non solo quella
giovinezza che tanto gli è cara, ma anche nuove declinazioni del
suo cinema. Il film, distribuito in sala dal 31
ottobre, offre infatti un racconto che dal dramma sfocia
nel puro thriller d’azione, senza mai dimenticare quella componente
sentimentale composta da passioni irresistibili e
incontenibili.
Protagonista del film è
Sophie (Elena Kampouris), una
giovane americana reduce da una vita di sacrifici e dolori. Durante
una vacanza a Palermo con la sorella, nelle ultime 24 ore prima del
ritorno in California, incontra Giulio
(Saul Nanni) e il suo gruppo di amici siciliani.
Desiderosa di vivere fino in fondo, Sophie decide di scegliere di
camminare sull’orlo del baratro. In questo labile confine tra vita
e morte, Sophie verrà risucchiata dal fascino del pericolo,
commettendo errori che marchieranno la sua vita, cambiandola per
sempre.
“Io sono i miei film”
“La mia vita professionale è
stata particolarmente ricca di esperienze, ma ogni film che faccio
è come tornare al punto di partenza. È un’esperienza masochistica,
perché mi metto nella condizione di essere giudicato e io da
adolescente balbettavo e temevo molto il giudizio altrui. –
racconta Gabriele Muccino, introducendo il
suo nuovo film alla Festa del Cinema di
Roma – Pensai quindi di fare cinema per riuscire
a comunicare attraverso i film ciò che non riuscivo a dire in altro
modo.Così facendo, in realtà, ho finito per ricadere
nella trappola da cui cercavo di fuggire”.
“Faccio film per raccontare chi
sono e cosa vedo ma sono di nuovo terrorizzato dal giudizio che i
miei film possono ricervere, per cui ho capito che semplicemente
non riuscirò mai a sfuggire da questo schema. – afferma
Muccino – Di certo, però, fare cinema mi ha salvato la vita.
Quasi tutti i miei film raccontano il mio modo di vedere e stare al
mondo. Mi sono mimetizzato nei miei racconti e attraverso di essi
riesco a fare ciò che altrimenti non potrei e quindi ad esorcizzare
certe paure”.
Gabriele Muccino e Elena Kampouris in Fino alla fine. Foto di
Valentina Glorioso.
“Fino alla fine non è da meno. È
il risultato della mia voglia di uscire dalla mia comfort zone, di
fare qualcosa di diverso dal solito. Non cambio rotta, non cambio
genere, per me anche L’ultimo bacio ha un che di thriller, ma di
certo ho cambiato la declinazione del linguaggio, mi sono spostato
oltre ciò che mi è proprio e anche oltre il buonsenso, un po’ come
fanno i protagonisti del film. Insomma, con questo nuovo film mi
sono completamente lasciato andare all’ignoto”.
Scavare nell’animo umano
Muccino passa dunque poi a parlare
del nuovo film, partendo da ciò che lo ha spinto a realizzarlo,
affermando a riguardo: “Di certo so che da tempo volevo
realizzare un thriller puro, o comunque un film con un morto, per
entrare in un territorio spaventoso che non conosco ma che mi
intriga.La serie A casa tutti bene mi ha preparato a
questo momento e anzi ho capito che mi piaceva lavorare su questi
toni e così da lì sono partito per concepire Fino alla fine”. “Era
anche da tempo che volevo realizzare un film con protagonista una
donna, creatura misteriosa e indecifrabile che cerco qui di
proporre attraverso quante più sfumature possibili”.
Il cuore del racconto, però, è
sempre quello: “L’animo umano”. “Ciò che siamo oggi è
il frutto di quanto costruito per millenni sulle atrocità, sulla
necessità di autoproteggersi, di prevaricare. Siamo tutti forieri
di qualcosa di oscuro, pronto ad emergere. Siamo tutti cacciatori o
prede e le circostanze ci trasformano nell’una o l’altra cosa. I
protagonisti di questo film scelgono consapevolmente e pur potendo
in più occasioni tirarsi fuori dalle brutte situazioni scelgono di
andarvi a fondo in quanto ciò li fa sentire vivi.
“Le scelte sono una cosa molto
delicata. Non sapremo mai cosa sarebbe potuto accadere se avessimo
deciso una cosa invece di un’altra. Anche le piccole scelte possono
condizionare come un effetto domino tutto quello che verrà dopo. Il
punto è che le scelte che facciamo sono dettate dal nostro
subconscio, dalla formazione che abbiamo vissuto, dalle ferite che
abbiamo riportato. Crediamo di avere il controllo delle nostre
scelte, ma stiamo solo mentendo a noi stessi“, conclude il
regista.
Enrico Inserra, Francesco Garilli, Lorenzo Richelmy, Elena
Kampouris e Saul Nanni in Fino alla fine. Foto di Valentina
Glorioso.
Un film girato due volte
Fino alla fine,
afferma Muccino, è un film unico. Anzi, due film unici. “Quando
ho scelto Elena per il ruolo di Sophie, non sapevo ancora quanto
fosse speciale. – ha spiegato il regista – Solo in
seguito, guardando i film e le serie che aveva realizzato ho
scoperto che è in grado di parlare più lingue e riuscire ad
esprimere così sfumature sempre nuove del suo talento. È a quel
punto che le ho chiesto di assecondarmi in una follia: girare il
film due volte. Le ho chiesto di imparare l’italiano, così abbiamo
potuto girare una versione diFino alla
finetutta in inglese per i mercati
internazionali e una dove l’inglese si mescola all’italiano da
distribuire nel nostro paese.
“Sono due film identici, ma in
quello con la doppia lingua c’è l’elemento in più del gap
linguistico che torna estremamente funzionale per certe scene. Mi
ha inoltre permesso di evitare il doppiaggio, che avrebbe invece
appiattito le differenze tra Sophie, Giulio e i suoi amici, un
contrasto che non volevo assolutamente perdere”, afferma
Muccino. “Così facendo, – conclude il regista – credo
di essere riuscito a restituire anche tutto il caos interiore che
questa giovane avverte mano mano che le cose prendono pieghe
inaspettate”.
L’episodio
4 di The
Penguin introduce il crudele primario dell’Arkham
State Hospital, il dottor Ventris, interpretato da T. Ryder
Smith. Il sadico dottore sottopone Sofia Falcone (Cristin
Milioti) a 10 anni di elettroshock e altri orrori,
creando la Sofia a sangue freddo che (SPOILER) uccide la sua
famiglia, una vendetta stranamente poetica. Il dottor
Ventris non è l’unico medico sadico dell’universo batmaniano ad
approdare sul piccolo schermo – Gotham ha
portato l’antagonista di sempre, il dottor Hugo Strange
(BD Wong), per esempio – e non è nemmeno
l’unico discutibile beneficiario di una laurea in medicina a
sfidare Batman nei fumetti. In realtà, Ventris non ha
affatto un dottorato nei fumetti. Se non è un medico,
allora, chi è nei fumetti DC Comics? Prendiamoci un po’ di tempo
per riflettere sulla storia di Floyd Ventris, alias Uomo
Specchio.
Floyd Ventris, alias Mirror
Man, incontra Batman nel 1954
Floyd Ventris viene presentato
sulle pagine di Detective Comics#213, novembre 1954, come un criminale di bassa
lega condannato a sette anni nel penitenziario di Stato di Gotham.
Tuttavia, non aveva trascorso nemmeno 24 ore in prigione prima di
rompere uno specchio e usare uno dei pezzi per distrarre le
guardie, facilitando la sua fuga. Il frammento che ha dato a
Ventris la libertà lo ha ispirato a imparare tutto ciò che poteva
sugli specchi e sui riflessi, utilizzandoli nelle sue
attività criminali confondendo la polizia con illusioni e falsi
riflessi, con il suo nuovo soprannome: Uomo Specchio. Solo
l’ambizioso Ventris voleva essere tra i migliori dei peggiori di
Gotham, così inventò una macchina a raggi X fatta di specchi. La
macchina gli permetteva di vedere sotto ogni cosa, compreso il
mantello di Batman, rivelando a Ventris il fatto che Bruce Wayne
era, in effetti, il Crociato col Cappello, uno dei pochi
cattivi a conoscere la verità.
Ventris cercò di sfruttare la sua
conoscenza per i propri guadagni, ma Batman indebolì abilmente le
affermazioni di Ventris scrivendo una lettera al giornale in cui
elencava quante affermazioni simili erano sempre state smentite.
Imperterrito, l’Uomo Specchio ci riprovò, ma non riuscì a catturare
alcuna immagine incriminante di Wayne sotto il mantello. Perché?
Beh, essendo Batman, ha escogitato un modo per contrastare
il dispositivo a raggi X di Ventris indossando un cappuccio fatto,
ironia della sorte, di specchi. Non potendo contare su una
pistola fumante, le affermazioni di Ventris sono crollate e l’Uomo
Specchio è stato catturato e rispedito in prigione per riflettere
sul da farsi.
Batman inganna l’Uomo Specchio
con un piccolo aiuto da parte dei suoi amici
Floyd Ventris apparirà nuovamente
come Uomo Specchio fino all’agosto 1963, nelle pagine di
Batman#157. Negli
ultimi anni, l’Uomo Specchio è stato ossessionato dall’idea di
dimostrare al mondo che aveva ragione sul fatto che Bruce Wayne
fosse Batman. Quando è fuggito di nuovo, Ventris ha messo insieme
una banda, li ha convinti della vera identità di Batman e con il
loro aiuto ha annunciato la verità in pubblico. L’Uomo Specchio e
la sua banda tesero un’imboscata a Batman al Gotham Museum e
riuscirono a malapena a fuggire dopo essere stati sconfitti da
Batman e Batwoman. Un secondo attacco ha portato alla cattura di
Ventris e della sua banda sotto l’occhio vigile di Batman… e
diBruce Wayne. Solo uno dei complici di Ventris,
ancora libero, seguì Wayne e scoprì che non era affatto Bruce
Wayne, ma piuttosto un attore ingaggiato da Vicki Vale per
impersonare Wayne.
Così, armato di queste nuove
informazioni, l’Uomo Specchio avanza nuovamente pretese
sull’identità di Batman nel quartier generale del GCPD, mentre
Batman lo scorta all’interno. Ancora una volta, l’Uomo Specchio
viene ostacolato quando il vero Bruce Wayne si presenta alla
stazione di polizia e deve ammettere che si tratta di due persone
distinte. Se solo Ventris avesse avuto la sua macchina a raggi X,
avrebbe rivelato che mentre Bruce Wayne era Bruce Wayne,
Batman non era altro cheAlfred
Pennyworth.
L’Uomo Specchio, decisamente
umiliato, fu riportato al penitenziario di Gotham e non sarebbe
stato più visto fino a Batman#400 del 1986. In quella storia, Ra’s al Ghul
organizza un’evasione di massa dei più grandi nemici di Batman
dalla prigione per organizzare un attacco totale a Batman. Tra i
liberati? L’Uomo Specchio. Solo che Ra’s al Ghul ha confuso Floyd
Ventris con Sam Scudder, alias la nemesi di Flash, Mirror
Master. Gli viene rivolto l’invito a partecipare all’attacco, ma
Ventris, stanco della vita criminale, rifiuta e coglie l’occasione
per fuggire e nascondersi. Floyd Ventris non è stato più
visto nei fumetti della DC Comics ed è improbabile che un
cattivo che si trova sul gradino più basso della rogues gallery di
Batman possa riapparire a breve. A meno che non ottenga il
dottorato, allora attenzione.
Dune:Prophecy debutterà su Max il
mese prossimo, ma la trama della serie è ancora misteriosa come le
sabbie di Arrakis. Fortunatamente, Collider ha parlato con il cast
e la troupe della prossima serie prequel di fantascienza al New
York Comic Con di questo fine settimana all’interno del
Collider Studio, e proprio come i piani secolari della Bene
Gesserit, la trama della serie si sta mettendo a fuoco.
Alison
Schapker, showrunner/produttrice esecutiva di
Dune:Prophecy, ha dichiarato che la
serie si svolgerà sulla scia della Jihad Butleriana, quando
l’umanità si sollevò contro l’intelligenza artificiale. Vedrà la
fondazione della sorellanza Bene Gesserit, l’enigmatica fazione che
ha preparato Paul Atreides a diventare il messia galattico, come
visto in Dune:
Questo spettacolo parla
dell’origine delle Bene Gesserit, le sorelle che potreste aver
visto nei film di Denis [Villeneuve] se li
guardate.Siamo ambientati 10.000 anni prima del film, ma
siamo in un futuro lontano.Siamo anche tra 10.000 anni,
circa, e siamo all’ombra della Grande Guerra delle Macchine.Gli esseri umani hanno sconfitto l’intelligenza artificiale, le
macchine pensanti sono state bandite e ora l’umanità è in un
periodo di ricostruzione.A volte scherziamo dicendo che si
tratta dei Secoli Bui di Dune.Le grandi scuole stanno
risorgendo e una di queste è la sorellanza, la Bene Gesserit.Vedremo come sono salite al potere.
Chi recita in Dune: Prophecy?
La serie sarà incentrata su due
sorelle della temibile famiglia Harkonnen, fondatrice della Bene
Gesserit, interpretate da Emily Watson
(Chernobyl) e Olivia
Williams (The
Crown). Abitano in una galassia governata
dall’imperatore Javicco Corrino (Mark
Strong, The
Penguin) e dall’imperatrice Natalya (Jodhi
May, Renegade Nell), e dalla
loro rampolla, la principessa Ynez (Sarah-Sofie
Boussnina, Knightfall). I
membri della nascente sorellanza saranno interpretati da
Faoileann Cunningham (The
Northman), Aoife Hinds
(Hellraiser), Chloe Lea
(Foundation) e Jade
Anouka (His Dark
Materials). Shalom
Brune-Franklin (Baby
Reindeer) interpreterà un servitore Fremen,
Desmond Hart (Raised by
Wolves) un soldato che si oppone alla sorellanza e
Chris Mason
(Broadchurch) un membro della nobile
famiglia Atreides.
Dune:Prophecy ha
affrontato un viaggio impegnativo dalla pagina allo schermo.
Ispirato al romanzo Sisterhood of Dune (La sorellanza
di Dune), co-scritto da Brian
Herbert (il figlio dell’autore di DuneFrank Herbert) e Kevin J.
Anderson, ha subito una serie di cambiamenti creativi
durante la pre-produzione, tra cui la sostituzione della star
originale Shirley Henderson con Williams.
Dune:Prophecy sarà trasmesso in
anteprima a novembre su Max e SKY
No More Trouble – Cosa rimane di una
tempesta di Tommaso Romanelli presentata
in anteprima ad
Alice nella Città, film di apertura della sezione “Panorama
Italia”. Una straordinaria avventura sportiva e umana, ma anche la
storia di un’assenza, un viaggio nella memoria di un figlio alla
ricerca di suo padre.
L’opera prima è realizzato da
Tommaso, figlio di Andrea Romanelli disperso in
mare nel 1998 nel corso di una traversata atlantica in squadra con
Giovanni Soldini. Tommaso prova a scoprire chi era
il padre (scomparso quando aveva 4 anni) attraverso le persone che
lo hanno conosciuto, attraverso quello che gli resta di lui, un
archivio che ha finalmente deciso di aprire e guardare.
La nostra intervista a Giovanni
Soldini e Tommaso Romanelli su
No More Trouble – Cosa rimane di una
tempesta
No More Trouble – Cosa rimane di una
tempesta è il documentario di apertura di “Panorama Italia” di
Alice nella Città, sezione autonoma e parallela della Festa del
Cinema di Roma (16 – 27 ottobre). L’opera prima di Tommaso
Romanelli, che del documentario firma anche la scrittura, racconta
di suo padre Andrea Romanelli scomparso in mare nel 1998, in
seguito ad un drammatico incidente durante una traversata
atlantica.
No More Trouble – Cosa rimane di una
tempesta sarà presentato in anteprima giovedì 17 ottobre;
è una produzione Teorema Studio e Indigo Film, con il contributo
del MiC, del Fondo per l’Audiovisivo FVG, della FVG Film Commission
– PromoTurismoFVG e grazie alla Regione Autonoma FVG. La
fotografia è di Nikolai Huber, il montaggio di Andrea Campajola, le
musiche di Lorenzo Tomio, il suono in presa diretta di Luca
Bertolin e Marco Cecotto, il montaggio del suono di Daniela
Bassani e Marzia Cordò. Il documentario sarà distribuito
da Tucker Film.
Subentrato alla regia di
Jason Reitman, Gil Kenan dirige Ghostbusters:
Minaccia Glaciale, che lascia il finale aperto a
ulteriori battaglie con i fantasmi. Dopo che l’antico cattivo
Garraka usa Phoebe Spengler per pronunciare il canto che lo libera,
il fantomatico dio cornuto va a congelare tutto e tutti a New York.
Phoebe viene reintegrata come acchiappafantasmi e si unisce a
Callie, Trevor e Gary nella lotta per fermare Garraka. Anche gli
Acchiappafantasmi originali si vestono per unirsi a loro e
sconfiggere Garraka, mentre Nadeem cerca di esercitare i suoi
poteri di fuoco in modo sufficientemente efficace per affrontare il
loro nemico.
Garraka libera tutti i fantasmi in
isolamento, aprendo una frattura tra il mondo vivente e l’aldilà.
Phoebe affronta Melody, che ha lavorato volontariamente con
Garraka, e il fantasma ha cambiato idea. Con il fiammifero di
Melody che accende una fiamma per Nadeem e Phoebe che utilizza
l’ottone del suo zaino protonico, il duo tiene a bada Garraka
abbastanza a lungo da permettere agli altri acchiappafantasmi di
rinchiuderlo nella cella di contenimento dei fantasmi. Melody si
disintegra, lasciando Phoebe con la sua scatola di fiammiferi, e il
sindaco è spinto a dare il suo pieno appoggio agli
Acchiappafantasmi, ricevuti eroicamente per aver fermato
Garraka.
Il piano e la sconfitta di
Garraka in Ghostbusters: Minaccia Glacialespiegato
Garraka è antico e il suo piano in
Ghostbusters: Minaccia glacialeè un
piano di vendetta. Come dio fantasma, il piano malvagio di
Garraka prevedeva di radunare tutti i fantasmi esistenti per unirsi
a lui mentre trasformava il mondo in ghiaccio. La morte
per paura era ciò che voleva, e Garraka era così potente da
comunicare con ogni fantasma molto prima di essere liberato dalla
sua sfera. Garraka era un nemico unico che gli Acchiappafantasmi
non avevano mai affrontato prima: il dio fantasma poteva aggirare i
loro zaini protonici, che Garraka poteva congelare e rendere
inutili.
Per sconfiggere Garraka,
gli Acchiappafantasmi dovettero ricorrere a Nadeem, un
maestro del fuoco discendente dell’antico gruppo che per primo
intrappolò il cattivo. Utilizzando la sua capacità di
controllare il fuoco, i doni di Nadeem hanno lavorato insieme allo
zaino protonico di Phoebe, che ora era infuso di ottone per
impedire a Garraka di congelare i raggi protonici diretti verso di
lui. Naturalmente, questo non era sufficiente e Garraka aveva
bisogno di un luogo di riposo dopo la sua sconfitta: è qui che il
contenimento dei fantasmi si è rivelato utile.
Una volta che Garraka è stato
spinto nella cella di contenimento dei fantasmi, il portale tra il
mondo dei fantasmi e quello degli umani si è chiuso e tutto e tutti
si sono scongelati. Considerando quanto a lungo Garraka aveva
probabilmente pianificato la sua fuga, il suo ritorno nel mondo fu
piuttosto breve. Ghostbusters: Minaccia
Glacialenon spiega perché l’ottone sia in
grado di intrappolare Garraka quando nient’altro lo fa, ma
probabilmente perché è un elemento antico, malleabile e facilmente
manipolabile dai firemaster per intrappolare Garraka.
Come il separatore ionico di
Phoebe la trasforma in un fantasma
Phoebe chiede a Ray se ha mai
pensato a cosa si prova a essere un fantasma. Phoebe si chiedeva
soprattutto se fosse possibile diventare un fantasma per poter
essere, anche se per poco, sullo stesso piano dimensionale di
Melody, che era un fantasma. Il separatore ionico era stato usato
solo per staccare un fantasma dall’oggetto a cui era collegato, ma
era solo sperimentale quando si trattava di usarlo sugli esseri
umani. Per stare un po’ con Melody, Phoebe era disposta a
rischiare.
Il separatore ionico funzionò su
Phoebe nello stesso modo in cui funzionava per la separazione tra
oggetti e fantasmi: la macchina rimosse lo spirito di
Phoebe dalla sua forma fisica e la portò nel piano dimensionale in
cui esisteva Melody. Poiché il suo corpo fisico era
rimasto solo, Phoebe poteva essere un fantasma solo per due minuti
o rischiava che qualcosa andasse terribilmente storto, e
potenzialmente di morire nel processo. In base alla regola dei due
minuti, lo spirito di Phoebe è stato automaticamente riportato nel
suo corpo senza dover rientrare nel separatore ionico. In seguito,
a causa della separazione spirito-corpo, rimase fredda per un
po’.
Perché Melody tradisce Garraka
e scompare nel finale di Ghostbusters: Minaccia
Glaciale
Melody sembrava altrettanto
innamorata di Phoebe ed era esitante a tradirla per aiutare
Garraka, ma il fantasma pensava che rivedere la sua famiglia dopo
tanto tempo fosse più importante. Alla fine, però, Melody si è
rivolta contro Garraka, aiutando Phoebe e Nadeem a sconfiggerlo. Un
motivo importante per cui Melody tradisce Garraka è che ha capito,
grazie a Phoebe, che il cattivo non poteva aiutarla ad andare
avanti; Melody doveva farlo da sola. Il fantasma avrebbe potuto
manipolarla per farle rivedere la sua famiglia, ma non ne avrebbe
guadagnato.
Così Melody ha aiutato a
sconfiggere Garraka usando l’unica cosa a cui si era aggrappata per
tutta la sua vita ultraterrena. Melody scompare alla fine di
Ghostbusters: Minaccia Glaciale, le sue particelle
diventano parte dell’universo. Era finalmente libera, dopo essersi
finalmente riscattata, utilizzando l’unico oggetto con cui esitava
a separarsi. Melody aveva infine fatto ciò che Phoebe le
aveva detto di fare: andare avanti alle sue condizioni,
invece di affidarsi a qualcun altro per forzarle. Probabilmente
Melody era rimasta da sola per così tanto tempo che aveva
semplicemente bisogno di un promemoria di ciò che era capace di
fare.
Cosa succederà a Nadeem come
Firemaster dopo Ghostbusters: Minaccia
Glaciale
Nadeem ha avuto un rapporto
conflittuale con la nonna, vendendo le sue cose come se nulla
fosse, senza sapere che erano importanti per salvare il mondo. Dopo
aver finalmente imparato a usare le sue abilità di firemaster e
aver sconfitto Garraka, Nadeem potrebbe dedicare un po’ di
tempo a saperne di più sulla sua stirpe e sugli antenati
che hanno dedicato la loro vita a impedire a Garraka di conquistare
il mondo. Nadeem potrebbe anche cercare qualcuno che lo aiuti con i
suoi poteri di flessione del fuoco e probabilmente passerà il resto
del suo tempo a sorvegliare il contenimento dei fantasmi per
assicurarsi che Garraka non fugga di nuovo.
Chi fa parte della nuova
squadra di acchiappafantasmi
Ghostbusters: Minaccia
Glaciale si è concentrato molto sulla famiglia Spengler (e
su Gary Grooberson, per estensione), che si è impegnata a
riaccendere la fiamma degli acchiappafantasmi. Alla fine del film,
Callie, Phoebe, Trevor e Gary vanno a combattere i fantasmi in
fuga, insieme a Lucky, Lars Pinfield e Podcast, che costituiscono
la squadra principale di acchiappafantasmi con la famiglia. Sebbene
Venkman, Winston e Melnitz abbiano contribuito alla sconfitta di
Garraka, è improbabile che si uniscano agli Spengler come
acchiappafantasmi a tempo pieno. Ray, invece, potrebbe
voler fare di più di questo lavoro durante i suoi “anni d’oro” e
probabilmente li assisterà di tanto in tanto.
Come il finale diGhostbusters: Minaccia Glaciale prepara un
sequel
Ghostbusters: Minaccia
Glaciale potrebbe non aver avuto una scena post-credits
ufficiale per preparare il prossimo capitolo, ma il fatto che il
film si concluda con i fantasmi fuggiti che creano scompiglio a New
York suggerisce che il prossimo
sequeldi Ghostbusterscoinvolgerà la squadra nel trovare e intrappolare i
fantasmi ancora una volta. Forse uno dei fantasmi sarà
considerato una minaccia importante per la città, ma l’impostazione
offre qualcosa di più semplice da affrontare per gli
Acchiappafantasmi in un sequel. Il regista Gil Kenan ha lasciato
intendere (via Gamesradar) di avere già delle idee per la storia
delle prossime puntate, anche se non c’è ancora nulla di
definito.
Il vero significato del finale
di Ghostbusters: Minaccia Glaciale
Ghostbusters: Minaccia
Glaciale affronta i temi della famiglia e del
sentirsi emarginati. Phoebe, la protagonista principale del film,
si trova spesso a dover fare i conti con una famiglia che non
sembra rispettare le sue capacità a causa della sua età, e a fare i
conti con sentimenti di distacco e persino di solitudine. Questi
sentimenti la portano infine a fare amicizia con Melody. Se Phoebe
avesse sentito che non sarebbe stata giudicata o punita, avrebbe
potuto dire alla sua famiglia cosa stava succedendo.
In definitiva, Phoebe, Callie e
Gary imparano lezioni importanti su cosa significhi essere una
famiglia – e una squadra di acchiappafantasmi. Phoebe doveva
imparare che poteva contare sulla sua famiglia, Callie doveva
imparare a fidarsi di Phoebe e Gary doveva imparare che essere un
genitore non era sempre rose e fiori. Ma finché avevano l’un
l’altro e rimanevano aperti l’uno con l’altro, gli Spengler erano
una solida unità familiare, oltre che ottimi acchiappafantasmi.
Il Robot Selvaggio
(The Wild
Robot) della DreamWork ha un finale profondamente
emozionante che lascia aperta la porta a future avventure con Roz e
la sua famiglia. Il film, basato sull’omonimo libro di Peter Brown,
è incentrato su un robot che si ritrova sperduto su un’isola remota
e disabitata. Dopo essere stata incaricata di proteggere un
cucciolo di papero, la macchina sviluppa un legame più profondo con
il suo figlio adottivo (e con gli altri diffidenti animali
dell’isola). L’impressionante cast vocale di Il Robot
Selvaggio e l’animazione lussuosa sostengono una
storia centrale davvero forte che accenna a un mondo affascinante e
sorprendentemente oscuro.
Il climax di Il
Robot Selvaggio lascia alcune domande
volutamente senza risposta, mantenendo il focus della narrazione
sui personaggi incontrati da Roz e dalla sua famiglia improvvisata.
Il film ha un grande potenziale emotivo da esplorare, soprattutto
se si considerano le rivelazioni finali del climax. Questi piccoli
tocchi sono quasi più allettanti, un accenno allo stato del mondo
(e al posto che Roz intende occuparvi) che potrebbe essere
facilmente esplorato ulteriormente.
L’ampiamente recensitoIl Robot Selvaggio ha abbastanza fili in
sospeso da giustificare un ritorno all’isola in un eventuale
seguito.
Perché Roz non rimane
sull’isola nel finale de Il robot selvaggio
Roz lascia l’isola nel finale di
Il Robot Selvaggio per fermare altri
attacchi della Universal Dynamics, salvando nel frattempo la sua
famiglia adottiva. Il film racconta l’evoluzione di Roz da
aiutante insensibile, ma impegnata, a madre genuinamente protettiva
e accudente. Il suo impegno nei confronti di Brightbill e le sue
difficoltà nel fargli da genitore si sviluppano nell’arco emotivo
centrale del film, ritardando ripetutamente il suo ritorno per la
riparazione anche quando le si presenta l’opportunità di farlo.
Alla fine del film, Roz riconosce l’isola come la sua
casa, ma teme i danni che l’umanità e le macchine possono
arrecarle.
L’abbandono dell’isola da
parte di Roz è il culmine della crescita del personaggio e del suo
impatto su coloro che la circondano. Le emozioni che ha
sviluppato crescendo Brightbill si traducono in un impegno a
salvare l’ampio cast di animali dell’isola. La scelta di lasciare
il suo posto sull’isola viene trattata da Roz come un sacrificio,
ma che diversi personaggi lasciano intendere essere solo
temporaneo. Lasciare l’isola e tornare alla Universal Dynamics
potrebbe essere necessario ora, ma il finale del film implica che
Roz un giorno fuggirà e tornerà.
Cosa succede agli animali
dell’isola dopo Roz
Inizialmente, gli animali
dell’isola in Il robot selvaggio si confrontano e spesso
sono aggressivi l’uno con l’altro. La morte è trattata come un
aspetto ottuso del mondo, con Coda di rosa che addirittura ignora
rapidamente la morte apparente di uno dei suoi figli all’inizio del
film. Tuttavia, il fatto che Roz li riunisca per sopravvivere
insieme all’inverno crea una tregua tra tutti loro che non viene
infranta alla fine del film. Gli animali combattono al fianco di
Roz e la abbracciano, rendendo ancora più significativa la
sua scelta di proteggerli.
Questo suggerisce che la pace
continuerà nel futuro previsto. Sia Brightbill che Fink
finiscono il film molto meglio grazie a Roz. Nonostante il
loro breve litigio, Brightbill impara ad accettare Roz come sua
madre. Inoltre, abbraccia un ruolo di leadership con il gregge,
spronato dal Longneck di Bill Nighy (che muore tragicamente per
proteggere il suo inaspettato allievo). Nel frattempo, Fink supera
il suo disprezzo per gli altri cittadini della foresta e
contribuisce a consolidare il legame tra loro. L’influenza di Roz
sull’isola garantisce un’ambientazione più unitaria che potrebbe
continuare a prosperare in un eventuale seguito.
Cosa è successo alla Terra ne
Il Robot Selvaggio?
Uno degli elementi più efficaci e
inquietanti de Il robot selvaggio è il modo in cui il film
affronta lo stato del mondo in generale. Il film non lo commenta
mai direttamente, ma è fortemente implicito che il futuro de Il
robot selvaggio è un futuro in cui elementi come il
cambiamento climatico hanno seriamente colpito la Terra. Le
futuristiche città rimanenti che si vedono nelle pubblicità
dell’azienda di Roz, la Universal Dynamics, ricordano le
ottimistiche ed eleganti città fantascientifiche de I
Jetsons. Tuttavia, il mondo in generale è mostrato
come vuoto e in gran parte privo di vita umana.
Luoghi costieri come San Francisco
sono apparentemente sommersi dal mare, come si vede quando lo
stormo di Brightbill sorvola il Golden Gate Bridge, in gran parte
sommerso. Altre strutture create dall’uomo, come satelliti e città,
sembrano abbandonate, suggerendo che l’umanità è stata in gran
parte spostata da qualsiasi evento abbia cambiato il mondo.
Anche il clima sembra più estremo, con Flip che
dice a Roz che la tempesta vista nel film è la peggiore che abbiano
mai incontrato. Il film dipinge un’immagine cupa e resistente della
Terra, anche se il tipo di mondo a cui la gente penserebbe in
un’ambientazione attuale sembra essere ormai lontano.
Come il finale de Il Robot
Selvaggio si confronta con il libro
Il finale di The Wild
Robot è funzionalmente simile a quello del libro da cui è
tratto, con Roz che sceglie di tornare sull’isola per aiutare a
proteggere la sua nuova famiglia e i suoi amici. Il film termina
con una nota in qualche modo aperta quando Roz viene riportata
nella società che l’ha costruita, il che implica che conserva i
suoi ricordi e le sue emozioni. Questo si riflette anche nei libri,
che vedono Roz accettare il suo ritorno alla civiltà, ma con un
piano di fuga verso la natura selvaggia. Il finale riflette in modo
specifico anche il seguito del romanzo di Jim Brown.
La fuga del robot
selvaggiovede Roz riassegnata ai lavori
agricoli, in modo simile al suo destino finale nel film.
Il secondo libro si concentra su Roz, combattuta tra la sua nuova
posizione e il potenziale ritorno a casa, e sull’incontro con il
suo creatore, il dottor Molovo. Il robot selvaggio
protegge offre a Roz un’enorme missione da intraprendere
quando un misterioso elemento avvelena l’ambiente intorno
all’isola, costringendola ad avventurarsi nelle profondità del nord
per scoprire la verità. Un adattamento di uno o di entrambi
potrebbe facilmente costituire un futuro sequel de Il robot
selvaggio sul grande schermo.
Come il finale de Il Robot
Selvaggio prepara un sequel
Il fatto che esistano già dei
sequel del materiale di partenza spiega perché gran parte de Il
robot selvaggio sia lasciato in sospeso e potenzialmente in
grado di creare un seguito. L’importanza di Roz nel grande
schema delle cose la rende una protagonista affascinante,
poiché i suoi tentativi di rimanere da sola a vivere sull’isola
saranno sempre minacciati dalla Universal Dynamics che vuole la sua
memoria. I chiari piani di Roz di tornare sull’isola potrebbero
essere visti come un’anticipazione dei suoi piani di fuga, che
erano la trama del seguito del materiale di partenza.
Oltre alla possibilità che il
finale di The Wild Robot lasci aperta la porta a una trama
specifica, ci sono molti altri elementi che un sequel potrebbe
esplorare ulteriormente. Lo stato del mondo viene approfondito nei
libri successivi e potrebbe dare a un eventuale sequel una maggiore
attenzione all’ecologia. Le tensioni tra gli animali possono essere
state sopite per ora, ma potrebbero essere facilmente riaccese dal
tipo di conflitti che appaiono nei libri. C’è anche da esplorare la
crescita continua di Brightbill e lo sviluppo più profondo di Fink.
Un eventuale sequel di Il Robot
Selvaggiodella DreamWorkavrebbe molto materiale da esplorare.
Il vero significato de Il robot
selvaggio
(from left) Roz (Lupita Nyong’o) and Brightbill (Kit Connor) in
DreamWorks Animation’s The Wild Robot, directed by Chris
Sanders.
Il Robot
Selvaggioè un film potente sulla natura e
sulla maternità, che esplora come anche una macchina
apparentemente insensibile possa diventare più grande con l’amore.
Lo sviluppo di Roz da utile a protettiva è un’evoluzione naturale e
stimolante, che sottolinea la differenza tra le due cose. I temi
ecologici del film alludono a un’umanità che ha dato priorità al
proprio comfort e alla propria sicurezza, rinunciando al mondo in
generale. La vita naturale che gestisce abilmente robot altrimenti
molto minacciosi suggerisce che le creazioni dell’umanità non sono
così robuste o temibili come sembrano.
In particolare, tutta la vita
naturale può essere unita, al di là delle paure e degli istinti
animali, da concetti come amore e comunità. La storia
principalede Il robot selvaggioriguarda Roz che impara a essere una madre per
Brightbill e il suo figlio adottivo lo riconosce, ma
riguarda anche l’importanza di superare la nostra programmazione se
questo significa aiutarsi a vicenda per sopravvivere. I temi di
Il Robot Selvaggio lo rendono
particolarmente toccante in un mondo diviso e apparentemente sempre
sull’orlo del disastro, e conferiscono al bellissimo film
d’animazione significati più profondi.
Il New York Comic Con è attualmente
in pieno svolgimento e oggi è stato rivelato un nuovo look di
Your Friendly Neighborhood Spider-Man. Come
potete vedere, l’immagine mette in risalto il costume fatto in casa
dell’adolescente.
Probabilmente, però, non lo
indosserà a lungo, perché sappiamo che il wall-crawler sarà
equipaggiato con ogni sorta di costume accattivante per gentile
concessione di Norman Osborn e della Oscorp.
I Marvel Studios non sono presenti al NYCC al di
là di alcuni espositori sul palco, quindi non ci aspettiamo che nei
prossimi giorni venga rivelato un trailer o una data di prima
visione per Your Friendly Neighborhood
Spider-Man .
In Your Friendly
Neighborhood Spider-Man della Marvel Animation, Peter Parker sta
per diventare un eroe, con un viaggio diverso da quello che abbiamo
visto prima e uno stile che celebra le prime radici fumettistiche
del personaggio.
Date un’occhiata più da vicino allo
Spider-Man animato qui sotto.
A full new look at the promotional display
for YOUR FRIENDLY NEIGHBORHOOD SPIDER-MAN showcased at
#NYCC! pic.twitter.com/2moUBcVQfq
Cosa sappiamo su Your Friendly
Neighborhood Spider-Man?
Jeff Trammell (Craig of the
Creek) è lo sceneggiatore capo di Your Friendly
Neighborhood Spider-Man e ha recentemente condiviso nuove
informazioni su ciò che i fan possono aspettarsi dal ritorno del
web-slinger nell’animazione.
“Vorrei rispondere con un
cliché, ‘Aspettatevi l’inaspettato’, ma, onestamente, penso che
possiate aspettarvi Your Friendly Neighborhood
Spider-Man”, ha detto. “Si aggira per New York;
non è un’enorme avventura intergalattica”.
“È lui alle sue radici e ci
sono molte cose che noi, come fanbase, prendiamo a prima vista e
diciamo: ‘Oh sì, conosco questa parte della storia’.È stato davvero divertente scavare in questa
storia:“Forse non sai tutto”.Ci
sono delle sorprese e non vedo l’ora di scoprirle.È stato molto divertente sovvertire le aspettative che sono
state costruite per così tanto tempo”, ha aggiunto
Tramell.
“Segue lo schema che si
vede in [Captain America:] Civil War”, ha detto in
precedenza Brad Winderbaum, dirigente della Marvel Animation, a proposito della
serie. “Fino a Peter che prende il lettore Blu-ray rotto
dalla spazzatura ed entra nel suo reparto per il famoso momento in
cui Tony Stark lo sta aspettando per offrirgli lo stage di Stark e
portarlo a Berlino”.
“Ma a causa di cose che
accadono nel Multiverso… a causa di nuovi eventi casuali, non è
Tony Stark ad aspettarlo lì.È Norman Osborn e
questo fa prendere alla sua vita una traiettoria inaspettata che lo
fa scontrare con molti personaggi inaspettati dell’universo
Marvel”.
Your Friendly Neighborhood
Spider-Man non ha ancora una data di debutto confermata, ma
dovrebbe arrivare su Disney+ nei prossimi mesi (forse già il
prossimo gennaio).