Sono attualmente in corso le
riprese della quarta stagione di The
Boys e alcune foto rivelatrici dal set di
Toronto sono state condivise online. Di recente abbiamo
dato un’occhiata ufficiale a Susan
Heyward di Orange
Is the New Black e all’attrice Valorie Curry
di The Following nei panni
rispettivamente delle nuove Supes Sister Sage e Firecracker, ed
entrambi i personaggi possono essere visti qui partecipare a una
sorta di manifestazione insieme a Homelander e altri membri dei
Sette.Ciò sembrerebbe confermare che, come la maggior parte degli
altri Supes, questi due non saranno particolarmente eroici.
Spoiler avanti!
È interessante notare che le foto
rivelano anche il ritorno di Black Noir, che è stato ucciso da
Homelander nel finale della terza stagione. Lo showrunner Eric
Kripke ha già confermato che Noir è definitivamente morto, quindi
dobbiamo presumere che si tratti di qualcun altro nella tuta.
I dettagli della trama della quarta
stagione di The
Boys sono un mistero per ora, ma sappiamo che l’ex di
The Walking DeadJeffrey Dean
Morgan si unirà alla mischia in un ruolo
sconosciuto. Abbiamo anche appreso che Cameron Crovertti
(Ryan) è stato nominato regular della serie, il che non sorprende
dopo il sinistro scatto finale della terza stagione.
Durante una recente intervista
con Collider , Kripke ha confermato che Ryan
sarà il punto focale della quarta stagione di The
Boys. “Andando avanti, Ryan è una parte
davvero importante. Sia Butcher che Homelander hanno ottime ragioni
per litigare per Ryan perché la posta in gioco non potrebbe essere
più alta. Se Ryan segue la strada di Homelander e poi ci sono due
Homelander nel mondo, allora è tutto un incubo per il pianeta. Se
Butcher riesce a portare Ryan alla luce, allora questa è
probabilmente l’arma migliore che hanno contro Homelander. È sempre
stato uno show sulla famiglia, e gran parte della terza stagione
riguardava i padri, quindi penso che renda sento che la stagione 4
parla di figli”.
Ryan sembra già aver scelto “la via
di Homelander”, ma ciò non significa che sia al di là del
salvataggio. Butcher ha commesso un grave errore respingendo
il giovane facilmente influenzabile nella falsa convinzione che
sarebbe stato più al sicuro senza una figura paterna così fatalista
nella sua vita, ma questo si è completamente ritorto contro quando
Victoria Neuman ha dato a Homelander la posizione di suo
figlio.
In occasione della Festa del Cinema
di Roma 2022, abbiamo incontrato
Matteo Parisini, documentarista e regista di
Infinito: l’Universo di Luigi Ghirri, un
documentario sulla vita e l’opera del fotografo emiliano. Ecco
cosa ci ha raccontato del suo film.
«Lo spazio tra infinitamente
grande e infinitamente piccolo è riempito da qualcosa di
infinitamente complesso: l’uomo e la sua vita, la natura.
L’esigenza di conoscenza nasce dunque tra questi due estremi (…)
per poter tradurre e interpretare il reale, il pensiero, la
memoria, l’immaginazione. Da qui nasce il mio lavoro» Così
affermava il fotografo, uno dei maggiori e più influenti fotografi
italiani del Novecento.
A trent’anni dalla scomparsa, a lui
è dedicato il documentario Infinito. L’universo di Luigi
Ghirri del regista Matteo Parisini
(Il nostro Paese, La mia virgola) e con la voce di
Stefano Accorsi.
Consacratosi con la Palma
d’Oro al Festival di Cannes nel 2018 con
Un affare di
famiglia, il regista giapponese Hirokazu Kore’eda ha poi deciso nel
2019 di uscire dai confini del suo paese per recarsi in Francia e
girare lì Le
verità, un film da alcuni meno apprezzato
rispetto ai suoi altri, con il quale il regista si era però
misurato in modo interessante con una lingua e un modo di vivere le
emozioni molto differente da quello che gli è proprio. A tre anni
di distanza da quella prima volta fuori dal Giappone, Kore’eda
decide di replicare l’esperienza, spostandosi però in un territorio
a lui più vicino, quello della Corea del Sud. È qui che gira
Le buone stelle – Broker.
Presentato in Concorso al Festival
di Cannes di quest’anno, dove l’attore Song
Kang-ho (lo stesso di Parasite) ha vinto il
premio per la miglior interpretazione, il nuovo film del maestro
giapponese si offre come un’ennesima variazione sul tema della
famiglia, da Kore’eda esplorata con sfumature diverse sin dal suo
folgorante esordio nel 1995 con Maborosi. A tale elemento
tematico, però, si aggiungono alcune novità, specialmente a livello
di impostazione narrativa, che permettono a Le buone stelle –
Broker di risultare un’opera familiare e al contempo
imprevedibile. Kore’eda esce stavolta dalle mura casalinghe dove la
maggior parte dei suoi film si svolgono per rivolgersi invece al
viaggio, sia fisico che esistenziale.
Lo spunto per il suo nuovo film
nasce infatti dalla sempre più diffusa pratica nella Corea del Sud
della Baby Box, ovvero dei luoghi dove i genitori che non possono
(o non vogliono) più tenere con sé i propri figli hanno modo di
lasciare i loro neonati, sapendo che verranno presi in custodia da
chi, idealmente, potrà offrire loro un futuro migliore.
Sang-hyeon e Dong-soo, due
mercanti di bambini, entrano proprio così in possesso di un neonato
abbandonato dalla giovane madre single So-young.
Insieme a lei, parzialmente tornata sui suoi passi, tenteranno di
vendere il bambino a due nuovi genitori, intraprendendo così quel
viaggio che permetterà loro di scoprire il valore della
famiglia.
Viaggio di famiglia con
tempesta
Il regista giapponese, da molti
considerato l’erede di Yasujiro Ozu per il modo in
cui affronta il tema della famiglia, sembra realizzare con questo
suo nuovo film una sorta di sequel spirituale proprio di
Un affare di famiglia. I protagonisti di
quel lungometraggio sono dei ladruncoli che avevano dato vita ad un
nucleo famigliare auto-costituito, non caratterizzato cioè da
legami di sangue quanto piuttosto affettivi. Ognuno di quei
personaggi, a modo suo, commetteva atti che andavano contro la
legge, perseguendo però ragioni del cuore ben più profonde. Anche
in questo caso, i protagonisti di Le buone stelle – Broker
sono persone discutibili, intente a compiere azioni tutt’altro che
lecite ma giustificate da un presunto buon fine.
In un primo momento, dunque, ci si
può comprensibilmente trovare in difficoltà ad entrare in sintonia
con questi personaggi, non essendo chiaro quanto realmente ciò che
fanno sia a fin di bene. Kore’eda non sembra affatto preoccupato da
tale dinamica, ma anzi calca la mano su quanto la situazione che si
viene a generare sia controversa. Ciò porta ad avere una prima ora
del film caratterizzata da un certo distacco e diffidenza, che sono
poi le stesse sensazioni che i personaggi provano reciprocamente
tra di loro. Costretti a stare insieme nel tragitto tra Busan e
Seul, i tre adulti più un bambino e il neonato da vendere vedranno
però accadere ciò che accade sempre durante un viaggio: una
trasformazione esistenziale.
La famiglia che ti scegli
Nel momento in cui i loro cuori
iniziano a schiudersi, ciò accade anche al film, il quale svela il
proprio ai suoi spettatori. Più i personaggi si raccontano, si
smontano di ogni preconcetto e si privano di ogni segreto, più il
ritmo rallenta, concentrandosi quella dimensione intima ed
esistenzialista che Kore’eda è un maestro nel mettere in scena. È
in questa seconda metà del film che fuori escono tutte le
riflessioni sul significato di famiglia, di genitorialità e, in
particolare, sul conflitto tra il voler essere dei genitori e
l’incapacità di esserlo davvero. Un’incapacità che è però anche in
questo caso la conseguenza di un contesto sociale sempre più
individualista, che non protegge i propri membri.
Tale dinamica è in particolare
esplicitata dalla presenza delle due detective intente ad osservare
i movimenti del gruppo per coglierli in flagrante e arrestarli. Si
tratta di due personaggi che incarnano quella legge cieca a
determinate dinamiche e unicamente motivata a punire ogni
infrazione, senza valutare gli elementi di contorno. Quella legge
che, come avvenuto anche in Un affare di famiglia,
riporta il racconto ad una dimensione particolarmente cupa e
soffocante. L’elemento crime è in effetti particolarmente
presente all’interno di Le buone stelle – Broker, con una
serie di indagini portate avanti dalla polizia e che contribuiranno
a far emergere ulteriori scheletri nell’armadio dei
protagonisti.
La sceneggiatura di Kore’eda si
configura dunque come un continuo susseguirsi di elementi e generi
diversi tra loro, che si incastrano a meraviglia grazie alla
delicatezza con cui il tutto è narrato. Un lavoro di scrittura a
dir poco brillante il suo, che traspare anche grazie al controllo
con cui egli regola i toni del film, capace di passare dalla
commedia spensierata al dramma più puro. Con un impostazione di
regia come suo solito invisibile, discreta, che lascia parlare le
immagini, Kore’eda si divincola dal solito rischio di ripetersi per
regalarci un’opera che ancora una volta aggiunge qualcosa di nuovo
alla poetica, ribadendo però la bellezza delle tante sfumature che
una famiglia può possedere.
Dopo l’interessante esordio
registico Non conosci Papicha (2019),
Monia Meddour torna a lavorare con la splendida
Lyna Khoudri in Houria,
presentato in anteprima alla Festa del
Cinema di Roma 2022 e che esplora ancora una volta la
condizione femminile nell’attuale Algeria, come i sogni e le
speranze delle donne che abitano questa terra – incanalate in un
feroce talento, per il fashion design in Papicha,
per la danza in Houria – debbano inevitabilmente
fare i conti con un’oppressione socio-politica fagocitante.
Houria: il rischio di un sogno
precario
Houria(Lyna Khoudri) è una giovane
ballerina che sogna di entrare nel corpo di ballo del Balletto
Algerino. Insieme alle sue compagne di corso e alla mamma
insegnante, sta preparando la coreografia per l’audizione che
dovrebbe aprirle la strada a un futuro poderoso, quanto il mare
verso cui si rivolge sempre dal terrazzo della sua palazzina,
perfezionando i passi di frangenti prelevati dal Lago dei Cigni.
Houria deve interpretareOdettema, mentre balla, ha lo sguardo daOdile: fermezza e chiarezza di intenti sono due
delle qualità principali che la nostra protagonista sarà chiamata a
mettere in primo piano quando un imprevisto, che assume la forma
del trauma, farà capire a Houria che non si balla soltanto con le
ali ai piedi ma, soprattutto, con la fluidità delle mani collegate
direttamente al nostro cuore.
Forse è proprio la parte più oscura
di Houria, la tendenza ad accogliere su di sè
l’intemperanza e la convinzione di Odile, esplicitate da un
cappuccio nero, che la condurrà oltre i limiti della parte di
Algeria che vorrebbe abbandonare, dove i cigni sono capre trattate
miseramente, carne da macello su cui scommettere, che dipendono
dalla volontà di uomini malvagiamente inscalfibili.
Il trauma diventa insegnamento
Ma come Odette parla sempre tramite
le proprie ali, anche quando non ha voce e non può svelare il
terribile incantesimo di cui è rimasta vittima, una volta che le
scarpette da punta non avvolgeranno più i piedi di
Houria, questa dovrà incanalare ogni sfumatura
ritmica – che avvolge la regia e anche il montaggio del film –
nella parte superiore del corpo. Scrivere con le proprie mani,
stabilire un confine il più lontano possibile per chi non vuole
smettere di sognare, anche quando l’occasione più importante della
propria vita ci è appena scivolata tra le dita. Entrando in
contatto con altre mani, altre storie da accogliere con premura, le
donne di Houria cercano di sbloccare un nuovo
livello di accessibilità, in cui l’insegnamento diventa viatico di
accoglienza, la paura innerva la creatività e le onde vengono
tracciate dalle braccia, innalzando canti di gioia e dolore nei
confronti di un oceano che, in un qualche modo, si deve
affrontare.
Le donne di Houria hanno
conosciuto in diversa misura il trauma; nessuna ne è esente ed è
proprio nella difficoltà di adattarsi a un percorso indesiderato
che suggellano un patto di alleanza tersicoreo, facendo proprio un
linguaggio anticonvenzionale, che dal singolo talento si estende al
gruppo. La danza di Houria diventa coreografia di e per
tutte queste donne, le avvolge con la fluidità delle carezze che si
scambiano silenziosamente, forse incerte nei riguardi del domani,
ma sempre in prima linea nel quotidiano, perchè il futuro si
costruisce allenandosi.
Houria è donna
La regia di Mounia
Meddour cavalca le onde di una danza inarrestabile,
assecondando il tempo di recupero della sua protagonista,
combinando il background professionale della
Khoudri – che è stata ballerina – alla sua urgenza
creativa. Da “maestra”, coordinatrice di un quadro tecnico e
narrativo, Mounia Meddour diventa compagna di viaggio, si mescola
alle sue donne per navigare nelle stesse acque, per rivaleggiare
contro chi le vuole abbattere ma non sa che, proprio nella
sopportazione, la danza diventa resilienza.
La regista consegna piccole parti di
se alle donne che accompagnano Houria: è
contemporaneamente madre, insegnante di una professione che diventa
vita; è amica, solidale e intraprendente; è un gruppo di donne,
eterogenee e allo stesso unicuum inossidabile, che parla danzando e
danza vivendo. Houria è un viaggio dagli intenti
chiarissimi, che trasforma il movimento vocale in una
nuova idea di gineceo, in cui si urla a gran voce solo dopo aver
ascoltato con fierezza la canzone del mare.
Poker
Face: una canzone, un meme, uno stile di vita, ora
anche un film diretto e interpretato dal premio Oscar Russell Crowe.
L’attore celebre per film come Il gladiatore, A Beautiful Mind e
Cinderella Man torna infatti dietro la macchina da presa a
otto anni di distanza da The Water Diviner per
dirigere una storia da lui anche scritta, che mescola dramma
esistenziale a thriller psicologico, sfociando, tra le altre cose,
anche nel cosiddetto home invasion. Dinanzi a
tutto ciò, la celebre “poker face“, ovvero la faccia priva
di qualsiasi espressione interpretabile, rischia di essere quella
che assumono gli spettatori al termine della visione.
Il film, presentato nell’ambito di
Alice nella Città, sezione parallela e autonoma
della Festa del Cinema, narra di
Jake Foley, un giocatore d’azzardo miliardario, il
quale offre ai suoi migliori amici d’infanzia la possibilità di
vincere più denaro di quanto abbiano mai sognato. In cambio, però,
dovranno rinunciare a ciò che hanno protetto per tutta la vita: i
loro segreti. Nel corso della serata in cui tutti loro si giocano
quanto hanno di più caro, però, una serie di imprevisti vanno in
scena e i piani di Foley devono prontamente essere riarrangiati,
per il bene di tutti.
Un film dalle tante direzioni
La cosa che colpisce più di tutto di
Poker Face è quanto possa rivelarsi un film disorientante.
Non è certo se l’intenzione di Crowe fosse proprio quella di
trasmettere questa sensazione, che è sostanzialmente quella che
prova anche il suo personaggio, ma i tanti elementi narrativi,
stilistici e tematici introdotti nel corso del lungometraggio
finiscono proprio per far sentire lo spettatore piuttosto confuso
su quanto si sta vedendo. Il problema non è tanto la quantità e la
varietà di questi elementi, quanto il fatto che essi non riescano
mai, se non raramente, ad apparire coesi verso un unico fine.
Il film, come poi rivelato, è stato
ostacolato da una serie di problemi produttivi, tra cui il primo
lockdown che ha portato all’abbandono del regista inizialmente
chiamato a ricoprire tale ruolo. Crowe, dunque, si è trovato a
gestire un film partendo innanzitutto dalla riscrittura della
sceneggiatura, avvenuta come da lui raccontato in pochissimi
giorni. In particolare, l’attore si è concentrato sul trasformare
il film da un racconto d’azione ad uno incentrato sull’eredità che
lasciamo a quanti a noi vicini. Cambiamenti e incidenti di percorso
che certamente hanno influito sul risultato finale di Poker
Face, da Crowe descritto come la sfida più assurda mai
intrapresa.
Il poker, una metafora mancata
Guardando Poker Face viene
dunque naturale chiedersi come sarebbe potuto essere se Crowe
avesse avuto più tempo a disposizione per prendersene cura. Gli
elementi dedicati alla ricerca di un senso della vita da parte del
protagonista hanno un loro particolare fascino, ma finiscono con
l’evocare più di quanto poi riescano a concretizzare. Questo
continuo cambiare direzione, lasciando in sospeso quanto fino a
quel momento mostrato finisce naturalmente con il trasmettere una
certa frustrazione e la cosa non migliora nel momento in cui si
passa alle sequenze più propriamente d’azione.
Si tratta a questo punto di un
cambio di registro troppo drastico, troppo forzato, che si scontra
con quanto proposto fino a quel momento in un modo che non permette
di dar vita a nulla di buono. Il che è un peccato, perché si
affossa così un film già instabile, che nonostante qualche trovata
interessante (ad esempio il perverso gioco che si instaura tra
Foley e i suoi amici) finisce con il non trovare una propria anima.
A poco serve il fatto che Crowe vanti come sempre una presenza
scenica invidiabile e che il suo personaggio possegga elementi
psicologici interessanti.
In un’ultima analisi, non si può non
menzionare il fatto che il poker, forse l’unico elemento ricorrente
dall’inizio alla fine, non venga sfruttato come avrebbe meritato.
Poker Face poteva infatti fare di questo gioco di carte
una metafora della vita, accostamento certamente non nuovo ma
sempre affascinante. In realtà, il poker in sé ha una presenza
estremamente ridotta all’interno del film, cosa che non permette di
conferirgli il valore che avrebbe meritato. Specialmente visto
l’interesse di Crowe di parlare di come si giocano le carte della
propria vita. Mancando anche in questo, Poker Face manca
definitivamente nel trovare una propria voce.
Se Brado di
Kim Rossi Stuart fosse una canzone sarebbe
sicuramente Father & Son di Cat Stevens. Contenuta
nell’album “Tea for the
Tillerman” del 1970, la
canzone parla di un padre e un figlio che si confrontano in un
momento difficile per entrambi, quello del cambiamento. Il film,
che uscirà in sala dal 20 ottobre, è il terzo film da regista per
Kim Rossi Stuart e segna anche un passaggio di
testimone con i precedenti. I protagonisti, infatti, hanno nomi che
ritornano nelle sue pellicole quelli di Renato e Tommaso, questa
volta padre e figlio. Kim Rossi Stuart è Renato, un padre scontroso
che, come i personaggi dei film di Clint Eastwood,
non si lascia andare facilmente alle emozioni e tiene tutto dentro.
E Saul Nanni che interpreta Tommaso, un ragazzo
cresciuto troppo in fretta che, a differenza del padre, farà di
tutto per esternare i suoi sentimenti.
Brado, la
trama
Un figlio che non voleva più avere
niente a che fare con suo padre è costretto ad aiutarlo a mandare
avanti il ranch di famiglia dopo che questi si è fratturato alcune
ossa. I due si ritrovano per addestrare un cavallo recalcitrante e
portarlo a vincere una competizione di cross-country, ma allo
stesso tempo provano a sciogliere quel grumo di rabbia, ostilità,
rancore, che ha impedito loro per tanto tempo di essere vicini. È
un difficile percorso a ostacoli quello che deve compiere il
cavallo, ma anche quello che devono affrontare i due per
ricostruire l’amore e la vicinanza che avevano perduto. In questa
impresa li aiuterà un’addestratrice di cavalli, di cui il giovane
si innamora.
Quella
di Brado è una storia d’amore tormentata che
segue padre e figlio in un rapporto apparentemente ai ferri corti.
Il film è un adattamento del suo romanzo Le guarigioni, tema
centrale nel film. Si parla di guarigione dei rapporti, di cucire
le vecchie ferite e mettere da parte i vecchi rancori. Così nasce
la contrapposizione simbolica tra il cavallo, Travor, e Renato. Due
bestie indomabili che non accettano le costrizioni della società e
che vogliono vivere liberi. Tommaso, il figlio, cercherà di domare
entrambi ma per farlo dovrà lasciarsi andare e mettere via i vecchi
dissapori.
Barbora Bobulova nel film Brado – Foto di Claudio
Iannone
Il rapporto
padre-figlio
Un’infanzia tormentata e difficile
quella che ha vissuto Tommaso in Brado, sobbarcandosi i problemi
del padre. I due avevano tagliato i ponti da parecchi anni e un
incidente di percorso li ha rimessi sullo stesso cammino. Travor,
il cavallo imbizzarrito, farà da veicolo per esternare le paure e
le debolezze laddove entrambi non riescono a trovare le parole
giuste. Ma i due “cowboy” sanno anche dialogare in silenzio e con
gli sguardi. Tommaso guarda Renato quasi con orrore perché è
l’unico che riesca davvero a guardargli dentro. Ma padre e figlio
sono due facce della stessa medaglia, eppure rimangono comunque
così distanti. Renato, il cavallo pazzo, capace di prendere le
decisioni più brutali. Tommaso, il giovane domatore, che cerca di
riuscire a portare a termine la sua impresa.
Ma da conflitto, dal caos che regna
nella loro disfunzionale famiglia, nasce qualcosa di buono. Nasce
un piccolo germoglio nel rapporto tra Travor e Tommaso in grado di
pompare sangue anche al cuore malandato del buon Renato. Cresciuto
nel suo ranch, Brado, Renato diventa arido di sentimenti, che ha
dovuto sopprimere per paura di non essere corrisposto. Dopo la fine
del matrimonio con Barbora Bobulova, che
interpreta ancora una volta il ruolo di moglie di Kim Rossi Stuart nel grande schermo, ha chiuso
il portone di legno del suo ranch, sconfitto. Il declino lento e
inesorabile lo conduce verso una strada a senso unico:
l’autodistruzione. Sarà proprio questa tendenza che darà il via al
film per far riscoprire a padre e figlio gli anni persi e le
occasioni perdute.
Terra e aria
Quando Tommaso ha lasciato il ranch,
Brado, del padre per vivere la sua vita lo ha fatto per cercare sé
stesso, la sua vera identità. Cercando sé stesso ha dovuto, per un
momento, abbandonare le sue radici e la sua terra. Si trasferisce
in città, nella metropoli, dove trova un lavoro nell’edilizia
acrobatica. L’Aria diventa il suo nuovo elemento dove trovare un
nuovo modo di vivere. L’Aria si contrappone alla Terra, al ranch di
Renato. Ancora una volta padre e figlio, terra e aria, si
scontrano. La libertà è il fattore che li accomuna. Renato che vive
nella terra, nel suo letame, nella vita che si è scelto e che non
hai mai rinnegato, libero di poter galoppare contro vento al chiaro
di luna. Tommaso appeso a un filo di una palafitta con il vento,
freddo, che batte sul viso guarda tutti dall’alto della sua
imbracatura. Terra e Aria impareranno a vivere insieme, a domarsi
come due cavalli imbizzarriti.
Nel finale – che riprende il finale
del film Million Dollar Baby – nel sorriso di Renato
c’è tutta la pace interiore, la serenità con cui un padre guarda il
figlio, come se fosse la prima volta. E così, come in
Father & Son, Brado
inquadra uno scambio straziante tra un padre che non capisce il
desiderio di un figlio di allontanarsi e di crearsi una nuova vita,
e il figlio che non può davvero abbandonare le sue radici, la sua
terra.
Sanctuary parla
di potere, di possesso, di controllo, lo fa attraverso il
racconto della relazione tra Rebecca, una dominatrice di
professione, e Hal, suo cliente. Il loro rapporto però potrebbe
essere minato, subire delle modifiche a causa della loro natura,
terribilmente umana, imperfetta e imprevedibile.
A raccontare la storia c’è
Zachary Wigon, al suo secondo lungometraggio, che
abbiamo incontrato in occasione della Festa del Cinema
di Roma 2022, dove ha presentato il suo film. E partiamo dunque
dal titolo:
Sanctuary è “il santuario”, un “luogo in cui ci si
sente al sicuro dalle pressioni esterne – dichiara il regista – E
tutto il film è ambientato in uno spazio interno, circoscritto, per
questo doveva essere un luogo sicuro, anche nel titolo.”
Sanctuary racconta anche di un gioco
di ruolo, che è una pratica molto simile a ciò che fanno gli attori
in scena e al criterio intorno a cui ruota tutta la macchina del
narrare storie al cinema.
“L’idea centrale di
partenza in fase di scrittura era quella di considerare il fatto
che a volte siamo in grado di avere accesso ad una versione di noi
più vera attraverso il gioco rispetto a quanto non accada nella
vita reale. È un concetto che ha sempre trovato molta risonanza in
me – ha spiegato Wigon– Penso a
David Bowie che aveva dichiarato che si sentiva più se stesso
mascherato da Ziggy Stardust rispetto a quando era se stesso nella
vita reale. Queste erano alcune delle considerazioni nella mia
mente mentre lavoravamo alla storia. In merito ai giochi di ruolo e
al rapporto con la recitazione è che non credo sia il mio ruolo
stabilire di cosa parla il film, ma credo che ci siano delle linee
comuni tra il giocare di ruolo e il recitare.”
La genesi del progetto si
deve a una serie di conversazioni che il regista ha avuto con Micah
Bloomberg, lo sceneggiatore. “Ci siamo chiesti sin dall’inizio
chi sarebbero stati Hal e Rebecca, che caratteristiche avrebbero
avuto e come avrebbero reagito a determinate cose. Da questo
confronto è nata la sceneggiatura e la definizione dei personaggi e
solo con lo script tra le mani siamo andati da Christopher Abbott e
Margaret Qualley.”
Sanctuary gioca moltissimo con i toni e con i generi.
Sebbene si ascriva da subito alla categoria del thriller
psicologico-erotico, si rivela presto come un’interessante
commistione di generi, sfociando addirittura nella commedia
romantica.
Questo accade, secondo
Wigon, perché la commedia e il thriller sono due
generi connessi, che si parlano in diversi momenti della storia del
cinema e che lui voleva cucire insieme: “Credo che ci sia un
tessuto comune tra screwball
comedy e thriller psicologico-erotici e credo che la cosa più
interessante per questo film sia stata cavalcare proprio questo
confine. Volevamo fare di Sanctuary una corsa sulle montagne russe,
in modo tale da creare appeal per il pubblico e generare una serie
varia di emozioni.”
Il film si avvale di una messa in
scena molto particolare e distintiva, una sola suite d’albergo, con
più ambienti, con pochissime finestre, sempre tenute chiuse e
pareti dai colori molto saturi. Così racconta le scelte stilistiche
di fotografia e scenografia Wigon:“Quello che
volevo dall’inizio era trovare un posto in cui non ci fossero
troppe finestre. Negli USA è comune per gli alberghi moderni avere
intere pareti di vetrate, ma con tante finestre si perde il senso
di claustrofobia che volevo mantenere per tutta la storia. Quindi
la mancanza di finestre era una caratteristica precisa che
cercavo.
Poi avevo ben presente il fatto
che un film ambientato solo in una stanza d’albergo doveva poter
scivolare tra le parti di questa stanza in maniera organica, perché
mantenere invariata la stessa location avrebbe reso il film noioso.
Ero consapevole quindi che dovevo creare una progressione tra gli
spazi e le stanze in cui i due personaggi agivano. È stata una
scelta deliberata quella di farli spostare costantemente tra le
stanze della suite. Sapevo anche che tutto dovesse essere
intensamente colorato. La suite è lo specchio di una sensibilità
molto intensa, e per rappresentare questo elemento visivamente,
doveva essere tutto molto saturo, e così i colori delle pareti e
della luce sono così intensi.”
Un risultato raggiunto grazie al
contributo decisivo di Ludovica Isidori,
direttrice della fotografia, che è riuscita a far dialogare la luce
del film con le intenzioni artistiche del regista in maniera
splendida, contribuendo a fare di
Sanctuary un piccolo gioiello, che arriverà
prossimamente nelle sale italiane distribuito da I Wonder
Pictures.
Netflix rilascia le prime immaginidella
quinta stagionedi The
Crown, che debutterà il9 novembrein tutti i Paesi in
cui il servizio è attivo con un nuovo cast guidato daImelda Stauntonnel ruolo dellaRegina Elisabetta
II.
24700190.ARW
70207669.ARW
70204251.ARW
70202617.ARW
Con l’inizio del nuovo decennio, la Famiglia Reale si trova davanti
alla più grande sfida mai affrontata mentre il pubblico mette in
dubbio apertamente il suo ruolo nella Gran Bretagna degli anni
‘90.
Questo turbolento decennio per la Famiglia Reale è stato ben
documentato e interpretato da giornalisti, biografi e storici. Come
spiega
Elizabeth Debicki,
nel ruolo della
Principessa Diana,
“Questa è la cosa incredibile di interpretare queste persone in
questo momento, perché nel viaggio di
The Crown,
tra tutte le stagioni, la quinta è il contenuto visivamente più
fedele che abbiamo della Famiglia Reale. Negli anni ‘90 si è
cominciato a filmare tutto, anche con la nascita dei canali di
notizie attivi 24 ore su 24, quindi c’è proprio questa incredibile
quantità di contenuti a cui abbiamo accesso”.
Essendo questo l’ultimo cambio di cast,
Dominic West
(Principe
Carlo)
spiega: “Penso che la gente capisca, essendo il cast cambiato ogni
due stagioni, che questa non è un’imitazione. Questa è l’evocazione
di un personaggio”.
Mentre
Imelda Staunton
(Regina
Elisabetta II)
spera che, come il suo personaggio, abbia fatto il suo dovere nei
confronti del pubblico: “Il bello, e spero di non dimostrare che si
sbagliavano, è che le persone hanno detto: ‘Non vedo l’ora di
vederla interpretare la regina’. Quindi, speriamo solo che funzioni
per loro, perché ormai l’ho fatto. Non posso farci niente
adesso!”.
The
Crown è creata e scritta da
Peter Morgan.
I produttori esecutivi sono
Peter Morgan,
Suzanne Mackie,
Andy Harries,
Stephen Daldry,
Matthew Byam Shaw,
Robert Fox
e
Jessica Hobbs.
Il cast include
Imelda Staunton
(Regina Elisabetta II),
Jonathan Pryce
(Principe Filippo),
Lesley Manville
(Principessa Margaret), Dominic West (Principe
Carlo), Elizabeth Debicki (Principessa
Diana),
Claudia Harrison
(Principessa Anne) e
Olivia Williams
(Camilla Parker Bowles).
Jonny Lee Miller
interpreta John Major,
Salim Daw
interpreta Mohamed Al Fayed e
Khalid Abdalla
interpreta Dodi Fayed.
The Crown 5, la trama
Prossima al 40° anniversario della sua ascesa al trono, la Regina
Elisabetta II (Imelda Staunton) riflette su un regno che ha incluso
nove primi ministri, l’avvento della televisione per le masse e il
tramonto dell’Impero britannico. Ma nuove sfide si delineano
all’orizzonte. Il crollo dell’Unione Sovietica e il trasferimento
della sovranità di Hong Kong segnalano un cambiamento radicale
nell’ordine internazionale e presentano sfide e opportunità alla
Monarchia… ma nuovi problemi emergono non lontano da
casa.
Il Principe Carlo (Dominic West) spinge la madre
ad acconsentire al divorzio con Diana (Elizabeth
Debicki), gettando le basi per una crisi costituzionale
della Monarchia. La vita sempre più separata tra marito e moglie
alimenta numerosi pettegolezzi. Quando lo scrutinio dei media si
intensifica, Diana decide di prendere il controllo della situazione
e infrange le regole familiari pubblicando un libro che minaccia il
sostegno di Carlo da parte dell’opinione pubblica ed espone le
divergenze all’interno del Casato di Windsor.
Le tensioni salgono quando entra in scena
Mohamed Al Fayed
(Salim
Daw)
che, spinto dal desiderio di essere accettato dalla nobiltà,
sfrutta il patrimonio e il potere che si è guadagnato da solo per
ottenere un posto alla tavola reale per lui e per il figlio Dodi
(Khalid
Abdalla).
Nella Milano del 1945, sul finire
della guerra, un losco imprenditore e la sua ragazza formano una
banda di disadattati e furfanti per poter organizzare un elaborato
furto ed impossessarsi di un leggendario tesoro, nascosto da
Mussolini in città.
Noomi Rapace riceverà il Premio Progressive
alla Carriera nel corso della diciassettesima edizione della
Festa del Cinema di Roma. Lo annuncia la
Direttrice Artistica Paola Malanga, in accordo con
Gian Luca Farinelli, Presidente della Fondazione
Cinema per Roma, e Francesca Via, Direttrice
Generale.
La premiazione si terrà oggi,
domenica 16 ottobre alle ore 19.30, presso la Sala Sinopoli
dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone, in occasione
dell’anteprima mondiale della
serie Django, prodotta da Sky e
Cattleya con Atlantique Production e Canal+, diretta da
Francesca Comencini, nella quale Noomi Rapace interpreta il ruolo della potente
e spietata Elizabeth Thurman.
Il riconoscimento sarà consegnato
dalla regista e fumettista iraniana Marjane
Satrapi, presidente della giuria del Concorso Progressive
Cinema.
Ecco il trailer italiano di
My Policeman, diretto da Michael
Grandage, scritto da Ron Nyswaner e
basato sul romanzo di Bethan Roberts. Il film,
prodotto da Greg Berlanti, Sarah Schechter, Robbie Rogers,
Cora Palfrey e Philip Herd vede in veste
di Executive Producer Michael Grandage, Michael Riley
McGrath, Caroline Levy, mentre nel cast ci
sono Harry
Styles,
Emma Corrin, Gina McKee, Linus Roache, David Dawson e
Rupert Everett.
My Policeman, la trama
La bellissima storia di un amore
proibito e del cambiamento delle convenzioni sociali, My
Policeman segue tre ragazzi – il poliziotto Tom (Harry
Styles), l’insegnante Marion (Emma Corrin) e il curatore di un
museo Patrick (David Dawson) – durante un viaggio emozionante nella
Gran Bretagna degli anni ’50. Negli anni ’90, Tom (Linus Roache),
Marion (Gina McKee) e Patrick (Rupert Everett) sono ancora in preda
al desiderio e al rimpianto, ma ora hanno un’ultima possibilità di
riparare i danni del passato. Basato sul romanzo di Bethan Roberts,
il regista Michael Grandage realizza un ritratto visivamente
commovente di tre persone coinvolte nelle mutevoli maree della
storia, della libertà e del perdono.
My Policeman arriverà su Prime Video il 4 novembre.
“Gli organizzatori di questo
evento hanno un’idea ben precisa di come dovrebbe svolgersi la
cosa. Dovremmo starcene qui a guardare spezzoni dei miei film per
poi commentarli. Niente di tutto ciò accadrà”. È un
Russell Crowe euforico quello che si presenta
all’annunciata masterclass a lui dedicata e organizzata da
Alice nella Città, sezione parallela e autonoma
della Festa del Cinema di Roma. L’attore, accolto
da una calorosa ovazione, racconta di essere venuto nella capitale
italiana non solo per presentare il suo nuovo film da regista,
Poker Face, ma anche
per incontrare e parlare con gli studenti di cinema, ed è
letteralmente questo che intende fare nel corso dell’evento.
Microfono alla mano, Crowe scende
dunque dal palco e dà vita ad un incontro che infrange ogni
possibile scaletta e prevedibilità, passeggiando amabilmente tra i
tanti spettatori presenti nell’Auditorium della Conciliazione,
raccontando episodi significativi della propria vita con la sua
solita voce calda, profonda e ben modulata e poi passando
personalmente il microfono ai presenti quando qualcuno di questi
(ma solo se effettivamente studenti di cinema, chiede lui) vuole
porgli una domanda. “Voglio parlare di cinema, parlare di
narrazione, dello stare davanti o dietro la macchina da presa.
– chiarisce Crowe – Non voglio ricevere domande del tipo cosa
ho mangiato a colazione”.
Russell Crowe, dai primi ruoli ai
film da protagonista
“Ho cominciato a recitare che
avevo solo sei anni. – inizia dunque a raccontare l’attore –
Era il 1970. Mia mamma si occupava del catering sui set
cinematografici. Un giorno vado a trovarla sul lavoro e stavano
girando una scena per cui non c’erano bambini a sufficienza. Così
mia madre mi fece recitare e da lì è iniziato un percorso di vita
che porto avanti ancora oggi. Non ho mai frequentato una scuola di
recitazione, tutto quello che so l’ho imparato sul lavoro,
recitando per la televisione e il teatro ma mantenendomi lavorando
come DJ, barman e cameriere”.
“Ero ossessionato dalla
performance. – continua l’attore – Passavo dal palco del
teatro alla console da deejay di un pub all’altro. Dunque, questo
sono io. Questa è la realtà. Non sono venuto fuori da nessuna
fottuta Hollywood o roba del genere. Quando avevo 25 anni, infine,
è arrivato il mio primo ingaggio per un lungometraggio. Diventare
un attore protagonista però non mi ha fermato dal seguire anche la
passione per il teatro e la musica. Le persone tendono a dire che
bisogna concentrarsi su una cosa sola… non ascoltate queste
stronzate. Accettate ciò chi siete davvero. Chi sa di avere una
passione, non deve lasciarla andare.”
Da Il gladiatore a
Noah, i ruoli più iconici di Russell Crowe
Crowe inizia poi a rispondere alle
domande del pubblico, le prime delle quali sono dedicate ai segreti
del mestiere dell’attore. “Il lavoro dell’attore non è
semplice. – racconta Crowe – Personalmente vivo delusioni
su base quotidiana. Ogni volta che recito una scena, poi torno a
casa, ci ripenso e se mi viene in mente un modo migliore in cui
avrei potuto interpretare quella scena, ecco che sono deluso da me
stesso. Accade ogni volta e posso solo conviverci. Ma l’importante
è compiacere il regista, la sua visione, e se ti chiede una cosa tu
devi dargli precisamente quella cosa.”
“Io sono stato fortunato nel
saper dare a Ridley Scott
ciò che egli voleva sul set di Il gladiatore.
Allo stesso tempo non si può essere totalmente senza controllo.
L’attore è il burattinaio di sé stesso, deve sapere come
controllarsi per raggiungere un determinato obiettivo. Ad esempio,
proprio sul set di Il gladiatore Scott mi chiese di tirar fuori una
serie di emozioni particolarmente forti nel momento in cui Massimo
Decimo Meridio vede il corpo di sua moglie morta. Per riuscirci ho
dovuto far affidamento a tutto il mio autocontrollo, un’esperienza
estremamente difficile e dolorosa. A ripresa ultimata ero stremato
e Scott estremamente soddisfatto, solo che poi mi ha chiesto di
ripetere il tutto ancora una volta”.
Foto tratta dal profilo Instagram di Alice nella
Città.
“Per quanto riguarda il ruolo
più complesso che abbia mai dovuto affrontare, – continua poi
l’attore – questo è sicuramente quello di John NashinA BeautifulMind. Dovevamo mostrare i numerosi
tic che il personaggio sviluppa al peggiorare della sua malattia e
così sono arrivato al punto in cui mentre recitavo dovevo
ricordarmi di mostrare tutti e 16 i suoi tic. Da un punto di vista
fisico, invece, certamente Noah è stato un
film molto complesso. Abbiamo girato per 70 giorni e la metà di
questi eravamo sotto la pioggia artificiale, con un freddo estremo
e in più dovevi recitare le tue battute”.
“Prima parlavamo di delusioni,
– conclude poi Crowe – Les
Miserablesè ad esempio un film di cui sono
deluso. Chiariamoci, l’esperienza è stata straordinaria, recitare
in quel cast magnifico e potersi mettere alla prova con il canto.
Il film in sé mi piace molto, ciò che non mi piace è il modo in cui
è stato trattato il mio personaggio. Al montaggio hanno tagliato
molte cose ed è venuto fuori qualcosa che non riconoscevo più come
mio. All’anteprima di New York ho lasciato la sala per questo
motivo, ero troppo deluso”.
Russell Crowe: un attore devoto ai dialoghi
In conclusione dell’incontro, a
Crowe viene chiesto cos’è che lo motiva nello scegliere un ruolo
piuttosto che un altro e l’attore non ha dubbi: i dialoghi. “Io
amo i dialoghi. Mi innamoro delle battute che devo recitare. Non
importa se questo comporta doversi alzare alle quattro del mattino
a patto che io poi possa avere la possibilità di dire le battute di
cui mi sono innamorato. Ciò non vuol dire che il mio personaggio
debba essere necessariamente il protagonista. Posso avere anche
solo due battute in tutto il film, ma quelle battute devono essere
oro.Naturalmente mi interessa anche che la storia sia
buona, ma fondamentalmente sono uno che per un buon dialogo si
venderebbe”.
L’apertura delle porte
di Palazzo Ducale con l’inaugurazione
delle prime mostre –sabato 15 ottobre
alle 17.00 – dà il via al primo atto
di HOPE, l’edizione 2022 di Lucca Comics & Games.
Percorsi artistici totalmente inediti
accoglieranno fino al 1° novembre i
visitatori di ogni età, accompagnandoli alla scoperta di mondi che
toccano tutte le corde dell’immaginario, unite dal filo conduttore
del tema ispiratore di questa edizione, la Speranza.
Quella Speranza che uno dei maestri
assoluti dell’imaginative realism, dell’illustrazione
fantastica – l’artista canadese Ted
Nasmith – ha trasformato in Hope, la Dama
dell’Aurora, simbolo di questa edizione del festival. E
proprio nella loggia dell’Ammannati si svilupperà l’esposizione a
lui dedicata, un percorso che celebra il suo dialogo tra luoghi e
storie del grande fantastico, arricchite dalle potenti influenze
dai paesaggi del luminismo americano e della pittura vittoriana del
diciannovesimo secolo. Ma Hope è anche l’ideale antitesi ai
pregiudizi e ai tabù, che Mirka
Andolfo esprime sin dai suoi primi webcomic per
arrivare poi alla sua affermazione come autrice
con Contronatura, Mercy e Sweet Paprika; così come
la capacità di Chris Riddell, il cui occhio
critico sull’attualità si unisce alla capacità di raccontare
storie alle nuove generazioni. E ancora uno spazio dedicato alle
intuizioni grafiche e narrative della prosa a fumetti con
cui Giacomo Nanni porta avanti la sua
personale, e a volte eccentrica, indagine sulla realtà. Non manca
un prezioso contributo dal Giappone con Atsushi
Ohkubo, in un percorso curato da Alessandro Apreda aka
DocManhattan sul sensei di Soul Eater e Fire Force. Quest’anno
la principale sede espositiva del festival presenta anche
un’assoluta novità: uno dei percorsi sarà infatti dedicato non al
fumetto o al mondo dell’illustrazione per bambini e ragazzi ma alle
opere di un autore di giochi. E il game-designer di cui raccontare
il mondo, la vita, le opere non poteva che essere Alex
Randolph, nell’anno del centesimo anniversario della sua
nascita. Infine, nell’ideale commistione tra linguaggi e forme
espressive che caratterizza Lucca Comics & Games, non poteva
mancare una celebrazione dell’opera che quest’anno sarà al centro
dell’inedito spettacolo di Graphic Novel
Theater Celestia, tratto dallo straordinario lavoro
di Manuele Fior.
Il 28
ottobre sarà inoltre inaugurata una serie di
mostre che abbraccia tutte le anime del festival e che porterà i
visitatori ad esplorare nuovi universi visivi: la Chiesa di San
Cristoforo ospiterà POP SALANI – 160 anni di libri,
cultura e fantasia a cura di Giorgio Bacci (ingresso
gratuito fino al 06/11), mentre il Palazzo delle Esposizioni aprirà
le sue porte al mondo di Manga: Love & Other
Stories, a cura di J-POP Manga e Lucca Comics &
Games, e di Castelli & Friends, a cura
di Alex Dante e Lucca Comics & Games (ingresso con biglietto del
festival). La Chiesa dei Servi, aperta al pubblico, custodirà le
tavole di Corrado Roi: Diabolik, chi
sei? a cura di Mauro Bruni e de Lo Scarabeo; mentre
la Chiesa di San Franceschetto sarà l’ideale location
di Atari 50 – Storia dell’azienda che ha inventato i
videogame a cura di Fabio Viola (ingresso gratuito).
Il sotterraneo del Baluardo San Pietro – anch’esso a ingresso
libero – ci farà esplorare il futuro con il Multiverse
of Metaverses, a cura di Daniele Luchi. Il Padiglione
Carducci, accessibile con il biglietto del festival, accoglierà
invece John Blanche – Within the Woods a
cura di Tiziano Antognozzi, e Wild Boys of Eternia: 40
Litghyears Ago, from Eternia to Lucca Comics &
Games a cura di Dimitri Galli Rohl. Nella Casa del
Boia ci immergeremo invece nel mondo di Mario +
Rabbids: Sparks of Hope acura di Ubisoft Milan
(ingresso con biglietto del festival). In una delle aree più amate
dal pubblico di Lucca Comics & Games, la Self Area in Biblioteca
Agorà (a ingresso libero), omaggeremo l’amico Andrea Paggiaro e le
sue opere con Anni di Tuono – Dalle autoproduzioni ai
“Giorni di Tuono”, a cura della Fondazione Tuono
Pettinato. Il Real Collegio, tornato Family Palace, “casa” per
eccellenza dei visitatori più giovani, darà spazio alle opere
del Premio di Illustrazione Editoriale Livio Sossi –
Mostra Concorso Lucca Junior 2022, a cura di
Sarah Genovese, a Fumetti dal mondo! – Comics &
Graphic Novel per ragazzi premiati al Bolognaragazzi Comics
Award, a cura di Bologna Children’s Book Fair, e
ad Annual AI 2022 – La mostra dei premiati,
a cura di AI – Associazione Autori di
Immagini. Ulteriori info sono disponibili nel sito del
festival.
Le mostre di Palazzo Ducale
(15 ottobre – 1° novembre)
Ted Nasmith – La Natura del Mito(a cura di
Chiara Codecà)
Autore del poster di Lucca Comics & Games 2022, fra i massimi
esponenti dell’arte fantasy, il canadese Ted Nasmith è protagonista
di una grande mostra il cui piatto forte sono le ormai classiche
illustrazioni dedicate all’universo tolkieniano, affrontato con una
peculiare sensibilità paesaggistica. Inoltre, illustrazioni
realizzate per la saga di George R. R. Martin Cronache del
ghiaccio e del fuoco e altre innumerevoli meraviglie.
Chris Riddell – Schizzi,
scarabocchi e meraviglie(a cura di Roberto
Irace)
Autore per ragazzi, vignettista politico, illustratore e
straordinario creatore di mondi, sarà ospite a Lucca Comics & Games
2022 in collaborazione con l’Editrice Il Castoro e sarà allestita
una mostra a Palazzo Ducale che ne celebrerà la prolifica
carriera.
Mirka Andolfo – Eroine
di carta(a cura di Mauro Bruni)
Mirka Andolfo è la nuova star del fumetto italiano. Disegnatrice e
autrice, si è imposta in modo folgorante a partire
da Sacro/Profano (2013), caratterizzato da un
erotismo gioioso, sorretto da un tratto morbido e sensuale. È il
segno distintivo del suo stile, che dopo svariate collaborazioni
italiane e internazionali, la riporta alla ribalta col grande
successo di Sweet Paprika.
Atsushi Ohkubo – Anima
di fuoco(a cura di Alessandro Apreda)
Realizzata con la collaborazione di Panini, la mostra illustrerà,
attraverso una ricca selezione di tavole originali delle sue opere
più celebri, l’incredibile lavoro di world building che ha reso
celebre questo mangaka. Dalla caccia alle anime della Death City
di Soul Eater e del suo spin-off Soul
Eater Not!, ai pompieri pirocinetici di Fire
Force.
Alex Randolph, regista
di giochi(a cura di Andrea Angiolino e Tiziano
Antognozzi)
Una celebrazione in grande stile per ricordare il centenario della
nascita di Alex Randolph, con pezzi per la prima volta messi in
mostra in Italia ed illustrazioni inedite in anteprima assoluta in
collaborazione con il Deutsches Spielearchiv Nürnberg, Studio
Tapiro e Studio Giochi.
Giacomo Nanni, un altro
sguardo sul mondo(a cura di Giovanni
Russo)
Giacomo Nanni è uno dei fumettisti italiani più raffinati e
profondi. Con Atto di Dio (2018), premiato anche
ad Angoulême, ha prodotto uno dei migliori libri italiani degli
ultimi anni, una riflessione, laica e religiosa insieme,
sull’universo come portatore di un mistero radicale e sul ruolo
dell’uomo al suo interno. Col successivo Tutto è vero
(2021) approfondisce il suo sguardo esterno su un’umanità confusa e
sbandata, alle prese con le moderne paure del terrorismo e dello
scontro fra civiltà.
Graphic Novel Theater:
fumetti in carne e ossa(a cura di Lucca Comics &
Games)
La mostra racconta la breve ma già significativa storia del Graphic
Novel Theater, concludendosi con un’anteprima del nuovo spettacolo,
dedicato a Celestia di Manuele Fior.
Trai titoli più
interessanti della Festa del
Cinema di Roma, fa capolino Sanctuary,
opera seconda di Zachary Wigon. Sono
scrigni silenziosi le pareti degli hotel. Con il loro intonaco più
o meno colorato, si ergono attorno a noi assorbendo ogni respiro,
percependo ogni emozione, facendosi custodi di segreti
inconfessabili, o momenti passeggeri. Tra le mura degli hotel dei
corpi si incontrano, altri si lasciano; le bocche si baciano, o i
cuori si spezzano.
Le mura della stanza di
hotel che accoglie
Rebecca e Hal in Sanctuary sono molto più
che sguardi discreti che osservano il gioco al massacro compiuto
dai due: sono sipari teatrali di un kammerspiel soffocante,
quinte imprigionanti di un palcoscenico dove nulla è come sembra, e
tutto appare per quel che non è. Entro i loro confini diventa quasi
impossibile stabilire il ruolo affidato e svolto dai due
protagonisti, entrambi schiavi di un continuo gioco all’inganno in
cui nessuno ne esce vincitore, ma solo prigioniero. Prigioniero
delle proprie maschere; prigioniero della propria
performance perpetuamente mutabile e in evoluzione.
Prigioniero dell’altro e di se stesso.
Sanctuary, la
trama
Interno: suite di un
albergo di lusso. Qui si incontrano un uomo sulla trentina e una
giovane avvocatessa chiamata per delle verifiche burocratiche. Lui
si chiama Hal Porterfield, erede di una catena di alberghi e
prossimo amministratore delegato di un impero milionario a seguito
della orte del padre. Lei è Rebecca, giovane aggressiva e
misteriosa, che nella vita non svolge il ruolo di avvocatessa,
bensì di dominatrice assunta dallo stesso Hal per testare la
propria tenuta psicologica sul lavoro. In un continuo gioco di
realtà e finzione, sarà difficile per entrambi – soprattutto per
Rebecca – scindere se stessi dal proprio personaggio, cambiando
continuamente i rapporti di forza fra cliente e padrone, dominatore
e dominato. Chi la spunterà?
Non c’è nulla di lineare
in Sanctuary. Nel film di Zachary
Wigon, il rapporto di dominio si stacca della propria
tangibilità fisica per elevarsi a una lotta psicologica dove ogni
pensiero viene ribaltato, ogni parola messa in discussione, per
creare nuovi pensieri, nuove realtà mentali in cui muoversi e
recitare nuove parti. Ne consegue un labirinto senza fine, dai
percorsi intrecciati e complicati, lungo i quali lo spettatore si
ritrova a vagare senza meta. Sottratto di ogni direzioni con cui
orientarsi, le uniche ancore a cui può affidarsi sono corpi di due
giovani che si attraggono e respingono, abbracciano e attaccano. Un
movimento continuo che destabilizza la visione, scaturendo un senso
di nausea per un’incapacità di comprensione di un rapporto
difficile da cogliere nel contesto logico e sentimentale. Rebecca e
Hal sono colti nei loto tentativi reciproci di dominio fisico e
psicologico, mentre tutto attorno crolla, perde le proprie base
razionali, lasciando in bocca un retrogusto di visione
perturbante.
Micce esplosive
È un santuario che di
sacro ha ben poco quello eretto da Wigon: a muoversi silente tra
gli inframezzi dei propri raccordi è adesso un effetto straniante
pronto a riflettersi e influenzare ogni singolo elemento in campo.
E se a dominare questo inafferrabile costrutto visivo è
un’irrequietezza sia del corpo, che della mente, a orchestrare
questa montagna russa perpetuamente in azione, non poteva essere
che una regia ancora più disorientante e mutabile. Da primi piani
affidati a grandangoli che distorcono i volti, tramutandoli in
maschere dell’angoscia, a carrellate improvvise, passando per
panoramiche a 360°, la macchina da presa di Wigon enfatizza ogni
senso di perdita razionale, traducendo visivamente due anime
fragili, incapaci di comprendere il proprio volere affidando alle
fragilità dell’altro un senso di rivalsa e fisico predominio.
Sarà nel momento dei
dialoghi, in quella creazione di nuovi contesti in cui inserirsi
con maschere nuove e sempre uguali, che la macchina da presa si
cristallizza mettendosi in pausa: immobile, lascia che il processo
di creazione e reciproco influenzamento mentale faccia il proprio
corso, ferma nell’attesa spasmodica di una miccia pronta di nuovo a
esplodere, dando vita a un ulteriore gioco al massacro psicologico,
tra recriminazioni, ricatti e bugie.
Un gioco al
massacro
“Dimmi che per te è
importante. Che non puoi viverne senza”. È un ritornello
ridondante, una cantilena ripetuta da entrambi i protagonisti di
Sanctuary, questa, una nenia recitata più per
autoconvincersi che qualcosa per cui vale la pena vivere esista per
davvero, che per pura asserzione. Nel microcosmo alberghiero di Hal
e Rebecca nulla pare valere davvero. Che siano 6 milioni di
dollari, un orologio prezioso, o una videocamera da scovare, la
posta in gioco per questi due personaggi cambia perpetuamente al
mutare del ricatto, sintomo che la vera mancanza per loro è da
ritrovarsi più profondamente nei meandri di anime incomprese e
incapaci di amare, che nella materialità di oggetti da distruggere.
E così, nell’arco di un solo spazio, quelli che si attaccano,
stuzzicano e uniscono, sono i corpi di mille maschere e diverse
personalità.
Una galleria psicotica
racchiusa nella cornice di due fisicità opposte, tra chi vuole
dominare e chi si lascia manipolare. Rebecca e Hal sono lo Yin e lo
Yang di una lotta continua, due pianeti che collidono senza
congiungersi mai. Ciò che rimane da questo conflitto di maschere
che cadono e altre che ritornano, è la perdita dell’umanità a
favore di un istinto animalesco misto a tossica interdipendenza.
Così come non possono fare a meno l’uno del potere fisico (ma anche
economico) dell’altra, Rebecca e Hal ricercano le fragilità altrui,
le sfruttano, per intelaiare una rete succuba di interdipendenza in
cui, tra stanze distrutte, e giochi mentali, tutto viene sconvolto
in una vertigine visiva lasciata scorrere lungo associazioni
mentali, e fotografie rosso fuoco, o blu glaciale.
Una, nessuna, centomila
maschere
In un mondo che tutto
cambia all’esternazione di parole che creano con fare divino, non
poteva esserci interprete migliore di Margaret Qualley per dar vita all’ipnotica, e
imprevedibile, Rebecca. Il volto dell’attrice è pura argilla da
modellare sulla forza di mille espressioni. È una mimica
volutamente caricata, la sua, che risponde in maniera coerente a un
universo cangiante e mai afferrabile come quello di
Sanctuary. Che sia l’imitazione del padre di Hal,
o la declamazione del giuramento alla bandiera americano, la sua
Rebecca è uno, nessuno e centomila sfumature di donna. La
modulazione della voce è, infatti, un ponte privilegiato attraverso
cui lasciar trasparire mille e altre personalità, facendo della
Qualley un’intensa presta-corpo di identità sfuggevoli e pensieri
complessi. Quello messo in campo dalla donna è un rifiuto netto di
mostrarsi statica e fissa nei confini di un determinato carattere;
una volontà che si ripercuote anche nel proprio corpo flessibile e
dinamico, perennemente in movimento come la sua mente in
elucubrazione.
Rebecca è, insomma, uno
tsunami inatteso pronto a ingoiare la terra ferma di un Hal
imprigionato in un’insicurezza che lo rende perfetta vittima del
gioco al dominio della donna, e preda manipolabile bloccata
sull’agire. È solo nel momento di vero terrore, preso dall’angoscia
di mostrarsi nelle forme delle proprie fobie e trasgressioni, che
Hal si tramuta in un fuoco che tutto arde e distrugge: ma le sue
fiamme sono facilmente domate dalle onde di
Rebecca, e così quell’incendio personale si
spegnerà ben presto all’ombra dell’ennesimo ricatto. Quella che
vive tra Hal e Rebecca è pertanto una costruzione psicologica dai
tratti dicotomici non solo ben delineata dallo sceneggiatore Micah
Bloomberg, ma soprattutto restituita in maniera impeccabile dai due
attori che si fanno riflesso speculare di un’altra,
indimenticabile, coppia del genere thriller come Laurence Olivier e
Joan Fontaine nel capolavoro di Alfred Hitchcock,
Rebecca.
Tanto nell’opera
hitchcockiana, che in quella delineata da Bloomberg in
Sanctuary, il potere va a braccetto con
l’ingenuità e la manipolazione, in una danza eterna che tutto
prende e decostruisce, fino all’esasperazione, fino alla nausea,
fino al dominio della mente e il soggiogamento del
corpo.
Dopo Victoria e Abdul, il celebre regista
inglese Stephen Frears torna a dirigere con The Lost
King, storia ispirata alla realtà, rocambolesca e appassionata,
tra commedia e dramma, di una comune signora borghese, Philippa
Langley, e di come sia riuscita a ingaggiare un gruppo di
archeologi e a finanziare gli scavi per cercare la tomba di re
Riccardo III. Il film fa parte della sezione Grand Public della
diciassettesima Festa del Cinema di Roma.
The Lost King, la
trama
Philippa Langley,
Sally
Hawkins, è un’impiegata di mezza età, divorziata dal
marito, Steve
Coogan, e con due figli. Dopo aver assistito a teatro
al Riccardo III shakespeariano, comincia a vedere il re
seduto su una panchina sotto casa sua. È spinta quindi da questa
presenza ad indagare meglio la figura del sovrano tra i più
discussi della storia inglese, da sempre dipinto come deforme,
malvagio e sanguinario, usurpatore del trono britannico. Leggendo e
confrontandosi con i membri della Richard III Society, di cui entra
a far parte, Philippa si convince che Riccardo III non fosse
affatto un sanguinario, e forse neppure gobbo, come lo descrivono
le cronache, e parte alla ricerca della sua tomba.
Il suo corpo, infatti,
non è stato ancora ritrovato. Con incrollabile determinazione
contatta gli enti locali e l’Università di Leicester, dove pensa si
trovi il corpo, affinché finanzino lo scavo. Philippa ha infatti
individuato un parcheggio dove, all’epoca del re, sorgeva la chiesa
di Greyfriars, poi demolita, accreditata da alcuni studiosi come
probabile luogo di sepoltura di Riccardo III. Vista la diffidenza
degli ambienti accademici, che la considerano una pazza visionaria
senza alcuna cognizione scientifica, indice una sottoscrizione
pubblica, grazie alla quale partono i lavori. Il loro esito le darà
ragione?
The Lost King, una
storia vera
Philippa Langley,
la cui vicenda ha ispirato il film, è la fondatrice della sede
scozzese della Richard III Society. Scrittrice e produttrice
con una passione per “le storie che mettono alla prova la nostra
concezione delle verità stabilite” – per usare le parole con le
quali ella si descrive – ha raccontato la storia della ricerca di
Riccardo III in diversi libri. Nel 2015 è stata nominata Membro
dell’Impero Britannico – (MBE) Member of the Most Exellent Order of
the British Empire – dalla Regina Elisabetta II.
Per il suo ritorno dietro
la macchina da presa, Stephen Frears, amato ed eclettico
regista britannico, nato in quella Leicester in cui è ambientato
questo suo nuovo lavoro, sceglie lo stesso team che lo aveva
accompagnato per un altro suo film di successo,
Philomena. Per The Lost King si avvale
infatti della scrittura di Steve Coogan e Jeff Pope.
Sceglie anche qui Steve Coogan come interprete, proprio come era
accaduto allora, e soprattutto racconta ancora di una ricerca sul
filo della storia, protagonista una donna tenace, come lo era la
Philomena interpretata da JudiDench. L’eroina di tutti i giorni di
questa nuova avventura è però esile e minuta. È una sognatrice, ma
caparbia e determinata. Le dà corpo efficacemente Sally
Hawkins.
The Lost King fa
riflettere con ironia ed eleganza
Il nuovo film di
Stephen Frears tocca temi importanti, come la malattia e più
in generale, l’essere differenti, difformi rispetto a una supposta
“normalità”. Elementi che portano spesso, oggi come ai tempi di
Riccardo III, allo stigma e al pregiudizio da parte dell’altro e
della società. È in questo essere differente che la protagonista si
sente affine al re tanto vituperato. È per sé stessa, oltre che per
la memoria storica del personaggio, che desidera riabilitarlo.
Sarebbe per lei una doppia vittoria. Anzi tripla, se si considera
che si tratta di una donna e, come viene sottolineato nel film, le
donne devono lottare assai più degli uomini per farsi valere, in
ambienti spesso eminentemente maschili come quello
universitario.
Non mancano infatti,
neppure stoccate sarcastiche alle istituzioni e agli ambienti
accademici. Ambienti elitari, snob, ormai votati al profitto, più
che alla ricerca, alla formazione e alla divulgazione del sapere.
Frears fa riflettere anche sui meccanismi che fanno la
storia, spesso scritta dai vincitori e crudele coi vinti, fino a
distorcerne, almeno in parte, le caratteristiche. Per il regista la
speranza per il futuro è dunque fuori dai circoli d’élite, dalle
istituzioni e dai consessi d’intellettuali, tra la gente comune,
appassionata e combattiva, come la protagonista; tra le brave
persone, come suo marito; tra i bambini e i ragazzi delle
scuole.
Lo stile di The Lost
King è quello cui il regista britannico ci ha abituato: curato
ed elegante, come le musiche di Alexandre Desplat, che accompagnano la vicenda. Allo
stesso tempo è sornione, divertito ed eccentrico. Il regista
accentua la componente ironica e a volte sarcastica, inserendo
perfino quel velo di surreale che si accorda molto bene allo
spirito britannico. Riesce a integrarlo perfettamente nella
narrazione, nella quale non stona affatto. Rende così il film un
godibile ibrido tra giallo, commedia brillante e dramma, in una
sintesi tra generi, che solo i grandi maestri sanno
operare.
Si è chiusa oggi l’ottava edizione
del MIA | Mercato Internazionale Audiovisivo,
diretto da Gaia Tridente, che si è svolto a
Roma dall’11 al 15 Ottobre 2022 a Palazzo
Barberini e al Cinema Barberini. Nei 5
giorni del MIA, Roma è stata il punto di riferimento per
l’industria audiovisiva, grazie all’ampia partecipazione di
executive europei e internazionali. Presenze in crescita del
+20% rispetto all’edizione 2021 con oltre 2400 accreditati
da 60 paesi del mondo.
Sempre piene le sale del Cinema Barberini dove si sono tenuti
gli oltre 70 panel e gli showcase. Tutto esaurito
sugli stand di Palazzo Barberini con la presenza
delle più importanti società di vendite internazionali italiane ed
europee. In crescita anche i numeri del MIA sui
social con oltre un milione di
visualizzazioni dell’account twitter dalla scorsa edizione
ad oggi, mentre i follower della pagina facebook del MIA
sono cresciuti del 27% e quelli di Linkedin del 23%.
Numerosa anche la stampa accreditata, 160
giornalisti – di cui il 20% appartenenti alla
stampa internazionale – che hanno seguito il MIA in
presenza o da remoto tramite la piattaforma MIA Digital – con oltre
600 articoli usciti ad oggi sulle più importanti
testate internazionali e italiane.
Concepito come un mercato
curatoriale, uno spazio fisico e digitale di ragionamento,
conversazione e strategia, il MIA è oggi il più importante evento
di settore in Italia ed è entrato a pieno titolo nell’agenda
internazionale degli appuntamenti dedicati ai professionisti
dell’audiovisivo. Il MIA 2022 si è confermato uno strumento
attraverso cui tutto il comparto può mostrare le sue eccellenze,
intercettare nuovi partner internazionali e
scoprire nuovi modelli di business, ragionare su
strategie finanziarie legate alla produzione di
contenuti, favorire la circolazione delle
opere, facilitare lo sviluppo di diverse forme di
sfruttamento e stringere fondamentali rapporti di business con gli
operatori provenienti da tutto il mondo. Anche in questa sua ottava
edizione il MIA è stato la piattaforma attraverso
cui le istituzioni nazionali e internazionali hanno avuto
l’occasione per mettere a sistema il lavoro su
finanziamenti pubblici e regionali, sul
soft money, sulla scoperta dei territori, in cui
intessere le relazioni per l’ideazione e il potenziamento delle
azioni a sostegno della produzione e della distribuzione.
“L’ottava edizione del MIA si chiude oggi con risultati
eccellenti. Oltre 2400 accreditati provenienti da 60 paesi del
mondo che in queste cinque giornate di lavoro hanno letteralmente
invaso il Cinema Barberini e Palazzo Barberini. L’affluenza è stata
elevatissima con +20% rispetto alla passata edizione, sold out in
tutte le sale e in tutte le conferenze del MIA al Cinema Barberini,
per non parlare di Palazzo Barberini, cuore delle attività dei b2b
del mercato di co-produzione e delle vendite internazionali. Per la
prima volta al MIA abbiamo avuto una demo room di virtual
production che ha attratto tantissimi professionisti del settore
che hanno potuto vivere un’esperienza virtuale all’interno del
meraviglioso museo che ospita il MIA. Questa rappresenta
un’edizione di svolta, con una partecipazione internazionale
davvero significativa, e Roma si è trasformata in questi 5 giorni
in una fucina di discussione, dibattito e confronto tra i più
importanti executive internazionali provenienti da Europa, Nord
America, Medio Oriente e Africa, Sud America, Asia. Abbiamo
costruito un programma editoriale forte, in grado di rappresentare
l’intero ecosistema e i suoi paradigmi. Il MIA è oggi la
destinazione per l’industria globale, che sta attraversando una
fase di rapida evoluzione e di esplosione della produzione di nuovi
contenuti”, ha dichiarato Gaia Tridente,
direttrice del MIA.
“Questa edizione del MIA conferma la vitalità
dell’industria del Cinema e dell’Audiovisivo italiano e delle sue
articolazioni. Una nuova tappa positiva per il MIA che ogni anno
vede aumentare la presenza di operatori nazionali ed internazionali
e che favorisce l’esportazione dei nostri prodotti e le
coproduzioni. Crescono opportunità di incontri e business con la
consapevolezza di quanto sia importante questa filiera per la
crescita industriale e il lavoro, e per il Soft Power
dell’Italia”, ha dichiaratoFrancesco Rutelli,
Presidente Anica.
“Il MIA, edizione dopo edizione, continua ad affermarsi
come un progetto ambizioso e senza dubbio fondamentale perché
garantisce agli operatori di settore mondiali una vetrina ricca di
prodotti d’eccellenza per potenziali grandi coproduzioni e
importanti accordi di business. L’obiettivo resta quello di
accendere i riflettori sulla filiera audiovisiva che in Italia ha
un valore di circa 1,5 miliardi di euro e coinvolge più di 7mila
imprese e circa 200mila occupati tra diretti e indiretti. La nostra
industria diventa sempre più competitiva nel panorama
internazionale, continua a crescere ed evolversi, come dimostrano
anche i dati emersi nel 4° Rapporto APA sulla produzione
audiovisiva nazionale, presentato proprio in occasione del
Mercato”, ha dichiarato il Presidente APA
Giancarlo Leone.
Nato nel 2015 per volontà di ANICA
(Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive e
Digitali) presieduta da Francesco Rutelli e
APA (Associazione Produttori Audiovisivi)
presieduta da Giancarlo Leone, il MIA gode del
sostegno di Ministero degli Affari Esteri e della
Cooperazione Internazionale, ICE-Agenzia per la
promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese
italiane, Ministero della Cultura,
Ministero dello Sviluppo Economico,
Regione Lazio ed è sostenuto anche grazie al
supporto di sponsor privati: Unicredit è lo
sponsor ufficiale e Fastweb è il partner
tecnologico. Il MIA 2022 gode, quest’anno per la prima volta, del
patrocinio di Eurimages, il fondo del Consiglio
d’Europa.
Sulla piattaforma MIA DIGITAL gli accreditati
al mercato potranno vedere o rivedere panel, talks e contenuti di
questa edizione.
Nel corso della giornata conclusiva sono stati assegnati i
MIA Awards 2022. Questa la lista dei premi e dei
vincitori.
Co-Production and Pitching Forum
Premio Internazionale ARTEKINO – destinato a
sostenere registi e produttori di Film emergenti di tutto il mondo
– a Forastera di Lucia Alenar
Iglesias, prodotto da Lastor Media (Spagna).
I Premi ILBE – due premi a sostegno dello
sviluppo di progetti presentati al MIA Film co-production Market &
Pitching Forum e nella sezione Wanna Taste IT?, dedicata
ai progetti cinematografici italiani in fase di sviluppo – sono
andati a Through the winter di Anita
Rivaroli, prodotto da Indiana Production, e a
Brianza di Simone Catania, prodotto da
Indyca e Rough Cat.
Il Premio Paramount+ – al miglior progetto
presentato al MIA Drama Pitching Forum – è stato vinto da
The Abbess, prodotta da Peter Carlton di Warp
Films.
Il Premio WIFTMI – assegnato da Women in Film,
Television and Media Italia a un progetto italiano selezionato
nell’ambito del Co-Production Market & Pitching Forum di
Animazione, Drama e Film con il maggior potenziale di realizzazione
in base a criteri legati all’eliminazione della disuguaglianza di
genere, alla rappresentazione positiva ed equilibrata, alla
diversità e all’inclusione – è andato alla serie
Cosplay Girl di Rodeo Drive, creata da
Massimo Bacchini, Eleonora Cimpanelli e Giulio Rizzo. La serie è
basata sull’omonimo romanzo di Valentino Notari.
Content
Showcase
Il Premio Lazio Frames – al titolo che più
valorizza il territorio della Regione, presente nelle vetrine di
What’s Next Italy, GREENlit e Italians Doc It
Better – a The Breath of the
Mountain, film animato di Lorenzo Latrofa, prodotto
da La Sarraz Pictures.
Lo Screen International Buyers’ Choice Award –
assegnato ai film selezionati alla vetrina C EU Soon e
votati da distributori, agenti di vendita e buyer – a
Matria di Álvaro Gago (Spagna), prodotto
da Matriuska Producciones, Elastica Films, Avalon P.C., Ringo
Media. Sales Agent: New Europe Film Sales.
Hosted
I Premi La Bottega della
Sceneggiatura: un’iniziativa di Premio Solinas e Netflix
per scoprire e promuovere la nuova generazione di autori di serie
televisive in Italia. Primo Premio a Il peso del
mondo di Jacopo Cazzaniga. Secondo Premio a
Le figlie di Roma di Federica Baggio e
Anna Francesca Leccia. Menzione speciale a
Galena di Marco Panichella.
E’ stata presentata in anteprima
alla diciassettesima edizione della Festa del Cinema
di Roma
ROMULUS II – LA GUERRA PER ROMA, secondo capitolo
della serie Sky Original firmata da Matteo
Rovere e prodotta da Sky Studios, Cattleya e Groenlandia
in collaborazione con ITV Studios.
Prima del mito, oltre la leggenda,
la nascita di Roma come non è mai stata raccontata in 8 nuovi
episodi. ROMULUS
II – LA GUERRA PER ROMA arriverà dal 21 ottobre in
esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW.
Ai protagonisti della prima
stagione Andrea Arcangeli (Yemos),
Marianna Fontana (Ilia) e Francesco Di
Napoli (Wiros) si aggiungonoValentina
Bellè (Volevo fare la rockstar,L’uomo del
labirinto, Catch-22) nei panni di Ersilia, a capo
delle sacerdotesse Sabine; Emanuele Maria Di
Stefano (La scuola cattolica, Siccità)
che interpreta il re dei Sabini Tito Tazio, figlio del Dio Sancos,
il più potente nemico di Roma;Max Malatesta
(Favolacce, Il primo Re) è Sabos, consigliere e
braccio destro del re dei Sabini; Ludovica Nasti
(L’amica geniale) veste i panni di Vibia, la più giovane
fra le sacerdotesse Sabine; mentre Giancarlo
Commare (Skam Italia, Maschile singolare, La
Belva) è Atys, il giovane re di Satricum. Tornano anche
Sergio Romano (Amulius), Demetra
Avincola (Deftri) e Vanessa Scalera
(Silvia).
Come già la prima, venduta da ITV
Studios – il distributore internazionale – in più di 40 territori,
anche la seconda stagione della serie è stata interamente girata in
protolatino. Il team di regia è formato da Matteo
Rovere, Michele Alhaique ed
Enrico Maria Artale, già registi della prima
stagione, e da Francesca Mazzoleni (Punta
Sacra, Succede). Alla sceneggiatura tornano Filippo
Gravino e Guido Iuculano, cui si uniscono nella writers’ room
Flaminia Gressi e Federico Gnesini.
La trama
Yemos, Wiros, Ilia, il gruppo di
Ruminales e i cittadini di Alba a loro fedeli si sono insediati in
quella che un tempo era Velia, consacrandola regno libero e
indipendente e dandole il nome di ROMA. È per questo che Tito
Tazio, giovanissimo re dei Sabini, figlio del dio Sancos, temuto e
venerato dal suo popolo, temendo l’espansione del regno oltre i
confini, invita i due re per un rito che si rivelerà un’imboscata
volta alla sottomissione. In questa terra inospitale, Yemos e Wiros
strapperanno al re le sacerdotesse Sabine, a lui molto care, in un
gesto sacrilego ma inevitabile. Quando i Sabini invadono il Lazio
per reclamare le donne, Yemos e Wiros restano fermi sulle loro
posizioni ma di fronte a guerra e distruzione il loro sodalizio
inizia a mostrare i segni di una crisi imminente, perché a Roma può
esserci un solo re. Chi prenderà il nome di ROMULUS?
ROMULUS II – LA GUERRA PER ROMA è
inoltre la prima serie Tv italiana certificata totalmente
carbon neutral, anche a livello internazionale. Durante la
fase di produzione è stata avviata una stretta collaborazione con
Zen2030, società benefit italiana che ha come obiettivo la
riduzione dell’impatto ambientale dell’intero settore audiovisivo
italiano, sulla via delle zero emissioni nette. ROMULUS II – LA
GUERRA PER ROMA ha quindi potuto beneficiare dell’applicazione del
Protocollo Zen2030, finalizzato a ridurre l’impronta di carbonio
delle produzioni cinematografiche fino a renderle carbon neutral.
Una scelta in linea con l’impegno del gruppo Sky che, con la
campagna Sky Zero, punta a essere la prima media company in Europa
a diventare Net Zero Carbon entro il 2030.
ROMULUS II – LA GUERRA
PER ROMA | Dal 21 ottobre in esclusiva su Sky e in streaming solo
su NOW
Guada il trailer de
Il
principe di Roma, con
Marco Giallini, Giulia Bevilacqua, Filippo Timi, Sergio
Rubini, Denise Tantucci, Antonio Bannò, Liliana Bottone,
Massimo De Lorenzo con Andrea Sartoretti e con Giuseppe
Battiston. In anteprima nella sezione GRAND PUBLIC alla
XVII edizione della Festa del Cinema di Roma.
Roma, 1829. Bartolomeo è un uomo ricco e avido che
brama il titolo nobiliare più di ogni cosa. Nel tentativo di
recuperare il denaro necessario a stringere un accordo segreto con
il principe Accoramboni per ottenere in moglie sua figlia, si
troverà nel bel mezzo di un sorprendente viaggio a cavallo tra
passato, presente e futuro. Accompagnato da compagni d’eccezione
dovrà fare i conti con sé stesso e conquistare nuove
consapevolezze.
Il film racconta la storia di una troupe cinematografica
impegnata con le riprese di un horror a basso budget all’interno di
una fabbrica abbandonata. Il gruppo, oltre alle difficoltà di
gestione di cast e denaro, si ritroverà a dover fronteggiare una
reale invasione di zombie, che porta confusione e terrore sul set.
A causa dell’improvvisa occupazione degli spazi da parte dei non
morti, la troupe faticherà a distinguere la realtà dalla finzione
cinematografica…
E’ stato presentato ieri alla
Festa del
cinema di Roma il film La cura. Sul red carpet hanno sfilato in
protagonisti, il regista Francesco Patierno e gli interpreti
Francesco Di Leva,
Alessandro Preziosi, Francesco Mandelli, Cristina Donadio,
Andrea Renzi, Antonino Iuorio, Peppe Lanzetta, Ernesto Mahieux,
Giuseppe D’Ambrosio, Eliana Miglio, Maritè Musella, Giancarlo
Cosentino, Francesco Biscione, Margherita Romeo, Viviana Cangiano,
Francesca Romana Bergamo, Vincenzo Del Prete, Pio Del Prete, Ramon
D’Andrea, Giuseppe. Ecco tutte le foto dal red carpet:
LA CURA un film di Francesco
Patierno | liberamente tratto da La Peste di Albert Camus, Editions
Gallimard 1947 verrà presentato in CONCORSO PROGRESSIVE CINEMA alla
Festa del Cinema di Roma 2022 |una produzione RUN FILM in
associazione con IN BETWEEN ART FILM prodotto da Alessandro e
Andrea Cannavale con Beatrice Bulgari.
La trama del film
La storia della Peste di Albert
Camus, ambientata originariamente in Algeria nel 1947, si sposta
nella Napoli dei nostri tempi. Una troupe cinematografica, durante
i giorni più duri del lockdown, gira un film tratto dalla Peste di
Camus. La realtà delle vite degli attori si alterna alla finzione
dei personaggi che interpretano: gradualmente i due piani narrativi
si uniscono. Corso Umberto, il rione Sanità, le Terme, la stazione
di Mergellina, l’Hotel Oriente, la prefettura, strade, angoli, per
lo più deserti: Napoli in pieno lockdown. Una città spettrale e
fuori dal tempo per la rilettura contemporanea di Francesco
Patierno di La peste di Albert Camus, dove i sentimenti, le paure,
i conflitti del libro scivolano armoniosamente dentro il
disorientamento generato dalla pandemia, e pezzi di realtà, come un
uomo disperato che urla di notte per strada, riflettono il testo.
Un ospedale e i suoi medici e volontari, i funzionari, i
commercianti, le persone normali, tutti si mescolano con una troupe
che sta girando un film sulla Peste, in una coralità drammatica
asciutta e coinvolgente. Chi vuole scappare. Chi decide di restare.
Ma da soli non si resiste alla paura.
Sarà il pluripremiato regista di
fama internazionale Joe Wright (L’ora
più buia, Espiazione, Cyrano) a dirigere
M. Il figlio del secolo, la nuova serie Sky
Original adattamento dell’omonimo romanzo di Antonio
Scurati vincitore del Premio Strega e bestseller internazionale,
che racconta la nascita del fascismo in Italia e l’ascesa al potere
del Duce Benito Mussolini.
Wright, che dirigerà tutti gli otto
episodi della serie e batterà il primo ciak presso i Cinecittà
Studios nelle prossime settimane, ha dichiarato: «Portare sullo
schermo un romanzo come “M – Il figlio del secolo” è una sfida
incredibile che non vedo l’ora di affrontare. Spero di riuscire a
restituire le luci e le ombre di un periodo storico e di un
personaggio che, nel bene e nel male, hanno definito un’intera
era».
Nell’ambito della diciassettesima
edizione della Festa del Cinema di Roma, il 18 ottobre il regista
inglese sarà inoltre protagonista, insieme agli sceneggiatori
Stefano Bises e Davide Serino, dell’incontro “M. La serie”.
M. Il figlio del secolo è una serie prodotta da Sky
Studios e da Lorenzo Mieli per The Apartment Pictures, società del
gruppo Fremantle, in collaborazione con Pathé.
M. Il figlio del secolo, la
trama
La serie ripercorrerà la storia
dalla fondazione dei Fasci Italiani nel 1919 fino al famigerato
discorso di Mussolini in parlamento dopo l’omicidio del deputato
socialista Giacomo Matteotti nel 1925. Offrirà inoltre uno spaccato
del privato di Mussolini e delle sue relazioni personali, tra cui
quelle con la moglie Rachele, l’amante Margherita Sarfatti e con
altre figure iconiche dell’epoca. Come il romanzo, la serie
racconterà la storia di un paese che si è arreso alla dittatura e
la storia di un uomo che è stato capace di rinascere molte volte
dalle sue ceneri.
Scritta da Stefano Bises
(Gomorra – La Serie, The New Pope, ZeroZeroZero, Speravo de
morì prima) e Davide Serino (1992, 1993, Il Re, Esterno
Notte), la serie racconterà gli accadimenti con accuratezza
storica, con ogni evento, personaggio, dialogo e discorso
storicamente documentato o testimoniato da più fonti.
M. Il figlio del secolo arriverà in esclusiva su Sky e
in streaming solo su NOW in tutti i territori Sky in Europa. La
distribuzione internazionale è di Fremantle.
Pubblicato in Italia da Bompiani
nel 2018, il romanzo di Antonio Scurati M. IL FIGLIO DEL SECOLO è
stato tradotto ad oggi in 46 paesi, ha venduto oltre 600.000 copie.
Negli Stati Uniti è edito da HarperCollins.
È il primo di una trilogia dedicata
da Scurati al fascismo e a Benito Mussolini: il secondo romanzo è
M. L’UOMO DELLA PROVVIDENZA, cui ha fatto seguito da qualche
settimana il terzo romanzo della serie bestseller, M. GLI ULTIMI
GIORNI DELL’EUROPA, che si concentra sul cruciale triennio tra il
1938 e il 1940.
BIOGRAFIA JOE
WRIGHT
Il regista Joe Wright ha studiato
al St. Martin’s College di Londra. Con i suoi nove lungometraggi da
regista usciti ad oggi, Wright ha collezionato, tra candidature e
vittorie, 35 BAFTA, 24 Academy Awards e 12 Golden Globe.
Nel 2005 debutta alla regia di un
lungometraggio con ORGOGLIO & PREGIUDIZIO, con
Keira Knightley, Matthew MacFadyen, Rosamund Pike e Donald
Sutherland. Il film gli ha fatto vincere il Premio BAFTA come
miglior regista.
ESPIAZIONE,
adattamento del libro di Ian McEwan, esce nel 2007. Scritto da
Christopher Hampton e interpretato da Knightley e James McAvoy, il
film vince un Oscar per la migliore colonna sonora originale.
Nel 2009 esce il film IL
SOLISTA, con Robert Downey Jr. e Jamie Foxx, seguito nel
2011 da HANNA, che vede protagoniste Cate
Blanchett and Saoirse Ronan.
Nel settembre 2012 Wright presenta
al pubblico ANNA KARENINA con Keira
Knightley, Jude Law e Aaron Taylor-Johnson, che vince un BAFTA e un
Oscar per i migliori costumi. Poco dopo Wright debutta nel mondo
del teatro con TRELAWNY OF THE WELLS in scena al
Donmar Theatre, seguito da A SEASON IN THE CONGO
con Chiwetel Ejiofor, in scena al Young Vic.
Nel 2015 collabora con la Warner
Bros per il lungometraggio PAN – VIAGGIO SULL’ISOLA CHE NON
C’È. Il film, che vede Hugh Jackman fra i protagonisti, è
una lettera d’amore agli scritti di JM Barrie e segue un giovane
Peter mentre viaggia verso l’Isola che non c’è. Nel 2017 esce
L’ORA PIÙ BUIA con Kristin Scott Thomas, Lily
James e Gary Oldman che vince l’Oscar come miglior attore
protagonista per la sua performance nei panni di Sir Winston
Churchill.
LA DONNA ALLA
FINESTRA è arrivato nel maggio 2021 su Netflix. Il cast
comprende Amy Adams, Julianne Moore e Gary Oldman. L’ultimo film di
Wright è CYRANO, musical tratto dal “Cyrano de
Bergerac” di Edmond Rostand. Vede come protagonisti Peter Dinklage,
Haley Bennett, Kelvin Harrison Jr. e Ben Mendelsohn.
Una vita tranquilla,
almeno apparentemente, è quella immaginata da Sandro
Veronesi nel suo romanzo vincitore del Premio Strega 2020.
Una storia difficile da sintetizzare e ricca di temi importanti,
che Francesca Archibugi porta in sala – a partire
dal 14 ottobre (distribuito da 01 Distribution) – nel
film omonimoIl Colibrì. Scelto come titolo
d’apertura della rinnovata Festa del Cinema di Roma, e inserito
nella sezione Grand Public dedicata al cinema per il grande
pubblico, il nuovo film della regista di Vivere colpisce al
cuore, ma non solo, visto il cast All-Star riunito per
l’occasione.
Quelli di Nanni
Moretti e Pierfrancesco Favino spiccano tra i nomi di
Kasia Smutniak,
Berenice Bejo,
Laura Morante,
Benedetta Porcaroli, Massimo
Ceccherini, Fotiní Peluso e
Pietro Ragusa – tra gli altri – ed è
paradossalmente tra loro due che si sviluppa il rapporto più
importante in Il Colibrì. Tra tante relazioni,
amorose o familiari, grandi amori e insopportabili dolori, la
tensione che lega Daniele e Marco cambia con il passare del tempo e
li lega sempre di più, dalle prime preoccupazioni professionali
all’atto più estremo di vicinanza e amicizia.
Chi è il
Colibrì?
Favino (che per una
curiosa coincidenza, da anni convive felicemente con il soprannome
di Picchio) è Marco Carrera, al quale sin da piccolo viene
affibbiato quel nomignolo, per via di uno squilibrio ormonale che
non lo faceva crescere e sviluppare come dovuto, ma che resta per
tutta la vita il Colibrì, sebbene una cura sperimentale gli avesse
permesso di avere infine una statura normale. Ed è la sua storia
che seguiamo, nella sua quasi interezza, di ricordo in ricordo,
saltando da un’epoca a un’altra, in un tempo liquido che va dai
primi anni ‘70 fino a un futuro prossimo – il 2030 – nel quale lo
Stato italiano si è finalmente deciso a dare una prova da tempo
richiesta di umanità e civiltà.
Ma tutto inizia da
bambini, quando al mare Marco conosce Luisa Lattes, una ragazzina
bellissima e inconsueta. Una passione idealizzata e quindi
ineguagliabile, un amore che mai verrà consumato e mai si spegnerà,
per tutta la vita. A differenza di quello per la moglie Marina,
madre della figlia Adele. Tra coincidenze incredibili e prove
durissime, Marco passa da Roma a Firenze, spesso accompagnato dal
vigile e amorevole sguardo di Daniele Carradori, lo psicoanalista
di Marina, che insegnerà a Marco come accogliere i cambi di rotta
più inaspettati.
La forza della
vita
Dicevamo della difficoltà
di adattare in maniera ineccepibile un intreccio tanto articolato,
ricco di personaggi e di connessioni diverse a seconda del momento
storico vissuto attraverso il costante alternarsi di passato e
presente. Un reticolo esistenziale notevole, che tra momenti da
ricordare e parentesi didascaliche non può che dare a tratti la
sensazione di non riuscire a legare ugualmente tutti gli elementi.
Nonostante la presenza di alcune costanti, veri fulcri della
narrazione.
In primis la telefonata
che riceve Marco, con cui si apre Il Colibrì e che
rivediamo – ogni volta inquadrata diversamente, sempre più da
vicino – mano a mano che prende forma il personaggio di Favino e si
forma la sua consapevolezza del proprio vissuto. Che passa anche
dalle rare e complicate riunioni familiare e dall’evoluzione del
suo amore – idealizzato – per la onnipresente Lucia
Lattes di Bérénice Bejo. Altro
personaggio chiave, testimone distante e ambiguo, forse la figura
femminile più interessante tra le varie (dalla Morante, alla sempre
eccessiva Smutniak).
Non è mai facile
assistere a una agonia, l’altrui come la propria, ma in quella che
Il Colibrì descrive come la “strenua lotta che
facciamo tutti noi per resistere a ciò che talvolta sembra
insostenibile” resta la speranza. Di trovare la felicità, dopo
tante finzioni e paure, di scoprirsi protagonisti di una vita vera,
di non aver sprecato il proprio tempo – come un colibrì, costretto
a uno sforzo “assurdo” per restare fermo – e anzi di aver trovato
il coraggio di diventarne padroni e disporne nel momento più
delicato di questo lungo addio.
L’account Instagram ha realizzato
una fanart che riunisce, in un incontro possibile nel Multiverso
MCU, le tre incarnazioni di Captain America del Marvel Universe, almeno quelle che
abbiamo incontrato fino a questo momento.
Nell’immagine vediamo ovviamente lo
Steve Roger di Chris Evans al
centro, mentre ai suoi lati c’è Sam Wilson/Anthony
Mackie, che ha ufficialmente raccolto il suo testimone
alla fine di Avengers: Endgame, e Peggy
Carter/Hayley Atwell, che è stata brevemente Cap in
Doctor Strange nel Multiverso della Follia e
ancora prima in What If…?
La star de I
Goonies, Ke Huy Quan, ha recentemente
condiviso sui social media il suo emozionante
ritorno sul set dopo 36 anni. Dopo aver iniziato come
co-protagonista di Harrison Ford in Indiana Jones e il Tempio Maledetto nel 1984,
Quan è tornato sul grande schermo nel successo degli anni ’80,
I Goonies. L’attore ha interpretato il ruolo
di Richard “Data” Wang, un membro di un gruppo di
amici nella città di Astoria, nell’Oregon. Conosciuto per la sua
personalità esuberante e i suoi gadget folli, Data ha assistito il
suo amico Mikey (Sean Astin) nella ricerca del
tesoro del pirata Willy l’Orbo.
Dopo il suo ruolo ne I
Goonies, Quan ha lottato per mantenere la sua carriera a
Hollywood. L’attore ha subito trovato difficile trovare ruoli
adatti a lui e ha cominciato a lavorare dietro alla macchina da
presa. Dopo aver completato il programma cinematografico presso
l’Università della California meridionale, Quan ha lavorato in
varie produzioni in tutto il mondo anche come stunt rigger in
Canada per X-Men (2000) e assistente alla regia
per Wong Kar Wai in 2046.
Tuttavia, dopo l’uscita di Crazy Rich Asians, Quan
è stato ispirato a tornare alla recitazione. È stato scelto per un
piccolo ruolo per il film Netflix Alla ricerca di
Ohana, un’avventura familiare chiaramente ispirata a
I Goonies, e in seguito ha ottenuto il ruolo di
Waymond Wang nell’acclamato Everything Everywhere All at Once.
Dopo 36 anni, Quan è finalmente
tornato allo studio di produzione dove aveva originariamente girato
parte di I Goonies e si è rivolto a Instagram per
condividere il momento. Nelle immagini, Quan indica una targa sul
muro della Warner Bros. Stage 16 che presenta un elenco di film
importanti girati in loco e che include proprio I
Goonies. L’attore ammette di essersi emozionato tornando
dopo così tanti anni.
In una recente intervista con Total
Film (tramite The
Direct), Tenoch Huerta, che dà vita a Namor in
Black
Panther: Wakanda Forever, discute del futuro di Namor
nel MCU dopo la sua introduzione nel
film di Ryan Coogler. Anche se l’attore non rivela
nulla di concreto, sembra certamente eccitato dalla prospettiva di
esplorare la ricca storia di Namor nel MCU, se gliene verrà data la
possibilità.
“Lo spero! Lo spero! Perché
voglio un contratto più grande! Voglio più zeri nel mio contratto!
No, sto scherzando. Voglio dire, la mitologia attorno a Namor è
enorme. Puoi impazzire con tutta questa cultura aspetto, e puoi
creare un sacco di cose con Namor, perché sono una fantastica fonte
di storie, mitologia, religione e tutto il resto. Quindi spero che
decidano di continuare con il personaggio, oltre la sua storia o
altro”.
I dettagli ufficiali della trama
sono ancora nascosti, ma ci è stato assicurato che il sequel del
MCU onorerà il defunto Chadwick Boseman mentre continuerà l’eredità
del suo personaggio, T’Challa. Black
Panther: Wakanda Forever arriverà nelle sale l’11
novembre 2022. Il presidente dei Marvel Studios,
Kevin Feige, ha confermato che T’Challa, il personaggio
interpretato al compianto Chadwick
Boseman nel primo film, non verrà interpretato da
un altro attore, né tantomeno ricreato in CGI. Il sequel si
concentrerà sulle parti inesplorate di Wakanda e sugli altri
personaggi precedentemente introdotti nei fumetti Marvel.
Letitia Wright (Shuri), Angela
Bassett (Ramonda), Lupita
Nyong’o (Nakia), Danai
Gurira (Okoye), Winston
Duke (M’Baku) e Martin
Freeman (Everett Ross) torneranno nei panni dei
rispettivi personaggi interpretati già nel primo film.
L’attore Tenoch Huerta è in trattative
con i Marvel Studios per
interpretare il villain principale del sequel.
HARRY POTTER AND THE SORCERER'S
STONE, Robbie Coltrane, Daniel Radcliffe, 2001, (c) Warner
Brothers/courtesy Everett Collection
Sono tanti gli attori del panorama
mondiale che, nelle ore serali di ieri, hanno rilasciato
dichiarazioni e omaggi alla memoria di Robbie Coltrane, attore scozzese scomparso
all’età di 72 anni. Tra questi anche Daniel Radcliffe ha rilasciato una
dichiarazione affidata a Deadline.
Coltrane era stato compagno di set
del giovanissimo Radcliffe in tutta la fase di produzione, oltre
dieci anni, del franchise di Harry Potter, in cui Robbie
interpretava il personaggio chiave di Rubeus Hagrid, il Custode
delle Chiavi e dei Luoghi di Hogwarts e primo amico “magico” del
piccolo Harry (Daniel
Radcliffe). Ecco cosa ha dichiarato Radcliffe:
“Robbie era una delle persone
più divertenti che abbia mai incontrato e ci faceva ridere
costantemente da bambini sul set. Ho ricordi particolarmente
affettuosi di lui che teneva alto il morale durante la lavorazione
de Il Prigioniero di Azkaban, quando ci nascondevamo tutti dalla
pioggia torrenziale per ore nella capanna di Hagrid e lui
raccontava storie e scherzava per tenere alto il morale. Mi sento
incredibilmente fortunato di aver avuto modo di incontrarlo e
lavorare con lui e sono molto triste per la sua morte. Era un
attore incredibile e un uomo adorabile”.
Ryan Reynolds e il co-regista di Strange World stanno sviluppando un film
basato sull’attrazione dei parchi a tema Disney Society of
Explorers and Adventurers. Disneyland e Disney World hanno
avuto grandi influenze sul mondo in generale. Con la capacità di
questi parchi di immergere ed emozionare i visitatori con un layout
sapientemente progettato e le numerose offerte, i parchi a tema non
hanno mostrato segni di rallentamento. L’inclusione di contenuti
Marvel e Star
Wars nei parchi aggiunge divertimento generale e continua a
giustificare la convinzione di Walt Disney che i parchi a tema non
conosceranno mai crisi e continueranno a crescere e cambiare.
E’ già capitato in passato che la
Disney usasse attrazioni dei parchi a tema come base per dei film.
Chiaramente l’esempio più illustre è Pirati dei
Caraibi in quanto ha dimostrato di essere l’attrazione più
redditizia dei parchi a tema per avviare un franchise
cinematografico, segue poi Jungle Cruise di
Dwayne Johnson, che ha debuttato con recensioni
modeste e sottoperformato al botteghino durante la pandemia, ma sta
ottenendo ora un discreto seguito. Oltre ai due, la Disney ha
provato ad adattare altre giostre che però non hanno avuto un
impatto al botteghino tra cui Country Bears,
Mission to Mars, Tomorrowland e
The Haunted Mansion, e con la Disney che sta
attualmente riavviando quest’ultimo, sembra che ora stiano
arricchendo ulteriormente il loro elenco di progetti in base alle
loro attrazioni.
Come annunciato da The Hollywood
Reporter, Ryan Reynolds sta collaborando con
il co-regista di Strange WorldQui Nguyen per
produrre un adattamento cinematografico di Society of
Explorers and Adventurers. Il film non sarà correlato alla
serie televisiva Disney+ sviluppata da Ron
Moore, ma sarà invece un film autonomo che esplora il
mondo di SEA ai giorni nostri e includerà elementi soprannaturali e
nuove idee non presenti nelle giostre originali. Nguyen scriverà il
nuovo lungometraggio mentre Reynolds produrrà il film sotto il suo
marchio Maximum Effort.
Con Deadpool 3 che verrà prodotto sotto l’ombrello
della Walt Disney Company, sembra che per Ryan Reynoldssi stia
inaugurando una collaborazione importante con lo Studio.
In una recente intervista con
SlashFilm, il compositore Michael Giacchino ha
riflettuto sul periodo trascorso a mettere insieme la colonna
sonora di The
Batman. Il compositore della soundtrack del film DC ha
rivelato di non aver mai ascoltato la canzone dei Nirvana, chiave
per la colonna sonora del film, “Something in the Way”, e
che aveva iniziato a scrivere la musica prima ancora che Robert Pattinson venisse scelto per
interpretare il protagonista.
“Questo è davvero imbarazzante,
ma non conoscevo quella canzone. Non conoscevo affatto quella
canzone. Mi sento come un vecchio che dice che non lo sapeva.
Certo, ora lo so. Nel momento in cui stavo scrivendo, non ne avevo
idea. Non lo sapevo. È stata una fortuna eterna che quelle due
tracce (il tema di The Batman e la canzone dei Nirvana, ndr) siano
stati in grado, in qualche modo con un piccolo ritocco, di
coesistere per i trailer nel modo in cui hanno fatto. Ha funzionato
davvero bene. Non era qualcosa che era stato pianificato in
anticipo, era solo una specie di, ho scritto quel tema dopo aver
parlato della sceneggiatura con [il regista Matt Reeves] per così
tanto tempo e aver parlato dei personaggi e di tutto il resto. Il
tema è stato scritto, non so, due anni prima che il film fosse
finito. Matt aveva quel tema prima che scegliessero ufficialmente
Robert Pattinson. Voglio dire, è stato
pazzesco averlo così presto. È raro che succeda. Tutto ha
funzionato. E’ stata solo una fortuna. Il tema principale di Batman
è proprio quel dun dun dun, in un certo senso vivono insieme così
bene.”
The Batman, il film
The
Batman diretto da Matt Reeves è
uscito nelle sale il 4 marzo distribuito da Warner Bros Italia.
Protagonisti del film insieme a Robert Pattinson nei panni di Bruce
Wayne, ci saranno anche Colin
Farrell (Oswald Chesterfield/Pinguino), Zoe
Kravitz (Catwoman), Jeffrey Wright (Jim Gordon), Paul
Dano (Enigmista) e Andy
Serkis (Alfred). Infine, John
Turturro sarà il boss Carmine Falcone. Nel cast
anche Peter
Sarsgaard che sarà Gil Colson, il Procuratore
Distrettuale di Gotham.
Due anni trascorsi a pattugliare le
strade nei panni di Batman (Robert
Pattinson), incutendo timore nel cuore dei criminali,
hanno trascinato Bruce Wayne nel profondo delle tenebre di Gotham
City. Potendo contare su pochi fidati alleati – Alfred Pennyworth
(Andy
Serkis) e il tenente James Gordon (Jeffrey
Wright) – tra la rete corrotta di funzionari e figure
di alto profilo della città, il vigilante solitario si è affermato
come unica incarnazione della vendetta tra i suoi concittadini.
Quando un killer prende di mira l’élite di Gotham con una serie di
malvagi stratagemmi, una scia di indizi criptici spinge il più
grande detective del mondo a indagare nei bassifondi, incontrando
personaggi come Selina Kyle / alias Catwoman (Zoe
Kravitz), Oswald Cobblepot / alias il Pinguino
(Colin
Farrell), Carmine Falcone (John
Turturro) e Edward Nashton / alias l’Enigmista
(Paul
Dano). Mentre le prove iniziano a condurlo più vicino
alla soluzione e la portata dei piani del malfattore diventa
chiara, Batman deve stringere nuove alleanze, smascherare il
colpevole e rendere giustizia all’abuso di potere e alla corruzione
che da tempo affliggono Gotham City.
“Non sono mai stato bravo a
parlare di me, per questo ho iniziato a scrivere canzoni”. Si
apre con questa dichiarazione d’intenti il documentario
Mahmood, diretto da Giorgio Testi e
scritto da Virginia W. Ricci. Dedicato al celebre
cantautore che a neanche trent’anni ha già vinto due volte il
Festival di Sanremo, il film, che fa parte delle proiezioni
speciali del Panorama Italia di Alice nella città,
sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di
Roma, ancor prima di essere un’opera celebrativa nei
confronti del cantante, vuole dar prova della sua umiltà, della sua
umanità e, soprattutto, della sua sensibilità.
Si ripercorrono dunque le principali
tappe della sua vita e del suo percorso artistico, dai primi
concorsi alla delusione di X Factor, dalla vittoria a Sanremo
Giovani con Gioventù bruciata a quelle a Sanremo Big con
Soldi e Brividi, dalle partecipazioni
all’Eurovision Song Contest fino al recente tour europeo andato
sold out. Quello di Mahmood è un percorso ricco di ostacoli,
speranze, incidenti di percorso, cadute e ripartenze che hanno
portato infine al successo tanto sperato, dietro il quale si
nascondono profondi dolori personali da metabolizzare attraverso la
musica e un forte amore, ricambiato, per la propria famiglia.
Mahmood: dallo sgabuzzino di casa
ai palchi d’Europa
Quello dedicato a Mahmood è solo
l’ultima di una serie di opere audiovisive dedicati a popolari star
della scena musicale italiana. Da Ferro, documentario su
Tiziano Ferro a Famoso, con protagonista il trapper Sfera
Ebbasta, fino al più recente Laura Pausini: Piacere di
conoscerti, che ripercorre la vita della celebre cantante
in modo molto particolare. Di Mahmood non si può certo
dire che proponga un approccio originale da un punto di vista
narrativo. Il film è infatti costruito seguendo un ordine
cronologico che se da un lato offre un ovvio e piacevole ordine,
dall’altro rischia di rendere il progetto scontato e
dimenticabile.
Se ciò non avviene del tutto lo si
deve in particolare a due precisi aspetti, il cui “merito” di
entrambi va prima di tutto allo stesso Alessandro
Mahmoud. Il primo è relativo alle riprese dei concerti
sostenuti nel 2022 dal cantante in alcune capitali europee. Come
ormai risaputo, Mahmood ha molta cura per le immagini che lo
riguardo, i look da sfoggiare, le luci e le scenografie con cui
interagisce. La sua attenzione per questi dettagli fa sì che i suoi
concerti risultino dei veri e propri spettacoli visivi e
riproponendo alcuni frammenti di essi anche lo stesso film
acquisisce un po’ per osmosi quel fascino.
Il secondo aspetto è dato dal
vissuto di Mahmood. Non sono infatti tanto i retroscena dietro i
suoi successi musicali a generare interesse, bensì i racconti che
egli offre riguardo il suo ardente desiderio di fare musica
nonostante le tante porte in faccia, riguardo il rapporto con
l’amata madre, con quel padre assente e con quel desiderio di
potersi sentire a casa. Di Mahmood si è detto che il suo sguardo
sembra sempre rivolto altrove, come se ogni volta dovesse partire
per una nuova meta o tornare a casa dopo un lungo viaggio, più
nello specifico magari in quello sgabuzzino di casa dove da piccolo
racconta di essersi sentito al sicuro, costruendo i propri mondi di
fantasia.
Lo sguardo di Mahmood
Il film offre dunque un maggior
approfondimento della vita di Alessandro Mahmoud prima di diventare
il Mahmood cantante capace di emozionare persone proveniente di
contesti diversi, infrangendo barriere linguistiche e culturali.
All’interno di un documentario dalla struttura canonica, dunque, si
cerca di far emergere quel mondo emotivo che Mahmood non ha mai
saputo esprimere se non attraverso le proprie canzoni, svelando
tutto di sé attraverso queste. Addirittura la madre, che fornisce
una delle testimonianze più belle del film, racconta di aver
conosciuto meglio suo figlio attraverso tali testi che non tramite
le loro conversazioni quotidiane.
Si può naturalmente scegliere di
credere o non credere all’umiltà che il cantante mette sul piatto
con questo documentario. Mahmood è notoriamente un artista molto
divisivo, controverso e spesso difficile da definire (cosa,
quest’ultima, non necessariamente negativa). Il film manca di
essere tutto ciò, non raggiungendo dunque quella somiglianza tra
artista e opera a lui dedicata che in altri casi simili si è
dimostrata vincente, ma è certamente emozionante nell’offrire il
racconto di un ragazzo che ha creduto talmente tanto nei propri
sogni da riuscire infine a realizzarli. Un discorso che certamente
toccherà l’animo di quanti, si spera molti, coltivano i propri
sogni con cura e impazienza.
Crescere, che fatica! Se lo deve
essere ripetuta spesso Rakel, la protagonista di
Ninjababy, dal 13 ottobre nelle sale italiane. Il
dramedy norvegese della regista Yngvild Sve
Flikke, presentato al TIFF 2021 e al
Festival di
Berlino e tratto dalla graphic novel
Fallteknikk, illustra tutti gli spettri delle
gravidanze inaspettate da una prospettiva arguta e comica al punto
giusto, collegando all’enfasi fumettistica il conflitto di una
mamma in divenire e di una protagonista a cui deve essere ricordato
che è padrona della propria storia.
Ninjababy: dialogare con la nostra creatura
Un bambino si è depositato
inaspettamente nel ventre di Rakel
(Kristine Kujath Thorpe) e se c’è una cosa che
questa sa della sua vita è che non lo vuole. Sotto ai vestiti
ingombranti e al disordine apparente di un’esistenza che non
padroneggia, Rakel è una sognatrice dalla fervida immaginazione,
aspirante fumettista che disegna sempre la sua quotidianità. Forse
è proprio la matita, il segno, il mezzo perfetto per
cercare di stabilire un contatto con questa figura inafferrabile,
un Ninjababy che vuole continuare a lottare per
stare nella pancia della mamma.
Parlare con chi non conosciamo
ancora è quasi impossibile ed è per questo che l’unico modo che
Rakel ha per instaurare un dialogo con
l’inaspettato è tramite la sua creatività. Proiettando sull’effetto
figurativo un’idea a cui non siamo in grado di dare forma,
riusciamo quantomeno a pensare di poterne avere il controllo. La
verità con cui presto dovrà però confrontarsi Rakel è che la
creatura è sì figlia di una madre che rinnova la propria
coscienziosità, ma è illustratrice a suo modo: vaglia
assieme a lei le scelte che potrebbe effettuare, suggerisce ciò che
sarebbe meglio per lui/lei, avanza proposte di collaborazione,
quasi come se si stesse prefigurando un dialogo tra colleghi.
Chi è la vera ninja?
Con il proprio
Ninjababy, piccolo ma impavido lottatore, linfa
creativa che Rakel ha sempre portato con sè ma si
è probabilmente assopita in una quotidianità che ha lasciato il
passo alla negligenza, la giovane madre (ri)vive in maniera
inusuale un’infanzia di cui non ci viene detto niente: l’unico
tratto della backstory di Rakel che conserviamo è il fatto che
studiasse design ma si sia ritirata dall’università e, al di là di
una sorellastra che conosceremo lungo il corso del film, non
sappiamo nulla sui suoi genitori. Partendo già dall’idea di un
personaggio dal passato frammentato, Ninjababy fa
egregiamente i conti con la destrutturazione ulteriore del nucleo
famigliare, ormai scevro delle categorie genitoriali archetipiche,
e che ha assunto un’idea di fluidità, più legata allo
scegliere chi vogliamo lungo il nostro cammino.
Nel passaggio di testimone tra la
bambina che (non) è stata e che diventa durante il film,
Rakel assume consapevolezza dello scambio,
dialogico ed emotivo, necessario per dare forma a un mondo
disordinato, con la comicità sottile tipica del cinema nordico ma
un ritmo da vero e proprio coming-of-age statunitense.
Kristine Kujath Thorp è la vera ninja del
film: ipnotica e abilissima nel costruire la caratterizzazione di
Rakel partendo dallo sguardo, fulcro vero e proprio dei conflitti
che ne attraversano l’interiorità.
Cosa succede quando ci troviamo
faccia a faccia con la creatura che, fino a pochi secondi prima,
era solo una nostra proiezione? Ninjababy sfrutta
ogni svolta di trama per fare entrare lo spettatore sempre più
nella mente di Rakel, favorendo il processo
empatico anche con le parti più astruse del suo dialogo con il
feto, che si rivelano essere i frangenti in cui in realtà riusciamo
a scorgere molto più a fondo le crepe di una donna che, forse, non
è stata abbastanza bambina.
Ninjababy: ti regalo un libro
Forse Rakel non ha
mai imparato veramente il linguaggio dell’affetto, quasi certamente
fatica a essere anche madre di se stessa. Allora, la scoperta della
maternità passa attraverso la percezione idiomatica del suo,
particolarissimo, linguaggio. Il figlio che aspetta deve diventare
libro, l’idea deve assumere contorni e forma visuale per fare
comprendere a Rakel che madre e figlia si sono fatte a
vicenda, che i confini tra creatore e creatura sono estremamente
labili quando di mezzo c’è un legame indissolubile.
NinaBibbi:
nell’atto del nominare, nello scegliere chi si vuole essere e dove
ci si rincontrerà, assistiamo alla sinergia massima tra
Rakel e il suo bimbo: nel conservare parte del
nome che lo stesso Ninjababy avrebbe voluto –
Angelina, per ragioni spassosissime – Rakel decide di lasciarle
quello che vorrebbe le riservasse il futuro. Contemporaneamente, in
questa parola-macedonia, trattiene l’impronta creativa che questo
bambino porterà sempre con sè; il modo, di certo anomalo e
inconsapevole in cui Rakel, sotto mille strati di vestiti sdruciti,
si è sempre curata del suo piccolo ninja.