A dieci anni dal suo
ultimo film, il pluripremiato regista Joshua Oppenheimer torna a farci specchiare negli
abissi dell’umanità, mettendo da parte la forma del documentario a
cui ci aveva abituati (e che lo aveva portato alla candidatura agli
Oscar per The Act of Killing e
The Look of Silence) e esordendo nel cinema di finzione
con un potente, disturbante, visivamente straordinario, omaggio
all’epoca d’oro di Hollywood, The End.
Presentato, dopo tre anni
di gestazione, al 51° Telluride Film Festival e distribuito negli
Stati Uniti il 6 dicembre 2024, arriverà finalmente il prossimo 3
luglio anche nelle sale italiane, un musical post-apocalittico,
prodotto dallo stesso Oppenheimer (che lo ha diretto e
co-sceneggiato insieme a Rasmus Heisterberg) Signe
Byrge Sørensen e dalla star Tilda Swinton. Oltre a quella dell’attrice
britannica, la pellicola vede anche la partecipazione di George
MacKay, Moses Ingram, Bronagh Gallagher, Tim McInnerny, Lennie
James e Michael Shannon.
Nella distopia
sotterranea di The End
Il mondo è finito. Ma l’umanità,
forse, no. In un bunker sotterraneo riarredato come una casa di
lusso, vivono e sopravvivono Madre (il premio Oscar
Tilda
Swinton), Padre (il candidato all’Oscar
Michael
Shannon) e Figlio (George MacKay) e cercano di
mantenere la speranza e un senso di normalità aggrappandosi a
piccoli rituali quotidiani. Ma l’arrivo di una ragazza dall’esterno
(Moses Ingram) incrinerà il delicato equilibrio di
questo apparente idillio familiare.
Pochi contro tutti
Figli di un cambio di millennio, ci
accodiamo alle ataviche paure di cambiamento, facendo il nostro
gioco nel ciclo di morte e rinascita che trova nell’apocalisse il
suo apice supremo. E ogni giorno spegniamo i notiziari ripetendoci,
come Hubert, “Fin qui tutto bene, fin qui tutto bene.” contenti di
aver rimandato la fine chissà ancora per quanto. Ma cosa faremo
quando arriverà il momento? Fuggiremo? Ci arrenderemo
all’inevitabile? Reagiremo collettivamente o proveremo solo a
metterci in salvo insieme ai nostri cari? L’Apocalisse sarà una
livella? Ci donerà le stesse possibilità delle persone che guidano
il mondo, o oligarchi, presidenti, proprietari di social e magnati
dell’industria aerospaziale, avranno accesso a possibilità
illimitate? Queste sono le domande che suscita The End nello
spettatore.
Con Act of Killing e The
Look of Silence, Oppenheimer ci aveva già mostrato come in
Indonesia, gli
autori di genocidi governavano, impuniti. A questi sarebbe dovuto
seguire un terzo film sui miliardari che sono saliti al potere
grazie alla distruzione di milioni di vite, ma dopo il successo dei
suoi precedenti lavori, il regista non è più riuscito a tornare in
sicurezza in Indonesia.
Ha comunque continuato a immaginare
un progetto su uno specifico gruppo di oligarchi che aveva
incontrato, magnati del petrolio, politicamente potenti e
responsabili di gravi violenze politiche, che gli avevano mostrato
un bunker di lusso che stavano costruendo con l’obiettivo di
rifugiarcisi in
caso di un cataclisma causato dall’uomo. All’interno c’erano un
caveau d’arte e una cantina di vini, una piscina e persino
dei giardini.
L’Apocalisse è un
musical intimo e universale
La visione scosse il regista che per
riprendersi, racconta che una volta tornato a casa dovette
riguardare uno dei suoi film preferiti, il musical Les
Parapluies de Cherbourg di Jacques Demy.
L’accostamento tra l’ottimismo
sfrenato del musical e il nichilismo spietato degli oligarchi fece
scattare la scintilla di un racconto che, partendo da un’apocalisse
climatica, anzi, vent’anni dopo l’apocalisse climatica, gli avrebbe
permesso di parlare di dubbi, sensi di colpa e menzogne. Di
negazione e illusione, di fantasie e di tutte le false speranze che
ci permettono di alleviare i nostri rimpianti, in un inno accorato
sull’accettazione di sé, sull’amore, sulla capacità di cambiare e
su tutto ciò che ci rende umani.
È il musical che rende questa storia
universale perché quando i personaggi iniziano a cantare,
l’orchestra – condotta mirabilmente dal compositore Joshua
Schmidt per i testi dello stesso Oppenheimer – li accompagna e
in questo modo le loro emozioni private diventano l’espressione di
un sentimento collettivo. E grazie al coro, quello che inizialmente
è magari solo un momento intimo tra due innamorati, si trasforma
magicamente in una occasione di riflessione condivisa.
Il demone dell’autoinganno
Con i suoi 148 minuti, The
End pone lo spettatore di fronte a quella che è forse la
domanda più difficile a cui rispondere: cosa rimane di noi quando
mentiamo a noi stessi riguardo ai nostri sogni e ai nostri desideri
più inconsci? È questo il demone che logora Madre, Padre e i pochi
sopravvissuti. Lo stesso demone da cui vogliono salvare, senza
riuscirci, Figlio. Perché, come dice lo stesso Oppenheimer:
“Quello che volevo era esplorare la logica conclusione di questo
autoinganno: una famiglia rintanata in un bunker anni dopo che
tutti gli altri sono morti, godendo di ogni confort, un ultimo
barlume di coscienza umana circondata dagli artefatti di una specie
scomparsa, ripetendosi disperatamente di essere felici e di star
bene, e che quindi sia tutto a posto. È un ottimismo che nasce
dalla paura. Spaventati dall’affrontare le proprie colpe, i
personaggi temono il cambiamento, perché per cambiare dovrebbero
riconoscere i propri errori e accettare il proprio passato. Finché
non riusciranno a farlo, saranno condannati a mentire a loro
stessi, persino nei loro pensieri più privati.”
Il cielo in una miniera di
sale
Il film si svolge interamente in
un’unica unità di luogo, le spettacolari miniere di sale di
Petralia Soprana, in Sicilia. In quel sito risalente a milioni di
anni fa (in cui è stato allestito il MACSS – Museo di
Arte Contemporanea Sotto Sale, unico museo di arte contemporanea al
mondo ospitato in una miniera di salgemma attiva), Joshua
Oppenheimer e la scenografa Jette Lehmann (Melancholia)
hanno lavorato spinti da un unico obiettivo: supplire alla mancanza
di cielo e della luminosità delle finestre per far dimenticare al
pubblico di trovarsi sempre all’interno di un bunker. Per questo
l’ambiente in cui vivono Padre, Madre, Figlio e i loro pochi amici
è una casa spaziosa in cui un simulacro di luce naturale entra
attraverso i soffitti e si diffonde da una stanza all’altra. Al
posto delle finestre, gli splendidi dipinti impressionisti e
post-espressionisti portati lì da Madre, come la Ballerina di Renoir o il Diluvio di Francis Danby,
per rappresentare una sorta di “finestre”, per
l’appunto, sul mondo di un tempo, su quello che si è perso:
come una bellissima bugia, che ricorda una realtà ormai
inesistente, la cui presenza si trasforma talvolta in un monito per
i sopravvissuti.
L’ammonimento come
atto di speranza
A differenza di film come Don’t
look up!, apparentemente simili nelle intenzioni, quella di
Oppenheimer, non è una satira in cui si punta il dito contro la
famiglia certamente ricca che ha certamente una responsabilità
riguardo la catastrofe climatica avvenuta, bensì un’opera che mette
lo spettatore di fronte a uno specchio perfettamente tirato a
lucido.
Persino l’introduzione di un
estraneo, un sopravvissuto, all’interno di quell’equilibrio
perfetto che è la vita nel bunker, riesce quasi a non avere
conseguenze, tanto che seppur cambiando gli equilibri e scardinando
l’apparente perfezione di quella vita sottoterra, alla fine non
cambia niente e la speranza, in fondo a quel tunnel oscuro, rimane
definitivamente morta.
Quest’ultima famiglia umana
sopravvissuta potrebbe essere ogni famiglia. Potrebbe essere la
nostra famiglia perché The End parla di tutti noi.
“Ho sempre pensato che creare un racconto
di ammonimento fosse un atto di speranza, costruito sulla
convinzione che non sia troppo tardi per cambiare” dice
Oppenheimer. Sta a noi scegliere se essere Madre, Padre, Figlio o
Sconosciuta. Se mentire su quello che vogliamo, scegliere cosa
vogliamo lasciarci alle spalle e cosa potremmo essere. Se vivere o
sopravvivere. Se arrenderci o fare la differenza.
E speriamo di
capirlo prima di ritrovarci in un bunker sotterraneo senza più un
cielo sopra le nostre teste, ma solo l’infinito sale di una miniera
millenaria. Per quanto bellissima, sia chiaro.
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