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Stardust, recensione del film con Johnny Flynn #RFF15

Stardust, recensione del film con Johnny Flynn #RFF15

In un biopic si può puntare sul mainstream, raccontare un artista attraverso i suoi grandi successi, dare al pubblico ciò che si aspetta di vedere, restituendo l’immagine iconica della figura in questione, oppure cercare di esplorarne i lati meno noti e, come ormai spesso si fa, puntare su episodi o aspetti per lo più sconosciuti della vita e della carriera di un personaggio divenuto famoso. In tutti e due i casi, la strada è scivolosa, perché si ha a che fare appunto con delle icone. Il pubblico le ama e non vuole vedere rovinata l’immagine  che ha di loro. David Bowie è senza dubbio una di queste figure. Simbolo del glam rock e tra i capisaldi del rock tout court, amato da più generazioni e spesso da persone dai gusti musicali i più disparati. Un artista trasversale, la cui musica è entrata a far parte della memoria collettiva.

Il regista britannico Gabriel Range gli dedica il suo Stardust, che partecipa nella Selezione Ufficiale alla Festa del Cinema di Roma. E sceglie proprio di parlare del Bowie prima del successo, quello che i più non conoscono. Il film non può purtroppo contare sulla musica di Bowie, poiché, come ha dichiarato lo stesso regista, la famiglia non gli ha permesso di utilizzarla, ma a sua detta, l’estraneità dei familiari al progetto gli ha dato maggiore libertà di esprimersi.

Stardust, la trama

1971, Washington. David Bowie (Johnny Flynn) è agli inizi. Di lui si conoscono solo un paio di brani dall’album Space Oddity, tra cui la title track. Mentre The man who sold the world, appena uscito, è giudicato troppo triste e oscuro e non sta andando affatto bene. La sua etichetta, la Mercury, lo vuole scaricare, ma lui è ambizioso e vuole il successo. Quello che manca, dice il suo agente, “è un personaggio da vendere”. Chi è David come artista? Mentre cerca di rispondere a questa domanda, Bowie si imbarca per un tour negli Usa che si rivela un fallimento. Non ci sono soldi e i documenti di David non sono in regola, così non può suonare, ma solo parlare, ovvero rilasciare interviste. Nonostante Ron Oberman (Marc Maron), l’unico in America che crede in lui, si faccia in quattro per procurargli incontri con giornalisti e serate clandestine in cui esibirsi, Bowie colleziona un fiasco dopo l’altro. Scostante e provocatore con i giornalisti, confuso su sé stesso, è preda dei fantasmi del passato e della paura di impazzire, finché non realizza che la chiave del successo è diventare qualcun altro: Ziggy Stardust.

Un Bowie intimo ma nebuloso e poco coinvolgente

In questo lavoro scritto a quattro mani con Christopher Bell, Range punta i riflettori sul viaggio interiore che ha portato Bowie ad essere quello che conosciamo e svelare aspetti pressoché ignoti della sua vita. Si parla di disturbi mentali in famiglia: la schizofrenia di cui soffriva il fratello maggiore Terry e la malattia mentale che aveva colpito tre sue zie e la madre. Si evidenzia la paura di Bowie di ammalarsi anch’egli. Emerge anche una figura di artista ancora immaturo e incerto, che non sa bene cosa vuole fare della propria arte, cosa vuole essere nel panorama musicale. L’unica cosa chiara è che vuole avere successo.

Il problema di Stardust non è tanto, o non è solo che Flynn non canti le canzoni di Bowie, ma che effettivamente si racconti poco e in maniera confusa proprio ciò che dovrebbe essere il fulcro del film. Non solo Flynn canta Jaques Brel – Bowie ne fece alcune cover durante le sue apparizioni live nei primi anni ’70, tra cui My Death e Amsterdam qui presenti – e gli Yardbirds, oltre a una canzone composta dallo stesso Flynn per il film. Ma il lavoro  non fa capire molto sul percorso interiore dell’uomo Bowie. Egli ha creato il suo Ziggy Stardust “per vivere la follia in modo sicuro”, come ha dichiarato il regista? Oppure ha semplicemente esorcizzato in questo modo le proprie paure, dando spazio all’immaginazione? Vista la sua lunga e fulgida carriera, sembra difficile pensare ad un uomo con un quoziente così elevato di instabilità, né il regista sembra crederci fino in fondo, sebbene flirti a lungo con questa possibilità. Il rapporto col fratello Terry, Derek Moran, poi, non è approfondito, sebbene si intuisca fosse stretto e sia presente in diversi momenti, sia della vita reale, che nei flash visionari di David. Dal punto di vista stilistico, la parte più surreale e visionaria del film non si integra in modo ottimale col resto della narrazione, dai toni realistici.

Flynn (attore di serie tv e di film come Sils Maria di Olivier Assayas e Emma di Autumn de Wilde) lavora molto bene su pronuncia e timbro del parlato, che somigliano effettivamente a quelli di Bowie. Nel cantato, la sfida più difficile, ciò avviene meno e l’attore – che è anche musicista con la band Johnny Flynn and the Sussex Wit  –  non sempre sopperisce con l’intensità dell’interpretazione. La sua performance attoriale è altalenante.

Monocorde risulta il personaggio di Angie, moglie di Bowie, interpretata da Jena Malone, che non fa che accusare il marito di essere assente o non fare abbastanza. Manca un vero approfondimento sul loro rapporto.

Bowie e la scena glam rock, tutta “fuffa”?

Intervistato, Bowie non appare particolarmente brillante, non particolarmente efficace come provocatore, che pure vorrebbe essere. Sembra piuttosto atteggiarsi da dandy e trasgressivo, non essendo ben consapevole di ciò che fa e perché. La sua figura non ne esce benissimo, così come altri protagonisti del rock di quegli anni. Mark Bolan dei T-Rex, interpretato da James Cade, ma anche personaggi della scena americana come Lou Reed e Andy Warhol, che sarebbero stati fondamentali per Bowie, e lui per loro. Ne escono quasi come dei fantocci, dei personaggi costruiti ad arte dietro i quali c’è molta “fuffa”. Questo sorprende da parte di chi ammira Bowie e il rock di quegli anni. Sembra quasi dar ragione a chi definisce rock, e glam in particolare, come qualcosa di appariscente senza però grande sostanza.

La monotonia di Stardust

Il lavoro diretto da Range risulta quindi lento e noioso perché porta lo spettatore in giro per questo tour americano fallimentare dall’inizio, fino quasi alla fine del film. Una sequela di tappe rovinose, una uguale all’altra, cui è dedicato davvero troppo spazio. Stardust non riesce mai a coinvolgere con un momento davvero trascinante. Resta un peregrinare monotono che sembra senza meta perché il protagonista stesso non sa dove sta andando, nella vita e nella professione.

Trash, recensione del film di Luca Della Grotta e Francesco Dafano #RFF15

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Un messaggio socialmente edificante, ispirazione, grazie e padronanza tecnica si fondono in Trash – La leggenda della piramide magica, una nuova avventura in tecnica ibrida, in cui i protagonisti in animazione si muovono dentro scenari reali, una Roma notturna, silenziosa e bellissima, con i suoi platani e i suoi ponti.

La trama di Trash

La storia è quella di Slim e Bubbles. Sono due contenitori che hanno terminato il loro ciclo di utilizzo, dei vuoti che non servono più a nulla, sono spazzatura. Slim è una scatola logora e disincantata, Bubbles una bottiglia di bibita gassata, ammaccata ma molto romantica e sognatrice. Vivono sul pavimento di un mercato e la loro vita sembra finita fino a che non incontrano Spark, una scatoletta di batterie solari che ha, stampato sul retro della sua confezione, il simbolo del riciclo. La visione di quel simbolo ancestrale (secondo Bubbles) riporta la speranza nel cuore di questi malandati rifiuti: la piramide magica, come la chiamano loro, rappresenta la promessa di una seconda vita per tutti loro. Comincia così un viaggio avventuroso per questi simpatici rifiuti, al di fuori della loro zona di conforto, affronteranno mille difficoltà per raggiungere la piramide e aiutare il piccolo Spark. Per strada troveranno nemici, insidie, ma anche amici e una nuova consapevolezza di se stessi.

Diretto da Luca Della Grotta e Francesco Dafano, Trash – La leggenda della piramide magica riesce a portare a casa un risultato davvero notevole: è cinema educativo senza essere didattico. L’avventura alla ricerca del luogo in cui potersi riciclare ed essere nuovamente utili diventa un viaggio divertente e avventuroso, ma è anche l’occasione per guardarsi dentro e autodeterminarsi, oltre a ciò che rappresenta il loro utilizzo in senso stretto.

Character design vincente

L’aspetto visivo del film è particolarmente interessante prima di tutto nel contrasto che si crea trai fondali reali e i personaggi animati che si muovo in primo piano e, a dispetto della loro natura, sono proprio loro che animano il paesaggio, completamente privo di esseri umani. Inoltre il character design del film dimostra una grande attenzione nel costruire i personaggi sin nelle minime sfaccettature fisiche e caratteriali. Il risultato è affascinante e divertente, che riesce ad essere familiare eppure a dare la sensazione di qualcosa di mai visto prima.

Trash – la leggenda della piramide magica gioca con lo spettatore, vuole consegnare un messaggio importante che ha un valore sociale (l’importanza del riciclo) ma riesce anche ad assumere una sfumatura esistenziale in quanto racconta a chiare lettere che non solo delle cose, ma anche delle persone, bisogna imparare a prendersi cura, senza svuotarle e accantonarle troppo in fretta, in un mondo che sembra chiedercelo.

Supernova, la recensione del film con Stanley Tucci #RFF15

Supernova, la recensione del film con Stanley Tucci #RFF15

Invece che incastrarsi nella solita dinamica di viaggio fisico e metaforico di moglie e marito, Supernova di Harry Macqueen ha l’enorme pregio di spingersi più in là dei suoi predecessori, mettendo al centro del suo dramma delicato una coppia gay interpretata da Stanley Tucci e Colin Firth.

E non perché la sessualità dei protagonisti sia determinante, anzi, ma perché ci vorrebbero più film come questi per dimostrare che si possono e si devono cambiare i paradigmi e i punti di vista delle storie romantiche (e Supernova lo è nella migliore accezione) e che l’amore è, davvero, un sentimento universale, bello nella sua diversità e, talvolta, nella sua totale normalità.

“Normale” (e così raro da trovare) è l’amore che lega da vent’anni Sam, pianista, e Tusker, scrittore. Insieme partono a bordo di un vecchio camper percorrendo i paesaggi autunnali dell’Inghilterra: da qualche tempo, però, Sam si prende cura del compagno, a cui è stato diagnosticata la demenza senile, e inevitabilmente il viaggio assume un’importanza vitale. Sanno entrambi che il tempo a loro disposizione sarà sempre meno, che le abitudini lasceranno il posto all’imprevedibile, che l’uno dovrà farsi carico delle mancanze dell’altro; piccoli gesti assumono all’improvviso significati che prima sembravano impensabili, e ogni carezza o bacio vengono dati come se fosse la prima volta, ma attraversati dal dolore della mancanza che verrà.

Supernova, la recensione

Firth e Tucci sono superlativi nel modo in cui guidano attraverso il dolore dei personaggi e il film li accompagna con grazia senza mai scadere nel patetico. Pressoché priva di iperbole, anche la mano di Mcqueen è delicata e riesce a cogliere la dolcezza nei momenti che il cinema spesso trascura perché poco “spettacolari”.

Nemmeno la vastità accecante di un cielo pieno di stelle, quello che Sam e Tusker contemplano fuori e dentro il camper, potrebbe distoglierci dalla gioia – e dal privilegio – di guardare due persone che si amano così tanto nonostante le difficoltà, e questo è il vero valore aggiunto di un dramma non particolarmente originale ma estremamente sentito e interpretato da due grandissimi attori.

Steve McQueen incontra il pubblico e riceve il premio alla carriera #RFF15

Classe 1969 e londinese di nascita, il regista Steve McQueen è oggi una delle personalità più affascinanti del panorama cinematografico. Formatosi nel mondo della videoarte, egli ha poi debuttato nel cinema nel 2008 con il folgorante Hunger. Sin da quel suo esordio, egli ha introdotto tutti quelli che sono i suoi principali interessi come regista. Dalla forza di volontà al desiderio di resistenza e liberazione, e tutto ciò passando attraverso il corpo. Il corpo denutrito, il corpo oppresso e quello martoriato. Con i successivi Shame e 12 anni schiavo, con il quale vincerà il premio Oscar, McQueen si conferma uno dei nuovi grandi autori della sua generazione. Nel 2018, infine, dopo cinque anni di assenza, torna sul grande schermo con l’heist movie Widows, con protagonista Viola Davis.

Per celebrare quanto fin qui realizzato, a lui è stato conferito il premio alla carriera della 15ª edizione della Festa del Cinema di Roma. In occasione di tale evento, McQueen ha avuto modo di presentare il suo nuovo impegno da regista: la serie antologica Small Axe, il cui titolo si ispira ad un brano di Bob Marley, recitante “se voi siete il grande albero, noi siamo la piccola ascia”. Cinque episodi autoconclusivi incentrati sulla comunità caraibica di Londra tra gli anni Sessanta e Ottanta. Il primo episodio presentato, Red, White and Blue, che ha per protagonista l’attore John Boyega, ha confermato il grande potenziale del progetto, dimostrando ancora una volta le grandi capacità espressive del regista.

Steve McQueen: esiste solo la verità

L’incontro che McQueen tiene con il pubblico si apre naturalmente da lì dove la sua carriera da regista di lungometraggi ha avuto inizio. Con Hunger egli decide di raccontare lo sciopero della fame intrapreso dall’attivista Bobby Sands contro il trattamento riservato ai detenuti. Ad interpretare il protagonista vi è l’attore Michael Fassbender, che diventerà una presenza ricorrente nei film del regista. Particolarità dell’opera, vincitrice della Caméra d’or per la miglior opera prima alla Festival di Cannes, è quella di prevedere lunghissimi piani sequenza. Interrogato su questa scelta stilistica, McQueen dichiara che “l’importante per me è tenere alta la tensione. Quando si stacca da un’inquadratura all’altra, il pubblico tende inevitabilmente a distrarsi, a provare un momento di respiro. Invece non facendo questa scelta, ma dando vita ad un’unica lunga inquadratura, il pubblico rimane inchiodato lì, presente.”.

“Ho deciso di raccontare questa storia – continua il regista – perché riconobbi nel gesto di Sands un grande valore. Ciò che lui ha dimostrato è che tutti noi disponiamo delle possibilità per opporre resistenza in nome della libertà. Ad aprirmi gli occhi a riguardo è stato anche il film Zero in condotta, del regista Jean Vigo. Lo considero il mio film preferito in assoluto, ed è quello che mi ha fatto riflettere sulle cose per cui è importante combattere. Con i miei film cerco proprio di fare questo, di dare ulteriore risalto a queste capacità. La cosa più preziosa che ho imparato facendo cinema, infatti, è che non esiste giusto o sbagliato, esiste solo la verità. Vale la pena correre dei rischi in nome di questo valore.”

L’incontro prosegue poi parlando dei due successivi film di Steve McQueen. Il regista, in seguito alla visione di alcune clip tratte da questi, li introduce dimostrandone la coerenza all’interno del suo percorso cinematografico. “Come per Hungers, anche con Shame e 12 anni schiavo ho cercato il modo migliore per far emergere la verità. Nel primo, i personaggi sono spesso inquadrati di spalle. Impossibilitato a vedere i loro volti, lo spettatore sarà costretto a concentrarsi sulle loro parole, da cui emerge la loro essenza. Per 12 anni schiavo, invece, non mi sono risparmiato nel mostrare le crudeltà che realmente gli schiavi subivano. Trovo che il problema del razzismo possa essere sconfitto solo con il progresso. Sono un fervente sostenitore del progresso. Nessuno vorrebbe trovarsi dalla parte sbagliata della storia.

Dalla videoarte al cinema

Prima di intraprendere la carriera di regista cinematografico, Steve McQueen si è formato come artista, divenendo noto come fotografo e scultore. Grande appassionato di arti figurative, il passaggio dietro la macchina da presa è inevitabile e avviene ben presto. Egli realizza così numerosi cortometraggi, come Bear, Exodus, e Giardini, poi raccolti e presentati alla Biennale di Arti Visive di Venezia. Tale formazione artistica si ritrova anche in tutti i suoi lungometraggi, i quali vantano una grande cura nella composizione della messa in scena. Prima di concludere l’incontro, a McQueen viene a tal proposito chiesto quanto il suo lavoro da artista influenzi quello da regista, e viceversa. “Per quanto per me non vi siano grandi differenze, – risponde il regista – sono consapevole che si tratta di due ambiti molto diversi tra loro.”

“Il cinema è un arte narrativa, – continua poi – per me è molto simile al romanzo da questo punto di vista. L’arte figurativa o la videoarte, invece, sono oggetti molto più simili a dei frammenti. Rimanendo su un paragone letterario, li considero come fossero dei componimenti poetici. Sono due forme comunicative molto diverse, ma alla fine ciò che conta è che siano d’impatto. L’arte, per me, deve essere in grado di suscitare emozioni e riflessioni a prescindere dalla sua forma. A trasmettermi questa concezione è stato anche quello che ritengo il mio film italiano preferito: Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti. Mi ha permesso di comprendere davvero la passione che un film può emanare.” Conclusosi l’incontro, McQueen riceve infine il premio alla carriera, la quale promette però di essere ancora lunga e ricca di successi.

Benim Hala Umudum Var, serie tv: cast, trama e streaming

Benim Hala Umudum Var, serie tv: cast, trama e streaming

Negli ultimi anni i prodotti televisivi turchi stanno avendo un successo incredibile in Italia. Grazie a serie tv come Daydreamer – Le Ali del Sogno – con gli amatissimi Can Yaman e Demet Özdemi – che ha fatto da apripista, oggi abbiamo accesso a tantissimi contenuti provenienti dalla tv turca. Una delle serie tv più amate in Turchia e che presto potrebbe arrivare anche in Italia è Benim Hala Umudum Var.

La serie, il cui titolo inglese è I Still Have A Hope, è un romance drama, ideato da Deniz Akçay per la Star TV, andato in onda tra il 2013 e il 2014 per una sola stagione di 33 episodi. La storia è ambientata in un quartiere medio borghese di Istanbul e segue le vicende di una ragazza alle prese con un nuovo amore e un nuovo ed esaltante futuro.

Benim Hala Umudum Var cast e trama

Protagonista della serie è Umut (Gizem Karaca) una giovane ragazza di appena ventitrè anni che lavora come manicurista presso un famoso salone di bellezza, specializzato nella cura dei capelli. Umut vive con sua madre Zeliha (Nergis Corakci), il suo patrigno Zafer (Ali Erkazan), due sorellastre e due fratellastri. Nonostante il suo carattere solare, Umut viene trattata dalla famiglia come la Cenerentola di casa.

Le sue sorellastre, gelosissime di lei, non contribuiscono minimamente alla gestione della casa che ricade completamente sulle spalle di Umut. E’ lei l’unica ad aiutare sua madre e a pensare a rassettare e a far da mangiare. Ma le sorellastre non sono le sole a renderle la vita un inferno. Il suo patrigno e uno dei suoi fratellastri, Musa (Burak Altay), continuano a metterle i bastoni tra le ruote. Zafer è un uomo violento e alcolizzato che sperpera il suo denaro e anche quello di Umut per comprarsi da bere. Allo stesso tempo, Musa, estremamente conservatore, non vuole che le sue sorelle frequentino ragazzi e abbiano un fidanzato.

La vita di Umut è un vero inferno ma la ragazza cerca sempre di avere un atteggiamento positivo e di andare avanti un giorno alla volta. Ma finalmente un giorno qualcosa comincia a cambiare. Umut incontra per caso un ragazzo, Ozan (Sukru Ozyildiz), che comincia a lavorare come parrucchiere nel suo stesso salone di bellezza. Ozan è o giovane, molto attraente e amante delle belle donne ma nasconte un grande segreto.

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Ozan è infatti molto ricco ma finge di essere al verde per far colpo di Umut, che più volte ha detto di avere dei pregiudizi nei confronti della persone benestanti. Così il ragazzo, per poterle stare vicino e conoscerla meglio, si finge povere e ottiene un lavoro come parrucchiere.

Il tempo passa e i ragazzi, ‘costretti’ a passare tanto tempo insieme al lavoro, si innamorano l’uno dell’altra. A causa però della famiglia di Umut, così arretrata e conservatrice, e del segreto di Ozan, i due decidono di mantenere privata la loro relazione.

I ragazzi non potrebbero essere più diversi di così. La famiglia di Ozan è abituata a vivere una vita lussuosa, fatta di agi e feste danzanti mentre quella di Umut fatica a tirare avanti a causa anche dell’alcolismo di Zafer. Eppure nonostante tutto il rapporto creatosi tra i ragazzi sembra autentico e sincero. Per questo motivo Ozan, perdutamente innamorato Umut, cerca in tutti i modi di rivelarle il suo segreto, senza però riuscirci.

Più passa il tempo e più il loro amore si fortifica, nonostante quell’ingombrante segreto. Ozan cerca in più di un’occasione di salvare Umut dalla sua famiglia, per rendere migliore e più felice la vita della donna che ama. Ma le differenze sociali e culturali sono incolmabili e finiranno col causare molti problemi alla coppia di giovani innamorati.

Benim Hala Umudum Var streaming: dove vederla

La serie esplora non solo il lato romantico della storia tra Umut e Ozan ma anche il problema del divario sociale che metterà a dura prova il loro rapporto. Quanto andrà avanti la commedia di Ozan? Quando Umut scoprirà delle bugie di Ozan, sarà in grado di perdonarlo? Le differenze tra le loro famiglie faranno naufragare il loro amore?

Troverete questo e molto di più ancora in Benin Hala Umudum Var (in inglese I Still Have Hope), una delle più famose e amate serie turche che potrebbe presto arrivare anche in Italia. Al momento la serie è disponibile in streaming solo in lingua originale sul sito della Star Tv oppure sottotitolata in inglese su The Global Agency.

https://youtu.be/2A0NJZCQg6U

Fonte: Wiki, IMDB, Turkish Drama

Small Axe: Red, white and blue, la recensione #RFF15

Small Axe: Red, white and blue, la recensione #RFF15

Small Axe è la destinazione perfetta di un grande autore contemporaneo che vuole trovare un punto di vista interessante, e non sempre originale e perfetto, sull’esperienza dei neri nella società e sulla creazione di una coscienza che lotta da sempre contro la supremazia bianca. In più, si tratta di una serie, il cui formato permette di non esaurire il discorso nella cornice limitata di un film e di esplorare lo stesso tema da angolazioni differenti.

Steve McQueen risponde di nuovo ad un’esigenza civile che l’aveva portato nel 2013, con 12 anni schiavo, dalle parti della storia americana, e che finalmente ci mette in contatto con le meno note e patinate vicissitudini della comunità afro-britannica tra gli anni sessanta e gli anni ottanta.

Small Axe, una serie antologica

L’immagine di una nazione multiculturale e inclusiva perpetuata nel tempo è presto contraddetta e McQueen non è il primo a parlarne: in The Lonely Londoners, lo scrittore originario di Trinidad ma cresciuto in Scozia Samuel Selvon aveva illustrato con grande precisione il fenomeno del flusso migratorio dai Caraibi in Inghilterra, a cui seguì la crisi della seconda guerra mondiale e la crescente richiesta di forza lavoro per ricostruire il paese. Richiesta a cui risposero le migliaia di anime venute dal mare, povere e bisognose di una casa e di adattarsi al meglio. Va da sé che l’apparente convivenza era destinata a non durare e Small Axe è la rappresentazione di questa grande, pacifica illusione.

La trama di Red, white and blue

Nell’episodio intitolato Red White and Blue e ambientato nei primi anni Ottanta, John Boyega interpreta Leroy Logan, un ricercatore nero che, contro ogni previsione e preghiera del padre, decide di arruolarsi nella polizia. Un’idea semplice che McQueen trascende e trasforma in un’ elaborazione – coerente con il suo percorso da Shame a Widows – dello sguardo e del potere che esercita sulle persone. Di fatto questo estratto della serie sembra puntare proprio sull’importanza e la necessità di “essere visti” e sulla duplicità che emerge quando si parla di categorie soffocate dal razzismo (essere giudicati in maniera positiva e senza etichette di razza ed essere emarginati sul luogo di lavoro, o, nella peggiore delle ipotesi, maltrattati).

A sua volta c’è un gioco interno di sguardi che rimbalzano, da Leroy che viene visto dal padre come un traditore e una delusione (ha studiato per diventare ricercatore, finisce per schierarsi con il nemico giurato degli immigrati) agli abitanti del suo quartiere che lo chiamano “coconut” (un termine dispregiativo dello slang per chi fuori è nero ma dentro ha l’anima di un bianco), fino ad arrivare ai colleghi poliziotti che lo trattano come una feccia umana che non merita nemmeno di essere soccorsa quando chiede aiuto. Infine, non meno fondamentale, c’è lo sguardo che Leroy pone su se stesso e che assume la forma di un sogno: diventare il ponte che educherà le presenti e future generazioni al dialogo e alla convivenza civile.

Osservati e osservatori alla ricerca di colpevoli e risposte

Ma come ci liberiamo dalla tenaglia di questo sguardo? Dal giudizio della famiglia, dell’accusa della società, della severa opinione verso di noi e il mondo? E quali sono gli agenti che lo creano e lo influenzano? Sono domande a cui McQueen, e l’episodio, provano a rispondere. Gli specchi, elemento di scena ricorrente, forse simboleggiano proprio questo continuo riflettersi tra sguardi, tra osservati e osservatori, dove l’uno assume il ruolo dell’altro. Un esempio è la modalità che il regista sceglie per mostrare lo stesso momento da due punti di vista differenti: gli agenti di polizia che aggrediscono il padre di Leroy e Leroy che viene picchiato da un criminale.

A cambiare è come i personaggi esercitano il loro potere, un grande assunto che stabilisce da sempre la gerarchia sociale e razziale. I poliziotti che abusano di un uomo innocente contro un uomo che fa valere il senso di giustizia; la mancanza di empatia contro un eccesso di comprensione dell’altro; “vedere” una persona, e non qualcosa di intrinsecamente e irragionevolmente sbagliato. Leroy è un’eccezione, ed è pronto a guardare perché ha allenato la sua coscienza e la sua conoscenza del mondo.

The Rossellinis: recensione del documentario di Alessandro Rossellini

C’è chi considera Roberto Rossellini il più grande regista italiano (e non solo) mai esistito, e c’è invece chi di tale figura ha ben altra considerazione. Dipende quale punto di vista si adotta a riguardo, ma se a parlare è Alessandro Rossellini, nipote dell’autore di Roma città aperta, allora questo non potrà che essere condizionato dall’esistenza vissuta con tale importante cognome sulle spalle. Nel debuttare alla regia del suo primo film, The Rossellinis, questi si propone infatti di raccontare la propria versione della storia della sua famiglia. Un occhio interno che non fa mai male, e in questo caso particolarmente inedito rispetto a quanto già si conosce della famiglia del regista. Presentato durante la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il film sarà al cinema soltanto dal 26 al 28 ottobre.

La volontà di realizzare un documentario a riguardo nasce dalla presa di coscienza di Alessandro circa la Rossellinite. Questo è il nome da lui dato ad una particolarissima malattia, esclusiva della sua famiglia. Che lo si ammetta o pure no, tutti i discendenti del celebre regista neorealista sembrano esserne affetti. Per Alessandro, che si assume il compito di far riconoscere anche ai suoi parenti tale patologia, essa sarebbe caratterizzata dalla difficoltà di gestire un nome tanto importante. Tale responsabilità porterebbe dunque a reazioni e comportamenti che tentano di alleviarne il peso, con risultati talvolta imprevedibili. Si tratta ovviamente di un grande gioco, che non manca però di avere il suo fondo di verità. Attraverso il viaggio di Alessandro Rossellini si ripercorrerà così tanto la filmografia del celebre regista quanto la storia della sua numerosa famiglia.

Le colpe dei padri

Marito, amante, padre, nonno. Roberto Rossellini oltre a quello di regista ha ricoperto nella sua vita anche tali ruoli famigliari. Se con successo o meno dipende a quale dei suoi congiunti lo si chiede. Per Alessandro, il nipote, la figura del nonno è evidentemente stata piuttosto ingombrante nella propria personale formazione e autorealizzazione. Nonostante la sua scomparsa avvenuta nel 1977, questi ha continuato ad essere una figura centrale nella vita del regista di questo documentario, che decide ora di fare i conti con il suo passato e con quello della sua famiglia. Impresa più facile a dirsi che a farsi, ovviamente. L’autore neorealista ha infatti avuto ben tre mogli, nonché diversi figli. Riunirli per l’occasione richiede diversi spostamenti, alcuni in luoghi particolarmente remoti.

Dall’Italia alla Svezia e fino agli Stati uniti, nel tentativo di scoprire come ognuno dei figli di Roberto abbia gestito un cognome tanto invadente. Tale viaggio porta Alessandro alla scoperta di realtà diverse, tra chi come la zia Isabella Rossellini ha saputo far fruttare la cosa, a chi invece, come lo zio Robin, ha scelto una vita da eremita su di un’isola. In percorsi di vita tanto diversi si ritrova però un elemento comune, e che sembra infondo aver influenzato il modo di vivere e pensare di ognuno dei Rossellini. Si tratta del ricordo di Roberto come di un possessivo, ma benevolo, padre o nonno. Vero e proprio collante tra famiglie che esercitava, ed esercita tutt’ora, tale insostituibile ruolo.

Pur non essendo più fisicamente presente tra loro, la sua figura è comunque motivo di riunione e riscoperta. In fondo, pur partendo da motivi personali, è in nome del nonno che Alessandro intraprende il suo viaggio, e sempre nel suo nome si svolgono le conversazioni tra i vari parenti. The Rossellinis acquista così la forma di un vero e proprio album di famiglia, dove si collezionano ricordi e immagini di un passato che ha ancora molto da dire. Quelle che potevano essere le classiche colpe di un padre che ricadono sui figli diventano invece motivo di riflessione e di riaffermazione delle proprie individualità.

The Rossellinis recensione

The Rossellinis: la recensione del documentario

Quello che poteva facilmente diventare un non necessario focus sulla famiglia Rossellini acquista ben più interesse di quanto si poteva immaginare. Nel seguire il regista nel corso dei suoi viaggi e delle sue reunion famigliari, lo spettatore ne esce arricchito con affascinanti retroscena, curiosità ed episodi spesso inediti. L’elemento che più sorprende, tuttavia, è la grande ironia che Alessandro infonde nel documentario. Nell’affrontare il suo primo esperimento cinematografico, egli sembra essere consapevole dei propri limiti, e sceglie da subito di non prendersi sul serio. Ciò gli permette di non acquisire un’autorità che avrebbe rischiato di allontanare lo spettatore, assumendo invece un ruolo con cui è più facile relazionarsi.

Egli, pur parlando sempre e comunque dei Rossellini e di Roberto, riesce allo stesso tempo a far acquisire alla propria famiglia quell’universalità con la quale è possibile generare un legame. In fin dei conti, ciò che ci viene mostrato, pur con le caratteristiche uniche, non è altro che il bisogno di una famiglia di ritrovarsi. Attraverso questo sentimento è possibile costruire un racconto coinvolgente ed emozionante, che permette di riflettere tanto sui Rossellini quanto sul proprio privato.

Le streghe di Robert Zemeckis in esclusiva digitale dal 28 ottobre

Preparatevi a festeggiare la notte di Halloween con “Le streghe“, il film fantasy diretto dal regista premio Oscar Robert Zemeckis (“Forrest Gump”, “Ritorno al futuro”) e tratto dall’amato racconto di Roald Dahl, in arrivo in Italia in esclusiva digitale da lunedì 28 ottobre, disponibile per l’acquisto e il noleggio premium su Amazon Prime Video, Apple Tv, Youtube, Google Play, TIMVISION, Chili, Rakuten TV, PlayStation Store, Microsoft Film & TV e per il noleggio premium su Sky Primafila e Infinity.

Le Streghe”, che vede tra i produttori anche Guillermo del Toro e Alfonso Cuaron, sarà inoltre presentato in anteprima domenica 25 ottobre, nella giornata di chiusura della 18° edizione di “Alice nella Città”, con una speciale proiezione alla Sala Alice TIMVISION La Nuvola all’EUR (Viale Asia).

Il film è interpretato dalle attrici premi Oscar Anne Hathaway (“Les Misérables”, “Il Diavolo veste Prada”, “Ocean’s 8”) e Octavia Spencer (“The Help”, “La forma dell’acqua – The Shape of Water”), dal candidato all’Oscar Stanley Tucci (i film di “Hunger Games”, “Amabili resti”), con Kristin Chenoweth (le serie TV “Glee” e “BoJack Horseman”) e il pluripremiato comico leggendario Chris Rock. Fa parte del cast anche l’esordiente Jahzir Kadeem Bruno (“Atlanta” in TV), al fianco di Codie-Lei Eastick (“Holmes & Watson”).

Rivisitando l’amato racconto di Roald Dahl per un pubblico moderno, la visione innovativa de “Le streghe” di Zemeckis, narra la storia commovente e ricca di humor nero di un giovane orfano (Bruno) che, alla fine del 1967, va a vivere con la sua adorata nonna (Spencer) a Demopolis, una cittadina rurale dell’Alabama. Il ragazzo e sua nonna si imbattono in alcune streghe apparentemente glamour ma completamente diaboliche, così la nonna saggiamente decide di portare il nostro giovane eroe in una sfarzosa località balneare. Purtroppo arrivano esattamente nello stesso momento in cui la Strega Suprema (Hathaway) ha riunito la sua congrega di fattucchiere di tutto il mondo -sotto copertura- per portare a termine i suoi piani malefici.

Con un libro venduto ogni 2,5 secondi per un totale di oltre 300 milioni di copie vendute, tradotto in 41 diverse lingue nel mondo, il racconto di Roald Dahl rimane uno dei testi di riferimento per i ragazzi di tutte le generazioni.

La sceneggiatura, basata sul libro di Roald Dahl, è di Robert Zemeckis e Kenya Barris (la serie TV “black-ish“, “Shaft”) e il premio Oscar Guillermo del Toro (“La forma dell’acqua – The Shape of Water”). Il film è prodotto dallo stesso Zemeckis, al fianco di Jack Rapke, del Toro, Alfonso Cuaron e Luke Kelly; mentre la produzione esecutiva è di Jacqueline Levine, Marianne Jenkins, Michael Siegel, Gideon Simeloff e Cate Adams.

La squadra creativa di Zemeckis che ha lavorato dietro le quinte, include un elenco di suoi frequenti collaboratori, tra cui il direttore della fotografia nominato all’Oscar Don Burgess (“Forrest Gump”), lo scenografo Gary Freeman, i montatori Jeremiah O’Driscoll e Ryan Chan, la costumista candidata all’Oscar Joanna Johnston (“Allied: Un’ombra nascosta”, “Lincoln”) e il compositore nominato all’Oscar Alan Silvestri (“Polar Express”, “Forrest Gump”).

Warner Bros. Pictures presenta, una produzione Image Movers / Necropia / Experanto Filmoj, un film di Robert Zemeckis, “Le streghe”.

Diabolik: il teaser trailer dei film con Luca Marinelli

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Diabolik: il teaser trailer dei film con Luca Marinelli

01 Distribution ha diffuso il primo teaser trailer di Diabolik, l’adattamento cinematografico del personaggio creato dalle sorelle Giussani e portato su grande schermo dai Manetti Bros. Nel breve video vediamo Luca Marinelli, Miriam Leone e Valerio Mastandrea nei panni, rispettivamente, di Diabolik, Eva Kant e Ginko.

Il film, adattamento cinematografico delle avventure del personaggio creato da Angela e Luciana Giussani, è diretto dai Manetti bros., scritto da Michelangelo La Neve e Manetti bros., che hanno firmato anche il soggetto insieme a Mario Gomboli.

DIABOLIK è una produzione Mompracem con Rai Cinema, prodotto da Carlo Macchitella e Manetti bros., in associazione con Astorina, con il sostegno di Emilia – Romagna Film CommissionFriuli Venezia Giulia Film CommissionFilm Commission Vallee D’Aoste.

Il film uscirà nelle sale italiane il 31 dicembre 2020 distribuito da 01 Distribution.

The Jump, recensione del film di Giedrė Žickytė #RFF15

The Jump, recensione del film di Giedrė Žickytė #RFF15

Fa parte della Selezione Ufficiale della Festa del Cinema di Roma The Jump, il film lituano della regista Giedre Zickyte, documentarista nota in patria – e produttrice del film con la sua Moonmakers, assieme a  VFS Films e Faites Un Voeu, in associazione con Naked Edge Films – le cui opere sono state scelte per diversi festival internazionali. Tanto è vero che The Jump arriva a Roma dopo essere stato presentato in prima mondiale al Warsaw International Film Festival.

Quella che la regista sceglie di raccontare è una storia di disperata ricerca di libertà da parte di un uomo vissuto sotto il regime sovietico. Regime che lei stessa ha conosciuto da bambina, essendo la Lituania tornata indipendente quando aveva 10 anni, nel 1990. E’ quella voglia di libertà e quell’America sognata come un paradiso, ma troppo difficile da raggiungere che si vuole raccontare.

La trama di The Jump, diserzione, detenzione e infine di libertà

E’ il 23 novembre del 1970 quando una motovedetta della Guardia Costiera americana e una nave sovietica si incontrano a largo della costa orientale degli Stati Uniti per discutere di diritti di pesca nell’Atlantico. I comandanti sovietici salgono a bordo della nave Usa ed è lì che il marinaio lituano Simas Kudirca decide di tentare il tutto per tutto e fare lo stesso. Le due navi sono vicinissime e lui con un balzo è sulla nave americana, dove chiede asilo politico. In un primo momento gli americani danno rifugio a Simas, ma poi sono costretti da ordini superiori a restituirlo ai sovietici. Sarà processato per tradimento e condannato a 10 anni, spedito poi sugli Urali nei campi di lavoro. Nel frattempo in Usa si moltiplicano le proteste di piazza e i movimenti che chiedono la liberazione di Simas. Quando ormai sembra non ci sia più nulla da fare, un fatto nuovo promette di spalancare al marinaio le porte della tanto sognata libertà e quelle degli Stati Uniti.

Il racconto di protagonista e testimoni

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E’ lo stesso Simas, oggi novantenne, ad accompagnare lo spettatore lungo tutta la sua storia, sono la passione e il trasporto nei suoi occhi azzurri lucidi e sgranati, l’autentica commozione, ma  al tempo stesso la grande forza che promana da quest’uomo a coinvolgere lo spettatore. Inoltre, la regista fa una scelta vincente: servirsi dell’energia di Simas e della sua voglia di rendere il pubblico partecipe, mettere in atto una vera e propria ricostruzione degli eventi nelle loro fasi salienti, tornando con l’anziano marinaio sui luoghi della vicenda. Le concitate fasi della tentata fuga sulla nave americana Vigilant hanno il ritmo avvincente di un film d’azione e la suspense di un thriller, con l’anziano trascinato quasi da un furor mentre le racconta e le rivive. I corridoi della prigione  di Vilnius, dove fu rinchiuso, e la cella 13, che Simas definisce “la sua casa”, mentre ricorda la durezza della prigionia. Poi il campo di lavoro, il gelo e le privazioni. Ma non c’è solo la sua voce. Vi sono anche il comandante della nave Usa, Ralph W. Eutis, sospeso dopo l’inchiesta che venne aperta sull’accaduto, e altri membri dell’equipaggio come Paul E. Pakos. Vi sono le voci delle attiviste che si spesero tantissimo per creare un movimento per la liberazione di Simas, Daiva Kezis e Grazina Peagle, fino alle testimonianze di politici del calibro di Henry Kissinger.

La seconda parte del documentario, che ripercorre il soggiorno statunitense di Simas e della sua famiglia, durato fino al 2007, quando l’anziano ha fatto ritorno in Lituania dove oggi vive, è meno avvincente, come prevedibile. Manca la tensione della prima parte e la narrazione è più lenta. Colpiscono però alcune dichiarazioni rilasciate da Simas alle tv Usa, dove era invitato come una celebrità, trattato da eroe. Egli, conscio di cosa significassero povertà e privazioni, invitava gli americani a riflettere sul proprio benessere, a non sprecare e non dare nulla per scontato.

I materiali inediti e i filmati d’epoca

La ricostruzione è interessante non solo per la passione trascinante che il protagonista mette nel racconto, ma anche per la modalità in cui questo si dipana, alternando i ricordi dei testimoni a materiale di repertorio eterogeneo e spesso inedito, abilmente montato. Dalle  foto ai documenti d’epoca, ai filmati delle manifestazioni, a quelli dei discorsi di un imbarazzato Nixon che non sa come giustificare il comportamento della democratica America, patria della libertà, che in piena Guerra Fredda restituisce un richiedente asilo all’Urss. Fino a un vero e proprio film di finzione, The Defection of Simas Kudirca,  che raccontò la vicenda negli anni Settanta, protagonista Alan Arkin. Moltissimo materiale, ben assemblato nel montaggio efficace di Thomas Ernst e Danielius Kokanauskis, che spinge a una riflessione sui diritti umani e civili in Russia, in America e ad ogni latitudine, indagando però soprattutto il rapporto degli Usa con questi temi.

The Jump è il racconto di un sogno di libertà infine realizzato. Un racconto coinvolgente da un testimone prezioso, diretto da una talentuosa regista, i cui lavori sono da riscoprire e che farà ancora parlare di sé.

The Batman: nuovi video in sella alle moto direttamente dal set

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The Batman: nuovi video in sella alle moto direttamente dal set

Sono ripartite a pieno regime le riprese di The Batman, e dopo le belle foto, ecco due video dal set in cui l’Uomo Pipistrello è alle prese con un inseguimento, ai danni di Selina Kyle. Riuscirà ad acciuffarla?

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https://twitter.com/HeadsScreen/status/1316082514457497601?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E1316082514457497601%7Ctwgr%5Eshare_3%2Ccontainerclick_1&ref_url=https%3A%2F%2Fscreenrant.com%2Fbatman-movie-catwoman-set-photos-video%2F

Il cast di The Batman è formato da molti volti noti: insieme a Robert Pattinson nei panni di Bruce Wayne, ci saranno anche Colin Farrell (Oswald Chesterfield/Pinguino), Zoe Kravitz (Catwoman), Jeffrey Wright (Jim Gordon), Paul Dano (Enigmista) e Andy Serkis (Alfred). Infine, John Turturro sarà il boss Carmine Falcone. Nel cast anche Peter Sarsgaard che sarà Gil Colson, il Procuratore Distrettuale di Gotham.

The Batman esplorerà un caso di detective“, scrivono le fonti. “Quando alcune persone iniziano a morire in modi strani, Batman dovrà scendere nelle profondità di Gotham per trovare indizi e risolvere il mistero di una cospirazione connessa alla storia e ai criminali di Gotham City. Nel film, tutta la Batman Rogues Gallery sarà disponibile e attiva, molto simile a quella originale fumetti e dei film animati. Il film presenterà più villain, poiché sono tutti sospettati“.

Spider-Man 3 – Holland, Maguire, Garfiled, la SONY seda gli entusiasmi

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La Sony Pictures ha smentito e così sedato le voci che volevano Tobey Maguire e Andrew Garfield vicini alla firma per partecipare a Spider-Man 3. La voce circola da un po’ di tempo con i fan che comprensibilmente si stanno emozionando e agitando, perché sarebbe davvero l’inizio di uno Spiderverse anche al cinema! SONY fa ora chiarezza.

Maguire ha interpretato il supereroe in tutti e tre i film di Sam Raimi – Spider-Man, Spider-Man 2 e Spider-Man 3 – mentre Garfield ha assunto il ruolo per il reboot di Sony in The Amazing Spider-Man del 2012. Ma visto che il secondo film non è andato come previsto, la SONY ha bloccato il progetto ed ha poi stretto un accordo con Marvel Studios e assunto Tom Holland, Spider-Man attualmente in carica.

Questa settimana sono circolate online voci secondo cui Maguire e Garfield erano in trattativa o addirittura avevano già firmato per interpretare i rispettivi personaggi di Peter Parker in Spider-Man 3. Tuttavia, in una dichiarazione a ET Canada, un rappresentante di Sony Pictures ha detto: “Quei casting di voci non sono confermati”. Gli studi non sempre commentano le voci sul casting, ma in questo caso Sony ha smentito le voci attualmente in circolazione su Maguire e Garfield.

Questo non esclude un futuro coinvolgimento dei “vecchi” Uomo Ragno nel film, tuttavia, al momento, si tratta solo di voci alimentate dall’entusiasmo.

Cosa sappiamo di Spider-Man 3?

Di Spider-Man 3 – che arriverà al cinema il 17 Dicembre 2021 – si sa ancora molto poco, sebbene la teoria più accredita è quella secondo cui il simpatico arrampicamuri sarà costretto alla fuga dopo essere stato incastrato per l’omicidio di Mysterio (e con il personaggio di Kraven il Cacciatore che sarebbe sulle sue tracce). Naturalmente, soltanto il tempo sarà in grado di fornirci maggiori dettagli sulla trama, ma a quanto pare il terzo film dovrebbe catapultare il nostro Spidey in un’avventura molto diversa dalle precedenti…

Tom Holland si è unito al MCU nei panni di Peter Parker nel 2016: da allora, è diventato un supereroe chiave all’interno del franchise. Non solo è apparso in ben tre film dedicati ai Vendicatori della Marvel, ma anche in due standalone: Spider-Man: Homecoming e Spider-Man: Far From Home. La scorsa estate, un nuovo accordo siglato tra Marvel e Sony ha permesso al personaggio dell’Uomo Ragno di restare nel MCU per ancora un altro film a lui dedicato – l’annunciato Spider-Man 3 – e per un altro film in cui lo ritroveremo al fianco degli altri eroi del MCU.

Disney+ aggiunge un avviso in testa ai film con contenuti razzisti

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Disney+ ha aggiunto degli avvisi in testa ai film del suo catalogo con contenuti razzisti. Il 2020 ha visto un’enorme resa dei conti culturale per quanto riguarda il trattamento delle persone di colore, sia nell’industria dell’intrattenimento che al di fuori di essa.

Mentre nella produzione hollywoodiana si chiede più inclusione nelle strutture produttive dei film e delle serie tv, alcune aziende hanno affrontato l’argomento che per troppo tempo è stato messo da parte nella storia. Ad esempio, gli episodi televisivi passati che coinvolgono Blackface sono stati rimossi da vari servizi di streaming e film di un certo calibro, quali ad esempio Via Col Vento, sono stati etichettati come film che contengono contenuti sensibili.

Dal suo lancio ad oggi, Disney+ ha compiuto i suoi piccoli passi per combattere gli esempi passati di stereotipi razziali. La piattaforma ha incluso dichiarazioni di non responsabilità nelle descrizioni di vari film che avvertivano il pubblico che “potrebbero contenere rappresentazioni culturali obsolete”. A quel tempo, alcuni apprezzarono il gesto, mentre altri notarono che così facendo si mancava di sottolineare il problema più grande, definendo queste raffigurazioni “obsolete” invece che razziste. Ora, Disney+ sta ufficialmente portando avanti la politica di questi avvisi con un ulteriore passo avanti.

La Disney ha creato una nuova campagna chiamata “Stories Matter“, che mira a mettere sotto i riflettori più voci diverse mentre rivede i casi del passato in cui la società non ha lavorato bene in fatto di inclusione. In primo luogo, questa iniziativa viene portata avanti attraverso nuovi avvisi per Disney+. Invece di lasciare un disclaimer all’interno della descrizione, gli avvisi vengono ora riprodotti prima del film stesso e non sono ignorabili. Il messaggio recita:

Questo programma include rappresentazioni negative e / o maltrattamenti di persone o culture. Questi stereotipi erano sbagliati allora e sono sbagliati adesso. Piuttosto che rimuovere questo contenuto, vogliamo riconoscere il suo impatto dannoso, imparare da esso e stimolare la conversazione per creare un futuro più inclusivo insieme.

Disney si impegna a creare storie con temi ispiratori e ambiziosi che riflettano la ricca diversità dell’esperienza umana in tutto il mondo.

Per saperne di più sull’impatto delle storie sulla società, visita il sito www.disney.com/StoriesMatter

Denis Villeneuve aveva dimenticato di aver scartato Timothée Chalamet in Prisoners

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Il regista Denis Villeneuve aveva completamente dimenticato di aver incontrato Timothée Chalamet prima di Dune, poiché ha scartato il giovane attore, quando si propose per Prisoners, suo bellissimo film del 2013.

Villeneuve è l’ultimo regista in ordine di tempo ad affrontare l’epopea tentacolare di Frank Herbert, e questa volta i fan si sentono un po’ più ottimisti sulle sue possibilità di successo del film. Dune vedrà Chalamet nei panni di Paul Atreides, figlio fedele del leader del pianeta Arrakis. Prima della pandemia di coronavirus, Dune era uno dei film più attesi del 2020, ma recentemente è stato posticipato a ottobre 2021.

Il regista canadese ha dato modo ai fan di essere uno in cui poter riporre la propria fiducia, dati i buoni risultati dei suoi lavori precedenti, ad esempio Arrival e Blade Runner 2049, ma anche oltre il genere sci-fi, come hanno dimostrato Sicario e Prisoners, appunto. Quest’ultimo ha visto Hugh Jackman nei panni di un uomo le cui due figlie scompaiono e Jake Gyllenhaal nei panni del detective che le cerca.

Villeneuve ha scelto Chalamet come suo protagonista in Dune, ma si è scoperto che non era la prima volta che i due si incrociavano. In un nuovo profilo GQ su Chalamet, Villeneuve ha ricordato come aveva detto a Chalamet che era entusiasta di incontrarlo mentre parlava di Dune. Tuttavia, Chalamet ha dovuto ricordargli gentilmente che si erano incontrati prima, quando il giovane attore aveva fatto un provino per Prisoners. “‘Certamente!'”, Ricorda Villeneuve. Quando si è trattato del tentativo di Chalamet di unirsi a Prisoners, Villeneuve ha detto: “Ha fatto una grande audizione, ma non si è adattato fisicamente alla parte. Probabilmente mi avrà insultato perché non l’ho scelto!”.

In DuneTimothée Chalamet interpreterà il protagonista Paul Atreides, nato sul pianeta Caladan dal matrimonio fra il duca Leto Atreides I e la sua concubina Lady Jessica. Nel cast anche Javier BardemZendayaOscar IsaacRebecca FergusonStellan SkarsgardDave Bautista, Charlotte Rampling Jason Momoa. Ricordiamo che il film arriverà nelle sale americane il 18 Dicembre 2020.

Anya Taylor-Joy: la sua Furiosa sarà molto diversa da quella di Charlize Theron

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Dopo l’annuncio ufficiale, Anya Taylor-Joy ha commentato il suo casting nei panni della giovane Furiosa, spiegando che la sua interpretazione del personaggio nel prequel di Mad Max sarà diversa dalla rappresentazione originale di Charlize Theron in Fury Road.

Il regista australiano George Miller ha lanciato il franchise di Mad Max in forma di trilogia nel 1979, con Mel Gibson nei panni di “Mad” Max Rockatansky, un violento agente di polizia che cerca di abbattere una banda di motociclisti e proteggere la sua famiglia nella distopica Australia. I temi post-apocalittici di quei primi film e le immagini delle terre desolate sono radicati nella cultura popolare, mentre Miller ha sdoganato il paesaggio australiano in tutto il mondo, con quei film.

Il franchise ha visto uscire un altro capitolo nel 2015, e non si è trattato di un film qualsiasi, ma del travolgente e adrenalinico Mad Max: Fury Road, che ha visto Tom Hardy sostituire Mel Gibson come eroe del titolo. Ma questa volta Max è dolo la star di facciata, poiché il film si concentra principalmente sugli sforzi dell’Imperatrice Furiosa (interpretata da Charlize Theron) per far fuggire cinque donne che vengono usate come femmine da riproduzione dal tirannico leader Immortan Joe.

Fury Road è stato un successo clamoroso, ha incassato oltre 374 milioni di dollari in tutto il mondo, vincendo sei Premi Oscar, diventando uno dei migliori film degli anni ’10 e ora godendo di un prequel che indagherà l’origine di Furiosa, con Anya Taylor-Joy che reciterà al fianco di Chris Hemsworth e Yahya Abdul-Mateen II.

Ospite nel podcast Happy Sad Confused, Taylor-Joy ha discusso della sua eccitazione e ansia per l’interpretazione dell’ormai iconica Furiosa nel prequel di Miller. Ha spiegato come intende adottare un approccio diverso al personaggio dal momento che le prestazioni di Charlize Theron in Mad Max: Fury Road sarebbero impossibili da eguagliare:

“Mi sono innamorato di Furiosa, del modo in cui Charlize l’ha presentata. Ha fatto un lavoro così incredibile ed è stato così bello e non riesco nemmeno a pensare di provare a mettermi nei suoi panni. Deve essere qualcosa di diverso perché non può essere fatto allo stesso modo.”

Matt Damon a Ben Affleck: “Pattinson si è preso il tuo lavoro!”

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Matt Damon e Ben Affleck tornano a mettere in palio il loro tempo per Omaze in favore di cause umanitarie e, come al solito, regalano delle perle davvero impagabili nei loro battibecchi!

In particolare, questa volta si sono concentrati sull’attualità, nel senso che mentre Affleck prende in giro Damon perché Jeremy Renner lo ha sostituito nel franchise di Jason Bourne, Damon replica con un secco: “Pattinson si è preso il tuo lavoro!”, in riferimento, naturalmente, al passaggio di testimone del ruolo di Batman da Ben Affleck a Robert Pattinson. Ecco di seguito l’esilarante video:

https://www.instagram.com/p/CGXq4VMDRV_/?utm_source=ig_embed

Ricordiamo però che Ben Affleck tornerà nel ruolo dell’Uomo Pipistrello per Justice League Snyder Cut e soprattutto in un breve cameo in The Flash, insieme a Michael Keaton che riprende il ruolo del Crociato di Gotham.

Paul Bettany nel trailer di Uncle Frank

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Paul Bettany nel trailer di Uncle Frank

Ecco il primo trailer di Uncle Frank, il film con Paul Bettany che arriverà su Amazon Prime Video il prossimo 25 novembre. Scritto e diretto da Alan Ball, il film vede nel cast Paul Bettany, Sophia Lillis, Peter Macdissi, Judy Greer, Steve Zahn, Lois Smith, con Margo Martindale e Stephen Root.

La trama di Uncle Frank

Nel 1973, l’adolescente Beth Bledsoe (Sophia Lillis) lascia la sua città natale rurale meridionale per studiare alla New York University, dove il suo amato zio Frank (Paul Bettany) è un venerato professore di letteratura. Presto scopre che Frank è gay e vive con il suo partner di lunga data Walid “Wally” Nadeem (Peter Macdissi) – una relazione che ha tenuto segreta per anni. Dopo la morte improvvisa del padre di Frank, il nonno di Beth, Frank è costretto a tornare a casa con riluttanza per il funerale con Beth al seguito, e ad affrontare finalmente un trauma sepolto da tempo da cui è scappato per tutta la sua vita adulta.

Tessa Thompson romantica nel trailer di Sylvie’s Love

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Tessa Thompson romantica nel trailer di Sylvie’s Love

Ecco il primo trailer di Sylvie’s Love, il film con Tessa Thompson che arriverà su Amazon Prime Video il prossimo 25 dicembre. Scritto e diretto da Eugene Ashe, il film è prodotto da Nnamdi Asomugha, Gabrielle Glore, Jonathan T. Baker, Eugene Ashe, Matthew Thurm, con produttori esecutivi Tessa Thompson, Bobbi Sue Luther, Akbar Gbajabiamila, Matt Rachamkin, Sidra Smith, Emmet Dennis. Nel cast del film Tessa Thompson, Nnamdi Asomugha, Aja Naomi King, Jemima Kirke, Tone Bell, Alano Miller, con Wendi Mclendon-Covey ed Eva Longoria.

La trama di Sylvie’s Love

In Sylvie’s Love, il jazz è dolce e l’aria afosa nella calda estate newyorchese del 1957. Robert (Nnamdi Asomugha), un sassofonista, passa le notti a suonare dietro un leader di band meno talentuoso di lui ma noto, come membro di un jazz quartetto. Sylvie (Tessa Thompson), che sogna una carriera in televisione, trascorre le sue giornate estive aiutando nel negozio di dischi di suo padre, mentre aspetta che il suo fidanzato torni dalla guerra. Quando Robert viene assunto part-time al negozio di dischi, i due iniziano un’amicizia che accende in ciascuno di loro una passione profonda, diversa da qualsiasi cosa abbiano provato prima.

Mentre l’estate finisce, la vita li porta in direzioni diverse, ponendo fine alla loro relazione. Passano gli anni, la carriera di Sylvie come produttrice televisiva sboccia, mentre Robert deve fare i conti con ciò che l’età della Motown sta facendo per la popolarità del Jazz. In un incontro casuale, Sylvie e Robert si incrociano di nuovo, solo per scoprire che mentre le loro vite sono cambiate, i loro sentimenti reciproci rimangono gli stessi. Lo scrittore / regista Eugene Ashe combina romanticismo e musica in una storia travolgente che riunisce tempi che cambiano, una cultura che cambia e il vero prezzo dell’amore.

Time, recensione del documentario su Fox e Rob Rich #RFF15

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Time, recensione del documentario su Fox e Rob Rich #RFF15

Si intitola Time il nuovo film di Garret Bradley, un documentario che raccoglie immagini intime, repertorio e documenti legali, una storia che ripercorre la vita e la lotta di Fox Rich, una donna di New Orleans che combatte ogni giorno per tenere unita la sua famiglia, mentre il marito, Rob, sconta una pena di 60 anni nel famigerato Louisiana State Penitentiary (alias Angola).

Fox Rich è un combattente. L’imprenditrice, abolizionista e madre di sei ragazzi che ha trascorso gli ultimi due decenni a fare campagne per la scarcerazione di suo marito, Rob G. Rich, che sta scontando una pena per una rapina che entrambi hanno commesso all’inizio degli anni ’90 in un momento di disperazione. Time combina i video-diari che Fox ha registrato per Rob nel corso degli anni con scorci intimi della sua vita attuale, il regista Garre.

Nelle note di regia, Garrett Bradley descrive il racconto di Time come un affascinante ritratto della resilienza e dell’amore radicale necessari per prevalere su una separazione infinita, a causa del complesso e ingiusto sistema carcerario statunitense.

Bradley riesce a toccare tutte le corde giuste, con delicatezza e riguardo per il delicato materiale che gestisce, lo offre all’occhio del pubblico, eppure ne ha cura. Fox e Rob non sono offerti alla macchina mediatica ma sono raccontati, soprattutto grazie ai documenti che la donna stessa ha realizzato e fornito, nel corso dei vent’anni in cui ha provato a non far sentire al marito la lontananza sua e dei suoi figli, e ha vissuto con i ragazzi ogni giorno di Natale con la fervida speranza che l’anno successivo sarebbero stati insieme, con Rob a tavola con loro.

Time è una storia d’amore e di lotta

A questo racconto privato e intimo, delicato e pieno di vita, si associano le immagini delle udienze, della lotta di Fox per la scarcerazione del marito, del suo impegno nell’abolizionismo, della sua indefessa testimonianza d’amore non solo per il marito in carcere, ma anche per tutte quelle famiglie ingiustamente spezzate che un sistema carcerario folle tiene separate per tutta la vita.

Nel momento storico che viviamo, con le proteste nelle strade degli Stati Uniti che non cedono di un passo e il movimento Black Lives Matter che diventa sempre più urgente e importante, Time offre un nuovo sguardo, un nuovo lato di un problema endemico che, pur essendo legato al territorio statunitense, deve interessare tutto il mondo.

Le attese, le speranze e la lotta. Time racconta la vita di questa donna che rappresenta moltissime persone, la vita di Fox e Rob, che nonostante le circostanze, anzi, forse proprio a causa di quelle, sono stati capaci di testimoniare l’amore e la famiglia come pochi altri riescono.

Soul: recensione del film di Pete Docter #RFF15

Soul: recensione del film di Pete Docter #RFF15

Ci si è a lungo interrogati, talvolta scherzando, su quale fosse il presupposto comune di tutti i film prodotti dalla Pixar, giungendo alla conclusione che questi avevano al centro delle loro storie un personaggio non appartenente alla sfera “umana” (animali, oggetti, mostri di fantasia) dotata però dei nostri stessi sentimenti ed emozioni: in breve, avevano un’anima. Col passare del tempo, e grazie all’uscita di Soul – un titolo che potrebbe finalmente mettere il punto su quella teoria – ci si è resi conto che il vero elemento ricorrente è la perdita e il senso di ricostruzione o nuovo inizio che divampa nella mente dei protagonisti.

In A Bug’s Life e Alla ricerca di Nemo era la scomparsa dell’appartenenza; nella trilogia di Cars la sconfitta della presunzione; in Toy Story il saluto all’infanzia e in Inside Out quello all’innocenza; in Up, Coco e Onward la morte degli affetti. Soul invece va alla ricerca del vuoto più intimo e ancora più difficile da rappresentare: la perdita di se stessi, e quindi, di ciò che ci rende tali. Un’anima.

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Soul è scritto e diretto da Pete Docter (insieme a Kemp Powers) e si sente. In qualche modo sembra raccogliere le implicazioni psicologiche di Inside Out diventandone il seguito spirituale, come a volerne ampliare le riflessioni senza però uscire dal tradizionale schema Pixar. Anche la trama non tradisce il solito programma dello studio, e nel suo divincolarsi tra tematiche adulte e prese di posizione piuttosto politiche presenta allo spettatore l’ennesimo outsider schiacciato da una vita insoddisfacente e sogni che fatica a realizzare; in Soul si chiama Joe Gardner, ha le fattezze di un insegnante di musica afroamericano e pianista jazz, e un imprevisto – altra ricorrenza dello storico Pixar – lo mette davanti ad una nuova realtà. Fisica, perché ad un passo dalla morte, metafisica, perché precipita nel mondo parallelo “The Great Before”, il grande prima, dove strane creature creano la personalità, l’identità e le peculiarità degli esseri umani.

soul trailerLa trama di Soul

In questo paesaggio-laboratorio, a Joe viene affidata 22, un’anima che fatica a trovare la giusta direzione e che non conosce le gioie e le delusioni dell’esperienza sul pianeta terra. 22 come il numero che nella simbologia della cabala indica l’universo, ma anche 22 come numero maestro che simboleggia la capacità di costruire della sua somma, il numero quattro. Casuale o meno, la scelta degli sceneggiatori punta su una co-protagonista che muove dentro la storia e verso il pubblico una potente energia e la risoluzione dell’intreccio; un’attitudine simile a ogni eroe Pixar, bambino, adolescente o adulto, sempre spinto al miglioramento di sé dopo una grave perdita. Nessuno dice che sia un percorso semplice, anzi Soul e gli altri film dimostrano proprio il contrario, ma si può iniziare dalla consapevolezza di un problema.

Si attraversano gli stadi della conoscenza

La cosa straordinaria, soprattutto perché stiamo parlando di animazione (che nel linguaggio comune viene ancora considerato un immaginario infantile e bidimensionale), è che a scomparire sono i crismi del viaggio eroico tradizionale: i villain, di fatto, non esistono; l’avventura non ci mette di fronte a sfide materiali ma attraversa gli stadi della conoscenza e della psicologia (la Pixar sta abituando i bambini ai termini “depressione”, “salute mentale”, “debolezze” e “paura”). È un esercizio apparentemente semplice ma che ci proietta in una costante seduta terapeutica dove al centro c’è il miglior commento sull’essere umano contemporaneo e una critica – mai troppo dura – su come viviamo oggi e come potremo vivere tra qualche anno. Nel grande dopo…

Time: Fox Rich, eroina del nostro tempo, racconta la sua vita e il suo amore

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Lei si chiama Fox Rich, è una donna incredibile, una vera eroina del nostro tempo e la sua storia è raccontata in Time, il documentario della talentuosa Garrett Bradley. Fondendo materiale d’archivio con filmati privati, il film racconta la vita di Fox e dei suoi sei figli mentre il marito è condannato a 60 anni di prigione da scontare ad Angola, così come è chiamato il Louisiana State Penitentiary, uno degli istituti più sanguinosi degli States.

Ho raggiunto la Signora Rich al telefono, a New Orleans, e mi ha raccontato la sua storia, la sua vita, così come fa nel film, con vivacità, ironia, passione, come fossimo sedute una accanto all’altra, a bere tè e a chiacchierare. Fox comincia a raccontare che ha conosciuto la regista del film, Garrett Bradley, mentre lei era al lavoro su un cortometraggio dal titolo Alone che racconta la condizione delle donne che vivono in solitudine ed attesa, perché il loro partner è in carcere. A presentarle è stata Gina Womack, direttore esecutivo e co-fondatrice dell’associazione Famiglie e amici dei Bambini incarcerati della Louisiana (FFLIC), e subito Bradley si è resa conto che Fox non era come le altre.

Fox Rich ha infatti cominciato a registrare video della sua famiglia molti anni fa, quando i figli erano piccolissimi, perché così il marito in carcere non perdesse neanche un momento di quella che era la loro crescita. E il film mostra tutti questi spaccati di vita, così Fox ci ha fatti entrare dentro alla sua vita e al suo passato. Ma perché ha accettato di raccontare una storia così personale?

“Quando ero in prigione io stessa, pregavo che Dio mi desse la possibilità di usare la mia voce per parlare in nome di coloro che una voce non ce l’avevano – ha spiegato la donna – Ho sperimentato cosa volesse dire non avere voce, essere rinchiusa in un luogo in cui non potevo comunicare con nessuno e ho pensato che da libera avrei dato voce a chi era rimasto dentro, condividendo la mia storia.”

Intervista a Fox Rich, protagonista del doc Time

Senti il senso di responsabilità per le persone che rappresenti e che, come hai detto, non hanno voce?

“Sia io che Rob (il marito, ndr) sappiamo che ci sono innumerevoli persone che contano su di noi. Mi ricordo una volta, in un periodo in cui il nostro matrimonio era in un momento difficile, Rob mi disse che dovevamo tenere duro, perché c’erano un sacco di persone che contavano su di noi, la storia che stavano portando avanti era ed è più grande di noi due soltanto, più grande della nostra famiglia. Ed è stato in quel momento che abbiamo deciso di diventare una dimostrazione di come appare l’amore, anche nelle situazioni più difficili, come la prigione, soprattutto se poi si parla dell’Angola. Siamo stati molto istintivi nello stabilire che volevamo essere un’ispirazione per altre persone, stimolandole a combattere con noi.”

Il risultato del vostro racconto, privato e pubblico, è un documentario dai toni molto delicati e intimi. Si tratta di una scelta che avete operato insieme alla regista?

“Questo capolavoro è tutto opera di Garrett. L’unica nostra intenzione era quella di rimanere insieme, di lottare per farcela, e la regista ha catturato tutte le nostre emozioni, le ha messe insieme. Il risultato è un documentario meraviglioso.”

Le dico poi che il film fa parte della selezione ufficiale della Festa di Roma 2020 e si parla già di Oscar Buzz (Time ha già vinto un premio al Sundance, ndr), Fox esulta come una bambina, con grande entusiasmo, e poi spiega: “Credo che in questo momento, con le proteste per le strade e il movimento Black Lives Matter, questa storia rappresenta un vero testamento, e riuscire ad ottenere il riconoscimento di un premio prestigioso come quello degli Oscar in questo momento, penso aiuti molto a far circolare il messaggio, rendendo le persone più consapevoli delle condizioni dei detenuti nell’Angola, della necessità di libertà.”

E quando le chiedo cosa direbbe alla se stessa più giovane, la signora Fox Rich quasi si commuove, dicendo: “Probabilmente direi alla me stessa più giovane che sono fiera di lei, nonostante abbia fatto delle scelte sbagliate, ha avuto il coraggio di lottare.”

Quando ci dicono che il nostro tempo è finito e la ringrazio, salutandola, Fox ci tiene a dire: “Ti ringrazio perché ci dai la possibilità di condividere la nostra storia anche con l’Italia”. Al che sono io che mi sento di ringraziarla, per lo straordinario documento che ha offerto ma soprattutto l’incredibile forza di volontà e per aver mostrato al mondo che forma ha il vero amore.

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Armando Iannucci racconta il suo straordinario David Copperfield

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Armando Iannucci racconta il suo straordinario David Copperfield

Regista caustico e satirico che si è sempre confrontato con storie vietate ai minori, Armando Iannucci si cimenta con il classico della letteratura inglese per eccellenza, David Copperfiled. Non è la prima volta però che il regista si approccia a Dickens, dal momento che la sua formazione accademica ne è imbevuta e ha già lavorato in passato sull’autore, con un documentario che già lo spogliava della sua austerità vittoriana. Lo stesso approccio ha proposto per La straordinaria vita di David Copperfield.

Come ha lavorato tirando fuori la vis comica da testo di Dickens?

“Questo approccio ha molto a che fare con Simon Blackwell con cui ho collaborato molto, lui è un grande appassionato di Dickens e abbiamo sempre parlato di quanto lui fosse divertente. Lo abbiamo sempre paragonato a Chaplin, quegli inglesi diventati molto famosi da giovani in tutto il mondo per le loro storie. Ho riletto David Copperfield dieci anni fa e ho deciso di farci un film. Ho deciso di coglierne la parte visiva e comunicativa che rasenta la slapstick comedy in molte scene. Nel lavoro di adattamento ci siamo resi conto che c’era moltissimo materiale da utilizzare e volevamo farlo in modo diverso da ciò che era stato fatto prima, perché c’era sempre stata una reverenza nei confronti della storia, invece secondo noi il rispetto si doveva più allo spirito che alla storia, perché è un libro ricco di creatività e immaginazione.”

E così ha fatto, perché il film è sicuramente molto fedele allo spirito dickensiano, pur adattando la storia a necessità narrative, tanto che per Iannucci non è affatto importante conoscere la storia originale: “Non mi aspetto che le persone conoscano la storia prima di entrare in sala. È uno standalone, non c’è nessun esame d’ingresso, la storia comincia in mezzo ai fatti e volevo che lo spettatore si facesse trasportare da subito”.

A differenza della sua produzione solita, La straordinaria vita di David Copperfield è adatta a tutta la famiglia. “Il film è uscito in UK prima del lockdown, è andato abbastanza bene ed è il mio primo film che esce senza il divieto ai minori. Vorrei che venisse considerato un film per famiglie. Non è un film per bambini ma per tutte le età, credo che ogni fascia d’età possa trovare nel film un momento per identificarsi nella storia.”

La straordinaria vita di David Copperfield si diverte anche a mescolare luoghi e tempi, ma soprattutto, la caratteristica che balzerà subito all’occhio, si diverte a mescolare etnie di personaggi che sulla pagina erano pensati per essere tutti bianchi. Di fronte al rischio di apparire troppo politicamente corretto, Iannucci spiega: “Dickens era molto connesso ai problemi del suo tempo, che racconta nei suoi romanzi. Volevo mettere un piede nel passato, nel 1840 quando è ambientato il film, ma volevo anche che ci fosse una modernità, un riflesso della quotidianità di adesso. Non credo che sia politicamente corretto mostrare le diversità tra ricchi e poveri nelle grandi città, né tanto meno la rappresentazione della battaglia di qualcuno per entrare a far parte dell’establishment. Credo siano temi eterni, oggi più di ieri. Credo che Dev (Patel, ndr) sia stato perfetto per il personaggio di David, ha nobiltà fragilità vulnerabilità che sono evidenti e necessarie per il ruolo. Credo sia perfetto e credo che questo debba valere per qualsiasi scelta di casting.”

La straordinaria vita di David Copperfield, recensione del film con Dev Patel

Il film dà molto risalto alla parola scritta, che è poi quello che diventerà, dopo molte peripezie, il destino di David. A commento, Armando Iannucci spiega: “È un film che parla di scrittura, ma anche di amicizia, di amore e comunità. Siccome non ho visto molto spesso nel cinema celebrare la persona che scrive, lo scrittore, ho pensato che potesse essere una sfida e incoraggiare il pubblico a godere dell’uso delle parole. Per questo vediamo sempre le parole sullo schermo, che vengono mostrate, perché sono importanti. Anche io, come David, mi sono preoccupato se quello che facevo, se il sogno che rincorrevo potesse avere un esito positivo o negativo. Mi ci è voluto molto tempo per avere sicurezza e sentirmi uno scrittore. Un po’ come accade per David, che ci mette tempo a trovare la sua strada ma poi trova la fiducia in se stesso.”

La straordinaria vita di David Copperfield arriva in sala il 16 ottobre, distribuito da Lucky Red.

La straordinaria vita di David Copperfield, recensione del film con Dev Patel

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La straordinaria vita di David Copperfield porta al cinema un Charles Dickens che ci stupirà. Punto cardinale della letteratura popolare inglese, l’autore, che ha promosso la cura dell’infanzia e ha denunciato attraverso i suoi romanzi la condizione in cui versavano i più deboli all’inizio dell’epoca vittoriana, non era mai stato rappresentato al cinema o in tv con un approccio tanto fresco, libero, moderno, fedele allo spirito più che alla storia. A farlo è Armando Iannucci, che firma il suo primo film non vietato ai minori, insieme a Simon Blackwell, che collabora alla sceneggiatura e all’adattamento del romanzo di Dickens.

La storia è quella di David, un ragazzo che cresce senza padre e che si trova costretto a crescere in una fabbrica di cristalli a Londra quando la madre si sposa con un uomo burbero e intransigente, che vede il ragazzo come un ostacolo. Lo manda quindi in città, dove David alimenterà la sua intelligenza e crescerà bene, remissivo ma non certo sciocco, in mezzo alle brutture del mondo. Diventato un giovane uomo e messo al corrente della morte della madre, David abbandona la fabbrica e si rivolge ad una zia, sorella del padre, che si prenderà cura di lui e lo aiuterà a concludere gli studi ed a trovare lavoro. Di nuovo in città, con tutt’altre prospettive, David lotterà per trovare la sua strada, sempre attratto dalle parole, dalle storie, dall’esigenza di raccontare la sua.

La straordinaria vita di David Copperfield è un adattamento nello spirito

La straordinaria vita di David Copperfield è un adattamento dal classico di Charles Dickens che si distingue per due caratteristiche fondamentali, che ne attestano unicità e valore. In primo luogo, l’adattamento del regista Iannucci, insieme allo sceneggiatore Blackwell, è una modernizzazione mai vista prima dell’opera più personale di Dickens stesso. La storia si apre con lo stesso David che racconta in prima persona la sua vita, racconta la sua nascita e quello che non poteva ricordarsi, fino all’infanzia, dove tutto appare più colorato e vivace di come è in realtà, la sua fantasia, l’immaginazione, la passione per giocare con le parole e metterle ferme su carta, fino all’età adulta alla ricerca della fortuna, al trovare un amore, una storia, una vita da raccontare, trovare le parole giuste per la sua stessa storia.

Iannucci racconta tutto con un spirito leggero, allegro, giocoso, usando uno stile visivo originale, in cui i racconti dei personaggi prendono vita sui fondali delle scene, come fossero proiezioni, in cui si viaggia da un luogo all’altro con balzi in avanti o indietro, da slapstick comedy, con battute sopra le righe e personaggi bizzarri, assurdi, a volte sgradevoli, ma sempre accarezzati da una mano divertita.

La vita straordinaria di David CopperfieldUna bella boccata d’aria fresca rispetto a quanto era stato fatto rpima di adesso con i personaggi dickensiani, tutti appesantiti dalla polvere vittoriana, dagli scenari desolanti delle città, dalla Londra iconograficamente legata al fumo e alla povertà. La straordinaria vita di David Copperfield è, secondo le parole del regista stesso, più fedele allo spirito di Dickens che alla storia stessa, come dimostra anche il casting, che è il secondo elemento di originalità e pregio del film.

Un trionfo di etnie diverse

Per interpretare i personaggi del romanzi, tutti bianchi scritti per bianchi, Iannucci sceglie una varietà di etnie che arricchiscono di colori vivacissimi ogni singola scena, completamente incurante non solo dei testi originali, ma anche della genetica, tanto che lo stesso David, ad esempio, è interpretato da Dev Patel, di origini indiane, e sua madre e sua zia paterna, ad esempio, sono attrici bianche (Morfydd Clark e Tilda Swinton). E così la madre del migliore amico di David, interpretato da un attore caucasico (Aneurin Barnad) è interpretata da un’attrice di colore (Nikki Amuka-Bird). Una mescolanza di etnie che rende il film estremamente contemporaneo, quasi una fotografia di quello che è diventato adesso il tessuto sociale londinese, in particolare.

La regia si lascia andare a momenti molto romantici e toccanti, cambiando rotta e toccando punte di epica e adagiandosi al sicuro tra le braccia della commedia, non la caustica a cui il regista scozzese ci ha abituati, ma un linguaggio vivace e leggero, ma mai superficiale, che fa di La straordinaria vita di David Copperfield un film adatto alle famiglie di ogni foggia e tipo.

Avatar 2: le nuove foto dal set mostrano un’altra location

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Avatar 2: le nuove foto dal set mostrano un’altra location

Il produttore della serie di Avatar, Jon Landau, ha condiviso su Instagram una serie di immagini dal set di Avatar 2 in cui ci viene data la possibilità di sbirciare nel luogo in cui James Cameron crea meraviglie. Si tratta del set del film e in particolare della location che sarà il laboratorio scientifico degli umani, nella storia. Ecco le foto di seguito:

Avatar 2 debutterà il 17 dicembre 2021, seguito dal terzo capitolo il 22 dicembre 2023. Per il quarto e quinto capitolo, invece, si dovrà attendere ancora qualche anno: 19 dicembre 2025 17 dicembre 2027.

Il cast della serie di film è formato da Kate WinsletEdie FalcoMichelle YeohVin Diesel, insieme ad un gruppo di attori che interpretano le nuove generazioni di Na’vi. Nei film torneranno anche i protagonisti del primo film, ossia Sam WorthingtonZoe SaldanaStephen LangSigourney WeaverJoel David MooreDileep Rao e Matt Gerald.

Cooke, Ziche, Johnson e Come VIte Distanti in mostra: “ARF! presenta: QUALCOS’ALTRO!”

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Dopo l’annullamento di ARF! il Festival del Fumetto di Roma – a causa dell’emergenza Coronavirus – rimandando la sesta edizione a maggio 2021, gli organizzatori (definiti da sempre ARFers) tornano al Mattatoio, il Museo d’arte contemporanea di Testaccio, per presentare da venerdì 20 novembre a domenica 22 QUALCOS’ALTRO, un intero weekend di mostre dedicate al fumetto, concepite come esperienza totalizzante e immersiva.

Una grande esposizione, allestita nel Padiglione 9B, con le tavole originali di Darwyn Cooke – uno dei veri innovatori del medium fumetto – mostrate per la prima volta assoluta in Italia, le copertine di Dave Johnson, il poliedrico artista contemporaneo di comic book, asceso alla fama internazionale grazie a un capolavoro come Superman: Red Son, le riflessioni e avventure/disavventure dei personaggi di Silvia Ziche e le tavole degli oltre 80 autori del libro COme Vite Distanti.

Silvia Ziche, che illustra il manifesto dell’esposizione, è senza ombra di dubbio una delle più affermate fumettiste italiane. Autrice Disney sin dal 1991, una firma costante del settimanale Topolino, ha creato storie a fumetti e vignette satiriche anche per LinusSmemoranda, Comix e Cuore.

Pubblica i suoi lavori con i più importanti editori italiani tra i quali Einaudi, Rizzoli, Mondadori, Feltrinelli Comics e Sergio Bonelli Editore che l’hanno portata e tante prestigiose collaborazioni che includono Vincenzo Cerami e Luciana Littizzetto. E’ però per il settimanale Donna Moderna che crea Lucrezia, probabilmente il suo personaggio più celebre, considerato suo alter-ego, di cui, dal 2006 ogni settimana, racconta le riflessioni, le avventure/disavventure, le crisi sentimentali.  E proprio con Lucrezia, Silvia Ziche oltrepassa il costume e la satira, toccando, attraverso libri come E noi dove eravamo? o L’allegra vita delle quote rosa tematiche tanto femminili quanto femministe: la lotta delle donne per l’emancipazione e la libertà, l’eradicazione del concetto stesso di patriarcato impresso nel nostro retaggio culturale. Un “attivismo disegnato” che non utilizza slogan, ma le matite, lo humour, l’acume e la sensibilità della pluripremiata autrice veneta.

Darwyn Cooke l’autore canadese, prematuramente scomparso, è stato uno dei veri innovatori del medium fumetto, grazie al suo inconfondibile stile retrò che ha rielaborato in chiave moderna gli stilemi del noir e del fumetto supereroistico degli anni ’40, ’50 e ‘60. La mostra delle sue tavole originali a Roma, esposte per la prima volta assoluta in Italia, ripercorre tutto il suo percorso artistico, da BatmanCatwoman e tutte le leggende della DC Comics (The New Frontier) fino a The Spirit e i mutanti della Marvel, includendo momenti più adulti come il Parker dello scrittore Richard Stark o i Minutemen tratti dal Watchmen di Alan Moore.

L’opera di Darwyn Cooke (1962-2016), vincitore di tredici Eisner Awards, otto Harvey Awards e cinque Joe Schuster Awards, prosegue idealmente quel filo tematico inaugurato da ARF! nel 2019 con la mostra di Frank Quitely, cioè la ricerca di una personalissima cifra stilistica “autoriale” applicata alle grandi icone POP del fumetto mainstream nordamericano: «Se c’è stata una costante nella carriera di Darwyn Cooke è stata la coerenza nel restare sempre lontano dalle mode. Non le ha mai inseguite, proprio come fanno gli innovatori, ma non le ha mai nemmeno dettate, perché è stato un disegnatore e un autore letteralmente inimitabile» (Fumettologica).

Dave Johnson, classe 1965, è uno dei più poliedrici artisti contemporanei di comic book (scrittore, disegnatore, colorista, inchiostratore, letterista, designer) che collabora regolarmente con Marvel, DC Comics e Dark Horse, asceso alla fama internazionale grazie a un capolavoro come Superman: Red Son di Mark Millar. La mostra al Mattatoio celebra quella specifica parte del suo lavoro per cui è stato consacrato nel mondo: la sua attività da copertinista. Capaci di raccontare ed evocare interi mondi, di definire la linea editoriale stessa delle collane in cui vengono pubblicate, le straordinarie copertine di Johnson – grazie al proprio segno riconoscibilissimo e all’impressionante senso grafico nella gestione di equilibri e spazi – attraversano senza soluzione di continuità personaggi e generi: BatmanSupermanHellboyLuciferDeadpool100 BulletsHarley Quinn e tanti altri, esposti con studi preparatori e illustrazioni inedite, mai viste prima in Europa.

Infine, la mostra dedicata al libro COme Vite Distanti, ideato e prodotto da ARF! in collaborazione con PressUP durante il lockdown della scorsa primavera, i cui 62.385 euro raccolti grazie alla sua vendita on-line sono stati interamente donati all’INMI Lazzaro Spallanzani di Roma per l’emergenza Covid e la ricerca. Introdotta dalla penna di Alessandro Bariccola mostra presenta tutte le tavole del volume con oltre 80 dei maggiori autori del panorama nazionale tra i quali Milo ManaraGipiZerocalcareManuele FiorFumettibruttiGiuseppe PalumboSioSara PichelliZuzuMirka Andolfo e Paolo Bacilieri, coinvolti “coralmente” in un’unica storia, per quella che è stata unanimemente riconosciuta da lettori e critica come l’espressione più alta di coesione e generosità di un’intera categoria professionale italiana.

ARF! presenta: QUALCOS’ALTRO! è un intero weekend di mostre dedicate al Fumetto, concepite come esperienza totalizzante e immersiva, nel cui bookshop i visitatori potranno trovare tutti i titoli degli autori esposti, un catalogo esclusivo (acquistabile solo ed esclusivamente durante i tre giorni dell’evento) e una specialissima tiratura di COme Vite Distantifresco vincitore del Premio Boscarato 2020 assegnato dal Treviso Comic Book Festival.

“ARF! presenta Qualcos’altro” è promosso da Roma Capitale – Assessorato alla Crescita Culturale e Azienda Speciale Palaexpo, con il sostegno della Regione Lazio; ARF! e Comicon fanno parte dell’Associazione nazionale RIFF – Rete Italiana Festival del Fumetto.

qualcos'altro

La rassegna fa parte di Romarama, il programma di eventi culturali di Roma Capitale.

ARF! presenta: QUALCOS’ALTRO!

Mattatoio – Padiglione 9B, piazza Orazio Giustiniani n. 4, Roma.

Orario: venerdì, sabato e domenica dalle 10:00 alle 20:00 (ultimo ingresso 19:30)

Ingresso: € 10,00, acquistabile SOLO on-line https://www.go2.it/evento/arf_presenta:_qualcos_altro/4497

Per informazioni: www.arfestival.it + [email protected]

Amy Adams e Glenn Close da Oscar nel trailer di Hillbilly Elegy

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Amy Adams e Glenn Close da Oscar nel trailer di Hillbilly Elegy

Netflix ha rivelato il trailer del prossimo film di Ron Howard, Hillbilly Elegy, un adattamento del libro di memorie dell’autore J.D. Vance. Il libro è uscito nel 2016, e si concentra sulle esperienze e sulla storia della crescita di Vance a Middletown, Ohio. Vance ha raccontato la lotta della sua famiglia contro la povertà e lo sfruttamento. Per portare in vita questa complessa storia di famiglia, Howard si è affidato ad alcune delle più grandi interpreti contemporanee, Glenn Close e Amy Adams.

Il trailer di Hillbilly Elegy, pubblicato da Netflix, racconta dei personaggi di Glenn Close e Amy Adams, madre e figlia, che si scontrano per crescere la loro famiglia multi-generazionale anche se il film è raccontato dalla prospettiva di Vance (interpretato da Gabriel Basso). Ex marine americano e studente di legge di Yale, Vance è costretto a tornare a casa per affrontare una crisi familiare.

Nicolas Cage era la prima scelta per interpretare il Dottor Destino

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Prima di scegliere Julian McMahon per il ruolo, i produttori di I Fantastici Quattro avevano pensato a Nicolas Cage per interpretare il classico cattivo Marvel, dottor Destino. Distribuito nel 2005, il film ha visto Ioan Gruffudd nei panni di Reed Richards, Jessica Alba nei panni di Sue Storm, Chris Evans, prima che diventasse Captain America, nei panni di Johnny Storm e Michael Chiklis in quelli di Ben Grimm. Diretto da Tim Story, il film era una storia di origine per il team di supereroi e li ha visti affrontare il Dr. Destino di McMahon. Il film non ha avuto successo di critica, ma è stato un successo al botteghino e ha generato un sequel, I Fantastici Quattro e Silver Surfer.

McMahon ha interpretato una versione abbastanza naif del classico cattivo della Marvel, ma al netto della sceneggiatura molto debole, ha dato senso al personaggio. Il problema era che la scrittura e la trama hanno portato a un terzo atto che non ha entusiasmato molto e, nonostante sia sopravvissuto agli eventi del film, non è tornato per il sequel del 2007. Toby Kebbel ha interpretato il personaggio nel riavvio del 2015, ma ha avuto a che fare con uno script ancora peggiore, con il film che è stato un vero disastro (senza star qui ad indagarne le cause).

Il concept artist Ryan Unicomb, che sta anche producendo un documentario sul film cancellato di George Miller dedicato alla Justice League, ha recentemente rivelato su Instagram che McMahon non è stata la prima scelta per interpretare il personaggio nel 2005. Secondo Unicomb, Nicolas Cage è stato contattato per interpretare il personaggio, ai tempi in cui sarebbe stato una versione molto diversa, con braccia biomeccaniche senza pelle e un viso ispirato al trucco di scena di Marilyn Manson. Chiaramente, Cage non ha accettato il ruolo, e il resto è storia. Ecco cosa ha dichiarato Unicomb:

Prima che Julian McMahon accettasse il ruolo, Nicholas Cage era stato scelto come per interpretare il Dottor Destino nel film dei Fantastici Quattro. Il team di produzione ha deciso di avvicinarsi a Cage dopo che un concept artist aveva usato le sembianze del cantante Marilyn Manson per alcuni dei loro lavori. A quel tempo, il progetto era notevolmente più oscuro e l’aspetto di Destino era avviato su un binario del film vietato. Questo ovviamente non ha mai funzionato, ma comunque era un approccio interessante.

Joaquin Phoenix sarà Napoleone per Ridley Scott in Kitbag

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Joaquin Phoenix sarà Napoleone per Ridley Scott in Kitbag

Joaquin Phoenix interpreterà Napoleone Bonaparte in Kitbag, il prossimo film biografico di Ridley Scott sull’imperatore francese del XIX secolo.

Kitbag si concentrerà sulle origini di Napoleone e sul suo rapporto instabile con sua moglie Giuseppina. Condusse campagne militari durante le guerre rivoluzionarie francesi e fu imperatore della Francia dal 1804 al 1814, guidando il paese in una serie di battaglie prima di essere sconfitto a Waterloo. Fu esiliato prima all’isola d’Elba e poi nell’isola di Sant’Elena, dove morì nel 1821 all’età di 51 anni.

Il titolo del film deriva dal detto “C’è la staffa di un generale nascosta nella valigia di ogni soldato”, stando a quanto riporta Deadline, che per primo ha dato la notizia. Kitbag è nelle prime fasi di pianificazione e sarà girato nei 20th Century Studios della Disney. Il progetto sarà diretto e prodotto da Scott attraverso la sua società di produzione Scott Free con Kevin Walsh produttore. Scott ha contattato lo sceneggiatore David Scarpa per scrivere la sceneggiatura. Scarpa e Scott hanno già collaborato al thriller poliziesco del 2017 Tutti i soldi del mondo, reso tristemente noto dalla cancellazione di Kevin Spacey dal film, a seguito delle accuse di molestie.

Ridley Scott ha da poco completato la produzione di The Last Duel, con Matt Damon, Adam Driver, Jodie Comer e Ben Affleck, e inizierà la produzione in Italia a marzo di Gucci, che vedrà Lady Gaga nei panni di Patrizia Reggiani al fianco di Robert. De Niro, Al Pacino, Adam Driver e Jared Leto.

Gal Gadot difende la “sua” cover di Image di John Lennon

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All’inizio del lockdown, il 18 marzo, Gal Gadot ha pubblicato sul suo account Instagram una specie di video challenge in cui lei, insieme a molti altri vip, cantavano tutti insieme Image di John Lennon. Sebbene fosse un gesto chiaramente innocuo e volto a portare un po’ di bellezza e conforto in un mondo sull’orlo del baratro, l’attrice si è comunque trovata a doversi difendere da chi la accusava di aver compiuto un gesto inutile, di fronte alla sofferenza del mondo.

Nel video compaiono moltissimi amici e colleghi di Gadot, da Jimmy Fallon, Kristen Wiig a Natalie Portman, e ora, parlando con Vanity Fair, Gal Gadot ha difeso il video e le motivazioni dietro di esso:

<<A volte, sai, provi a fare una buona azione e non è solo la giusta buona azione. Non avevo altro che buone intenzioni e le mie motivazioni venivano dai migliori propositi. Ho iniziato con alcuni amici e poi ho parlato con Kristen [Wiig]. Kristen è il sindaco di Hollywood. Tutti la amano e ha portato un sacco di persone nel video. Ma sì, l’ho iniziato io, e posso solo dire che volevo fare qualcosa di buono e puro.>>

L’attrice è protagonista in questi giorni della cover di Vanity Fair, dove tra le altre cose parla anche del suo prossimo Wonder Woman 1984, che ha subito parecchi rinvii a causa della pandemia.

KIKO Milano Wonder Woman Collection: la collezione limited in attesa dell’80esimo anniversario

Wonder Woman 1984 uscirà il 25 Dicembre 2020 in America e il 14 Gennaio 2021 in Italia. Il film è stato definito dal produttore Charles Roven un sequel “inusuale“, che poterà in scena lo stesso personaggio grazie al lavoro dello stesso team creativo e che seguirà gli eventi del precedente capitolo, ma che i fan non dovrebbero aspettarsi un seguito tradizionale definendolo “la prossima iterazione della supereroina”.

L’ordine cronologico del personaggio di Diana Prince è stato già rimescolato, essendo stata introdotta nell’era contemporanea di Batman v Superman: Dawn of Justice per poi tornare al vecchio secolo con Wonder Woman. Il sequel vedrà ancora Gal Gadot nei panni di Diana Prince opposta a Kristen Wiig, scelta per interpretare la villain Cheetah. Nel cast figureranno anche Chris Pine (volto del redivivo Steve Trevor) e Pedro Pascal (nei panni di Maxwell Lord).

Soul: nuovo trailer per il film di apertura della Festa del Cinema di Roma 2020

Arriverà il 25 dicembre 2020 su Disney+ il nuovo lungometraggio d’animazione Disney e Pixar Soul. Il film diretto da Pete Docter e prodotto da Dana Murray accompagnerà il pubblico in un viaggio inaspettato dalle strade di New York all’immensità di regni cosmici mai visti prima e nell’immaginario “You Seminar”, un luogo fantastico in cui tutti scoprono la propria personalità e unicità!

Nella versione originale del film, il cast di voci comprende Jamie Foxx, che presta la voce a Joe Gardner, insegnante di musica di scuola media la cui vera passione è suonare il jazz, e Tina Fey che interpreta 22, un’anima ancora in formazione che per uno strano scherzo del destino incontra Joe quando quest’ultimo si ritrova accidentalmente allo “You Seminar”. Insieme, i due cercheranno di trovare un modo per far tornare Joe sulla Terra, scoprendo davvero cosa significhi avere una personalità e un’anima.

Il musicista rinomato in tutto il mondo Jon Batiste scriverà alcune composizioni jazz originali per il film e i vincitori dell’Oscar® Trent Reznor e Atticus Ross (The Social Network) della band Nine Inch Nails scriveranno una colonna sonora originale che oscillerà tra il mondo reale e quello delle anime.

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