They Were Ten
arriva su Fox (112, Sky) in anteprima mondiale ogni martedì alle 21
a partire dal 27 ottobre. La serie è un adattamento contemporaneo
del capolavoro di Agatha Christie, il romanzo
poliziesco più venduto di tutti i tempi. Un nuovo thriller
psicologico diretto dall’acclamato regista francese Pascal
Laugier, noto per i suoi thriller di successo tra i quali
The Secret – Le verità nascoste con Jessica Biel.
They Were Ten: quando esce e dove
vederlo in streaming
They Were Ten
debutta su Fox (sky, 112) martedì 27 ottobre alle 21 ed è composta
da 6 episodi da 60 minuti.
They Were Ten: la trama e il
cast
Nel cast Matilda
Lutz, attrice e modella italiana già nota al pubblico
italiano per aver recitato nel film di Gabriele
MuccinoL’Estate Addosso, nella serie I Medici e nei
film pulp Revenge e horror The Ring 3. Oltre
all’attrice italiana nel cast anche gli attori francesi
Samuel Le Bihan, Guillaume de Tonquedec, Marianne
Denicourt, Romane Bohringer, Patrick Mille, Samy Seghir, Nassim Si
Ahmed, Manon Azem, Isabelle Candelier.
Dieci persone, cinque donne e
cinque uomini, sono invitate in un hotel di lusso su un’isola
tropicale deserta. Ben presto si renderanno conto che sono
completamente isolati, tagliati fuori dal mondo e da tutti i mezzi
di comunicazione e l’isola diventerà rapidamente il loro peggior
incubo. Perché sono stati attirati in questa trappola morbosa? La
risposta è nascosta nel loro passato che ognuno ha cercato di
seppellire e che oggi, sotto il sole caldo dell’isola, stanno
incominciando a pagare. Uno dopo l’altro saranno uccisi ponendo
l’ultima domanda: chi è l’assassino?
Il 2020 è stato il primo anno senza
un film dei
Marvel Studios. Sperando che per il 2021 la situazione mondiale
tornerà alla normalità e i cinema potranno nuovamente godere del
prestigio che meritano,
ComicBookMovie ha deciso di viaggiare a ritroso nella memoria
del
MCU, stilando una classifica delle 10 migliori scene
post-credits dell’universo condiviso che hanno anticipato
l’incredibile futuro dell’Universo
Cinematografico Marvel.
1Il ritorno di J. Jonah Jameson
(Spider-Man: Far From Home, 2019)
Per
fortuna, Spider-Man tornerà nel Marvel Cinematic Universe il
prossimo anno, ma se Far From Home avesse segnato la sua
apparizione finale, sarebbe comunque uscito di scena con stile! In
questa scena a metà dei titoli di coda, l’attenzione
dell’arrampicamuri viene catturata da un servizio giornalistico
nella Grande Mela che non solo è stato caratterizzato dallo shock
per il ritorno di J.K. Simmons nei panni di J. Jonah Jameson, ma
anche dal fatto che la vera identità di Peter è stata rivelata al
mondo!
Entrambi quei momenti sono stati davvero
sbalorditivi e hanno preparato bene il terreno per questa versione
di Spidey per essere etichettata come una “minaccia” dopo che è
stato incastrato per l’omicidio di Mysterio. Questa è stata
l’anticipazione più eccitante di sempre, e se vogliamo credere a
quelle voci su
Spider-Man 3, Peter Parker entrerà nello “Spider-Verse”
per rendere di nuovo segreta la sua identità.
Ant-Man
and the Wasp ha cercato di spiegare, senza però
approfondire la questione, da dove provenissero i poteri del
personaggio di Janes Van Dyne. Il Regno Quantico è diventato
cruciale per la narrativa generale della Fase 3 del MCU dopo essere stato introdotto
per la prima volta in Ant-Man
del 2015. Hank Pym ha descritto il Regno Quantico come “una
realtà in cui tutti i concetti di tempo e spazio diventano
irrilevanti mentre ti rimpicciolisci per l’eternità.”
Decenni prima, Hank
aveva perso la sua amata moglie Janet Van Dyne nel Regno Quantico.
Credeva che fosse impossibile salvarla, ma venne smentito quando
Scott Lang riuscì a fuggire dal Regno con successo. Ciò ha
direttamente impostato la trama di Ant-Man
and the Wasp, in cui Hank ha inventato con successo un
Quantum Pod per entrare e uscire in sicurezza dal Regno Quantico.
Si è trattato di un risultato straordinario, che in qualche modo ha
suggerito che Hank Pym è in realtà il più grande genio del
MCU.
La Marvel ha
recentemente pubblicato un libro di riferimento per l’universo
chiamato The Wakanda Files, in cui Shuri esprime un certo
stupore per i progetti di Pym. Per la gioia di Hank, però, quei
progetti hanno avuto successo e hanno salvato Janet. La stessa,
però, è tornata leggermente cambiata e, proprio secondo The
Wakanda Files, si tratta di un cambiamento permanente. Il
libro include una nota scritta a mano di Janet che discute dei suoi
nuovi poteri (via Screen
Rant):
“Ho un bel po’ di tempo da
recuperare. Il mondo è un posto diverso. E lo sono anch’io. Parte è
l’adattamento, parte è l’evoluzione. Sono improvvisamente capace di
ciò che prima non potevo fare. Sono stata colpita da una forma di
Entanglement Quantistico, come se ogni molecola del mio corpo
continuasse a trovarsi in più posti contemporaneamente. Credo che
sia così che sono stato in grado di sentire il dolore di Ghost. Non
sono del tutto sicura del come, ma sono stata in grado per farla
rientrare in modo completo nella nostra realtà. Forse ci sono
qualità curative per le particelle nel Regno Quantico? Mi sembra di
essere stata lì per tutta la vita, ma sembra che mi siamo ancora
parecchi momenti degnidi domande.”
Janet Van Dyne potrebbe essere un
personaggio chiave nella fasi 4 e 5 del MCU
Il tempo non funziona normalmente
nel Regno Quantico, quindi in realtà è impossibile stimare quanto
tempo Janet sia effettivamente rimasta lì. Inoltre, è possibile che
anche la più breve esposizione al Regno Quantico abbia il
potenziale per garantire queste abilità: Scott Lang è stato in
grado di evadere dal Regno Quantico perché ha percepito che sua
figlia Cassie lo reclamava, e ciò sembra molto simile
all’esperienza di Entanglement Quantistico descritta da Janet.
Tuttavia, le abilità di Janet sono durate anche dopo che ha
lasciato il Regno Quantico, mantenendo chiaramente anche altri
poteri.
La dichiarazione più interessante è
che Janet Van Dyne si sente come se “ogni molecola nel suo
corpo continuasse a trovarsi in più posti contemporaneamente”.
Questo potrebbe suggerire che, come Ghost, lei non sia veramente in
contatto con questa dimensione, e che le sue molecole si stiano
spostando tra questo piano dell’esistenza ed altre realtà. In tal
caso, Janet Van Dyne potrebbe essere un personaggio chiave delle
Fase 4 e 5 del MCU, che essenzialmente dovrebbero basarsi sul
concetto di Multiverso. I primi due film di Ant-Man
sono stati cruciali per stabilire la narrativa generale del MCU: lo
stesso potrebbe essere vero anche per Ant-Man 3.
Ecco la nostra intervista a
Francesca Mazzoleni, regista di Punta Sacra, film presentato alla
diciassettesima edizione di Alice nella città.
Punta sacra, Il
film-documentario di Francesca Mazzoleni, si è
aggiudicato due premi nell’ambito di Alice
nella Città: il Premio Speciale della
Giuria assegnato dalle due giurie di
Alice – quella dei ragazzi e quella degli
esperti composta da Eva Cools, Agostino
Ferrente, Caterina Guzzanti, Claudio Noce e Roberta Torre
– e la Menzione speciale alla colonna
sonora nell’ambito del Premio Rolling
Stone alla Miglior Colonna Sonora, assegnato da una giuria
composta da Morgan (presidente), Alessandro Giberti
(Direttore Rolling Stone), Louis Siciliano (musicista e
compositore), Pino Farinotti (critico cinematografico) e
Gianni Santoro (La Repubblica).
La sua presentazione – attesissima
dopo il successo lo scorso anno del film Il primo re, diretto da Matteo
Rovere, da cui è stata tratta – fa parte degli
Eventi Speciali della Festa del Cinema di
Roma.
La serie tvRomulus promette di raccontare la
fondazione di Roma e soprattutto il mondo dei primi romani
dell’VIII secolo a. C. come non era stato mai fatto. La dimensione
della serialità consente di soffermarsi di più e meglio sui
molteplici aspetti della vita del tempo, di ricreare con dovizia di
particolari quel mondo intriso di violenza, paura, riti e credenze
arcaiche, divenuto oggetto di miti e leggende. Un approfondimento
che non poteva trovare spazio nel film. Si prevede anche una
trilogia di romanzi scritti da Luca Azzolini e pubblicata da Harper
Collins, i primi due dei quali usciranno in contemporanea con la
serie.
Inevitabile chiedersi se
Romulus, diretto da Matteo
Rovere, Michele Alhaique e Enrico
Maria Artale riuscirà a mantenere gli alti livelli non
solo visivi del film, ma anche di scrittura e interpretativi,
riuscendo a non svilirsi nel compromesso con i meccanismi della
serialità televisiva e dell’indirizzo a un pubblico di massa. Della
scrittura si sono occupati lo stesso
Matteo Rovere, Filippo Gravino (Veloce
come il vento, Alaska,
Il Primo Re) e Guido
Iuculano (Una vita tranquilla,
Tutto può succedere,
Questione di cuore,
Alaska) con un lavoro meticoloso di
documentazione e studio delle fonti storiche, durato quattro anni.
La serie, come il film, è interamente girata in protolatino.
Romulus, la trama
Lazio, VIII secolo a. C.. Trenta
popoli formano la Lega Latina. Ognuno ha il suo re, ma tutti vivono
sotto la guida del re di Alba, Numitor. La preoccupazione cresce
nella Lega a causa di una prolungata siccità. Si consulta
l’aruspice e il verdetto è implacabile: per far tornare la pioggia,
gli dei chiedono l’esilio di Numitor. Il trono dovrà passare ai
nipoti Enitos, Giovanni Buselli, e Yemos,
Andrea Arcangeli, figli di sua figlia Silvia,
Vanessa Scalera. I due fratelli sono inseparabili,
ma Enitos ama segretamente Ilia, Marianna Fontana,
vestale figlia di Amulius, Sergio Romano, fratello
di Numitor. Ilia è rinchiusa nel tempio di Vesta, dove
veglia giorno e notte sul fuoco sacro affinché non si spenga.
Nonostante Ilia profetizzi a Enitos che sarà ucciso da suo fratello
e gli consigli di allontanarsi da Alba per fuggire il destino,
Enitos decide di restare accanto al fratello e regnare insieme. Nel
frattempo, a Velia, un gruppo di giovani, i Luperci, viene scelto
per un rito di iniziazione: dovrà restare nel bosco per mesi e
sopravvivere alla minaccia della dea Rumia, che abita la foresta.
Tra questi c’è Wiros, Francesco Di Napoli.
Ad Alba Amulius, convinto dalla moglie Gala, Ivana
Lotito, e dal re di Velia, Spurius,
MassimoRossi, prende il potere
con la forza. Yemos dovrà fuggire verso il bosco, dove si unirà ai
Luperci avvicinandosi a Wiros. Ilia perderà il suo amore e farà un
gesto gravissimo, di cui pagherà le conseguenze. Tutto però può
cambiare in un attimo in un mondo primitivo, dominato da violenza,
paura e mistero.
Romulusmantiene le promesse nonostante qualche compromesso
inevitabile
Torniamo dunque alla domanda
dell’inizio. Romulus mantiene gli alti
livelli del film da cui è tratto, nonostante la diluizione nella
serialità? Stando ai primi due episodi, sembra di si. Il progetto è
molto curato e riesce a sfruttare al meglio la possibilità di
inventare un mondo che ancora non c’è, che non si era mai visto
prima, partendo da una minuziosa ricostruzione storica. Il lavoro
di scrittura in questo senso è notevole. D’altro canto, si
inseriscono elementi che nel film erano assenti, come la
sessualità, quindi la nudità, con scene anche molto esplicite,
elemento che ne Il primo re mancava. Lo si fa per uniformare
il prodotto a dei canoni e attrarre un pubblico di massa. Al posto
di una visione problematica e complessa dei rapporti sembra farsi
strada una visione semplificata in cui è più netta la distinzione
tra bene e male. Questo almeno a giudicare dai primi due episodi.
Si introducono figure da tragedia shakespeariana, su tutte Gala,
moglie di Amulius, una Lady Macbeth ante litteram, e lo stesso
Amulius, un po’ Macbeth un po’ il Claudius dell’Amleto.
Non tutti i personaggi però sono curati allo stesso modo, anche se
ciò si potrà valutare più compiutamente nello sviluppo della serie.
Si pensi ad esempio proprio a Gala, che nei primi due episodi
interviene sempre con lo stesso comportamento e la stessa finalità,
con una certa prevedibilità. Ciò stona un po’ con l’estrema
accuratezza di cui abbiamo parlato sopra.
La regia riesce a restituire sia la
vastità di spazi allora sconosciuti e quindi spaventosi, la durezza
delle condizioni materiali di vita, sia lo stato di perenne paura,
di estrema precarietà in cui vivono i protagonisti. C’è molta
attenzione alle emozioni. Lo sguardo del regista si posa sui volti
e i corpi dei personaggi, che indaga da vicino per scorgerne gli
stati d’animo e i cambiamenti. Si riesce così a creare – con
l’aiuto della buona fotografia di Vladan Radovic,
sebbene sia difficile raggiungere i livelli di Daniele
Ciprì ne Il primo re, delle musiche dei
Mokadelic, basate ancora una volta sui ritmi
percussivi, adatti al contesto arcaico e creatori di atmosfere
piene di attesa e suspense – un’esperienza coinvolgente e un
universo credibile, che viaggia tra ricostruzione maniacalmente
realistica e fantasia. Il tutto è introdotto dalla sigla di testa,
spettacolare sia visivamente che musicalmente, con una bella cover
di Shout dei Tears for Fears cantata da
Elisa. C’è da augurarsi che i tre registi siano
riusciti a trovare un equilibrio di stili e che il livello si
mantenga alto durante tutta la serie come in questi primi due
episodi diretti da Matteo Rovere.
Un cast di giovani attori
da vita a Romulus
Il cast di
Romulus punta soprattutto sui giovani. I
tre personaggi principali su cui si concentra l’attenzione sono
Yemos, interpretato da Andrea Arcangeli
(Trust, The
Startup), Wiros, Francesco Di Napoli
(La
paranza dei bambini) e Ilia, Marianna
Fontana (Indivisibili, Capri – Revolution). Quest’ultima si
distingue nel ruolo della giovane vestale. La sequenza
dell’interramento che la vede protagonista è senza dubbio
visivamente impressionante e difficile da dimenticare, ma l’attrice
dimostra di sapersi esprimere al meglio in più momenti. Si capisce
già dai primi episodi come la sua figura sia quella di una ribelle
destinata a diventare un’eroina che riscatta il ruolo delle donne
in una società fortemente maschile. Da questo si evince, poi, come
la serie reinventi il passato per parlare al presente.
Accanto a loro Giovanni
Buselli (Gomorra – La serie),
Silvia Calderoni (Riccardo va
all’inferno), Demetra Avincola
(Fortunata,
Loro 2), Ivana Lotito
(Gomorra – La serie), Gabriel
Montesi (Favolacce,
Il primo re) sono solo alcuni dei
componenti del nutrito cast della serie. Prodotto da
Sky, Cattleya e
Groenlandia, Romulus
arriva su Sky dal 6 novembre.
La Marvel ha rivelato come l’Hydra
abbia trasformato Bucky Barnes, il migliore amico di Steve Rogers,
nel Soldato d’Inverno. Quando Sebastian Stan ha fatto il suo debutto nel MCU
nei panni di Bucky Barnes in Captain America: Il primo
vendicatore, chiunque aveva familiarità con i
fumetti sapeva che direzione avrebbe preso la sua storia. Non passò
molto tempo prima che emergessero rapporti secondo cui Stan aveva
firmato un contratto per più film, e da allora tutto sembrava
alquanto inevitabile.
Potrebbe essere stato facile da
prevedere, ma il ritorno di Bucky è stato gestito in modo
eccezionale e ad oggi Captain America: The Winter Soldier del 2014 è
ancora considerato uno dei migliori film dell’intero MCU.
Nell’universo condiviso, Bucky è sopravvissuto ad una caduta da una
grande altezza ed è stato catturato dall’Hydra. È stato
gradualmente trasformato nel miglior assassino dell’Hydra,
congelato criogenicamente tra le varie missioni e scongelato ogni
volta che l’Hydra aveva bisogno di lui.
È stato responsabile di alcune delle
morti più importanti nella storia del MCU, inclusi gli assassinii
di Howard e Maria Stark e persino l’omicidio del presidente degli
Stati Uniti, John F. Kennedy. Ma come ha fatto l’Hydra a
trasformare il migliore amico di Captain America nel Soldato
d’Inverno? La risposta è stata finalmente data da The Wakanda
Files (via
Screen Rant), una raccolta di record relativi all’universo
condiviso messi insieme da Shuri mentre studiava il mondo in via di
sviluppo oltre i confini di Wakanda, pubblicato nell’ottobre
2020.
Secondo i file di Shuri, il progetto
del Soldato d’Inverno fu supervisionato personalmente dal dottor
Arnim Zola mentre era sotto la custodia dell’SSR negli anni ’40.
“Il mio lavoro continua in segreto”, riflette Zola in uno
dei suoi appunti personali: “Nella fredda desolazione della
Siberia sta nascendo il prossimo soldato dell’Hydra. Il complesso
siberiano ha riferito che il sergente Barnes si sta riprendendo
abbastanza bene dopo essere caduto dal ponte. Le sue ferite erano
estese, richiedendo l’amputazione del braccio sinistro. Ma questo è
facilmente risolvibile con protesi cibernetiche avanzate”.
Shuri credeva inoltre che l’Hydra avesse esposto Barnes alle
radiazioni gamma per migliorare il suo fisico, ispirato
dall’energia del Tesseract.
Bucky Barnes ancora suscettibile al controllo esterno?
I diari di Zola indicano che Bucky
Barnes era inaspettatamente resistente al lavaggio del cervello
dell’Hydra, combattendolo con una ferocia inesplicabile. Tuttavia,
l’Hydra persistette, sottoponendo Bucky ad un condizionamento
intensivo e poi congelandolo criogenicamente prima della successiva
sessione di lavaggio del cervello. “Il programma del Soldato
d’Inverno dell’Hydra ha sottoposto Barnes ad una terapia
elettroconvulsiva (ECT)”, osserva Shuri nei suoi appunti
personali, “seguita da parole chiave e frasi suggestive per
attivare un nodo cerebrale che potrebbe richiedere anni per
sciogliersi. Se siamo in grado di invertirlo. L’ECT è estremamente
doloroso e l’Hydra non ha somministrato agenti opacizzanti “.
Shuri paragona l’esperienza di Bucky quando è sotto il controllo
dell’Hydra a quella di una persona nella fase REM mentre è in
realtà sveglia, quindi in uno stato di sogno in cui non ha la
libera volontà di rifiutare gli ordini.
Il Soldato d’Inverno sarebbe stato
l’agente più fedele dell’Hydra, se non fosse stato per un fattore
che non avevano considerato: la sua lealtà a Steve Rogers, che fu
scongelato dal ghiaccio decenni dopo e riprese la sua carriera come
Captain America. “I ricordi condivisi di Barnes con il suo
migliore amico, Steve Rogers, hanno attivato momentaneamente i
centri della memoria”, osserva Shuri, “dando vita a
piccoli frammenti della sua vita passata mentre si trovava in una
trance simile al sonno”. Tuttavia, questo stimolo emotivo è
l’unico modo sicuro per Bucky di rimanere libero dal suo
condizionamento mentale, nonostante ora Captain America non
ci sia più. Shuri non sembra credere che il lavaggio del cervello
sia stato invertito con successo, il che significa che il Soldato
d’Inverno potrebbe essere ancora suscettibile al controllo esterno.
Ciò potrebbe rivelarsi significativo ai fini della trama
dell’attesa serie
The Falcon and the Winter Soldier.
È arrivato on line il nuovo video di
Rainsford, nome d’arte di Rainey
Qualley, che per l’accompagnamento per immagini di
Love me like you hate me si è avvalsa della collaborazione
di Shia LaBeouf e della sorella Margaret
Qualley. Il video, che potete vedere di seguito, è il
racconto di una quotidianità di una storia d’amore, intima,
passionale, fisica, difficile e delicata. Ecco il video di
seguito:
https://vimeo.com/471151437
Shia LaBeouf non è nuovo alla realizzazione di
videoclip musicali anche fisicamente impegnativi, come è accaduto
con le collaborazioni con Sigur Ros e
Sia. Margaret Qualley non è da meno, dal momento
che proviene dalla danza e dal cinema indipendente – sperimentale,
prima del debutto nel cinema d’autore con C’Era una volta a
Hollywood, di Quentin Tarantino. La
ricordiamo nel meraviglioso cortometraggio per Kenzo diretto da
Spike Jonze.
Anche se non è ufficiale, in assenza
di credits, sembra che il video sia stato diretto da Olivia Wilde, come spoilera un commento di
Reed Morano su Instagram, sotto al post di
Just Jared che annuncia l’uscita del video stesso.
Dopo le
cover di Empire che ci hanno regalato un nuovissimo sguardo a
tutto il cast del film, James Gunn è tornato a parlare via
Twitter dell’attesissimo The Suicide
Squad, rivelando nuovi dettagli sulla nuova iterazione
cinematografica della Task Force X che dovrebbe arrivare al cinema
il prossimo anno.
Il regista e sceneggiatore ha
spiegato che il montaggio del film è stato completato e che adesso
è impegnato con le fasi finali della post-produzione. Il regista ha
inoltre confermato che non ci saranno riprese aggiuntive:
“Avevamo inserito i reshoot nel nostro programma. Ma questa
settimana abbiamo in programma di allacciare il film (che significa
bloccare le immagini ad eccezione di alcuni elementi che andranno
spostati per fare spazio ai VFX da inserire successivamente) e non
abbiamo rigirato nulla.”
Gun ha inoltro spiegato che nessun
personaggio sarà “al sicuro” nel film e che nessun personaggio ha
avuto le spalle coperte dalla DC Films, neanche la celebre Harley
Quinn di Margot
Robbie: “”Nessun personaggio è stato protetto
dalla DC. Mi hanno dato carta bianca per fare tutto quello che
volevo. Questa è stata una delle cose che avevamo concordato prima
che accettassi di lavorare per loro. Il mio obiettivo non era
quello di cercare lo shock gratuito, ma volevo che il pubblico
capisse che nel film può succedere qualsiasi cosa.”
Bloomberg
riporta che MGM avrebbe avuto una serie di discussioni con Apple e
Netflix in merito alla possibilità di acquistare No Time to Die e di
far debuttare il nuovo attesissimo capitolo della saga di James
Bond direttamente in streaming. Tuttavia, lo studio sembra essere
irremovibile e convinto di voler distribuire Bond 25 al
cinema.
Il sito spiega che il prossimo film
di James Bond potrebbe potenzialmente recuperare centinaia di
milioni di dollari attraverso una potenziale uscita in streaming,
anche se MGM sostiene che il blockbuster “non è in
vendita”. Un rappresentante ha rilasciato una dichiarazione
dicendo: “L’uscita del film è stata posticipata ad aprile 2021
al fine di preservare l’esperienza in sala per gli
spettatori.”
Amazon non sembra essere in corsa
per acquistare No Time to
Die, anche se questa potrebbe rivelarsi una mossa
innegabilmente sensata per MGM in questa fase così delicata.
Tenet è stato un fallimento al botteghino, mentre la spesa
relativa al marketing del prossimo film di 007 sembra essersi
definitivamente esaurita (un trailer finale che reclamizzava
l’uscita in sala a novembre ha debuttato poco prima della notizia
dell’ennesimo rinvio).
No Time to Die e il futuro della sala cinematografica
No Time to Die è costato
circa 250 milioni di dollari, quindi se MGM avesse la possibilità
di vendere il film ad una cifra superiore, avrebbe certamente la
possibilità di raggiungere almeno il pareggio. Se si scommette
ancora su un’uscita in sala, il risultato finale potrebbe essere
quello di una grave perdita, perché è chiaro che gli spettatori non
saranno pronti a tornare al cinema fino a quando non sarà
disponibile un vaccino COVID-19.
In No Time to Die, Bond si
gode una vita tranquilla in Giamaica dopo essersi ritirato dal
servizio attivo. Il suo quieto vivere viene però bruscamente
interrotto quando Felix Leiter, un vecchio amico ed agente della
CIA, ricompare chiedendogli aiuto. La missione per liberare uno
scienziato dai suoi sequestratori si rivela essere più insidiosa
del previsto, portando Bond sulle tracce di un misterioso villain
armato di una nuova e pericolosa tecnologia.
Durante il Comic-Con di San Diego
dello scorso anno, Kevin Feige
annunciò ufficialmente che il premio Oscar Mahershala Ali avrebbe interpretato Blade in
un nuovo cinecomic del MCU. Da allora, però, non ci sono
mai stati aggiornamenti significativi sul progetto, se non un
concept ufficiale – condiviso via Instagram dallo stesso Alì –
che mostrava l’attore nei panni di Eric Brooks.
Adesso, in una recente intervista
con
The Tight Rope, Mahershala Ali ha finalmente parlato del
film e di come sia riuscito ad ottenere la parte, rivelando di aver
sempre voluto interpretare il personaggio fin da quando ha ottenuto
la parte di Cornell “Cottonmouth” Stokes nella serie Marvel
Luke Cage.
“Quando Luke Cage è stato
presentato per la prima volta, mi sono rivolto al mio agente e gli
ho detto: ‘Cosa stanno facendo con Blade?’. Sapevo che stavano
cercando un modo per riportare il personaggio al cinema. Per me è
stato eccitante entrare a far parte dell’universo Marvel alla
televisione, ma la verità è che il mio obiettivo è sempre stato il
cinema.”
“Ci sono voluti un paio d’anni
prima che tutto si concretizzasse”, ha continuato l’attore.
“Volevo davvero interpretare quel personaggio e affrontare
quella responsabilità. Mi piace che sia un personaggio oscuro,
ovviamente in riferimento al tono. È decisamente più cupo rispetto
a tutti gli altri personaggi. Questo è stato l’elemento di maggior
interesse per me.”
Ali ha parlato anche dell’eredità
di Wesley
Snipes, che ha interpretato Eric Brooks/Blade
in ben tre film, realizzati tra il 1998 e il 2004: “Nella mia
mente c’era sicuramente un legame con Wesley Snipes. Quando ero al
liceo le persone mi dicevano che ci somigliavamo. Il lavoro di
Wesley mi ha sicuramente ispirato, tuttavia è stata la mia
partecipazione a Luke Cage a permettermi di pensare alla parte e di
capire cose stessero facendo al riguardo.”
Cosa sappiamo di Blade con Mahershala Ali?
Al momento su Bladevige
il mistero più assoluto: non sappiamo infatti né
chi si occuperà della regia, né chi della sceneggiatura e,
soprattutto, quali attori affiancheranno Ali nel cast.
Mahershala Aliè uno dei
nomi più “caldi” del momento, a Hollywood. Dopo il suo exploit nel
2016 con Moonlight, che gli ha
regalato il primo Oscar da non protagonista, Ali ha fatto doppietta
quest’anno con Green
Book, nella stessa categoria. Intanto ha continuato a
coltivare il cinema da blockbuster (è nel cast
di Alita: l’Angelo della Battaglia) e la
grande serialità televisiva (è stato protagonista della terza
stagione di True Detective).
Ali non è estraneo al cinema di
supereroi. Ha dato la voce a Prowler in Spider-Man: Un
Nuovo Universo ed è stato Cottonmouth nella prima
stagione di Luke Cage per
Marvel/Netflix.
Dopo il
trailer ufficiale il network americano
ABC ha diffuso l’inedito promo “Brace for Impact”
di Big
Sky, l’annunciata nuova serie tv in arrivo questo
autunno.
Big Sky
Big
Sky è la nuova serie tv creata da David E.
Kelley per il network americano ABC. David E. Kelley sarà
lo showrunner della prima stagione. Basato sulla serie di libri di
CJ Box, “Big Sky” è prodotto da David E. Kelley, Ross
Fineman, Matthew Gross, Paul McGuigan, CJ Box e
Gwyneth Horder-Payton, ed è prodotto da 20th
Television. 20th Television fa parte dei Disney Television
Studios, insieme a ABC Signature e Touchstone Television.
La serie racconta
degli investigatori privati Cassie Dewell e Cody Hoyt
uniscono le forze con la sua ex moglie ed ex poliziotta, Jenny
Hoyt, per cercare due sorelle che sono state rapite da un
camionista su una remota autostrada nel Montana. Ma quando scoprono
che queste non sono le uniche ragazze scomparse nella zona, devono
correre contro il tempo per fermare l’assassino prima che un’altra
donna venga rapita. Big Sky vede protagonisti
Katheryn Winnick nei panni di Jenny Hoyt,
Kylie Bunbury nei panni di Cassie Dewell,
Brian Geraghty nei panni di Ronald Pergman,
Dedee Pfeiffer nei panni di Denise Brisbane,
Natalie Alyn Lind nei panni di Danielle Sullivan,
Jade Pettyjohn nei panni di Grace Sullivan,
Jesse James Keitel nei panni di Jerrie Kennedy,
Valerie Mahaffey come Helen Pergman con
John Carroll Lynch come Rick Legarski e
Ryan Phillippe come Cody Hoyt.
Arriva da
Deadline la notizia che
Michael B. Jordan potrebbe debuttare alla regia di
Creed
3, il terzo capitolo della serie di spin-off della
saga di Rocky Balboa, i cui eventi si svolgono
nove anni dopo i fatti narrati nel franchise con
protagonista Sylvester
Stallone.
Il terzo episodio è stato
ufficializzato lo scorso febbraio. All’epoca venne soltanto
confermato che ad occuparsi della sceneggiatura sarebbe stato
Zach Baylin, noto per aver curato lo script di
King
Richard, un biopic incentrato sulla vita del padre
delle campionesse di tennis Serena e Venus Williams, che avrà come
protagonista Will Smith e che debutterà prossimamente su
Netflix.
Adesso, stando al report di
Deadline (via Collider),
sembra proprio che
Michael B. Jordan non solo tornerà nei panni di Adonis
“Donnie” Johnson, ma firmerà anche il suo debutto dietro la
macchina da presa proprio grazie a Creed 3.
In realtà, non è la prima volta che si parla di tale possibilità,
dal momento che le voci sulla possibilità che Jordan si occupi
anche della regia del film circolavano da un bel po’. Ad ogni modo,
la Warner Bros. non ha ancora confermato l’attore come regista
ufficiale.
Un’altra importante novità in
merito a Creed
3 riguarderebbe il coinvolgimento
di Sylvester
Stallone, che potrebbe non tornare nei panni
dell’iconico personaggio in veste di mentore. In effetti, già
in Creed 2
l’arco narrativo del personaggio sembrava essersi concluso. Lo
scorso maggio l’attore aveva parlato del progetto su Instagram durante
un Q&A – lo stesso in cui aveva confermato il sequel di
Demolition Man -, anticipando che
potrebbe non apparire nel terzo capitolo della saga spin-off.
Stallone ha spiegato di avere
alcune idee per fare tornare il personaggio di Rocky al cinema, ma
dubita che ciò possa avvenire nel terzo
annunciato Creed. Sly ha quindi confermato di
avere alcune idee per un sequel
di Rocky, ma al tempo stesso pensa che
il suo arco narrativo nel franchise con
protagonista Michael
B. Jordan si sia esaurito.
Shang-Chi and the Legend of the Ten
Rings sarebbe dovuto arrivare nei cinema a
febbraio 2021, ma l’emergenze Covid-19 ha letteralmente stravolto
il calendario delle uscite dei prossimi attesissimi film del
MCU, facendo slittare il cinecomic
di Destin Daniel Cretton prima a maggio e poi a
luglio del prossimo anno.
Le riprese del film erano partite in
Australia prima che il lockdown dello scorso marzo fermasse tutte
le produzioni cinematografiche su scala mondiale. Successivamente,
il cast e la troupe del film sono ritornati sul set per completare
le riprese australiane e spostarsi così a San Francisco. Adesso, è
stato proprio Cretton a confermare via Instagram
che le riprese del cinecomic al Maestro delle Arti Marziali si sono
ufficialmente concluse.
Vista l’attuale situazione legata al
Coronavirus, è impossibile prevedere quale sarà il reale futuro di
Shang-Chi and the Legend of the Ten Rings: per
ora il film è atteso nelle sale per luglio del 2021, ma non è
escluso che le cose possano cambiare ancora una volta. Sulla trama
del film sappiamo ancora poco, se non che il vero Mandarino farà
finalmente il suo debutto nell’Universo Cinematografico Marvel e
che il protagonista sarà coinvolto in una sorta di torneo di
combattimento per entrare in possesso dei Dieci Anelli a cui fa
riferimento il titolo.
I primi dettagli sulla trama di
Shang-Chi
Stando ai primi dettagli sulla trama
emersi diverso tempo fa, Shang-Chi non sarà soltanto il Maestro
delle Arti Marziali che i fan hanno imparato a conoscere grazie ai
fumetti: sembra, infatti, che il protagonista avrà l’abilità di
dare vita ad una serie di cloni di se stesso (un potere simile a
ciò che è già in grado di fare nei fumetti), e sarà proprio
quest’abilità a metterlo nel radar del Mandarino. Cresciuto in uno
speciale orfanotrofio dov’è stato addestrato al combattimento,
Shang-Chi decide di fuggire per poi finire, anni dopo, di nuovo
nelle grinfie del villain. Il Mandarino promette a Shang-Chi soldi,
potere e – cosa ancora più importante – la libertà, se accetterà di
combattere in un torneo dove al vincitore verranno consegnati i
Dieci Anelli a cui fa riferimento il titolo.
L’uscita nelle sale di Shang-Chi
and the Legend of the Ten Rings è fissata
al 7 maggio 2021. Destin Daniel Cretton,
acclamato regista di Short Term
12 e The Glass Castle (di recente è
uscito il suo ultimo lavoro Il
Diritto di Opporsi, con Michael B. Jordan, Jamie Foxx
e Brie
Larson) è stato scelto per dirigere il film che vanta la
sceneggiatura di Dave Callaham (The
Expendables, Godzilla,Wonder
Woman 1984).
Vi ricordiamo che nei panni del
protagonista ci sarà l’attore canadese Simu
Liu, visto di recente nella commedia di
Netflix Kim’s Convenience. Insieme a lui, nel cast,
figureranno anche Tony
LeungChiu-wai nei panni del
Mandarino, e Awkwafina,
che dovrebbe interpretare un “leale soldato” del Mandarino, e se è
vero che il villain qui sarà il padre di Shang-Chi, in tal caso ci
sono ottime possibilità che si tratti di Fah Lo Suee. Chi ha letto
i fumetti saprà che è la sorella dell’eroe del titolo e che il suo
superpotere è l’ipnosi.
È possibile raccontare al cinema il
drammatico periodo che l’Italia ha vissuto, e sta ancora vivendo, a
causa della pandemia di Covid-19? Tale quesito ha acceso nelle
ultime settimane innumerevoli dibattiti, alimentato anche
dall’uscita in sala del film Lockdown all’italiana di
Enrico Vanzina. Se per molti una commedia ad
equivoci non era il genere più idoneo per affrontare il tema,
potrebbe invece esserlo il documentario Fuori era
primavera – Viaggio nell’Italia del Lockdown, del
regista premio Oscar Gabriele
Salvatores. La differenza sta che in quest’ultimo ad
avere voce in capitolo sono proprio gli italiani, popolo imperfetto
ma straordinario, chiamato ad affrontare negli scorsi mesi una
delle sfide più dure dal secondo dopoguerra ad oggi.
Presentato durante la Festa
del Cinema di Roma, il film del regista
di Il ragazzo
invisibile ricalca l’esperimento già compiuto nel 2014 con
Italy in a Day – Un
giorno da italiani. La modalità è la stessa: nel corso
delle settimane in cui gli italiani sono rimasti in casa per
limitare i contagi, il regista ha chiesto a tutti loro di inviargli
delle video testimonianze di quella loro insolita quotidianità.
Ancora una volta, dunque, l’Italia si è riscoperta popolo di
narratori. Nel giro di breve, si raccolgono oltre 16 mila video, e
dalla loro unione nasce un ritratto divertente, commovente ma anche
frustrante di quanto accaduto e del modo in cui le persone vi si
sono relazionate.
Nel costruire il racconto,
Salvatores ha seguito un chiaro ordine cronologico. Si parte con i
primi timori dell’arrivo del virus, fino a quel fatidico 9 marzo in
cui l’Italia viene dichiarata zona rossa nella sua totalità. Da lì
hanno inizio tre mesi di piazze vuote, ospedali pieni e balconi in
festa con il tentativo di sentirsi tutti meno soli. Si delineano
diverse figure di eroi, dai medici e gli infermieri ai fattorini
del cibo d’asporto, nonché l’attenzione verso le notizie globali e
la rinascita della natura. Tutto questo e molto altro va a dar voce
ad un paese che ha sofferto, soffre, ma fa comunque di tutto per
resistere.
Fuori era primavera: tra documento
ed emozione
Nella nostra società contemporanea
la documentazione dell’evento è ormai per le persone un atto
pressoché irrinunciabile. Che siano più o meno importanti, questi
trovano sempre spazio nel nostro personale archivio mediale. Di
fronte ad una pandemia globale, che ha radicalmente trasformato le
abitudini mondiali, era dunque prevedibile che ognuno nel suo
privato avrebbe intensificato tale attività. Sono così spuntati in
rete tutorial di ogni tipo, video-diari, e simili. Le videochiamate
di lavoro o tra amici si sono moltiplicate, così come anche la
tanto nominata didattica a distanza.
Se tutte queste voci prese
singolarmente possono essere un racconto parziale, smettono
naturalmente di esserlo nel momento in cui vengono accostate a
testimonianze più o meno simili. È quello che succede con Fuori
era primavera, documentario che presenta in sé due grandi
elementi di forza. Il primo è quello del valore testimoniale. È a
progetti come questi che in futuro si guarderà per avere un’idea di
quello che è ora il nostro mondo presente. Nel documentario di
Salvatores si ritrova il racconto di un vero e proprio momento di
passaggio, che ha nella video testimonianza del reale il suo
marchio di qualità.
Di ciò che viene mostrato, infatti,
non importa tanto il cosa quanto il come. Il film è un’ennesima
prova del potere dei social network e dei moderni canali di
comunicazione. Questi permettono infatti di colmare virtualmente le
distanze che cause naturali obbligano a mantenere a livello fisico.
L’altro grande valore del film è invece quello della sincerità.
Sarebbe infatti fin troppo facile costruire un racconto ruffiano su
ferite ancora così vive. Salvatores riesce ad evitare tale rischio
omettendo i più comuni stereotipi a riguardo, privilegiando
elementi che sappiano di novità. Così facendo, il suo film acquista
un grande, e sincero, cuore.
Fuori era primavera: la
recensione
Dati questi due grandi pregi del
film, dunque, Fuori era primavera – Viaggio nell’Italia del
Lockdown si configura come un esperimento doppiamente
interessante. Questo, come riporta anche il sottotitolo, è un vero
e proprio viaggio dal Nord al Sud del Bel Paese. Grazie al potere
del cinema, è possibile percorrere questo senza spostarsi di un
metro, avvertendo ugualmente tutta la carica emotiva che gli
italiani hanno da trasmettere. Si rimane infatti commossi dinanzi
alla forza di questo popolo, che quando vuole sa dimostrare di
essere davvero il più bello del mondo. L’attualità di quanto
narrato certamente influisce sul giudizio emotivo, ma rimane
ugualmente difficile non provare grande commozione davanti alle
immagini proposte.
Salvatores vince dunque la sfida di
voler raccontare tale periodo rinunciando alla finzione
cinematografica. Nessuno più dei veri protagonisti del lockdown
sembra in grado di poter raccontare cosa è stato questo momento
storico. Le loro voci danno vita ad un paese ricco di somiglianze e
differenze, che si scopre bello anche grazie a queste ultime. Tra
l’Inno di Mameli cantato tutti insieme sul balcone, e la pizza
fatta in casa del sabato sera, si manifesta la forza di un popolo
costretto tra quattro mura mentre fuori ha luogo la primavera.
Simbolo di rinascita e speranza, questa non poteva che diventare il
titolo del film.
L’esordio registico e attoriale di
Suzanne Lindon, ventenne figlia d’arte degli
attori Vincent Lindon e Sandrine
Kiberlaine, s’intitola Seize
printemps, ovvero sedici primavere: l’età della
protagonista, che guarda caso si chiama come la regista, Suzanne.
Lindon si dà anche il compito di interpretarla, esplorandone dubbi
e incertezze adolescenziali, ma anche i primi amori. Presentato al
Festival di Toronto a settembre, avrebbe dovuto
partecipare a quello di Cannes, annullato a causa della pandemia.
Ora arriva alla Festa del Cinema di Roma.
Seizeprintemps, la trama
Suzanne, Suzanne
Lindon, ha 16 anni. Frequenta il liceo, ma la scuola e i
compagni da un po’ di tempo la annoiano. I compagni sono troppo
superficiali e la scuola è sempre la stessa, una routine ormai
priva di interesse. In tutt’altro ambito, succede la stessa cosa a
Raphael, Arnaud Valois, trentacinquenne attore di
teatro, stanco del suo mestiere, ogni sera uguale a sé stesso e dei
suoi colleghi di lavoro. Così, un po’ per gioco, un po’ per
curiosità, i due cominciano a vedersi ogni mattina, al bar vicino
al teatro e alla scuola di Suzanne. S’innamorano, trovando uno
nell’altra la propria fuga dalla monotonia della quotidianità, una
boccata d’aria fresca in un orizzonte piatto.
Pur essendo acerba, come ci si
aspetta che sia l’opera prima di una ventenne, che ne ha scritto la
sceneggiatura a soli 15 anni, Seize
printemps colpisce per il suo delicato romanticismo,
in controtendenza rispetto ai tempi spavaldi ed esibizionisti che
oggi viviamo. Lindon attrice si propone come una nuova
Charlotte Gainsbourg, o Sophie
Marceau e questo suo esordio potrebbe essere visto come
una sorta di Il tempo delle mele degli
anni 2000.
Uno sguardo ancora
immaturo, ma originale e in controtendenza sulle sedici
primavere
Per quel che riguarda il racconto di
una storia d’amore, questo semplicissimo e per certi versi ingenuo
film riesce a comunicare con più efficacia il sentimento amoroso –
in particolare la fragilità e l’impaccio di quei primi amori
adolescenziali, platonici, che però non per questo sono meno
profondi e meno intensi – rispetto ad esempio ad un film come
l’atteso Ammonite di Francis
Lee, in cui comunque non si riesce a venir fuori da una
certa rigidità che raffredda il sentimento.
Seizeprintemps
è la dimostrazione di come, se si ha un’idea e una buona
sensibilità per realizzarla, anche con poco si riesce ad arrivare
agli spettatori, ad emozionare, complice anche la buona sintonia
tra Lindon e il protagonista maschile Arnaud
Valois (120 battiti al
minuto).
I dialoghi sono quasi assenti, al
loro posto gesti teatrali, balli e musica. Tuttavia, questo non è
solo un modo per scegliere la strada più facile, ma è una precisa
scelta che si apprezza da spettatori, e ancora una volta si mostra
in controtendenza rispetto a tanta cinematografia, soprattutto
francese, caratterizzata da una sovrabbondanza di parole, ultimo
esempio Le discours, presentato proprio
qui a Roma pochi giorni fa. Qui, al contrario, si lavora quasi solo
con il corpo, i movimenti, gli sguardi. In questo i protagonisti
sono bravi entrambi. Anche qui c’è del teatro, ma non è
affabulazione, bensì sensazioni, rumori e gesti quasi da mimo. Come
luogo poi, il teatro, il palcoscenico sono i luoghi simbolo
dell’incontro tra i due, quelli a cui l’arrivo di Suzanne dà un
nuovo senso per Raphael, che se ne stava allontanando.
Detto questo, non mancano
le ingenuità ed è un peccato che la regista abbia fretta di portare
a compimento la vicenda – il film dura 73 minuti – questa sì,
figlia senz’altro dell’inesperienza e di una scrittura che deve
ancora crescere molto. Sarebbero serviti 15-20 minuti in più e un
epilogo più compiuto al lavoro. Invece, si ha la sensazione di
correre verso il finale in maniera troppo sciatta.
Un talento da tenere d’occhio
Tuttavia, Suzanne
Lindon si dimostra un talento da tenere d’occhio. Sa
trattare con freschezza, non senza una vena di ironia, e con un
rispetto insolito, ma efficacissimo e quasi commovente questa
educazione sentimentale. Fotografa poi bene l’adolescenza: quella
fase della vita in cui ancora non si sa chi si è e cosa si vuole,
ma si ha chiaro che non si è più bambini e che molto di ciò che
prima rendeva felici, non soddisfa più. Una fase in cui ci si sente
potenti e vulnerabili al tempo stesso, fragili e forti. Quelle
sedici primavere potrebbero essere della regista stessa, come di
chiunque altro e sono importanti nella vita di ciascuno, motivo per
cui, ne è convinta Suzanne Lindon, vanno trattate
con estrema cura.
Ci è sempre stato insegnato che il
nostro è un mondo dove chiunque ha diritto ad una seconda
possibilità, ma è davvero così? La regista giapponese Miwa
Nashikawa si pone questo importante quesito nel
realizzare il suo nuovo film Under the OpenSky, presentato in anteprima alla
Festa del Cinema diRoma. Allieva
del grande Hirokazu
Kore’eda (Un affare di
famiglia), nel corso della sua filmografia ha sempre
raccontato storie particolarmente personali. Per la prima volta qui
si affida invece ad un romanzo dal titolo Mibuncho, opera
del noto scrittore Saky Ryuzo.
Questo è basato sulla vera figura di
un detenuto e sulla sua difficile vita una volta uscito di
prigione. Grazie a tale storia, adattata al presente, la regista ha
modo di esplorare nuove tematiche. Queste ruotano a loro volta
intorno ad un ritratto dell’odierna società giapponese, con i suoi
pregi e i suoli limiti. Il racconto che ne deriva è delicato come
una carezza, pur raccontando una situazione drammatica, da cui si
possono generare numerose riflessioni. Un’abilità, questa, che la
regista dimostra di aver ereditato dalle sue numerose
collaborazioni con i grandi maestri del cinema giapponese.
La storia qui raccontata ha per
protagonista Mikami (YakushoKoji), ex esponente dell’organizzazione criminale
Yakuza. Dopo 13 anni di prigione per omicidio, egli è ora un uomo
libero, pronto a riconquistare la sua vita. Per lui ha però inizio
un difficile inserimento nella società, dove fatica a trovare un
lavoro stabile. Causa di ciò è anche il suo codice di condotta,
profondamente radicato nelle regole alle quali apparteneva. Queste
risultano però ormai appartenenti ad un mondo in via di estinzione,
e non si adattano all’ordinato sistema di assistenza sociale del
Giappone. Catapultato in un mondo che non capisce, Mikami dovrà
allora riuscire a controllare la sua natura impulsiva, fidandosi di
quanto vogliono aiutarlo davvero.
Under the Open Sky: una prigione a
cielo aperto
La società giapponese è cambiata in
modo radicale negli ultimi decenni, e spesso ad una velocità quasi
spaventosa. Chi non riesce a stare al passo, e rimane indietro,
sembra così essere destinato ad una vita di fatiche e di stenti per
cercare il proprio posto in tutto ciò. A tali cambiamenti si
aggiunge la sempre più evidente indisposizione ad accettare coloro
che necessitano di una seconda possibilità. Da qui parte la vicenda
del protagonista di Under the Open Sky, il quale sembra
uscire da una prigione per entrare in una realtà che la ricorda
molto, pur non prevedendo confini spaziali. L’ironico titolo del
film suggerisce infatti il senso di oppressione provato da Mikami
pur trovandosi finalmente “libero”.
Nel corso del film egli si trova a
doversi relazionare con una serie di personaggi e procedure che
evidenziano la sua difficoltà a dialogare con il mondo
contemporaneo. Dalle offerte di lavoro fallite ai pregiudizi nei
suoi confronti, dalla stringente burocrazia ai deludenti sussidi
statali, tutto sembra cospirare contro il suo reinserimento nella
società. La sua situazione viene resa ancor più esplicita tramite
una composizione delle inquadrature che lo pone spesso ai margini,
ma anche da situazioni più concrete come la semplice difficoltà di
guidare un automobile.
La verità è che Mikami appartiene ad
un mondo che sempre più fa parte del passato. Più volte è infatti
possibile imbattersi in dialoghi e personaggi che manifestano tale
malinconica consapevolezza. Far parte della Yakuza è una
responsabilità che pochi sono ancora disposti ad assumersi. Quel
mondo di attività illecite lascia sempre più spazio ad una realtà
di uffici, pratiche da compilare e svaghi di vario tipo. Nel dare
la sua personale risposta al quesito alla base del film, la regista
non manca di evidenziare come tale trasformazione della società non
sia meno soffocante di quella a cui il protagonista
apparteneva.
Under the Open Sky: la
recensione
Ancora una volta i registi
giapponesi dimostrano una grande capacità nel raccontare in modo
semplice ma mai banale la realtà del loro paese. Allo stesso tempo,
le loro storie si dimostrano sorprendentemente universali. Con
Under the OpenSky, la Nashikawa aggiunge un
nuovo tassello a tale racconto nazionale, dimostrando una
delicatezza nei toni e nell’atmosfera capace di emozionare con
poco. Vi sono infatti piccoli gesti e parole in grado di
racchiudere il cuore più profondo del film. Nel corso delle due
ore, la drammaticità di quanto accade al protagonista viene così
dissimulata dall’interesse verso la sua fragilità umana.
All’interno di questo racconto non
mancano possibilità e strade non prese, come quella relativa alla
ex compagna del protagonista. Se da un lato queste sembrano
caricare eccessivamente il film, dall’altra ribadiscono
ulteriormente come certe cose perse, possono rimanerlo per sempre.
Proprio come un film che tenta di rappresentare al meglio la
semplicità della vita, Under the Open Sky commuove e
diverte, ponendo anche importanti riflessioni. E se anche non tutti
i suoi elementi sembrano essere al loro posto, pur nei suoi difetti
questo riesce ad offrire un appassionante spaccato di vita, troppo
spesso sottovalutato.
Il Presidente del Consiglio
Giuseppe Conte ha firmato un nuovo Dpcm in cui si decreta,
tra le altre misure restrittive per far fronte alla seconda ondata
di contagi da COVID-19, che i cinema, i teatri e le sale da
concerto dovranno chiudere, dal 26 ottobre al 24 novembre, un nuovo
stop di un mese che mette in gravissime condizioni l’intero
settore.
Tutta la filiera, dalla sala,
all’esercente, ma anche a chi i film li produce a chi lavora sui
set, fino a chi permette ai set di funzionare, parliamo anche di
macchinisti, elettricisti, addetti al catering, rischia così una
vera e propria sciagura.
Été 85 di François Ozon si
aggiudica il “Premio del Pubblico BNL” alla quindicesima edizione
della Festa del Cinema di Roma.
Il film vincitore del “Premio del
Pubblico BNL”, in collaborazione con il Main Partner della Festa
del Cinema, BNL Gruppo BNP Paribas, è stato il più votato dagli
spettatori fra i titoli della Selezione Ufficiale.
Le repliche di Été 85 di François Ozon
si terranno oggi, domenica 25 ottobre alle ore 20, presso la Sala
Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica e al cinema My Cityplex
Europa.
Nel corso dell’estate del 1985,
l’estate dei suoi sedici anni, mentre si trova in vacanza in una
cittadina balneare sulle coste della Normandia, Alexis si salva
dall’annegamento grazie a un atto eroico del diciottenne David:
Alexis ha appena incontrato l’amico che ha sempre sognato di avere.
Ma questo sogno realizzato riuscirà a durare più di un’estate? Il
film è tratto dal romanzo “Danza sulla mia tomba” di Aidan
Chambers.
Ozon ha scritto del film: Ho
letto il romanzo da cui è tratto il film nel 1985, quando avevo
diciassette anni, e l’ho adorato. Il libro sembrava parlare
personalmente all’adolescente che ero. Mi piacque così tanto che,
quando iniziai a dirigere cortometraggi, mi dicevo sempre: “Se un
giorno farò un lungometraggio, sarà un adattamento di questo
romanzo”. In tutti questi anni non ho girato questo film perché in
realtà volevo soprattutto vederlo, esserne lo spettatore! Ed ero
sicuro che qualcun altro l’avrebbe fatto, magari un regista
americano. Ma, con mia grande sorpresa, non è mai successo. Questa
storia ha avuto bisogno di tempo per maturare in me, affinché
sapessi come raccontarla. Alla fine sono rimasto fedele al romanzo
nella sua struttura narrativa. Ho adattato il contesto della storia
alla Francia e l’ho trasferita al tempo in cui ho letto il libro.
Nel film c’è sia la realtà del libro, sia il mio ricordo di come mi
sono sentito a leggerlo per la prima volta.
Sembra che un nuovo Dpcm debba
essere diffuso nelle prossime ore, forse già domani, un nuovo
documento che potrebbe mettere definitivamente la parola fine alla
sala. Secondo le prime notizie non ufficiali, sembra che il testo
del decreto riporti le seguenti affermazioni:
Sono sospese le attività di sale giochi, sale scommesse e
sale bingo e casinò. Sono sospesi gli spettacoli aperti al pubblico
in sale teatrali, sale da concerto, sale cinematografiche e in
altri spazi anche all’aperto.
Questo significherebbe che le sale
cinematografiche, insieme a tutte le altre attività di
intrattenimento e spettacolo dal vivo, si troverebbero ad
affrontare un nuovo periodo di chiusura che ne sancirebbe, forse
per sempre, la morte. Senza contare che chiudere i cinema non solo
mette in ginocchio la struttura-sala, ma anche l’industria a tutti
quelli che ci lavorano, e non si parla di attori e registi famosi,
ma di tecnici, elettricisti, macchinisti, manovalanza numerosa che
necessita di lavorare, perché se il cinema non è una priorità il
lavoro lo è per tutti.
La situazione sanitaria italiana sta
precipitando nella tenaglia della seconda ondata di contagi,
tuttavia i dati relativi alle attività legate al cinema sono stati
più che positivi, registrando un timido ritorno alla normalità e
un’incidenza pari a zero rispetto ai nuovi contagi. Nella sale, nei
teatri, il flusso di pubblico è controllato, è tracciabile, è
sicuro.
Il settore intero, da chi il cinema
lo crea, lo produce, lo fruisce, fino anche a chi lo racconta
(anche Cinefilos.it fa parte di questa filiera) scongiura una nuova
chiusura: #NonChiudeteICinema.
Punta sacra, Il
film-documentario di Francesca Mazzoleni, si
aggiudica due premi nell’ambito di Alice nella
Città: il Premio Speciale della
Giuria assegnato dalle due giurie di
Alice – quella dei ragazzi e quella degli
esperti composta da Eva Cools, Agostino
Ferrente, Caterina Guzzanti, Claudio Noce e Roberta Torre
– e la Menzione speciale alla colonna
sonora nell’ambito del Premio Rolling
Stone alla Miglior Colonna Sonora, assegnato da una giuria
composta da Morgan (presidente), Alessandro Giberti
(Direttore Rolling Stone), Louis Siciliano (musicista e
compositore), Pino Farinotti (critico cinematografico) e
Gianni Santoro (La Repubblica).
“Il Premio Speciale
della Giuria va a Francesca Mazzoleni per aver saputo
raccontare in modo mai banale una comunità dalle mille
sfaccettature, riuscendo a mostrare bellezza e malinconia, luci e
ombre di chi la vive quotidianamente” – questa la motivazione
espressa dalle due giurie di Alice, quella dei ragazzi e quella
degli esperti.
Questa la motivazione relativa alla
Menzione speciale alla colonna sonora: “La
regista ha lavorato con due nomi già noti alla scena cine-musicale
italiana, Lorenzo Tomio e Theo Teardo, ma vi ha affiancato i brani
originali del rapper Chiky Realeza e il suo mix tra urban nostrano
e atmosfere classiche sudamericane, da Héctor Lavoe a Victor Jara.
Un risultato sperimentale, controcorrente e libero per il panorama
italiano, come il film a cui fa da commento sonoro”.
La regista Francesca
Mazzoleni: “Questi premi hanno per me e per tutte le
persone che mi hanno aiutato a realizzare questo film un valore
davvero speciale. Li voglio dedicare alle ragazze, alle madri, alle
nonne, meravigliose, folli e combattive dell’Idroscalo di Ostia, e
a tutte le persone che oggi, in ogni parte del mondo, stanno
combattendo per ottenere i loro naturali diritti. Spero che,
guardando mondi apparentemente lontani più da vicino, le distanze
finalmente si accorcino e i pregiudizi crollino. E spero e chiedo
che da oggi per Punta Sacra ci sia un futuro, e finalmente più
ascolto, dialogo e confronto”.
La storia di Peter
Pan è nota a grandi e piccoli, ma probabilmente meno si sa
del suo scrittore, James Matthew Barrie. Vissuto
tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento egli ha
trovato nuova popolarità al cinema grazie al film biografico a lui
dedicato e intitolato Neverland – Un sogno per
lavita, diretto da Marc
Forster (Ritorno al Bosco del
100 Acri). Il film narra infatti in maniera piuttosto
fedele quella che è la vita dello scrittore al momento
dell’ideazione del celebre personaggio di fantasia nonché della
celebre Isola che non c’è, in inglese chiamata appunto
Neverland.
Il film è basato sull’opera teatrale
The Man Who Was Peter Pan, scritta nel 1988 da
Allan Knee. Composto da un cast di celebri
interpreti, il film è stato presentato Fuori Concorso alla Mostra
Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel 2004. Qui è
stato accolto in maniera particolarmente positiva dalla critica,
che lo ha definito un gioioso e magico racconto su una delle più
celebri storie della letteratura. Spinto da tali pareri, come anche
dai nomi legati al film, al momento della sua uscita al cinema il
titolo si è rivelato anche un buon successo di box office. A fronte
di un budget di 25 milioni di dollari, questo ne ha infatti
incassati globalmente circa 118.
Neverland – Un sogno per la
vita è poi stato anche uno dei principali protagonisti durante
la stagione dei premi. Il film guadagnò infatti ben 11 nomination
ai Bafta Awards e 5 ai Golden Globe. Ai prestigiosi premi Oscar si
presentò poi con 7 candidature, tra cui quella per il miglior film,
il miglior attore protagonista e la miglior sceneggiatura non
originale. Vinse però soltanto come miglior colonna sonora,
composta dal polacco Jan Andrzej Paweł
Kaczmarek. Prima di una visione del titolo in
streaming o in TV, proseguendo nella lettura sarà possibile
scoprire i principali dettagli sulla trama e il cast di attori
presenti nel film.
Neverland – Un sogno per la vita:
la trama del film
Nei primi del Novecento James
Matthew Barrie è uno stimato autore teatrale. Nonostante i suoi
lavori trovino spesso l’approvazione del pubblico, egli continua a
sentire in essi la mancanza di quel qualcosa che potrebbe
permettergli di ottenere un successo ancor più ampio. Mentre egli è
alla ricerca di un perfezionamento delle sue storie, è costretto a
dover buttar giù sempre più copioni, richiesti a gran voce dal
produttore dei suoi spettacoli, Charles Frohman, disperato per gli
incassi non eccellenti. Per Barrie tutto cambia nel momento in cui,
intento a scrivere su di una panchina, si imbatte in Sylvia Llewlyn
Davies e i suoi quattro figli. In questi ultimi, lo scrittore trova
una preziosa fonte di ispirazione, avvertendo in sé la nascita di
una storia dal grande potenziale.
James inizia così a trascorrere
sempre più tempo con i bambini, impegnandosi nel trovare per loro
degli intrattenimenti con cui possano divertirsi. In particolare,
egli stringe un rapporto speciale con Peter, il più taciturno dei
quattro. Questi è poco incline al sorriso, rimasto profondamente
turbato dalla scomparsa del padre. Per aiutarlo ad esprimere le sue
paure, James lo invoglia alla scrittura. Sarà però proprio Peter a
dare origine a quello che diventerà il personaggio noto come Peter
Pan. Mentre si cimenta nella stesura della sua nuova promettente
opera, James deve però fare i conti con la malattia di Sylvia,
affetta da tubercolosi. Capirà allora di avere una grande
responsabilità nei confronti di quella famiglia e in particolare
nei confronti dei bambini.
Neverland – Un sogno per la vita:
il cast del film
Per garantire un buon successo al
film, i produttori si sono assicurati di poter aver in questo
alcuni tra i maggiori attori di quel momento. Nel ruolo di James
Matthew Berrie è così possibile ritrovare Johnny
Depp, che grazie a questo film ottenne la sua seconda
nomination al premio Oscar. Per la sua interpretazione, egli si
documentò molto sulla vita e le opere dello scrittore, cercando
attraverso tali fonti di ricostruire il suo personaggio. Per lui fu
inoltre importante sviluppare un ottimo rapporto con i giovani
interpreti dei bambini. Ciò avrebbe permesso loro di risultare
ancor più realistici nell’interazione tra i loro personaggi. In
particolare, Depp rimase particolarmente colpito da Freddie
Highmore, che ricopre qui il ruolo di Peter.
Questi divenne noto proprio grazie a
tale film. Una delle prime scene da lui girate, inoltre, fu proprio
una delle più intense del personaggio, dove scoppia a piangere e
distrugge una casa per le bambole. La sua interpretazione di tale
momento gli fece guadagnare le attenzioni e il rispetto di tutti
gli altri membri del cast. Nel film è poi presente la premio Oscar
Kate
Winslet nel ruolo di Sylvia Llewelyn Davies, la madre
dei ragazzi. Anche in questo caso, l’attrice ricevette numerosi
riconoscimenti per il suo ruolo, ancora oggi ricordato come uno dei
suoi più noti. In ruoli di rilievo si ritrovano poi anche due
celebri veterani della recitazione. Il primo è Dustin
Hoffman, il quale interpreta l’impresario Charles
Frohman. La seconda è l’attrice Julie Christie,
nei panni della madre di Sylvia.
Neverland – Un sogno per la vita:
il trailer e dove vedere il film in streaming e in TV
Per gli appassionati del film, o per
chi desidera vederlo per la prima volta, sarà possibile fruirne
grazie alla sua presenza nel catalogo di alcune delle principali
piattaforme streaming oggi disponibili. Neverland – Un sogno
per la vita è infatti presente su Chili Cinema, Google
Play e Now TV. Per poter usufruire del film, sarà
necessario sottoscrivere un abbonamento generale o noleggiare il
singolo film. In questo modo sarà poi possibile vedere il titolo in
tutta comodità e al meglio della qualità video, senza limiti di
tempo. Il film è inoltre in programma in televisione
per venerdì 23 ottobre alle
ore 21:15 sul canale Paramount
Channel.
Arriva a Roma nella
Selezione Ufficiale della Festa
delCinema il nuovo film del regista
premio Oscar con Belle Époque,
Fernando Trueba. El olvido que
seremos vuole coniugare pubblico e privato in un
affresco familiare, sociale e politico della Colombia recente,
mostrando un esempio di rara virtù ma anche di profonda umanità e
umiltà. A interpretare il medico e attivista per i diritti umani
Hector Abad Gomez, un bravissimo JavierCámara (Parla con lei,
Truman – Un vero amico è per sempre).
El olvido que seremos, la
trama
Colombia 1983. Héctor Jr,
Juan Pablo Urrego, studia all’università di Torino
quando viene richiamato in Colombia, dove vive la sua famiglia, per
la cerimonia d’addio del padre, Héctor Abad Gómez, Javier
Cámara, all’insegnamento universitario. Medico impegnato
in campagne di salute pubblica, insegnante ad Antiochia e noto
attivista per i diritti umani, Abad Gómez è sempre stato inviso
alle autorità per le sue aspre critiche al governo e alle sue
politiche e viene spedito in pensionamento anticipato. Il viaggio
verso casa è l’occasione per il figlio di ripensare all’infanzia a
Medellín nei primi anni ’70, allo stretto rapporto col padre, alla
felice vita di famiglia con la madre e le sorelle. Un periodo aureo
in cui la figura del padre è stata per Héctor un punto di
riferimento indiscusso. Il presente non è altrettanto roseo e
mentre il clima in città si fa pesante, con uccisioni e sparizioni
ad opera di gruppi paramilitari, che mirano a colpire qualsiasi
forma di dissenso o opposizione sociale e politica, anche Abad
Gómez è sempre più a rischio.
Héctor Abad Gómez,
l’apostolo dei diritti umani
Sembra lo chiamassero così gli
abitanti di Antiochia, soprattutto i meno fortunati, perché è stato
il primo ad occuparsi di loro, a dire che la salute pubblica doveva
essere un diritto di tutti e ad impegnarsi in prima persona
affinché ciò si realizzasse: per far avere a tutti l’accesso
all’acqua potabile, con massicce campagne di vaccinazione e di
igiene pubblica, ma anche fornendo quando poteva, un aiuto che
andava al di là della sua professione. Héctor Abad Gómez è
descritto come un uomo dalla sconfinata bontà, che faceva del bene
con estrema naturalezza e spontaneità. È con altrettanta facilità e
naturalezza che sarà ucciso da gruppi paramilitari in una Colombia
dominata dalla violenza. Attraverso le sue scelte Abad Gómez era
entrato a far parte di un’opposizione libera: con la fondazione del
Comitato per la difesa dei diritti umani ad Antiochia; con la sua
attività di editorialista per diversi giornali del paese, in cui
denunciava le condizioni di arretratezza e di mancanza delle più
elementari misure sanitarie in molta parte della Colombia; con
l’attività di politico nel Partito Liberale; fino alla candidatura
a sindaco di Medellín per questo stesso partito.
Tuttavia, ciò che interessa a
Fernando Trueba non è etichettare politicamente il
personaggio. Infatti nel film – adattamento ad opera di
David Trueba, fratello del regista, del romanzo
El olvido que seremos, scritto dal figlio di Abad Gómez e
diventato un testo di culto in America Latina – il protagonista
lamenta di essere bersaglio di critiche sia da destra che da
sinistra. Intento del regista è dipingere un uomo che aveva a cuore
la sua professione e il prossimo e solo in virtù di questo, dei
valori umani più alti, non di una appartenenza politica, si
impegnava.
Un saga familiare e uno
sguardo ampio alla collettività
Si potrebbe dire che il
padre domina sull’attivista in questo ritratto, che si sarebbe
potuto esaltare di più la lotta e l’impegno del protagonista. Non è
poi così vero, Trueba trova un equilibrio tra pubblico e
privato. Ed è proprio attraverso il secondo che riesce a
coinvolgere lo spettatore, facendo presa anche su chi era
politicamente lontano dal protagonista. Abad Gómez è un
padre di famiglia premuroso e gioviale, con un rapporto
privilegiato con l’unico figlio maschio, ma che adora la moglie e
le figlie. La vicenda della famiglia nella prima parte del film ha
toni allegri e leggeri, e il personaggio principale non può non
creare empatia, grazie ad una interpretazione di grande livello da
parte di Javier Cámara. La gioiosità del suo
personaggio, pur costretto ad operare in contesti difficili in un
paese dalle forti criticità, è contagiosa e va di pari passo con la
scelta dell’immagine a colori.
Nella seconda parte domina invece il
bianco e nero. In quell’universo sereno si affaccia il dolore, la
scomparsa di una figlia. L’allegria dell’inizio lascia il posto a
una malinconia che non impedisce però al protagonista di dedicarsi
a ciò in cui crede. Cámara dà al personaggio moltissime sfumature e
tocca diversi registri.
L’ultima parte, la più poetica, è
quella in cui sembra essere contenuto il messaggio principale del
film. Molti come Abad Gómez sono diventati eroi loro malgrado:
volevano solo fare del bene alla collettività, non avevano nessun
desiderio di apparire, di essere riconosciuti, non erano mossi da
ambizioni personali. Il protagonista, insomma, non fa ciò che fa
per essere ricordato. È questo il senso della poesia Aquì,
hoy, un testo attribuito a Jorge Luis Borges, che compare nel
film e contiene le parole del titolo, El olvido que
seremos – l’oblio che saremo.
Tutto il cast del film offre buone
prove: un gruppo di donne che si muovono quasi all’unisono intorno
a Héctor e Héctor Jr: la moglie Cecilia, interpretata da
Patricia Tamayo, le figlie Mariluz, Maria
Teresa Barreto, Clara, Laura Londoño ,
Vicky, Elizabeth Minotta, Martha, Kami
Zeha e Sol Camila Zárate. Anche i
due bambini che interpretano Hector e Sol da piccoli,
Nicolás Reyes Cano e Luciana
Echeverry, sono molto spontanei e credibili, cosa non
facile da ottenere.
El olvido que
seremos è prodotto da Caracol
Televisión e Dago García Producciones.
Per il momento è prevista un’uscita in Francia a primavera. La
speranza è di vederlo presto anche in Italia.
Dopo il
primo trailer la ABC ha diffuso il secondo trailer
ufficiale di The Good Doctor 4, l’attesissima
quarta stagione di The Good
Doctor.
The Good Doctor 4
The Good Doctor 4
è la quarta stagione della serie tv The Good
Doctor creata da David Shore per il network americano
della ABC. In The Good Doctor 4
Il dottor Shaun Murphy, un giovane chirurgo con autismo e sindrome
del savant, continua a usare i suoi straordinari doni medici presso
l’unità chirurgica del St. Bonaventure Hospital. Man mano che le
sue amicizie si approfondiscono, Shaun continua ad affrontare il
mondo degli appuntamenti e delle relazioni romantiche e lavora più
duramente di quanto abbia mai fatto prima, navigando nel suo
ambiente per dimostrare ai suoi colleghi che il suo talento di
chirurgo salverà vite. La serie vede nel cast Freddie Highmore nei
panni del dottor Shaun Murphy, Antonia Thomas nei panni della
dottoressa Claire Browne, Hill Harper nei panni del dottor Marcus
Andrews, Richard Schiff nei panni del dottor Aaron Glassman,
Christina Chang nei pann
In The Good
Doctor protagonisti Freddie Highmore come Dr. Shaun Murphy,
Antonia Thomas come Dr. Claire Browne,
Nicholas Gonzalez come Dr. Neil Melendez,
Hill Harper come Dr. Marcus Andrews,
Richard Schiff come Dr. Aaron Glassman,
Christina Chang come Dr. Audrey Lim, Fiona
Gubelmann nel ruolo del Dr. Morgan Reznick, Will
Yun Lee nel ruolo del Dr. Alex Park, Paige
Spara nel ruolo di Lea Dilallo e Jasika
Nicole nel ruolo del Dr. Carly Lever.
Il network americano
FOX ha diffuso il teaser promo “Help Is On The
Way” di 9-1-1 4, l’annunciata
quarta stagione di 9-1-1.
9-1-1 4
9-1-1 4 è la
quarta stagione della serie 9-1-1
creata da Ryan Murphy e Tim Minear per
il network americano FOX. Dai creatori Ryan Murphy e Brad
Falchuk (il franchise di “American Horror Story”, “Nip /
Tuck”), il nuovo dramma procedurale 9-1-1
esplora le esperienze ad alta pressione di agenti di polizia,
paramedici e vigili del fuoco che sono spinti nel più situazioni
spaventose, scioccanti e strazianti. Questi soccorritori devono
cercare di bilanciare il salvataggio di coloro che sono più
vulnerabili nel risolvere i problemi della propria vita.
In 9-1-1
4 protagonisti sono Athena Carter Nash,
(stagione 1-in corso), interpretata da Angela
Bassett, Robert “Bobby”
Nash (stagione 1-in corso), interpretato
da Peter Krause, Evan “Buck”
Buckley (stagione 1-in corso), interpretato
da Oliver Stark, Henrietta “Hen”
Wilson (stagione 1-in corso), interpretata
da Aisha Hinds, Howard
“Howie”/”Chimney” Han (stagione 1-in corso), interpretato
da Kenneth Choi, Michael
Grant (stagione 1-in corso), interpretato
da Rockmond Dunbar, Abigail “Abby”
Clark (stagione 1, guest star stagione 3), interpretata
da Connie Britton, Madeline “Maddie”
Buckley Kendall (stagione 2-in corso), interpretata
da Jennifer
Love Hewitt, Edmundo “Eddie”
Diaz (stagione 2-in corso), interpretato da Ryan
Guzman, May Grant (ricorrente
stagione 1, stagioni 2-in corso), interpretata
da Corinne Massiah, Harry
Grant (ricorrente stagione 1, stagioni 2-in corso),
interpretato da Marcanthonee Jon Reis.
C’è uno strano senso di timore che
investe il critico che si approccia ad analizzare l’opera di
Aaron Sorkin. Tra le mani, lo sentiamo, lo
sappiamo, abbiamo una reliquia preziosa, un’opera dotata di
unicità, saldata dalla forza iconica delle parole e di un’alacrità
che vive sulla scia di un talento più unico che raro. Ogni parola
viene soppesata, calibrata, esaminata dal mirino di un telescopio
verso cui ci pieghiamo, consci che nessun aggettivo potrà mai
veramente consegnare la bellezza di quanto impresso prima su carta,
poi su schermo, da Sorkin.
Da The West Wing,
passando per The Newsroom, arrivando a The
Social Network, questo sceneggiatore ha dimostrato negli
anni la sua abilità da prestigiatore delle parole; il vero salto
nel buio era estendere questo talento nel campo della regia. Un
tentativo riuscito a metà con Molly’s Game, dove
lo sguardo ancora acerbo del Sorkin regista non era ai livelli di
quello del Sorkin sceneggiatore, e che proprio per questo ha
ammantato di curiosità l’uscita del suo nuovo film, Il processo ai Chicago 7.
Ama Sorkin approcciarsi con i
lasciti del passato, soprattutto quelli in cui l’umanità affronta
le cadute nel baratro, tra incriminazioni, processi, e
rivendicazioni personali. E così il gioco clandestino di
Molly’s Game lascia spazio con Il processo ai Chicago 7a
rivolte soppresse con la forza, imbrogli e omertà da parte di
istituzioni accecate di pregiudizio e ideali politici. Il risultato
che ne consegue è quello di uno dei migliori film di questo 2020.
Certo, la concorrenza è ridotta quasi a zero, complice i continui
rinvii di titoli più o meno attesi dal grande pubblico, ma la
sontuosità della sceneggiatura, l’adrenalina di un montaggio che
vola tra passato, presente e futuro, e un cast incredibilmente in
parte, regalano una gemma da custodire nella mente con delicatezza
e rispetto.
Chicago,1968. La guerra del Vietnam
impazza continuando a mietere vittime innocenti quando, in
occasione della convention del Partito Democratico, un gruppo di
attivisti guida una manifestazione contro Nixon e la sua
scelleratezza bellica. Lo scontro tra manifestanti, polizia e
Guardia Nazionale, era prevedibile, ma ciò che non era stato
previsto è un processo/farsa dal sapore chiaramente politico che
segna una pagina nerissima (e molto nota) della recente storia
americana. In un colpo solo il governo del neo-eletto presidente
Nixon tenta di eliminare l’opposizione sradicando la controcultura
di sinistra attraverso l’incriminazione dei suoi leader, accusati
ingiustamente di cospirazione e incitamento alla sommossa.
Tutto il mondo è teatro, o un
processo politico
Arduo il compito di scrivere una
critica su un’opera come Il processo ai Chicago 7, perché se è facile
parlare di film colmi di errori e cadute di stile, il discorso
cambia quando hai davanti un’opera in cui ogni elemento è al suo
posto e nessuna tessera in questo puzzle cinematografico
perfettamente oliato è andata perduta. Ad aprire il sipario su un
teatro della vita camuffato da processo non civile o penale, ma
politico, è un prologo che vive della stessa furia di bottiglie
infiammate lanciate contro le vetrate degli uffici di reclutamento
americani. Quelli che corrono davanti gli occhi dello spettatore
sono dieci minuti di puro godimento.
Un antipasto dal sapore esplosivo di
una vera e propria bomba giocata sull’alternanza perfetta tra
materiali di repertorio e girato filmico. È una giostra di immagini
che non hanno paura di investire e colpire a un ritmo serratissimo
gli occhi del proprio pubblico, iniettandoli di meraviglia, quella
che introduce il film di Sorkin; un piccolo assaggio delle due ore
successive, che non fanno altro che esaltare quanto il pubblico si
appresterà ad assistere da lì a poco. Quando decidi di affrontare
un film interamente fatto di dialoghi, devi dimostrarti davvero
bravo con le parole, e Sorkin è un burattinaio del verbo. Il
processo attorno a cui ruota l’intero intreccio poteva tramutarsi
in corpo vestito di tedio e noia insofferente. Un battibecco
continuo tra incoerenza e colpe celate, disseminate, scoperte.
Sorkin prende ogni lembo di quel corpo per rivestirlo di ironia e
con esso colpire a fondo lo spettatore, perché una volta dissipato
il ricordo della risata, a risiedere in bocca è un sapore di
bruciante amarezza per un’ingiustizia mai veramente scomparsa, ma
perpetuamente in procinto di ritornare più cruenta di prima.
L’aula del tribunale si
sveste così del suo significato primario per rivelarsi nella sua
anima più cruda, violenta. È un far west dove non ci sono
pallottole a volare libere, ma parole, attacchi edulcorati dalla
forza del black-humor, sparate con la forza del caustico umorismo.
Le arringhe degli avvocati e il racconto dei testimoni chiamati
alla sbarra, sono partite di tennis giocate tra il passato e il
presente, dove la pallina è un barlume mnemonico lanciato con forza
da una domanda, un suggerimento, pronto a catapultare lo spettatore
tra i ricordi di un passato volto a colmare passaggi indispensabili
alla comprensione totalizzante della storia.
I sette samurai del 1968
È un meccanismo perfettamente
congegnato, Il processo ai Chicago 7. Uno sguardo sui pregiudizi di
diritti sottratti, e sentenze manipolate sulla scia di ideali
politici e favori personali. Ricalcando la struttura vertebrale su
cui si sorregge The Social Network, Aaron Sorkin
investe di umanità la propria opera, tramutandola in un saggio
scritto con la forza dell’empatia e della mancanza di retorica. E
se il cuore della pellicola batte tra le mura di un tribunale, a
fare da arterie lungo cui lasciare scorrere il sangue delle
rivendicazioni di diritti tanto personali, quanto universali, sono
i corpi degli attori che compongono un cast corale a dir poco
sbalorditivo. Senza interpreti perfettamente in parte, anche la
sceneggiatura più fresca e impeccabile cadrebbe nell’ombra,
ingoiata dal buio della superficialità. E invece ogni attore riesce
a riportare qui in vita i propri personaggi, tra atteggiamenti
deplorevoli, come quelli del giudice Julius Hoffman
(un Frank Langella talmente in parte da
risultare straordinariamente odioso) a stralci di onestà
intellettuale e sensibilità sorprendenti (si pensi al Richard
Schultz di Joseph Gordon Lewitt). A dominare sullo
schermo questo gruppo assortito e coeso sono soprattutto i
due yippies Abbie Hoffman e Jerry Rubin
(rispettivamente Sacha Baron
Cohen e Jeremy Strong).
Un duo capace di dar vita a
siparietti tanto comici quanto carichi di spunti di riflessioni.
Strong e Baron Cohen sono micce pronte a far scattare il fuoco
della rivolta a ritmo di risate, calamite attrattive che chiamano a
sé lo sguardo degli spettatori, per poi canalizzarli verso il cuore
dei loro comprimari, tra cui spiccano un Eddie
Redmayne finalmente libero da smorfiette e mimiche
facciali fin troppo marcate, un sempre e ingiustamente
sottovalutato John Carroll Lynch e, soprattutto, del solito,
carismatico Mark Rylance nei panni dell’avvocato William Kunstler.
I corpi che si muovono, gli sguardi che infiammano gli spazi
dell’aula di tribunale, la nebbia che avvolge i manifestanti
durante le rivolte, o le vetrate di locali eleganti frantumate dal
peso di ribelli lanciati dalla polizia, sono tante schegge di una
giostra impazzita che lascia a bocca aperta lo spettatore, offrendo
la stessa importanza mediatica rivestita più di cinquant’anni prima
dagli eventi reali dei Chicago 7.
Riflettere il passato sullo
specchio del presente
Flashback dai colori freddi, che
lasciano spazio a un presente dalle tonalità calde che di rosso
hanno solo il fuoco della passione che scorre inesorabile nelle
vene di questi personaggi; un montaggio serratissimo, che passa con
facilità (ma senza disorientare per questo il proprio pubblico) tra
passato e presente, coinvolgendo ogni spettatore in questi salti
temporali vertiginosi; una sceneggiatura che colpisce con la stessa
forza dei manganelli sui corpi dei manifestanti, Il processo ai Chicago 7 è uno specchio
del passato sul nostro presente. Non c’è nessun Narciso a rimanere
colpito dal proprio riflesso, ma spettatori di tutto il mondo
pronti a elevare ognuno di questi sette samurai del 1968 come
modello di vita, attraverso cui rivendicare i propri diritti,
sorvolando pregiudizi atti a infangare e accecare anche chi
dovrebbe difenderci, tramutandosi da difensore a boia, da vittima a
carnefice.
Perché gli anni passano, ma il
sangue che copre le manifestazioni civili, e i bavagli che tentano
di soffocare le voci di coloro che si sostituiscono a chi voce non
ne ha, si ritrova un po’ di 1968 in questo 2020. Ed è dunque
nell’America di ieri che si può raccontare al meglio l’America di
oggi. E non c’era penna migliore di quella di Aaron Sorkin per
creare, pezzo dopo pezzo, questo specchio meraviglioso, bramoso di
passione, uguaglianza, democrazia.
“The World is watching” si
sente urlare nel corso dell’opera. E il mondo continua a guardare
questo processo rivedendo se stesso, qui raccontato da Sorkin nel
suo spirito più profondo e con semplicità, dimostrando quanto la
doppia faccia dell’America continui a sopravvivere, alimentata dal
fuoco delle ribellioni, dell’odio, di un potere che supera il
raziocinio, di una vittoria che sa di sconfitta, e viceversa.
Poche cose sono certe nella vita e
una di queste è accendere la tv e trovare almeno un episodio di
Law and Order in onda. Nata nell’ormai lontano
1990 dal genio di Dick Wolf, la famosa serie crime negli anni è
diventata il prodotto televisivo più longevo e amato al mondo.
Dal 1990, la serie Law and
Order – I Due Voltidella Giustizia ha
superato ogni record, arrivando al 2010 con ben 20 stagioni e 456
episodi all’attivo, senza contare il numero impressionante di
spin-off nati nel corso degli anni. Quello creato da Dick
Wolf si è infatti trasformato in un vero e proprio
media franchise che, oltre alla serie madre, comprende
anche cinque spin-off, un film per la tv e un remake televisivo
affidato ai media britannici. Abbiamo quindi le serie Law &
Order – Unità vittime speciali, Law & Order:
Criminal Intent, Law & Order – Il
verdetto, Conviction e Law &
Order: LA, il film tv Omicidio a
Manhattan e il remake inglese Law & Order:
UK.
Law and Order trama
La struttura della serie non è
particolarmente complessa e ogni episodio è pressocchè simile al
precedente. Law and Order racconta più da vicino dei due volti
della giustizia americana, quello investigativo e
quello legale. L’incipit di ogni puntata, infatti,
è sempre lo stesso e recita:
“Nel sistema penale, lo stato è
rappresentato da due gruppi distinti, eppure di uguale importanza:
la polizia, che indaga sul crimine, e i procuratori distrettuali,
che perseguono i criminali. Queste sono le loro storie.”
In ogni episodio si analizza un
particolare crimine e, mentre la polizia indaga e raccoglie prove,
il dipartimento collabora a stretto contatto con l’ufficio del
procuratore distrettuale affinché i colpevoli vengano assicurati
alla giustizia. La prima parte di ogni episodio ha come
protagonista quindi la Polizia di New York. Nello
specifico, ci sono una coppia di detective che giunge sulla scena
del crimine e, insieme ai tecnici della scientifica, raccoglie
prove e testimonianze.
I detective cominciano a elaborare
le prime teorie sulla dinamica del delitto e fermano alcuni
sospettati. Man mano che le indagini proseguono, le supposizioni
iniziali vengono confermate o cambiano e i detective sono costretti
a trovare strade alternative per la risoluzione del caso. Quando
finalmente si giunge a una conclusione, la palla passa all’accusa e
la scena si sposta dalla centrale di polizia all’ufficio del
procuratore.
Ogni cittadino americano, per
legge, ha diritto a una difesa ed è quindi compito dei magistrati,
trovare il modo giusto per riuscire a far condannare il colpevole.
L’azione quindi si sposta nelle aule di tribunale dove l’accusa e
la difesa dovranno esporre le loro ragioni dinnanzi a un giudice e
alla giuria. Quest’ultima, ascoltando attentamente le ragioni
dell’una e dell’altra parte e analizzando le prove, dovrà emettere
una sentenza di colpevolezza o innocenza.
Law and Order cast completo
Non sempre la giuria si esprime in
favore dell’accusa e capita spesso che pericolosi criminali vengano
rilasciati. Il meccanismo complesso della giustizia americana
mostra quindi le sue falle e debolezze non riuscendo troppo spesso
a garantire il rispetto della legge.
Per le persone che si adoperano
ogni giorno a combattere la violenza nelle strade della Grande
Mela, ogni fallimento del sistema giudiziario è una ferita che non
si rimargina. Fare il detective o il magistrato ed essere costretti
a fare i conti giornalmente con la crudeltà umana, è qualcosa che
ti logora dall’interno.
Per questo motivo (e non solo), i
protagonisti di Law and Order sono cambiati spesso nel corso del
tempo. Dal 1990 al 2010 la serie ha subito diversi avvicendamenti
di cast, modificando le fila dei ruoli principali e secondari. Tra
i personaggi che hanno fatto la storia di Law & Order ricordiamo il
detective Mike Logan, interpretato da
Chris Noth attivo per ben cinque stagioni.
Ancora, il Capitano Donald
Cragen, alias Dann Florek, al comando
della squadra anticrimine fino alla terza stagione. Il suo
personaggio lascia quindi la serie madre per trasferirsi all’unità
crimini speciali, diventando la punta di diamante dello spin-off
Law and Order – Unità Vittime Speciali (SVU).
A sostituire Cragen all’inizio
della quarta stagione arriva il tenente Anita Van
Buren, interpretata da S. Epatha
Merkerson. Il suo personaggio, a differenza di altri,
resta attivo nella serie dalla quarta fino alla ventesima e
conclusiva stagione. Tra i veterani di Law & Order, inoltre, c’è
anche il grande J. K.
Simmons che dall’ottava alla ventesima stagione
interpreta il Dr. Emil Skoda, psichiatra spesso
impiegato dalla polizia per i casi più difficili. In pianta stabile
nella serie troviamo anche il vice-procuratore Jack
McCoy, interpretato da Sam Waterson,
attivo dalla quinta alla ventesima stagione.
Law and Order – Unità Vittime
Speciali (SVU)
Capita di rado che il pubblico
finisca col preferire uno spin-off alla sua serie madre eppure
questo è proprio il caso di Law and Order SVU.
Dopo il grandissimo successo ottenuto con le prime nove stagioni di
Law & Order, nel 1999 Dick Wolf lancia in tv una
nuova serie dal titolo Law and Order – Unità Vittime
Speciali (in inglese Special Victim Unit).
In questo spin-off i protagonisti
sono sempre la polizia e il dipartimento di New York e la struttura
narrativa degli episodi resta pressochè invariata. A cambiare,
tuttavia, è la tipologia di casi seguiti dalla squadra,
specializzata in crimini particolarmente cruenti e a sfondo
sessuale. Questo cambio di rotta si ripercuote un po’ su tutti gli
aspetti fondamentali della serie, partendo dall’incipit che nello
spin-off recita così:
“Nel sistema giudiziario
statunitense, i reati a sfondo sessuale sono considerati
particolarmente esecrabili. A New York opera l’Unità Vittime
Speciali, una squadra di detective specializzati che indagano su
questi crimini perversi. Ecco le loro storie.”
Law and Order SVU,
a differenza della serie madre, è molto meno edulcorata e in ogni
episodio la squadra si trova a dover affrontare crimini talvolta
difficili anche solo da immaginare. La serie tocca infatti diversi
argomenti scottanti come lo stupro, la prostituzione, la pedofilia,
il traffico di esseri umani e molto altro ancora. Inoltre,
trattandosi di crimini complessi da risolvere, in quasi tutti gli
episodi, a prevalere è sempre la parte investigativa a discapito di
quella giudiziaria.
Ma la vera forza della serie sta
nei suoi personaggi, meno sfuggenti e molto più emotivi.
Protagonista indiscussa di Law and Order SVU è la
coppia di detective formata da Elliot Stabler (Christopher
Meloni) e Olivia Benson (Mariska
Hargitay), i personaggi più amati dell’intero
franchise di Law & Order.
Law and Order – Unità Vittime
Speciali cast
Scelti da Dick
Wolf in persona tra centinaia di attori,
Christopher Meloni e Mariska
Hargitay hanno lavorato insieme alla serie SVU per ben 12
stagioni, dal 1999 al 2011. Nel corso degli anni il pubblico ha
imparato a conoscere i personaggi di Olivia e
Elliot, entrambi detective in gamba ma con un passato
difficile e doloroso alle spalle.
Elliot
Stabler è un ex marine specializzato nel combattimento
corpo a corpo, nonché uno dei detective più ‘anziani’ della
squadra. Cresciuto in una famiglia cattolica, è un uomo molto
devoto e soprattutto alla sua famiglia. Elliot vive nel Queens, è
sposato con la bella Kathy e ha cinque splendidi figli, Maureen,
Kathleen, Dick, Lizzie e Eli. Uomo fiero e tutto d’un pezzo, di
rado accetta aiuto da parte di amici e colleghi e spesso si trova
ad agire d’impulso. Sarà proprio un caso finito male a spingerlo
alle dimissioni.
A fare da partner a Elliot c’è
Olivia
Benson, una donna molto forte, determinata e
passionale, perseguitata dai fantasmi del suo passato. Nata a
seguito di uno stupro subito da sua madre, nel corso delle stagioni
è la stessa Olivia a restare vittima di un’aggressione durante una
missione sotto copertura. Grazie però alle sue esperienze, la
Benson riesce a essere molto più empatica con le vittime di crimini
a sfondo sessuale delle quali riesce subito a guadagnare la
fiducia. Dopo la dimissioni di Elliot, Olivia continua a cambiare
periodicamente partner fino a quando, facendo carriera nel
dipartimento, non prende il posto vacante prima di sergente e poi
di capitano.
A supportare la coppia
Stabler-Benson nelle indagini c’è il detective John Munch
(Richard Belzer), uno dei più anziani del
dipartimento che, prima di approdare all’unità, aveva fatto parte
della polizia di Baltimora. Il partner di Munch è il detective
Odafin Tutuola, detto Fin (Ice-T), ex marine
nonché ex detective della narcotici, entra a far parte della
squadra dalla seconda stagione.
Capitano dell’intera squadra
crimini speciali è Donald Cragen (Dann Florek), un
uomo mite ma fermo e giusto nelle sue decisioni. E’ un capo molto
amato e stimato dai suoi colleghi e sottoposti così come lo è anche
in famiglia. Cragen è sposato da tanti anni ed è padre adottivo di
un bambino che adora. La sua vita e la sua carriera vanno in pezzi
quando viene coinvolto in uno scandalo sessuale – che più tardi si
scoprirà essere una montatura -, evento che lo spinge al
pensionamento.
Nonostante le defezioni prima di
Christopher Meloni e poi di Dann Florek, Law and Order SVU è ancora
in onda e ad oggi è arrivato a 21 stagioni e 478 episodi. La
ventiduesima stagione, già annunciata, è purtroppo ferma a casa
della pandemia da Coronavirus ancora in corso.
Law and Order: Criminal
Intent
Grazie all’incredibile successo
ottenuto da Law & Order SVU, qualche anni più
tardi Dick olf decide di produrre un nuovo show, collegato alla
serie madre. E così nel 2001 nasce Law and Order: Criminal
Intent secondo spin-off del franchise Law &
Order.
A differenza del suo predecessore,
Criminal Intent si concentra unicamente sulla
parte investigativa tralasciando completamente l’aspetto
giudiziario dei casi. La serie, sempre ambientata a New York, ha
come protagonisti infatti i membri della squadra crimini maggiori.
Trattandosi di casi complessi e di crimini ad ampio raggio, l’unità
adotta un approccio più psicologico, servendosi delle prove per
delineare il profilo del criminale. In questo modo la squadra
riesce a capire e talvolta ad anticipare le sue mosse.
“Nella guerra al crimine della
città di New York, i peggiori criminali sono perseguiti dai
detective della Major Case Squad. Queste sono le loro
storie.”
https://youtu.be/fGZpbkO6VpI
I detective della crimini maggiori
sono Robert Goren (Vincent
D’Onofrio) e Alexandra Eames (Kathryn
Erbe). I due più che semplici detective, svolgono quasi
l’attività di profiler, tracciando il modus operandi del criminale
attraverso le prove raccolte. Anche in Criminal Intent, però, negli
anni ci sono stati diversi avvicendamenti di cast.
Tra la quinta e l’ottava stagione,
la serie prende in prestito da Law and Order – I Due Volti della
Giustizia, il detective Mike Logan (Chris Noth) e
la sua partner, la detective Megan Wheeler (Julianne
Nicholson). Successivamente, dalla nona stagione,
assistiamo all’ennesimo cambio di protagonisti ed entra in campo la
coppia di detective formata da Zach Nichols (Jeff
Goldblum) e Serena Stevens (Saffron
Burrows).
Nonostante i continui cambiamenti
nel cast, la serie Law & Order: Criminal Intent è
andata in onda per ben 10 stagioni e 197
episodi ospitando anche varie guest star come Whoopi
Goldberg, Fran Drescher,
Brooke Shields e Bobby
Cannavale.
Law and Order streaming
Tutte le stagioni di Law
and Order – I Due Volti della Giustizia e degli spin-off
Law and Order – Unità Vittime Speciali e
Law and Order: Criminal Intent, sono disponibili
in streaming sulla piattaforma a pagamento di Amazon Prime Video.
Sin dalla prima scena
Sang-ho Yeon ci riporta indietro nel tempo, e
subito è come se fossimo ancora su quel Train to Busan che nel 2016 entusiasmò il
Festival di Cannes diventando un vero caso internazionale e
imponendo il nome del suo regista all’attenzione internazionale.
Quest’anno sulla Croisette non si sono accese le luci, ma il sequel
di quel cult dell’action horror ha trovato ospitalità proprio alla
Festa di Roma, dove abbiamo potuto vedere
Peninsula, altresì noto come Train to Busan 2.
Tornano gli zombi coreani
Sono passati quattro anni dallo
scoppio dell’epidemia zombi che avevamo visto devastare la penisola
coreana, ma abbandonati i protagonisti di allora stavolta scopriamo
il dramma di Jung-seok, sopravvissuto a caro prezzo al disastro e
rifugiatosi in una Hong Kong ostile nei confronti dei profughi come
lui. L’occasione per tornare indietro gli viene offerta da un
criminale locale, intenzionato a recuperare il ricco carico di un
camion abbandonato nel centro di Seul. Ma come trovarlo,
sopravvivere a orde di morti viventi affamati e tornare alla base
entro tre giorni? Soprattutto considerata la misteriosa Unità 631
che controlla la città e il rischio che qualcosa di imprevisto
possa apparire sul suo cammino…
Quattro anni sono passati anche dal
poco noto prequel animato Seoul Station – uscito solo un mese dopo
il film originario e distribuito in Italia allegato alla sua
versione Home Video – che fa sì che si possa effettivamente parlare
di vera e propria trilogia. Che qui pare chiudersi. Al di là di
ragionevoli dubbi, e del desiderio e la curiosità di vedere Sang-ho
Yeon mettersi alla prova con qualcosa di diverso, è interessante
godere di questo ultimo capitolo seguendone l’evoluzione, e i vari
cambi di direzione.
Azione spettacolare e ottimi
maestri
Ritorna l’atmosfera
claustrofobica che aveva costituito la vera cifra, e l’anima, del
precedente, per quanto principalmente nel prologo, ma sono altri
gli escamotage sfruttati dal furbo regista in questa nuova
avventura. Stabilita la connessione che in molti si aspettavano,
non può che esser giudicata positivamente la scelta di prendere le
distanze da quel successo tentando una nuova strada. Che purtroppo
tanto nuova non è. Difficile aggiungere qualcosa di originale allo
zombi movie come genere, d’altronde… ci son riusciti in pochi. Yeon
incluso. Che però stavolta punta su una ragionata ed equilibrata
commistione di action, moralismo e buone idee già viste al cinema.
Per esempio in 1997: Fuga da New York e
Mad Max.
Il tasso di adrenalina resta alto,
con zombi ipercinetici capaci di incredibili contorsionismi e
acrobazie scenografiche, ma la vicenda scricchiola quando si
incaponisce nello spiegarci i contesti etici e sentimentali dei
protagonisti. Persino interrompendo l’azione ed eccedendo in fermi
immagine, pause a effetto e insistiti temi musicali buoni per un
Anime strappacuore. Un didascalismo davvero poco
necessario.
Sensi di colpa epici ed
espiazione
Come da tradizione, sono molti i
temi sottesi allo sviluppo narrativo generale. A partire
dall’immancabile rappresentazione degli espatriati bisognosi di
asilo e mal sopportati dalla popolazione locale, fino alla lotta
tra poveri che ne deriva (si direbbe) immancabilmente o al senso di
colpa degli adulti nei confronti di una generazione costretta a
vivere in un mondo devastato e ormai ben oltre l’orlo del baratro
ecologico. Ovviamente anche a muovere l’Eroe è il desiderio di
espiare una macchia inaccettabile, ma le tappe del suo percorso di
redenzione sono forse troppo convenzionali. Persino le regole
destinate a essere infrante sembrano enunciate esclusivamente con
quello scopo, sin dall’inizio. Alla fine l’apparizione più gustosa
rimane sicuramente quella delle due giovanissime componenti di un
‘Rescue Team’ molto particolare, per le loro abilità e creatività
tanto quanto la capacità di riciclare strumenti di un’età passata e
forse mai vissuta. Esempi della possibilità di una rivincita che
non prescinda da una buona dose di innocenza e divertimento.
Ecco le nuove cover di Empire
Magazine che raffigurano i protagonisti di The Suicide
Squad, il nuovo film di James Gunn che
racconta, ancora una volta, lo sgangherato gruppo di villain della
DC Comics.
Con il film del 2014 Selma – La
strada per la libertà, la regista Ava
DuVernay si è imposta all’attenzione dell’industria e del
pubblico. All’interno del film dà infatti vita ad un’avvincente
rievocazione delle marce capitanate da Martin Luther King svoltesi
tra le città di Selma e Montgomery. Nel 1965, queste
rappresentarono uno dei principali momenti nella rivolta per il
diritto di voto ai cittadini afroamericani. Nel ritrarre questo
preciso evento, la regista dà così vita ad un racconto storico
ancora oggi estremamente attuale e bisognoso di essere tramandato e
ricordato.
Inizialmente scritto come storia
originale dallo sceneggiatore Paul Webb, il film
subì diversi ritardi produttivi, dovuti in particolare al cambiare
delle produzioni coinvolte come anche del nome del regista. Una
volta confermata la DuVernay, però, la realizzazione di Selma –
La strada per la libertà poté inifine concretizzarsi.
Decisivo, tra gli altri, fu il supporto ricevuto dalla Plan B
Entertainment di Brad
Pitt e dalla Harpo Film di Oprah
Winfrey. Dopo un’anteprima all’American Film Institute, il
film ebbe modo di arrivare nelle sale di tutto il mondo,
affermandosi come un grande successo.
Al box office il film arrivò
infatti ad un guadagno globale di circa 67 milioni di dollari, a
fronte di un budget di soli 20. Particolarmente entusiasta fu anche
l’accoglienza della critica, la quale lodò la regia come anche
l’interpretazione dei protagonisti. Il film si affermò poi come un
forte contendente durante la stagione dei premi. Agli Oscar,
tuttavia, ottenne solo due nomination, come miglior film e miglior
canzone originale Glory, vincendo poi in quest’ultima
categoria. L’assenza di nomination per la regia e l’attore
protagonista portò a diverse polemiche, ma i mancati riconoscimenti
nulla devono togliere al valore del film.
Selma – La strada per la libertà:
la trama del film
Ambientato nel 1964, il film ha
inizio con il conferimento del premio Nobel alla pace a Martin
Luther King. Questi viene poi ricevuto dal presidente degli Stati
Uniti Lyndon B. Johnson, a cui chiede di garantire il pieno diritto
di voto ai cittadini di colore. Questo è infatti loro negato,
specialmente negli stati del Sud, dove non possiedono alcun
rappresentante ai seggi. Le richieste di King non vengono però
soddisfatte, ma anzi vengono viste in modo molto negativo da parte
dei segregazionisti, tra cui si ritrova il governatore dell’Alabama
George Wallace. L’attivista inizia allora a pensare a nuovi modi
per ottenere una maggior visibilità a livello nazionale, arrivando
ad organizzare una prima marcia politica.
Durante questa, però, una
spedizione punitiva dei poliziotti finisce con il dar vita ad un
morto. Si tratta del giovane Jimmie Lee Jackson, ucciso a sangue
freddo da un agente. Tale evento sconvolge profondamente King, il
quale è ora più determinato che mai ad ottenere giustizia per il
suo popolo. Egli organizza così una seconda marcia di protesta non
violenta, la quale però suscita ancor di più l’ira di Wallace. Un
nuovo scontro si prospetta all’orizzonte, ma King è determinato a
portare alla luce i soprusi dei bianchi, e non si arrenderà pur
consapevole dei rischi a cui va incontro. Partito da Selma con al
seguito un folto gruppo, ha così per lui inizio una delle proteste
più celebri, rimaste impresse nella storia del paese.
Selma – La strada per la libertà:
il cast del film
Per interpretare il ruolo di Martin
Luther King, era necessario trovare un attore in grado di poter dar
vita nel modo migliore al carismatico leader. La scelta ricadde sin
da subito sull’attore britannico David Oyelowo,
divenuto noto grazie a film come L’alba del pianeta delle
scimmie e Lincoln. L’attore insistette per ben 7
anni pur di riuscire ad ottenere tale parte, dimostrando infine di
essere il candidato migliore. Fu lui a proporre poi la DuVernay
come regista del film, convinto delle sue capacità. Per prepararsi
alla parte, Oyelowo studiò a lungo la figura di King e i suoi
discorsi, cercando di interpretarlo nel modo più realistico
possibile tanto nella modo di parlare che in quello di comportarsi.
Il coinvolgimento emotivo fu talmente tanto che al momento di
girare l’ultima scena, l’attore scoppiò in lacrime.
Accanto a lui si ritrovano poi
diversi noti interpreti dell’industria statunitense.
Tim Roth è
presente nel ruolo del governatore dell’Alabama George Wallace.
L’attore ha affermato di ricordare bene la figura del politico, e
di aver lavorato a lungo per poter riprodurre la sua cattiveria,
cercando però di non giudicarlo. Tom Wilkinson è
invece il presidente Lyndon B. Johnson, mentre il rapper
Common recita nel ruolo di James Bevel. L’attrice
Carmen Ejogo dà invece vita a Coretta Scott King,
moglie di Martin e a sua volta attivista per i diritti ai neri.
Compaiono poi anche celebri nomi come Oprah
Winfrey nei panni di Annie Lee Cooper, Cuba
Gooding Jr. in quelli di Fred Gray e Keith
Sanfield per Jimmie Lee Jackson. Alessandro
Nivola interpreta John Doar, mentre Tessa
Thompson è Diane Nash.
Selma – La strada per la libertà:
il trailer e dove vedere il film in streaming e in TV
Per gli appassionati del film, o
per chi desidera vederlo per la prima volta, sarà possibile fruirne
grazie alla sua presenza nel catalogo di alcune delle principali
piattaforme streaming oggi disponibili. Selma – La strada per
la libertà è infatti presente su Rakuten TV, Chili
Cinema e Apple iTunes. Per poter usufruire del film, sarà
necessario sottoscrivere un abbonamento generale o noleggiare il
singolo film. In questo modo sarà poi possibile vedere il titolo in
tutta comodità e al meglio della qualità video, senza limiti di
tempo. Il film è inoltre in programma in televisione per
venerdì 23 ottobre alle
ore 23:40 sul canale Rai
Movie.
Maestro del body horror,
il regista David Cronenberg ha negli anni abituato
i suoi spettatori a storie particolarmente conturbanti, e con il
suo ultimo film Maps to the
Stars non è stato da meno. Presentato in concorso
al Festival di Cannes nel 2014, questo propone una critica al
rapporto tra il mondo dello spettacolo e la cultura occidentale,
andando a rivelare la natura malsana che si nasconde dietro il
mondo del cinema e nella vita delle sue celebrità. Con fare
satirico, il regista porta così con sé lo spettatore in un viaggio
attraverso le stelle di Hollywood, le quali da vicino si rivelano
però meno attraenti del previsto.
Prima di prendere forma, però, il
progetto è dovuto passare attraverso diverse rielaborazioni. Lo
sceneggiatore Bruce Wagner scrisse la prima
versione della sceneggiatura nel 2007, ma il progetto faticò a
trovare fondi per la sua realizzazione e venne infine cancellato.
Wagner decise allora di pubblicare la storia sotto forma di romanzo
con il titolo Dead Stars. Questa arrivò infine
all’attenzione di Cronenberg, il quale se ne interessò e ricercò
una produzione per il progetto. Con il coinvolgimento del regista,
il film prese così vita e le riprese poterono iniziare, svolgendosi
tra Los Angeles e Toronto.
Il film arrivò infine in sala,
accolto da una buona accoglienza da parte della critica. Questa
lodò in particolare le interpretazioni dei protagonisti e la
capacità di Cronenberg di dar vita a situazioni particolarmente
grottesche. Maps to the Stars non ottenne però un
particolare successo al box office, dove a fronte di un budget di
circa 13 milioni di dollari arrivò ad incassarne solo 4 a livello
globale. Il titolo poté però fregiarsi di alcuni importanti
riconoscimenti. Il più prestigioso tra questi è certamente quello
vinto da Julianne
Moore come miglior interprete femminile a Cannes.
Maps to the Stars: la trama del
film
Protagonista del film è Agatha
Weiss, giovane dal turbolento passato, la quale ritorna a Los
Angeles dopo esserne stata allontanata anni prima. Coinvolta in un
terribile incendio, durante il quale si è procurata le terribili
ustioni che sfoggia sulle braccia, è ora determinata a trovare una
propria redenzione nella città degli angeli, ricongiungendosi con
la sua famiglia. Suo padre Sanford è un famoso terapista di
celebrità, mentre la madre Cristina si occupa a tempo pieno della
carriera del figlio adolescente, star della televisione. Essendo
tutti così strettamente legati al mondo dello spettacolo, anche
Agatha decide di iniziare a cercare un proprio posto in questo.
Aiutata dal bell’autista di limousine Jerome riesce a diventare
l’assistente personale della grande attrice Havana Segrand. Nessuno
di questi è a conoscenza del fatto che le loro vite stanno per
cambiare radicalmente.
Maps to the Stars: il cast del
film
Ad interpretare la giovane Agatha
Weiss vi è l’attrice Mia
Wasikowska, divenuta celebre per essere stata la
protagonista di Alice in Wonderland. Grazie a tale ruolo
l’interprete ha potuto sfoggiare nuove sfumature drammatiche,
ottenendo ulteriori consensi da parte dell’industria. Il ruolo di
Havana Sagrand è invece interpretato dalla premio Oscar
Julianne Moore (Still Alice), la quale ha
per questo ricevuto numerosi premi. Attratta dalla complessità del
ruolo, l’attrice ha accettato di tingersi i capelli di biondo,
dando vita ad un personaggio tanto sgradevole quanto attraente.
Originariamente, però, questo era stato offerto all’attrice
Rachel Weisz
(La favorita), la quale dovette rifiutare per via di altri
impegni.
Nel ruolo del dottor Stafford Weiss
vi è invece John
Cusack (Essere John
Malkovich). Anche lui, come i suoi colleghi, rimase
particolarmente colpito dalla sceneggiatura, accettando senza
esitazione di prendere parte al progetto. Tale ruolo era però
inizialmente stato offerto a Viggo
Mortensen (Il Signore degli Anelli), il quale
aveva già collaborato con Cronenberg per La promessa
dell’assassino. L’attrice Olivia Williams
(Il sesto senso) è invece presente nel ruolo di Christina
Weiss, madre di Agatha, mentre il giovane Evan
Bird, noto per la serie The Killing, interpreta
Benjie Weiss. Maps to the Stars segna puoi una nuova
collaborazione tra il regista e Robert
Pattinson, già protagonista del precedente
Cosmopolis. Fu l’ingresso nel cast del celebre attore a
permettere la definita realizzazione del film.
Maps to the Stars: la spiegazione
del film
Con Maps to the Stars
Cronenberg ha potuto ribadire una volta di più il suo disprezzo nei
confronti dell’industria hollywoodiana, giudicata falsa e ipocrita.
Attraverso i personaggi rappresentati egli porta alla luce i
principali aspetti e difetti di questo mondo, molti dei quali si
ritrovano nel complesso personaggio di Havana Sagrand. In lei si
ritrovano le varie contraddizioni e ossessioni spesso riscontrabili
in molte reali celebrità. La stessa Moore, interprete del ruolo, ha
affermato di essersi basata su persone simili da lei realmente
conosciute. Le gesta del personaggio sono perfettamente coerenti
con il mondo che la circonda. La sua voglia di prevalere a
discapito di tutto e tutti diventa così il tratto prevalentemente
messo alla gogna dal regista.
Per la comprensione del film sono
poi esemplari anche i personaggi di Stafford e Benjie Weiss. Il
primo, che di professione svolge il lavoro di psicologo per
celebrità, si rivela essere una personalità manipolatrice, con più
cura per i propri interessi che per i problemi manifestati dai suoi
clienti. Cusack, interprete del ruolo, ha descritto tale
personaggio come una delle più aggressive accuse alla fama e ai
segreti di Hollywood. Il ruolo del giovane Benjie Weiss incarna
invece tutti quei bambini che iniziano a recitare sin dalla tenere
età. Egli nasconde inoltre seri problemi di droga, che vengono
continuamente nascosti dai genitori e dagli agenti. Anche
attraverso il suo ritratto si può ritrovare la spietata critica di
Cronenberg verso questi giovani interpreti, il più delle volte
vittime precoci dell’industria.
Maps to the Stars: il trailer e
dove vedere il film in streaming e in TV
Per gli appassionati del film, o
per chi desidera vederlo per la prima volta, sarà possibile fruirne
grazie alla sua presenza nel catalogo di alcune delle principali
piattaforme streaming oggi disponibili. Maps to the Stars
è infatti presente su Rakuten TV, Chili Cinema, Google
Play, Rai Play e Tim Vision. Per poter usufruire del film,
sarà necessario sottoscrivere un abbonamento generale o noleggiare
il singolo film. In questo modo sarà poi possibile vedere il titolo
in tutta comodità e al meglio della qualità video, senza limiti di
tempo. Il film è inoltre in programma in televisione
per venerdì 23ottobre alle
ore 00:35 sul canale Rai
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