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Troy: la spiegazione del finale del film

Troy: la spiegazione del finale del film

Il film Troy (2004), diretto da Wolfgang Petersen, si ispira liberamente all’Iliade di Omero, epico poema che narra le vicende dell’ultimo anno della guerra di Troia. Pur prendendo spunto dai principali eventi dell’opera, il film apporta modifiche significative ai personaggi e alle tempistiche, concentrandosi soprattutto sulla figura di Achille (Brad Pitt) e sulla sua tragica tensione tra gloria e mortalità. La narrazione cinematografica semplifica e riordina la complessità del poema omerico, rendendo la storia accessibile a un pubblico moderno pur conservando i temi classici di onore, vendetta e destino.

Troy si inserisce nel filone del cinema epico hollywoodiano, caratterizzato da scenografie monumentali, battaglie spettacolari e un cast di star internazionali. Accanto a Pitt, troviamo Eric Bana nel ruolo di Ettore e Orlando Bloom come Paride, senza dimenticare Diane Kruger nei panni di Elena e Brian Cox come re Priamo. Il film unisce azione, dramma e romanticismo, richiamando l’epica di opere come Il Gladiatore o Le crociate di Ridley Scott, ma distinguendosi per la fusione tra mito greco e spettacolarità hollywoodiana contemporanea.

Tra i temi centrali emergono l’eroismo, la lealtà familiare e il conflitto tra desiderio personale e dovere morale. La vendetta, la passione amorosa e la gloria eterna scandiscono le vicende dei protagonisti, rendendo Troy un racconto di eroismo e tragedia umana. Le battaglie, le strategie militari e le tensioni tra fazioni si intrecciano con riflessioni sul destino e sulla mortalità. Nel prosieguo dell’articolo verrà proposta una spiegazione del finale del film, analizzando come le scelte dei personaggi e la tragedia personale di Achille e Paride influenzino l’esito della guerra di Troia.

LEGGI ANCHE: Troy: le differenze tra il film e il poema epico

Troy cast attori
Eric Bana, Orlando Bloom e Diane Kruger in Troy. © 2004 Warner Bros. Ent. All Rights Reserved

La trama di Troy

La storia si svolge intorno al 1200 a.C., quando tutte le città-stato della Grecia sono sotto il controllo dell’avido re acheo Agamennone. Solo una di queste rifugge da lui, ed è la potente città di Troia. Conosciuta per le sue mura difensive, questa è da sempre rimasta inviolata. Desideroso di estendere il proprio dominio all’intero territorio, Agamennone sfrutta il tradimento subito da Menelao per dichiarare guerra alla città. Il fratello del re, infatti, è stato privato della bella moglie Elena, fuggita a Troia con il principe Paride. Per riparare a questo torto, un enorme flotta di achei intraprende la sua marcia verso la potente città nemica.

Forte dietro le sue mura, il re Priamo si dice tranquillo per l’imminente battaglia, potendo vantare dalla sua parte il potente figlio e soldato Ettore. Ciò che i troiani non sanno, però, è che in guerra con gli achei è partito anche il temibile Achille. Semidio in cerca di gloria eterna, questi è pressocché immortale, non fosse per un unico punto debole. Sarà lui l’arma segreta che i greci invieranno alla conquista di Troia. Nel corso della lunga guerra, entrambe le fazioni dovranno inevitabilmente fare i conti con le paure, le passioni e i desideri di ognuno di loro, elementi che rischieranno di compromettere in modo irreparabile le rispettive sorti.

La spiegazione del finale del film

Nel terzo atto di Troy, la tensione raggiunge il culmine con il duello tra Achille e Ettore fuori dalle mura della città. La battaglia è intensa e letale: Achille uccide Ettore e trascina il suo corpo sulla spiaggia di Troia, mostrando sia la sua forza sovrumana sia la crudeltà della guerra. Il re Priamo riesce però a introdursi nel campo greco e implora Achille di restituire il corpo del figlio per i riti funebri. Mosso dalla vergogna e dal rispetto, Achille acconsente, permette a Briseide di tornare a Troia con Priamo e concede una tregua di dodici giorni per celebrare i funerali.

Troy trama film
Il cavallo di Troia in Troy. © 2004 Warner Bros. Ent. All Rights Reserved

Nonostante il gesto di Achille, Agamennone insiste per conquistare Troia a qualsiasi costo. Odisseo elabora un piano ingegnoso: costruire il famoso cavallo di legno come presunto dono di pace, mentre le navi greche si nascondono in una baia vicina. I Troiani portano il cavallo dentro le mura, e di notte i soldati greci nascosti al suo interno aprono i cancelli alla loro armata, dando inizio al sacco della città. La popolazione troiana viene sterminata o ridotta in schiavitù, mentre Andromaca e Elena guidano alcuni superstiti verso la salvezza, e Paride consegna la Spada di Troia a Enea per proteggere i sopravvissuti.

La resistenza finale dei Troiani avviene nel palazzo, dove Glauco guida i soldati rimasti in una coraggiosa difesa. Nonostante i successi iniziali, i Troiani vengono però sopraffatti. Agamennone penetra nella sala del trono, uccide Priamo e cattura Briseide, che poi vendica la morte del re uccidendo Agamennone. Nel caos della battaglia, Paride trafigge invece Achille al tallone con una freccia e lo colpisce più volte, provocandone la morte. Achille, morente, si congeda quindi da Briseide e la osserva fuggire con Paride prima di spirare.

Il finale evidenzia la tragicità della guerra e il destino ineluttabile dei protagonisti. La morte di Achille rappresenta la caducità della gloria e della vita, mentre il sacco di Troia sottolinea la brutalità dei conflitti umani. Allo stesso tempo, il gesto di restituzione del corpo di Ettore e la protezione dei sopravvissuti dimostrano come il coraggio e l’onore possano convivere con la violenza, offrendo uno sguardo complesso sulle scelte morali in tempo di guerra.

Cosa ci lascia il film Troy

Troy è dunque di una riflessione sulla fragilità della civiltà di fronte alla guerra, sul sacrificio personale e sulla forza dei legami familiari. Il film unisce epica, emozione e spettacolarità cinematografica, trasformando il mito omerico in un racconto accessibile, capace di trasmettere temi universali come l’eroismo, la vendetta e la mortalità, lasciando agli spettatori la consapevolezza che anche nelle vittorie più grandi, il prezzo della guerra è sempre altissimo.

Elysium: la spiegazione del finale del film

Elysium: la spiegazione del finale del film

Con Elysium (qui la recensione), Neill Blomkamp prosegue il percorso iniziato con District 9, confermando il suo interesse per una fantascienza radicata nella realtà sociale e politica contemporanea. Se nel film d’esordio il regista sudafricano utilizzava l’alieno come metafora dell’apartheid, in Elysium mette al centro le diseguaglianze globali, estremizzandole in un futuro distopico in cui i ricchi vivono in una stazione spaziale lussuosa mentre i poveri sopravvivono su una Terra devastata. Blomkamp consolida così la sua fama di autore capace di coniugare spettacolo hollywoodiano e riflessione politica.

Il genere di fantascienza che Elysium esplora è dunque quello distopico e sociopolitico, dove la tecnologia diventa specchio delle contraddizioni del presente. L’esoscheletro indossato dal protagonista Max (Matt Damon) non è soltanto un mezzo per generare azione, ma anche simbolo della lotta disperata di un individuo contro un sistema che lo esclude. L’ambientazione cupa e realistica richiama un’estetica cyberpunk, dove l’avanzamento tecnologico non porta progresso equo, ma accentua la frattura tra privilegiati e oppressi.

Il film si inserisce così in una tradizione di opere che utilizzano la fantascienza come lente critica: dalle distopie sociali di Metropolis di Fritz Lang fino a film più recenti come Snowpiercer di Bong Joon-ho, che racconta un’umanità divisa rigidamente in classi. Come in questi esempi, Blomkamp sfrutta l’azione e l’immaginario futuristico per parlare di diseguaglianza, potere e resistenza. Nonostante alcune critiche Elysium resta quindi un’opera significativa nel panorama sci-fi contemporaneo. Nel prosieguo dell’articolo, approfondiremo il finale del film, cercando di comprenderne il significato e il messaggio politico che Blomkamp intende trasmettere.

Elysium cast

La trama di Elysium

La storia è ambientata nel  2154 in un mondo ormai sovrappopolato, dove l’umanità si è spaccata in due classi nettamente divise. Pochi eletti hanno infatti la possibilità di vivere all’interno di un’enorme stazione spaziale chiamata Elysium. Questa orbita attorno alla terra, e contiene tutti i lussi desiderabili. Al contrario, la parte povera della popolazione è costretta a vivere sul pianeta Terra, ormai luogo inquinato e destinato al degrado. Le città sono diventate veri e propri ammassi di gente, senza un preciso ordine a regolare la loro esistenza.

In questo contesto vive Max Da Costa, giovane operaio con un turbolento passato alle spalle. Max nutre un profondo fascino nei confronti della stazione spaziale e da sempre possiede il desiderio di potervisi recare un giorno, dando una svolta alla propria vita. Le cose per lui subiscono una piega inaspettata nel momento in cui, a causa di un incidente in fabbrica, viene sottoposto ad una dose di radiazioni gamma che gli conferiscono solo pochi giorni di vita. Per potersi salvare, Max avrà bisogno di recarsi su Elysium, dove si trovano le cure adatte a lui. Arrivare fin lassù, però, non sarà affatto facile.

La spiegazione del finale del film

Nel terzo atto di Elysium, Max scopre che i dati contenuti nel suo cervello non sono semplici informazioni, ma un programma capace di riavviare l’intero sistema della stazione orbitante. Deciso a usarlo come merce di scambio, si scontra con Kruger, che nel frattempo ha rapito Frey e sua figlia. Lo scontro culmina in un viaggio verso Elysium, segnato da esplosioni e tradimenti, fino allo schianto della navetta sulla stazione. Qui, le alleanze si spezzano e Delacourt viene eliminata da Kruger, che assume il controllo della situazione.

Elysium film

Il conflitto finale si svolge nel cuore di Elysium: Max affronta Kruger in un duello feroce, reso ancora più disperato dal peso delle sue condizioni fisiche. Con astuzia e sacrificio, riesce a disabilitare l’esoscheletro del nemico e a liberarsene definitivamente, gettandolo nel vuoto prima dell’esplosione di una granata. Con Spider al suo fianco, Max raggiunge il nucleo informatico della stazione e comprende la portata della sua scelta: avviare il reboot del sistema significherà la sua morte. Dopo un ultimo addio a Frey, decide di sacrificarsi, permettendo così di rendere tutti gli abitanti della Terra cittadini di Elysium e garantendo cure mediche a chiunque ne abbia bisogno.

Il finale di Elysium ha dunque un chiaro valore simbolico: la morte di Max non è solo la conclusione di un percorso personale, ma il gesto che spezza la logica di esclusione su cui si regge la stazione. L’eroe rinuncia alla sua sopravvivenza individuale per un bene collettivo, incarnando il modello del sacrificio redentore tipico della fantascienza distopica. La sua decisione restituisce dignità ai dimenticati della Terra, annullando i confini che separavano due mondi divisi da privilegi e ingiustizie.

Cosa ci lascia il finale di Elysium 

Per lo spettatore, la chiusura lascia un duplice messaggio: da un lato la speranza che la tecnologia possa essere usata come strumento di uguaglianza, dall’altro la consapevolezza che il cambiamento passa attraverso la responsabilità individuale. Blomkamp invita a riflettere sul presente, trasformando una vicenda futuristica in un monito sulle diseguaglianze reali che caratterizzano la nostra società. Elysium non è soltanto spettacolo, ma un racconto che ci ricorda quanto la giustizia e la solidarietà restino conquiste fragili e sempre da difendere.

Il diavolo veste Prada 2: Caitríona Balfe parla della sua assenza nel sequel

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Basato sul romanzo di Lauren Weisberger, il film Il diavolo veste Prada segue le vicende di un’ambiziosa giornalista, Andy Sachs (Anne Hathaway), che ottiene un posto in una rivista di moda e fatica a soddisfare le rigide richieste della sua potente redattrice, Miranda Priestly (Meryl Streep). Basato sul romanzo Revenge Wears Prada: The Devil Returns, il prossimo Il diavolo veste Prada 2 riporta sul grande schermo i membri del cast originale, che riprenderanno i ruoli interpretati nel primo film.

Anche la sceneggiatrice e il regista dell’originale, Aline Brosh McKenna e David Frankel, sono tornati ai rispettivi ruoli. Durante un’intervista con ScreenRant, dunque, anche a Caitríona Balfe è stato chiesto di un suo possibile ritorno in Il diavolo veste Prada 2. L’attrice, con tono ironico ha detto: “Perché non sono nel sequel?! Quella cosa dei tacchi alti in cui ero coinvolta. Ho lavorato, credo, due giorni su quel film. Mi ha aiutato a ottenere la tessera SAG, questo è certo”.

“Ma credo di essere rimasta seduta nella mia roulotte, o meglio in quella minuscola roulotte, uno dei due giorni, e poi il secondo giorno stavo camminando davanti all’edificio mentre Miranda entrava al lavoro. Quindi proprio davanti all’edificio. Ho visto Meryl Streep, il mio tacco è passato davanti alla telecamera e credo di essere stata ufficialmente inserita come clapper. Ma questo è tutto”, afferma l’attrice.

Perché Caitríona Balfe non è in Il diavolo veste Prada 2?

Caitríona Balfe ha iniziato la sua carriera come modella, lavorando con Chanel e Louis Vuitton prima di passare alla recitazione con apparizioni in Super 8 (2011), Now You See Me ed Escape Plan (entrambi del 2013), anche se è meglio conosciuta per il suo ruolo di Claire Fraser in Outlander. Tuttavia, un credito che manca dalla sua pagina IMDb è proprio quello per Il diavolo veste Prada. In precedenza, la Balfe aveva confermato di aver fatto una breve apparizione nel film. “Ho lavorato per due giorni da qui in giù”, dice indicando il suo addome.

Ero una clacker, ero ufficialmente una clacker, una delle ragazze che lavora a Vogue e indossa tacchi alti… Non credo che mi si veda, ma c’ero”, ammette. Considerando che aveva un ruolo così piccolo nell’originale, e basandosi sulla sua risposta, non sembra dunque che Caitríona Balfe tornerà in Il diavolo veste Prada 2. Il sequel è attualmente in fase di riprese e lei non è stata confermata come uno dei membri del cast che torneranno.

Cosa sappiamo su Il diavolo veste prada 2?

Il film originale del 2006, un cult classico per la sua satira tagliente sul mondo spietato della moda, si concludeva con Andy che lasciava Runway per un lavoro in un giornale di New York. Ora, i fan potranno finalmente vedere cosa stanno facendo Miranda e Andy in un panorama mediatico profondamente cambiato. Nel sequel, Miranda, interpretata dalla Streep, si ritrova coinvolta in una competizione ad alto rischio per ottenere importanti introiti pubblicitari, trovandosi sorprendentemente a dover affrontare la sua ex assistente dalla lingua tagliente Emily Charlton (Emily Blunt), che ora è una potente dirigente nel settore della moda.

David Frankel, che ha diretto il primo film, è tornato alla regia di Il diavolo veste Prada 2, lavorando su una sceneggiatura di Aline Brosh McKenna, che ha scritto anche l’originale. Le produttrici Wendy Finerman e Karen Rosenfelt sono a bordo, con la 20th Century Studios che ha in programma di distribuire il film il 1° maggio 2026. Oltre a Meryl Streep, Anne Hathaway e Emily Blunt, nel cast si ritrovano anche Stanley Tucci, che riprende il ruolo del sempre solidale Nigel Kipling, insieme a Simone Ashley, Pauline Chalamet e Helen J. Shen. Tracie Thoms e Tibor Feldman tornano sul set, mentre diversi volti nuovi si uniscono al cast, tra cui Kenneth Branagh, che interpreterà il marito di Miranda, insieme a Lucy Liu, Justin Theroux, B.J. Novak, Pauline Chalamet, Rachel Bloom e Patrick Brammall.

The Bride!, il film sarà vietato ai minori per “contenuti violenti, sanguinosi e sessuali”

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Oltre all’adattamento Netflix di Guillermo del Toro del classico di Mary Shelley, il prossimo anno arriverà una versione molto diversa de La moglie di Frankenstein. Il tanto atteso film di Maggie Gyllenhaal ha ora ricevuto la classificazione ufficiale R per “contenuti violenti/sanguinosi, contenuti sessuali/nudità e linguaggio scurrile”. Il primo trailer di The Bride!, con Jessie Buckley, Christian Bale e Jake Gyllenhaal, ha debuttato durante il CinemaCon all’inizio di quest’anno, ma non è ancora stato pubblicato online.

Gyllenhaal ha pubblicato su Instagram le prime immagini del film girato lo scorso anno, dandoci un assaggio di Bale nei panni del mostro di Frankenstein e Buckley in quelli della sposa del mostro incompreso. Abbiamo sentito parlare per la prima volta di questo progetto nel 2022, quando era in fase di sviluppo per Netflix, ma un rapporto successivo indicava che era stato accantonato poco dopo l’inizio degli scioperi di Hollywood e che era stato venduto altrove.

Più recentemente, abbiamo appreso che la Warner Bros. aveva acquisito The Bride!, che ora è previsto per l’uscita nelle sale il 6 marzo 2026. Gyllenhaal dirige dopo aver ottenuto il plauso della critica per il suo film d’esordio, The Lost Daughter. Stando a quanto riportato, il film sarà ambientato nella Chicago degli anni ’30, dove Frankenstein chiede al dottor Euphronius di aiutarlo a creare per lui una compagna. Danno così vita a una donna nota come la Sposa, scatenando romanticismo, interesse della polizia e cambiamento sociale radicale.

Descritto come un thriller-horror, The Bride! è dunque basato sul classico romanzo gotico di Mary Shelley Frankenstein or The Modern Prometheus. Oltre a Christian Bale nel ruolo di Frankenstein e Jessie Buckley in quelli della Sposa, il film sarà interpretato anche da Penelope Cruz nel ruolo di Myrna, Peter Sarsgaard nel ruolo di un detective. Di certo, il nuovo rating ricevuto dal film rende il progetto più interessante, lasciando pensare che potrebbe essere più orrorifico di quanto si pensava.

Bugonia: recensione del film di Yorgos Lanthimos – Venezia 82

Bugonia: recensione del film di Yorgos Lanthimos – Venezia 82

Cosa ci si può aspettare ancora da un sodalizio artistico che ci ha già regalato l’usurpatrice più infida della Gran Bretagna del XVIII secolo (La Favorita), un rigoglioso femminile alla scoperta del mondo (Povere Creature!), e un triplice studio di personalità enigmatiche che elargiscono o richiedono diversi gradi di crudele gentilezza (Kinds of Kindness)?

Se si risponde ai nomi di Yorgos Lanthimos ed Emma Stone, ebbene, è lecito aspettarsi ancora di più. Dopo la travolgente vittoria del Leone d’oro a Venezia 2023 con l’adattamento del romanzo di Alasdair Grey, il duo cinematografico più prolifico degli ultimi anni torna in concorso alla Mostra del Cinema con Bugonia, ennesimo – ma non meno interessante – esperimento tra il mitologico e il surreale firmato dal regista greco, mai stato così “contemporaneo”.

La cospirazione dell’ape regina

Il punto di partenza di Bugonia è una produzione sudcoreana del 2003 a cura di Joon-Hwan Jang, dal titolo Save the Green Planet! In questa commedia sci-fi alquanto bizzarra, un giovane uomo rapisce il presidente di una grossa azienda credendo che si tratti di un alieno sotto mentite spoglie, con in programma un’invasione del Pianeta Terra da parte della specie. Le premesse del film di Lanthimos rimangono circa le stesse: un isolato apicoltore di una cittadina statunitense non meglio identificata (Jesse Plemons), assieme all’aiuto del cugino con cui vive, decide di rapire la CEO di una multinazionale di successo, con la radicata convinzione che da lei non solo dipendano i mali di tutto il mondo ma anche la tragica distruzione della sua famiglia.

Le tinte da thriller cospirazionale, già parzialmente esplorate nel secondo segmento di Kinds of Kindness, diventano in Bugonia spunto di indagine emotiva: dietro a ogni complotto intravisto, a ogni manipolazione effettuata, si nasconde in realtà un’enorme sofferenza, almeno da parte di chi inizialmente avremmo solo disprezzato. Jesse Plemons, forte della Palma d’oro al miglior attore protagonista proprio con l’ultimo film di Lanthimos, si conferma un talento ancora forse troppo nascosto, che riesce a regalare complessità e sfumature a una figura che sembrava impossibile separare dal suo apparente status di villain.

Ari Aster e Yorgos Lanthimos: il binomio satirico-surreale

Di particolare rilevanza è il fatto che la sceneggiatura di Bugonia sia stata sviluppata da Ari Aster e Will Tracy. Effettivamente, è impossibile non leggere l’ultima fatica di Lanthimos in continuità con almeno qualche aspetto di Eddington e la satira cupa del regista di Hereditary nonchè, parallelamente, con il lavoro dello sceneggiatore di The Menu e sodale collaboratore di Mark Mylod (Succession).

Proprio dall’ossessione di Aster per il rapporto con i genitori nasce forse quella che è l’immagine più struggente di Bugonia, che ha per soggetto la figura materna e fa perno sull’idea del rimanere agganciati a chi ci ha partorito, all’origine. Lanthimos, che ha scandagliato le relazioni sociali in molteplici forme, si apre qui a un confronto serrato e quantomai “contenuto”, in cui si discute della fine del mondo tra le mura di una casa, perchè in fondo, non importa il dove ma il chi, quando si tratta di potere.

La danza della morte

Emma Stone è stata chiunque per Lanthimos, e non soprende dunque che sia arrivata ad incarnare l’ipotesi di una vita aliena, enigmatica possibilità di una fonte di controllo totalizzante. Se Bella Baxter doveva ancora scoprire tutto, Michelle potrebbe già sapere tutto. Non fatichiamo a crederci, perchè nelle mani del regista greco Stone diventa semplicemente eccezionale.

La bugonia è un episodio narrato nelle Georgiche di Virgilio, che riflette un’antica credenza diffusa fino al XVII secolo: quella della generazione spontanea della vita. In particolare, nel quarto libro del poema viene descritto come, dal corpo senza vita di un animale, possa originarsi uno sciame di api. Vita e morte, indagate nei modi più surreali e bizzarri possibili dal regista greco, in Bugonia ci vengono forse per la prima volta mostrate da uno sguardo ancora più ravvicinato al nostro. Non c’è nessuna sequenza di danze inquietanti a cui ci ha abituato Lanthimos, ma solo una cruda e spiazzante verità: probabilmente, stiamo già ballando da morti.

Star Wars: Starfighter, una prima foto con Ryan Gosling annuncia l’inizio delle riprese

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Molte nuove star si sono unite al cast di Star Wars: Starfighter mentre la produzione del film entra ufficialmente nel vivo. Il prossimo film è descritto come un capitolo autonomo dell’iconica saga fantascientifica che si svolgerà cinque anni dopo gli eventi di L’ascesa di Skywalker del 2019. Il film, che sarà il prossimo capitolo di Star Wars nelle sale dopo The Mandalorian & Grogu del 2026, avrà come protagonista Ryan Gosling. In precedenza era stato rivelato che Matt Smith e Mia Goth interpreteranno due antagonisti nel film.

Secondo il sito ufficiale di Star Wars, dunque, le riprese di Star Wars: Starfighter sono iniziate oggi nel Regno Unito. È stato ora rivelato anche il cast completo del film. La sei volte candidata all’Oscar Amy Adams si è unita al cast di Starfighter insieme ad Aaron Pierre, Flynn Gray, Simon Bird, Jamael Westman e Daniel Ings. A questo link, invece, si può vedere il post che annuncia l’inizio della produzione. L’immagine in bianco e nero presente nel post mostra Ryan Gosling e Flynn Gray seduti insieme su un Landspeeder.

Shawn Levy ha anche rilasciato una dichiarazione sulla produzione: “Provo un profondo senso di eccitazione e onore mentre iniziamo la produzione di Star Wars: Starfighter. Dal giorno in cui Kathy Kennedy mi ha chiamato, invitandomi a sviluppare un’avventura originale in questa incredibile galassia di Star Wars, questa esperienza è stata un sogno che si è avverato, sia dal punto di vista creativo che personale. Star Wars ha plasmato la mia idea di ciò che una storia può fare, di come i personaggi e i momenti cinematografici possano vivere con noi per sempre. Entrare a far parte di questa galassia di storie con collaboratori così brillanti, sia sullo schermo che fuori, è l’emozione di una vita”.

Finora, la trama del prossimo film di Star Wars è rimasta segreta. Tuttavia, l’immagine condivisa nel post dell’annuncio sembra suggerire che il personaggio di Ryan Gosling sarà in qualche modo una figura protettrice o mentore del personaggio interpretato da Flynn Gray. Questo evocherebbe una relazione adulto-bambino che è comune in tutta la saga di Star Wars ed è stata al centro di episodi come The Mandalorian, Obi-Wan Kenobi, Skeleton Crew e La minaccia fantasma. Il film è ora atteso al cinema 28 maggio 2027.

Ridley Scott aggiorna su Il gladiatore 3 e un nuovo prequel di Alien

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Ridley Scott torna a parla di Il Gladiatore 3 e di un terzo prequel di Alien, fornendo aggiornamenti promettenti. Per quanto riguarda il primo dei due franchise, il seguito del film epico del 2000, Il Gladiatore, ha narrato le vicende del figlio di Massimo, Lucio, che diventa un eroe del Colosseo. Il film non ha avuto un grande successo al botteghino, ma il regista aveva già espresso interesse per un sequel e aveva anticipato di aver già scritto qualcosa a riguardo.

Per quanto riguarda il franchise di Alien, Scott ricopre attualmente il ruolo di produttore esecutivo, dopo aver supervisionato Alien: Romulus (2024) e la nuova serie TV Alien: Pianeta Terra (attualmente in corso su Disney+). Scott non ha però più diretto film del franchise dai prequel Prometheus (2012) e Alien: Covenant (2017).

Durante una recente intervista con The Guardian, in cui rispondeva alle domande degli utenti su Internet, Ridley Scott ha chiarito che la sua avventura nel mondo di Il gladiatore e Alien potrebbe non essere ancora finita. Il regista ha infatti rivelato che sta attualmente continuando a lavorare a Il gladiatore 3 e che anche un altro prequel di Alien non è da escludere. “Il Gladiatore 3 è in fase di lavorazione in questo momento. Un altro prequel di Alien? Sì, se mi viene un’idea, sicuramente”, sono le parole esatte del regista.

Ridley Scott tornerà davvero sui franchise di Il Gladiatore e Alien?

Le stime sul budget di Il Gladiatore 2 variano, ma quelle più alte lo collocano intorno ai 240 milioni di dollari. Se fossero accurate, ciò renderebbe deludente l’incasso finale del film, pari a 462 milioni di dollari in tutto il mondo. È quindi curioso che Scott stia lavorando al terzo film della saga. Vale la pena notare, tuttavia, che Il Gladiatore 3 non è stato ufficialmente approvato dallo studio. Scott è probabilmente in fase di sviluppo della trama e della sceneggiatura, ma molti film non superano questa fase per un motivo o per l’altro.

Se un altro film dovesse però andare avanti, è probabile che sarà realizzato con un budget inferiore. Un altro prequel di Alien, invece, non sembra imminente, poiché sembra che Scott non abbia ancora trovato un’idea che valga la pena perseguire. L’accoglienza riservata a Prometheus e Alien: Covenant è stata piuttosto contrastante, e quest’ultimo è stato anche un insuccesso al botteghino rispetto ai precedenti capitoli. Il franchise di Alien sta però attualmente  vivendo una sorta di rinascita.

Alien: Romulus è stato un successo lo scorso anno e Alien: Pianeta Terra dello showrunner Noah Hawley ha ricevuto recensioni molto positive dopo la sua anteprima il 12 agosto. Con un sequel di Romulus che sembra sarà girato alla fine di quest’anno, chiaramente non mancherà materiale su Alien in futuro. La speranza, però, è che Ridley Scott trovi l’idea giusta per terminare quella che originariamente sembra dovesse essere un trilogia prequel che forniva indicazioni sulle origini degli elementi alla base della saga.

Stereo Girls: recensione del film di Caroline Deruas Peano – SIC – Venezia 82

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Presentato fuori concorso alla 40ª Settimana della Critica, nell’ambito della 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Stereo Girls segna l’esordio alla regia di lungometraggio di Caroline Deruas Peano. Un debutto che, pur con alcune ingenuità, si distingue per sensibilità visiva e coerenza poetica, rafforzato da una fotografia che è già uno dei suoi marchi distintivi.

Il film, ambientato negli anni Novanta nel sud della Francia, segue la storia di due inseparabili amiche diciassettenni, legate da una passione viscerale per la musica e da un ardente desiderio di libertà. L’atmosfera che si respira è quella di un’epoca di transizione, segnata dall’energia del rock e dell’alternative, ma anche dal fascino di un immaginario ancora profondamente analogico: registratori, cassette, vinili e notti lunghe passate a sognare un futuro diverso. È in questo contesto che la regista costruisce un racconto di formazione sospeso tra nostalgia e urgenza, destinato a infrangersi bruscamente contro la tragedia che separerà le due ragazze, lasciandone una sola a portare avanti i sogni di entrambe.

Stereo Girls non punta sull’originalità ma sulla autenticità emotiva

La trama di Stereo Girls non punta a sorprendere per originalità, ma per autenticità emotiva. Deruas Peano sceglie una narrazione intima, quasi diaristica, che restituisce con delicatezza i turbamenti dell’adolescenza femminile. A rendere l’esperienza davvero memorabile è però il lavoro di Vincent Biron alla fotografia: la sua sensibilità visiva esalta l’aspetto “analogico” del film, immergendo lo spettatore in un universo fatto di toni caldi, luci soffuse e texture materiche. Ogni inquadratura sembra evocare la grana delle fotografie sviluppate in camera oscura, restituendo la sensazione di un tempo in cui le immagini non erano istantanee digitali, ma ricordi tangibili.

Questa estetica non è solo un vezzo stilistico, ma diventa parte integrante della narrazione: l’amicizia tra le due protagoniste si imprime nello sguardo dello spettatore proprio come una pellicola impressionata dalla luce, destinata a durare oltre la vita stessa. È qui che la scelta di Biron si rivela decisiva: la fotografia trasforma la storia in una sorta di reliquia visiva, dove il passato non è mai davvero perduto ma continua a risuonare, come un brano inciso su nastro.

Un cast intenso e naturale

Il cast contribuisce in modo sostanziale a dare credibilità al racconto. Emmanuelle Béart, icona del cinema francese, porta con sé un’aura di eleganza e malinconia che si innesta perfettamente nell’atmosfera crepuscolare del film. Accanto a lei, Lena Garrel – figlia della regista – offre un’interpretazione sorprendente per intensità e naturalezza, incarnando una giovinezza inquieta, piena di speranze ma anche di fragilità. L’alchimia tra le due giovani protagoniste regge gran parte della narrazione: la loro amicizia appare palpabile, fatta di piccoli gesti, di complicità silenziose e di improvvise esplosioni di vitalità.

Dal punto di vista della regia, Caroline Deruas Peano si dimostra capace di dare voce a un universo femminile spesso sottorappresentato sul grande schermo. Non c’è compiacimento nel raccontare l’adolescenza, ma un sincero desiderio di coglierne i chiaroscuri: la ribellione e la dolcezza, la spensieratezza e il dolore, la promessa di un futuro e la consapevolezza che ogni sogno comporta un rischio. La regista opta per un ritmo dilatato, fatto di pause e silenzi, che permette allo spettatore di entrare davvero nello spazio emotivo delle protagoniste.

Stereo Girls è un film che convince soprattutto per la sua capacità di evocare un’epoca e uno stato d’animo. Più che un racconto lineare, è un’esperienza sensoriale che si nutre di immagini e suoni, di luci e di ombre. La fotografia di Vincent Biron rimane impressa come la vera protagonista, capace di trasformare la memoria personale in memoria collettiva. Caroline Deruas Peano firma così un’opera prima delicata, che parla della fragilità e della forza dell’amicizia femminile, e che ci ricorda come anche il dolore della perdita possa contenere in sé una promessa di continuità: quella dei sogni che, una volta condivisi, non muoiono mai del tutto.

Un debutto promettente, che lascia intravedere una voce autoriale da seguire con attenzione.

Adam Sandler sul suo ruolo in Jay Kelly: “Non posso credere di aver ricevuto questo regalo”

Adam Sandler ha colto con entusiasmo l’opportunità di interpretare un ruolo diverso dal solito e di interpretare un ruolo drammatico nel film di Noah Baumbach Jay Kelly. Sandler interpreta un manager schietto e diretto per una star del cinema in ascesa, Jay Kelly (George Clooney).

“Essere in questo film e non solo cercare battute e momenti di divertimento, è questo che è fantastico”, ha dichiarato Sandler durante la conferenza stampa ufficiale di Jay Kelly alla Mostra del Cinema di Venezia. “Ho fatto due film con Noah e non potrei essere più orgoglioso di provare le emozioni che trasmette. Sa fare tutto, e poi trova anche i momenti in cui ridere. Tutti i nostri personaggi ti regalano un momento per ridere e provare dolore. Come attore, quando leggi una sceneggiatura come questa dici: ‘Caspita, non posso credere di ricevere questo regalo'”.

“Ho sempre apprezzato il mio manager, il mio agente, la mia responsabile stampa”, ha detto Sandler. “So quanto lavorano duramente e quanto sia difficile ascoltare i miei alti e bassi e sostenermi, anche quando a volte potrei alzare la voce. Ero entusiasta di interpretare un uomo devoto; ammiro tutti coloro che lo fanno.”

Nel film, scritto insieme da Baumbach e Emily Mortimer, George Clooney interpreta una star del cinema in crisi, Jay Kelly, che intraprende un viaggio vorticoso attraverso l’Europa con il suo devoto manager (Adam Sandler). Lungo il cammino, si confronteranno con le scelte fatte, i rapporti con i propri cari e l’eredità che lasceranno dietro di sé.

Alien: Pianeta Terra, lo showrunner spiega il legame di Wendy con gli Xenomorfi

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Il quarto episodio di Alien: Pianeta Terra (qui la recensione) di questa settimana ha approfondito il misterioso legame di Wendy (Sydney Chandler) con gli Xenomorfi, ponendo una domanda intrigante: è possibile controllare, o addirittura domare, questa specie extraterrestre notoriamente aggressiva? In “Observation”, Boy Kavalier incoraggia Wendy a vocalizzare gli strani suoni che sente nella sua testa da quando si è avvicinata agli alieni per la prima volta nell’episodio 2.

Lei lo fa e da quel momento lui convince la ragazza/ibrido a tentare di comunicare con la creatura che sta attualmente gestando all’interno del polmone rimosso chirurgicamente a suo fratello Joe. Alla fine dell’episodio, un piccolo xenomorfo che ne esce fuori e Wendy riesce a usare la sua nuova abilità per calmare la creatura e addirittura accarezzarla sulla testa. Gli alieni hanno in qualche modo “scelto” Wendy come loro portavoce, o la sua capacità di comunicare con le creature è semplicemente dovuta alla sua fisiologia ibrida umana/sintetica e alla sua programmazione?

Niente è casuale per un bambino, giusto? Sai, tutto sembra significativo”, dice lo showrunner Noah Hawley a Decider.com. “C’è un momento nel quarto episodio in cui lei dice: ‘Hanno scelto me’. Giusto? Il che non è vero. Giusto? Non l’hanno scelta. Lei riesce solo a sentirli a causa di un problema hardware o software che ha”. Che si tratti di una stranezza nella sua programmazione o meno, Wendy sembra certamente credere di avere una sorta di vocazione superiore, che potrebbe rivelarsi disastrosa per chi le sta intorno.

L’altra cosa con i bambini è che loro non danno davvero importanza… Voglio dire, per loro sono solo animali, capisci? Quindi lei guarda queste creature e prova empatia, proprio come mia figlia è diventata vegetariana quando aveva nove anni”, ha aggiunto Hawley.  “Beh, queste creature non hanno chiesto di venire qui, e forse sono spaventate. Sai, lei dice a suo fratello: ‘Questo, forse questo potrebbe essere buono’. E sembra… non so, ‘il tuo amico squalo’, ma si può capire il suo impulso a provarci”.

Dovremo aspettare e vedere come si svilupperà questa trama, ma l’animale domestico di Wendy è ben lungi dall’essere l’unico problema che attende i nostri protagonisti, con una Nibs sempre più instabile e potenzialmente pericolosa convinta di essere incinta, quell’inquietante alieno dagli occhi che aspetta il momento giusto per colpire e Piumino che sembra intenzionato a far diventare Joe a diventare un ospite del facehugger.

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Bugonia: il nuovo trailer del film di Yorgos Lanthimos con Emma Stone

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È online il nuovo trailer di Bugonia, il nuovo film di Yorgos Lanthimos che arriverà nelle sale italiane il 23 ottobre 2025. Dopo il successo di Povere Creature! e Kinds of Kindness, il regista greco torna con una nuova storia visionaria che mescola satira, inquietudine e fantascienza.

Il film segue due giovani ossessionati dai complotti che rapiscono la potente amministratrice delegata di una grande azienda, convinti che sia un’aliena pronta a distruggere il pianeta Terra. Da questa premessa prende forma un racconto che alterna ironia, tensione e riflessioni sul potere, tipico dello stile surreale e provocatorio di Lanthimos.

Il cast riunisce ancora una volta Emma Stone, ormai musa del regista, affiancata da Jesse Plemons, Aidan Delbis, Stavros Halkias e Alicia Silverstone. La sceneggiatura è firmata da Will Tracy, mentre la fotografia è affidata a Robbie Ryan, collaboratore storico di Lanthimos.

Prodotto da Element Pictures, Fruit Tree, Square Peg e CJENM, Bugonia è stato presentato in concorso alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia, raccogliendo grande attenzione da parte della critica e del pubblico.

Il nuovo trailer mostra atmosfere disturbanti e paradossali, in perfetto equilibrio tra satira sociale e fantascienza distopica, confermando Bugonia come uno dei film più attesi della stagione autunnale.

L’appuntamento in sala è fissato al 23 ottobre 2025, data di uscita ufficiale nelle sale italiane.

Orphan: recensione del film di László Nemes – Venezia 82

Orphan: recensione del film di László Nemes – Venezia 82

Enfant prodige del cinema europeo e vincitore dell’Oscar al miglior film straniero con Il figlio di Saul, László Nemes approda in concorso a Venezia 82 con Orphan, ritratto di un giovane in fiamme nella Budapest del 1957, dopo la rivolta contro il regime comunista in Ungheria. Forte di una performance magnetica da parte del giovanissimo attore protagonista Bojtorján Barábas, la nuova pellicola del regista ungherese non punta a replicare l’impatto emotivo straziante della sua opera prima, ma prosegue il desiderio di Nemes di raccontare una sofferenza circoscritta che, nella sua intimità, rispecchi il trauma più grande di un determinato periodo storico.

Lo sguardo di Andor, tra infanzia e trauma

Come di consueto in Nemes, il filtro attraverso cui leggere il suo nuovo racconto è lo sguardo del protagonista, in questo caso un ragazzino di 12 anni di nome Andor che, in un breve flashback iniziale, vediamo ricongiungersi con la madre dopo essere stato accolto da un orfanotrofio durante gli anni dell’occupazione nazista. Il piccolo, nascosto in una sorta di “tana”, è restio nel tornare a casa con la donna, che non riconosce come la propria madre essendo stato abbandonato in tenera età. Già dal posizionamento di questo punto di vista, che cerca di nascondere, rintanarsi e resistere a ciò che gli altri gli dicono, cogliamo tutti i tratti della psicologia del giovane Andor. Una volta cresciuto, continuerà a interrogarsi sull’assenza della figura paterna e a vivere delle fantasie della madre, che gli racconta di un padre idealizzato. Andor rivendica con fierezza questo cognome e ha delle conversazioni immaginarie frequenti con il padre; tuttavia, la sua vita è destinata a cambiare per sempre quando fa capolino un misterioso e inquietante uomo soprannominato “Il Macellaio”, che ha nascosto la madre durante i rastrellamenti e che sostiene di essere suo padre.

Padri, madri e ferite della Storia

Girato in pellicola come Il figlio di Saul e Sunset, Orphan contribuisce a formalizzare e solidificare il cinema di Nemes come cinema di sguardo soprattutto storico, di un passato che ha in una certa misura conosciuto – questo terzo film, in particolare, si rifà alla storia del nonno – e che, purtroppo, continua a dialogare col presente di un mondo che ancora conosce troppe sofferenze. La materia trattata non è certamente leggera, ancor più perchè filtrata dalla rabbia di uno sguardo che non si spegne, che continua a scrutrare tramite i vetri, a confidarsi nei bassifondi e a portare avanti una propria personale rivolta.

Guidato da un cast di supporto di tutto rispetto – Andrea Waskovics, Grégory Gadebois, Elíz Szabó, Sándor Soma, Marcin Czarnik – Orphan è, come dicevamo, un film profondamente personale per Nemes, ispirato all’infanzia del padre nella Budapest degli anni Cinquanta. Con la sua co-sceneggiatrice Clara Royer, il regista ha preso spunto dalla memoria familiare per costruire un racconto universale sul passaggio dall’infanzia all’età adulta, sull’accettazione dell’oscurità dentro di sé e sul peso che la Storia imprime ai destini individuali. Non si tratta quindi di una semplice cronaca di un’epoca, ma di una riflessione sul trauma generazionale che si trasmette di padre in figlio, di madre in figlio, e che ancora oggi segna la società europea.

Un cinema che interroga la memoria

Orphan è anche un racconto sulla trasmissione del trauma: le ferite del Novecento, dalla guerra all’Olocausto fino alla repressione politica, si insinuano nelle generazioni successive, segnando profondamente il destino dei bambini. Come ricorda Nemes, è un film che riflette su come il passato continui a perseguitarci, e su quanto sia necessario affrontare le ombre per non riprodurre gli stessi errori.

László Nemes prosegue un percorso autoriale coerente e coraggioso: raccontare l’indicibile attraverso sguardi marginali, dare voce ai fantasmi della Storia con un rigore estetico che può apparire austero, ma che trova nella sua radicalità il segno distintivo di uno dei cineasti europei più rilevanti della sua generazione.

Ghost Elephants: recensione del documentario di Werner Herzog – Venezia 82

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Ogni documentario di Werner Herzog è prima di tutto un viaggio dentro la sua voce. Quel timbro inconfondibile, basso e graffiato, con il suo accento tedesco mai stemperato, non è un semplice accompagnamento narrativo: è una lente che modella le immagini, una presenza che piega la realtà alla sua continua ricerca di meraviglia e spaesamento. In Ghost Elephants, presentato Fuori Concorso a Venezia 82, questa voce si posa su un’Africa al tempo stesso concreta e mitica, trasformando la spedizione di un naturalista sudafricano in un racconto sospeso tra scienza, leggenda e sogno. Herzog non si limita a mostrare: incanta, solleva dubbi, trasforma ogni dettaglio in un segno del destino.

Ghost Elephants: tra mito e scienza

Il cuore del film è l’ossessione del Dr. Steve Boyes, naturalista che da dieci anni insegue la possibilità dell’esistenza di un branco misterioso di “elefanti fantasma” sull’altopiano angolano di Bié, vasto quanto l’Inghilterra e quasi privo di insediamenti umani. Boyes vuole verificare se questi giganti, mai documentati ufficialmente, possano essere parenti del più grande elefante mai registrato, il celebre esemplare conservato allo Smithsonian di Washington, chiamato Henry. La sua è una missione che oscilla fra rigore scientifico e tensione visionaria, con tanto di campioni di DNA da raccogliere come in un romanzo d’avventura. Herzog, fedele al suo metodo, non giudica: osserva la passione e la trasfigura, facendo del desiderio stesso di cercare la traccia un tema narrativo centrale.

Una delle intuizioni più potenti del film è che la spedizione non inizia nel momento in cui i protagonisti mettono piede in Angola, ma molto prima. Herzog dedica ampio spazio alla fase preparatoria, trascorsa in Namibia accanto ai leggendari tracker San, capaci di leggere il terreno come un libro aperto e di imitare con il corpo gli animali che seguono. Qui il film si allontana dalla pura ricerca zoologica e diventa un ritratto dell’intelligenza ancestrale di uomini che incarnano la continuità con la natura. È in queste scene che la voce del regista raggiunge vertici di ironia e lirismo, quando ammette con disarmante sincerità: «So di non dover romanticizzare, ma un uomo circondato da polli… non può esserci nulla di meglio». È in questa tensione tra romanticismo e autocritica che emerge il vero Herzog.

Lo sguardo sull’ignoto

Nella seconda parte, quando la spedizione si addentra tra le nebbie dell’altopiano angolano, Ghost Elephants assume i toni di una favola realista. Herzog lascia che la lentezza, i momenti sospesi e persino le distrazioni — come l’arrivo di un ragno velenoso, subito trasfigurato dalla sua voce in presagio apocalittico — diventino parte del racconto. Ciò che interessa al regista non è solo la possibilità di filmare un animale leggendario, ma la potenza del desiderio che spinge a cercarlo, la dimensione interiore che il mito dell’elefante fantasma rivela in chi si mette sulle sue tracce.

Ad amplificare questa atmosfera sospesa contribuisce la colonna sonora firmata da Ernst Reijseger, che intreccia arrangiamenti di canti tradizionali sardi con le immagini africane. Un accostamento che potrebbe sembrare arbitrario, ma che nelle mani di Herzog diventa naturale: il dialogo fra due mondi distanti restituisce l’idea di una ricerca che non appartiene a un solo luogo, ma che parla dell’umanità intera. La musica agisce come eco del racconto, rinforzando la percezione che i “fantasmi” non siano solo elefanti invisibili, ma figure del nostro immaginario collettivo.

Un racconto puramente herzoghiano

Come in Grizzly Man o in Encounters at the End of the World, anche qui Herzog ci ricorda che i suoi documentari sono sempre “tanto su di lui quanto sull’oggetto filmato”. Ghost Elephants è un film sul senso stesso della ricerca, sul confine fra realtà e leggenda, sul bisogno umano di inseguire qualcosa che potrebbe non esistere. Il regista non si sofferma esplicitamente sulle ombre del colonialismo, sul ruolo dell’“esploratore bianco” o sul retaggio della caccia: lascia che queste domande restino in sospeso, dando al film una dimensione aperta e ambivalente.

Ghost Elephants è, in definitiva, un documentario che non offre un “colpo di scena” finale, ma che non ne ha bisogno. La sua forza sta nel modo in cui Herzog trasforma una spedizione scientifica in un viaggio esistenziale, in cui l’oggetto della ricerca conta meno del desiderio stesso di cercare. E soprattutto sta nella sua voce: quel tedesco gutturale, carico di ironia e malinconia, che ci fa credere che ogni dettaglio — un villaggio sperduto, un animale invisibile, un uomo che vive fra polli — contenga un frammento di meraviglia. È questa voce, più ancora delle immagini, a ricordarci che l’essenza del cinema herzoghiano non è catturare la realtà, ma renderla degna di essere sognata.

Priscilla, la storia vera: quanto è accurata e cosa cambia il film di Sofia Coppola

Cosa c’è di vero e cosa c’è di falso nel film Priscilla (qui la recensione) di Sofia Coppola? Il film, interpretato da Cailee Spaeny (Priscilla) e Jacob Elordi (Elvis Presley), è ispirato al libro del 1985 “Elvis and Me”, che al momento della sua uscita è diventato un bestseller del New York Times. Tutti conoscevano Elvis come leggenda, ma la sua ex moglie Priscilla voleva rivelare Elvis come uomo. Questo racconto avvincente, dal loro incontro nel 1959 fino alla sua improvvisa morte nel 1977, svela la realtà (spesso cruda) dell’essere sposata con il Re del Rock and Roll.

Tuttavia, anche nei ricordi più bui, Priscilla mantiene un profondo amore per il marito, eccezionalmente complicato e spesso selvaggiamente imprevedibile. “Quando ho letto la storia di Priscilla, sono rimasta molto colpita da quanto fosse insolito l’ambiente in cui viveva, ma lei affronta tutte le cose che tutte le ragazze affrontano crescendo e diventando donne”, ha detto Coppola al Festival del Cinema di Venezia. “Parla con dettagli e franchezza della sua esperienza, del suo primo bacio, del diventare madre, di tutti quei momenti della vita in cui mi riconosco e che ritengo universali”.

Ma in questo contesto molto insolito che siamo così curiosi di conoscere. Elvis e Priscilla erano una coppia leggendaria, ma non sappiamo molto di lei e del suo punto di vista“. Durante le riprese, Coppola ha rivelato di essere stata in contatto con la vera Priscilla, così come Spaeny, che ha lavorato con l’autrice per ricreare la sua vita nel modo più accurato possibile. ”Coppola ha fatto i compiti“, ha poi detto la donna, soddisfatta del risultato. Ma cosa ha preso direttamente dal libro la regista e cosa ha modificato per la sua sceneggiatura?

Jacob Elordi Elvis Presley Priscilla
Jacob Elordi e Cailee Spaeny in una scena di Priscilla

Le differenze tra il film Priscilla e la storia vera

Priscilla ha dormito per due giorni dopo che Elvis le ha dato un sonnifero.

Priscilla è realmente caduta in uno stato di incoscienza dopo che Elvis le ha dato due pillole da 500 mg di Placidyl durante una visita a Graceland. La cosa più spaventosa è che la giovane ha preso queste pillole proprio prima di fare il bagno, ma è riuscita ad arrivare in camera da letto prima che il farmaco facessero pienamente effetto. Come descritto nel film, Elvis aveva a disposizione una scorta costante di stimolanti e sedativi. Ben presto anche Priscilla avrebbe iniziato la sua personale cura a base di pillole. Dopo una lotta con i cuscini particolarmente violenta (che ha portato Priscilla a indossare una benda sull’occhio), ha smesso gradualmente di assumere tutte le pillole e alla fine ha smesso del tutto.

Nonostante la decisione di lei di abbandonare l’abitudine, Elvis aveva una “forte obiezione” a smettere. Spesso teneva un dizionario medico sul comodino per tenersi aggiornato sulle ultime innovazioni e sulle pillole approvate dalla FDA. “Si sarebbe detto che avesse una laurea in farmacologia”, ha scritto Priscilla. “Mi assicurava sempre che non aveva bisogno di pillole, che non avrebbe mai potuto diventarne dipendente. Questa divergenza di opinioni ha portato a molti scontri seri; ho sempre compromesso la mia integrità e ho finito per accettare il suo punto di vista”.

Elvis proibiva a Priscilla di indossare certi colori

Gli piacevo in rosso, blu, turchese, verde smeraldo e bianco e nero, gli stessi colori che indossava lui”, ha scritto Priscilla. Elvis aveva anche un’avversione per il marrone e il verde, perché gli ricordavano il periodo trascorso nell’esercito. Al Re lei piaceva anche con un trucco pesante sugli occhi e i capelli tinti di nero. Il suo stile non era l’unica cosa: Elvis era altrettanto “fanatico” riguardo alla postura. Priscilla doveva stare seduta con la schiena dritta o veniva corretta in tempo reale. Inoltre, ogni volta che alzava lo sguardo, lui le toccava la fronte e le lisciava le rughe, dicendole che doveva alzare lo sguardo con il collo per evitare le pieghe.

Elvis lanciò una sedia a Priscilla

Elvis aveva un carattere instabile. Il suo team e Priscilla erano spesso soggetti ai capricci della sua rabbia, anche quando chiedeva la loro opinione. Come nel film, Elvis una volta lanciò una sedia alla sua allora fidanzata dopo averle chiesto cosa ne pensasse di un disco. Nei suoi scritti, Priscilla lamentava che la loro relazione dipendeva dall’andamento della carriera di lui. Elvis spesso minacciava o pretendeva che Priscilla facesse le valigie e se ne andasse, arrivando persino a chiedere la separazione quando Priscilla era al terzo trimestre di gravidanza di Lisa Marie. “Quando era arrabbiato, era come il rombo di un tuono”, ha scritto Priscilla. “Nessuno poteva sfidare le sue parole taglienti; potevamo solo aspettare che la tempesta passasse”

Cailee Spaeny e Jacob Elordi in Priscilla

Priscilla ed Elvis fecero un trip con l’LSD insieme

Alla ricerca di uno “stato di coscienza superiore”, Elvis si rivolse all’LSD. A differenza di quanto mostrato nel film, però, i due fecero il loro primo (e ultimo) trip con tre amici in una sala conferenze a Graceland. Priscilla descrisse l’esperienza, alimentata dall’arcobaleno, come “straordinaria”, ma non la ripeté mai più perché era troppo pericolosa. Anche nel riportare questa breve parentesi, dunque, il film di Sofia Coppola si dimostra particolarmente attento a rispettare ciò che è accaduto tra Elvis e Priscilla.

Elvis bruciò tutti i suoi libri di “alta cultura”

Elvis lesse le opere di Kahlil Gibran, tra cui “Il profeta”, ‘Siddhartha’ di Hermann Hesse e “La vita impersonale” di Joseph Benner. Spesso distribuiva copie di questi libri (e molti altri) ad amici e colleghi sui set cinematografici. Con l’avanzare dell’età, lo studio della filosofia e il tentativo di decifrare il significato della vita iniziarono a occupare gran parte delle giornate della star. In realtà, per Elvis non era solo importante essere appassionato di questi studi, ma voleva che anche tutti quelli che lo circondavano leggessero queste opere, ma Priscilla non era molto entusiasta di questa sua passione.

Il cantante cercava poi spesso di creare momenti trascendentali nella vita reale. “Elvis and Me” racconta di quando Elvis vagò in un campo da golf di Bel Air, mentre gli irrigatori erano in funzione, alla ricerca di angeli, e di un’altra visita improvvisata all’obitorio locale dopo aver visto il film horror “Diabolique”. Alla fine, il manager di lunga data di Elvis, il colonnello Tom Parker, chiese di porre fine all’esplorazione delle “filosofie esoteriche”. Elvis e Priscilla raccolsero e bruciarono insieme la sua collezione di libri di filosofia nel cuore della notte, come segno di voler lasciarsi tutto alle spalle.

Il cane di Priscilla era un regalo di Elvis al suo arrivo a Graceland

Qui è invece dove il film presenta un elemento di originalità rispetto alla storia vera. Honey era un regalo di Elvis, è vero, ma tecnicamente questo regalo arrivò durante una visita natalizia, molto prima che lei ed Elvis avessero convinto i suoi genitori a lasciarla trasferire a Memphis. Come nel film, però, Priscilla fu accusata da un membro dell’entourage di Elvis di “mettersi in mostra” semplicemente perché stava giocando con Honey troppo vicino ai cancelli di Graceland.

Cailee Spaeny in Priscilla
Cailee Spaeny in Priscilla

Priscilla indossava ciglia finte durante il parto

Anche questo è un elemento tanto bizzarro quanto vero. Proprio come nel film di Coppola, Priscilla si truccò completamente prima di andare in ospedale per dare alla luce la loro figlia Lisa Marie. Nelle sue memorie, ammette di aver dovuto convincere i medici a lasciarle tenere le sue doppie ciglia finte (il suo look distintivo).

Elvis proibì a Priscilla di lavorare

In “Elvis and Me”, Priscilla racconta di aver trovato lavoro come modella in un salone locale, ma quando Elvis venne a sapere della sua decisione, le chiese di licenziarsi. Il suo compagno non era affatto entusiasta delle “ragazze in carriera”, come lui le definiva, e ribadì il suo ideale secondo cui il lavoro di Priscilla era quello di renderlo felice, anche quando lui non era presente. Dio non volesse che lui la chiamasse a caso una sera e lei non fosse in grado di rispondere immediatamente al telefono. Alla fine, Priscilla avrebbe aperto una boutique tutta sua a Beverly Hills chiamata Bis & Beau, anni dopo la loro separazione e la morte di lui. L’autrice avrebbe anche ottenuto diversi ingaggi come conduttrice televisiva.

La vita di Priscilla Presley dopo Elvis

Priscilla ed Elvis mantennero un forte legame anche molto tempo dopo la fine del loro matrimonio. Uno degli ex partner di Priscilla ricorda che Elvis la chiamava a tutte le ore del giorno e della notte. Dopo Elvis, Priscilla ebbe numerose relazioni sentimentali di alto profilo. Dopo la separazione da Mike Stone, Priscilla ebbe relazioni con Rob Kardashian, Julio Iglesias, il modello Michael Edwards e il produttore cinematografico Marco Garibaldi. La relazione di Priscilla con Garibaldi è durata dal 1984 al 2006 e ha dato alla luce un figlio, Navarone. Tragicamente, Lisa Marie Presley è morta all’inizio del 2023 e il nipote di Priscilla, Benjamin Keough, è morto nel 2020. Tuttavia, Priscilla ha ancora tre nipoti da Lisa Marie, tra cui l’attrice Riley Keough.

Negli anni ’80, ha iniziato a intraprendere la carriera di attrice. Dopo aver recitato in un film per la TV, Love is Forever, e in un episodio della serie TV The Fall Guy, ha ottenuto un grande successo con un ruolo importante nella soap opera Dallas, in cui ha interpretato Jenna Wade per sei anni e 143 episodi. La Presley ha continuato a recitare fino agli anni ’90, interpretando in particolare il ruolo della romantica Jane Spencer in tutti e tre i film della serie Una pallottola spuntata, prima di abbandonare la recitazione nel 1999. Tuttavia, recentemente ha co-creato la serie animata Netflix Agent Elvis, in cui doppia se stessa.

Priscilla Presley è poi rimasta coinvolta e in buoni rapporti con i recenti progetti di alto profilo che trattano della sua relazione con Elvis. Nel caso del film Elvis del 2022 con Austin Butler, Priscilla ha dato il suo benestare al film e ha persino sfilato sul tappeto rosso del Met Gala insieme al cast del film. È poi stata fortemente coinvolta nel film Priscilla, tratto appunto dal suo libro di memorie del 1985 Elvis and Me e che la vede come produttrice esecutiva. Il film ha però ricevuto critiche da parte dell’eredità di Elvis, con cui l’ex moglie di Presley è attualmente coinvolta in una battaglia legale sul testamento di Lisa Marie.

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Jude Law è Vladimir Putin nelle nuove foto di The Wizard of the Kremlin

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Nuove foto dal film The Wizard of the Kremlin rivelano la trasformazione di Jude Law nel presidente russo Vladimir Putin. Il film è il debutto in lingua inglese del regista francese Olivier Assayas e racconterà l’ascesa di Putin sulla scia della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Accanto a Law, il film vedrà la partecipazione di Paul Dano nel ruolo di Vadim Baranov, una versione romanzata di Vladislav Sourkov, soprannominato “l’uomo che ha creato Vladimir Putin”, oltre ad Alicia Vikander e Jeffrey Wright.

Oltre a un’intervista con Assayas, Variety ha rivelato una nuova immagine di The Wizard of the Kremlin che mostra Law quasi irriconoscibile nei panni di un Putin, con Baranov interpretato da Dano al suo fianco. Come si vede chiaramente nella foto, Jude Law sembra ha dato il massimo nella sua interpretazione di Vladimir Putin. Particolarmente degni di nota sono la postura rigida, il comportamento austero e la stempiatura che sono i tratti distintivi del leader russo. Anche se Dano interpreta un personaggio romanzato basato su Vladislav Sourkov, è a sua volta simile al suo modello reale.

Jude Law e Paul Dano in The Wizard of the Kremlin
Jude Law e Paul Dano in The Wizard of the Kremlin. Foto di Carole Bethuel

Sebbene la trasformazione non sia così drammatica come quella di Gary Oldman in Winston Churchill per L’ora più buia del 2017, l’interpretazione di Jude Law è un segno della dedizione di Assayas alla precisione. Il regista ha parlato più approfonditamente dell’argomento con Variety, spiegando: “Quando si lavora a un progetto come questo, bisogna fare il lavoro di un giornalista o di uno storico. Non siamo scesi a compromessi sulla veridicità e l’accuratezza perché il film è stato revisionato e convalidato da storici che conoscono molto meglio di me i dettagli di quel periodo”.

Ogni giorno, mentre scrivevamo e preparavamo il film, avevamo mille domande pratiche da porre loro. Uno degli aspetti molto positivi del girare il film in Lettonia è stato quello di poter accedere a conoscenze di prima mano sulla storia, sui personaggi e così via, quindi nulla è stato lasciato al caso“, ha spiegato il regista. “In Lettonia ci sono parecchi rifugiati russi, il che ci ha permesso di avere attori con accento russo e io ho potuto completare le mie ricerche, convalidare la ricostruzione storica, ecc. grazie ai resoconti di prima mano di giornalisti politici e russi emigrati”.

Anche i nostri produttori esecutivi locali in Lettonia avevano un talk show politico. Quindi hanno incontrato Boris Berezovsky e la maggior parte delle figure chiave della politica russa dell’epoca. Ogni volta che avevo una domanda, un dubbio o una richiesta, ovviamente chiamavo prima Giuliano per chiedergli di convalidare una particolare opzione. Perché, ancora una volta, questo è molto simile al modo in cui ho lavorato quando ho realizzato “Carlos”. Vale a dire, credo che quando si ha a che fare con la politica, e in particolare con la politica contemporanea, sia essenziale essere estremamente precisi sui fatti, anche se ci sono modi per raccontare una storia in modo più umano”, ha concluso il regista.

Spider-Man: Brand New Day, nuovi rumor sul ruolo di Punisher, sul numero dei cattivi e altro ancora

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Sebbene non sia stata diffusa nessuna altra foto dal set da quando la produzione si è trasferita a Londra, sembra che le riprese di Spider-Man: Brand New Day siano ufficialmente riprese nella capitale britannica. Secondo Daniel Richtman, Tom Holland ha preso una pausa dalle riprese mentre la sua controfigura gira una sequenza d’azione che vede l’Uomo Ragno affrontare “Scorpion e altri cattivi”.

Resta da vedere chi siano esattamente questi altri cattivi (si vocifera che personaggi come Tombstone e Tarantula facciano parte del montaggio iniziale), ma lo scooper ribadisce che il film vedrà la presenza di “più cattivi, in modo simile a No Way Home”. Per quanto riguarda The Punisher, Richtman ha sentito dire che, tra gli altri eroi coinvolti, Frank Castle interpretato da Jon Bernthal avrà il ruolo più importante nel film, dopo Spider-Man, ovviamente.

Apparirà anche Bruce Banner/Hulk interpretato da Mark Ruffalo, e – come già riportato – si vocifera anche della presenza di Yelena Belova interpretata da Florence Pugh. Per quanto riguarda il rapporto tra Spider-Man e Castle, sarà controverso, per non dire altro. Anche se si prevede che i due finiranno per allearsi a malincuore nel corso del film, è stato riportato che per la maggior parte della pellicola i due non si piaceranno affatto.

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Quello che sappiamo su Spider-Man: Brand New Day

Ad oggi, una sinossi generica di Spider-Man: Brand New Day è emersa all’inizio di quest’anno, anche se non è chiaro quanto sia accurata.

Dopo gli eventi di Doomsday, Peter Parker è determinato a condurre una vita normale e a concentrarsi sul college, allontanandosi dalle sue responsabilità di Spider-Man. Tuttavia, la pace è di breve durata quando emerge una nuova minaccia mortale, che mette in pericolo i suoi amici e costringe Peter a riconsiderare la sua promessa. Con la posta in gioco più alta che mai, Peter torna a malincuore alla sua identità di Spider-Man e si ritrova a dover collaborare con un improbabile alleato per proteggere coloro che ama.

L’improbabile alleato potrebbe dunque essere il The Punisher di Jon Bernthal recentemente annunciato come parte del film – in una situazione già vista in precedenti film Marvel dove gli eroi si vedono inizialmente come antagonisti l’uno dell’altro salvo poi allearsi contro la vera minaccia di turno.

Di certo c’è che il film condivide il titolo con un’epoca narrativa controversa, che ha visto la Marvel Comics dare all’arrampicamuri un nuovo inizio, ponendo però fine al suo matrimonio con Mary Jane Watson e rendendo di nuovo segreta la sua identità. In quel periodo ha dovuto affrontare molti nuovi sinistri nemici ed era circondato da un cast di supporto rinnovato, tra cui un resuscitato Harry Osborn.

Il film è stato recentemente posticipato di una settimana dal 24 luglio 2026 al 31 luglio 2026. Destin Daniel Cretton, regista di Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli, dirigerà il film da una sceneggiatura di Chris McKenna ed Erik Sommers. Tom Holland guida un cast che include anche Zendaya, Mark Ruffalo, Sadie Sink e Liza Colón-Zayas e Jon Bernthal. Michael Mando è stato confermato mentre per ora è solo un rumors il coinvolgimento di Charlie Cox.

Spider-Man: Brand New Day uscirà nelle sale il 31 luglio 2026.

Harry Potter: Matt Smith risponde alle voci sul suo casting come Voldemort

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La prossima serie TV di Harry Potter è attualmente in fase di riprese nel Regno Unito e la produzione dovrebbe continuare fino alla prossima primavera. Intanto, grazie a Wizarding World Direct, sembra ci siano alcuni nuovi dettagli su questa ultima versione dei romanzi best-seller di J.K. Rowling. Con maggior tempo a disposizione di un film di due ore, si dice che la prima stagione esplorerà anche l’origine della Pietra Filosofale e il motivo per cui è stata trasferita da Gringott a Hogwarts. Si prevede anche una maggiore attenzione alle creature e agli oggetti magici.

Le scene all’interno del Leaky Cauldron saranno girate il mese prossimo e, secondo quanto riferito, Dedalus Diggle apparirà lì per la sua unica scena in questa stagione. Lee Jordan, Dean Thomas e Oliver Wood sono inoltre stati scritturati e presto dovrebbero arrivare notizie su chi li interpreterà. Il mistero più grande, al momento, è chi interpreterà Lord Voldemort. In precedenza era stato riferito che HBO intende mantenere segreto il casting di Voldemort fino alla premiere della prima stagione di Harry Potter.

Matt Smith, protagonista di House of the Dragon e attualmente al cinema con Una scomoda circostanza, è il favorito dai fan per il ruolo, ma ha negato il suo coinvolgimento in una nuova intervista con TODAY. “Qualcuno potrà interpretarlo dopo Ralph [Fiennes]? È stato così bravo”, ha detto Smith. “Ipoteticamente, chi lo sa? Ma seguire le orme del grande Ralph Fiennes è un compito molto difficile per chiunque, quindi buona fortuna a chiunque sarà e di certo non sarò io“.

Nella prima stagione, probabilmente vedremo Voldemort in un flashback della notte in cui i genitori di Harry sono stati uccisi e come volto sul retro della testa del professor Raptor. Tuttavia, sarà solo nella quarta stagione, un adattamento de Il calice di fuoco, che entrerà pienamente in scena. Chi lo interpreterà nella prima stagione potrebbe non essere la stessa persona ad interpretarlo nella quarta, per cui il mistero intorno al ruolo potrebbe durare ancora a lungo.

Cosa sappiamo della serie HBO su Harry Potter

La prima stagione sarà tratta dal romanzo La pietra filosofale e abbiamo già visto alcuni altri momenti chiave del romanzo d’esordio di J.K. Rowling essere trasposti sullo schermo. La prima stagione di Harry Potter dovrebbe essere girata fino alla primavera del 2026, mentre la seconda stagione entrerà in produzione pochi mesi dopo. Ogni libro dovrebbe costituire una singola stagione, il che significa che avremo sette stagioni nell’arco di quasi un decennio.

HBO descrive la serie come un “adattamento fedele” della serie di libri della Rowling. “Esplorando ogni angolo del mondo magico, ogni stagione porterà ‘Harry Potter’ e le sue incredibili avventure a un pubblico nuovo ed esistente”, secondo la descrizione ufficiale. Le riprese dovrebbero avere inizio nel corso dell’estate 2025, per una messa in onda prevista per il 2026.

La serie è scritta e prodotta da Francesca Gardiner, che ricopre anche il ruolo di showrunner. Mark Mylod sarà il produttore esecutivo e dirigerà diversi episodi della serie per HBO in collaborazione con Brontë Film and TV e Warner Bros. Television. La serie è prodotta da Rowling, Neil Blair e Ruth Kenley-Letts di Brontë Film and TV, e David Heyman di Heyday Films.

Come già annunciato, Dominic McLaughlin interpreterà Harry, Arabella Stanton sarà Hermione e Alastair Stout sarà Ron. Il cast principale include John Lithgow nel ruolo di Albus Silente, Janet McTeer nel ruolo di Minerva McGranitt, Paapa Essiedu nel ruolo di Severus Piton, Nick Frost nel ruolo di Rubeus Hagrid, Katherine Parkinson nel ruolo di Molly Weasley, Lox Pratt nel ruolo di Draco Malfoy, Johnny Flynn nel ruolo di Lucius Malfoy, Leo Earley nel ruolo di Seamus Finnigan, Alessia Leoni nel ruolo di Parvati Patil, Sienna Moosah nel ruolo di Lavender Brown, Bertie Carvel nel ruolo di Cornelius Fudge, Bel Powley nel ruolo di Petunia Dursley e Daniel Rigby nel ruolo di Vernon Dursley.

Si avranno poi Rory Wilmot nel ruolo di Neville Paciock, Amos Kitson nel ruolo di Dudley Dursley, Louise Brealey nel ruolo di Madama Rolanda Hooch e Anton Lesser nel ruolo di Garrick Ollivander. Ci sono poi i fratelli di Ron: Tristan Harland interpreterà Fred Weasley, Gabriel Harland George Weasley, Ruari Spooner Percy Weasley e Gracie Cochrane Ginny Weasley.

La serie debutterà nel 2027 su HBO e HBO Max (ove disponibile) ed è guidata dalla showrunner e sceneggiatrice Francesca Gardiner (“Queste oscure materie”, “Killing Eve”) e dal regista Mark Mylod (“Succession”). Gardiner e Mylod sono produttori esecutivi insieme all’autrice della serie J.K. Rowling, Neil Blair e Ruth Kenley-Letts di Brontë Film and TV, e David Heyman di Heyday Films. La serie di “Harry Potter” è prodotta da HBO in collaborazione con Brontë Film and TV e Warner Bros. Television.

The Carpenter’s Son: il teaser trailer del nuovo film con Nicolas Cage

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Nicolas Cage torna al genere horror con il teaser trailer di The Carpenter’s Son, in uscita nell’autunno 2025. Cage ha recitato in innumerevoli film di vari generi, ma forse il più rilevante per questo prossimo progetto è Longlegs del 2024, dato che l’attore ha fatto scalpore lo scorso anno interpretando il killer in questo horror psicologico.

The Carpenter’s Son, diretto da Lofty Nathan, sarà un horror biblico che reinterpreta l’infanzia di Gesù, seguendo una famiglia nell’Egitto romano. Ispirato al Vangelo apocrifo dell’infanzia di Tommaso, il film descrive un figlio conosciuto come “Il Ragazzo” (Noah Jupe) che dubita del suo tutore, conosciuto come “Il Falegname” (Cage). Il Ragazzo ha un potere proprio e si ribella al Falegname, scatenando altri orrori.

Il film vede anche la partecipazione di FKA twigs nel ruolo di “Madre” e non ha ancora una data di uscita definitiva, ma Magnolia Pictures annuncia che arriverà nelle sale “nell’autunno del 2025 d.C.”. Il breve teaser, della durata di meno di 30 secondi, mostra Il Falegname che guarda il sole che sorge e sembra osservare Il Ragazzo da lontano, il tutto alternato ad immagini di donne in preda al dolore e altri elementi inquietanti.

 

Dopo Longlegs, sarà dunque emozionante vedere l’attore interpretare un altro ruolo horror, soprattutto uno apparentemente multidimensionale e misterioso come questo. Il marketing iniziale mantiene segreta la maggior parte della trama, rendendo la natura di tutti i personaggi della storia estremamente enigmatica.

Pur essendo inquietante e suscitando molte domande, il breve teaser dimostra chiaramente che il conflitto e il tema centrale di The Carpenter’s Son è quello tra le figure del padre e del figlio, poiché il personaggio di Cage sembra cercare di sorvegliare la famiglia, senza però comprendere il potere che attanaglia il Ragazzo.

The Brave and the Bold: James Gunn risponde alla possibilità di Chris Pratt come Batman

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James Gunn ha parlato della possibilità che Chris Pratt interpreti Batman in The Brave and The Bold come parte dell’universo DC. Dopo il debutto di Superman interpretato da David Corenswet nel 2025, altri eroi della Justice League stanno infatti per essere reinventati per la nuova serie di supereroi di Gunn, con diversi progetti in cantiere per il Capitolo 1: “Dei e Mostri”.

Uno degli eroi che verrà riproposto dalla DC Studios è dunque proprio Batman nel film The Brave and The Bold, uno dei progetti rivelati nel gennaio 2023. Con un ruolo importante come quello di Bruce Wayne in arrivo nell’universo condiviso di Gunn, molti si chiedono chi sarà il prossimo Cavaliere Oscuro sul grande schermo. Al momento non ci sono state novità riguardo al progetto, ma le varie ipotesi di casting continuano ad essere sulla bocca di tutti.

In una nuova intervista con PelucheEn ElEstuche, a Gunn è stato ora chiesto se la sua ex star di Guardiani della Galassia si sarebbe unita alla DCU nei panni di Batman . Secondo Gunn, Pratt, che interpreta Star-Lord nel Marvel Cinematic Universe, non sarà però scelto per interpretare il Cavaliere Oscuro, ma forse per un altro ruolo DC: “Come Batman? No. Come qualcos’altro? Sì“, sono le parole del regista.

Sebbene Pratt sia una delle star più importanti di Gunn dai tempi della trilogia di Guardiani della Galassia, non sorprende che non verrà preso in considerazione per interpretare Batman nella DCU. Finora non è chiaro se il ruolo dell’eroe di Gotham City sarà assegnato a una star di prima grandezza o se si cercherà qualcuno meno conosciuto. Tuttavia, non è invece una sorpresa che Gunn stia tenendo Pratt in considerazione per un personaggio diverso nella timeline DCU, data la loro lunga storia di collaborazione.

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Tutto quello che sappiamo su The Brave and the Bold

Parlando l’anno scorso dei piani dei DC Studios per The Brave and the Bold, James Gunn ha detto: “Questa è l’introduzione del Batman del DCU. È la storia di Damian Wayne, il vero figlio di Batman, di cui non conoscevamo l’esistenza per i primi otto-dieci anni della sua vita. È stato cresciuto come un piccolo assassino e assassina. È un piccolo figlio di puttana. È il mio Robin preferito“. “È basato sulla run di Grant Morrison, che è una delle mie run preferite di Batman, e la stiamo mettendo insieme proprio in questi giorni“.

Il co-CEO dei DC Studios, Peter Safran, ha aggiunto: “Ovviamente si tratta di un lungometraggio che vedrà la presenza di altri membri della ‘Bat-famiglia’ allargata, proprio perché riteniamo che siano stati lasciati fuori dalle storie di Batman al cinema per troppo tempo“. Alla sceneggiatura, oltre a Muschietti, dovrebbe esserci anche Rodo Sayagues, noto per aver firmato le sceneggiature di La casa, Man in the DarkAlien: Romulus.

Eternals: Chloé Zhao ritiene le “risorse illimitate” della Marvel “piuttosto pericolose”

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La regista premio Oscar Chloé Zhao è tornata a riflettere sul lavoro svolto per Eternals della Marvel Studios e su come un budget elevato si sia rivelato alla fine “piuttosto pericoloso”. In una nuova intervista per promuovere Hamnet (di cui è da poco stato rilasciato un primo trailer), la regista ha spiegato come il film sui supereroi l’abbia preparata per il suo ultimo film. “Eternals mi ha preparata per Hamnet perché si tratta di world-building. Prima di allora, avevo realizzato solo film ambientati nel mondo reale”.

“Ho anche imparato cosa fare e cosa non fare, cosa è realistico e cosa non lo è”, ha detto Zhao in un’intervista a Vanity Fair. Ha continuato: “Eternals aveva a disposizione una quantità illimitata di denaro e risorse. Qui invece abbiamo solo un angolo di strada che possiamo permetterci, per [sostituire] Stratford… Eternals non aveva molte limitazioni, e questo in realtà è piuttosto pericoloso. Poiché in Hamnet abbiamo solo quell’angolo di strada, improvvisamente tutto ha un significato”.

Eternals, come noto, racconta di un gruppo di eroi immortali costretti a uscire dall’ombra per unirsi contro il più antico nemico dell’umanità, i Devianti. Sebbene non sia stato ben accolto dalla critica e dai fan della Marvel, il film è riuscito a incassare 402 milioni di dollari al botteghino mondiale nel 2021, vantando un cast corale che includeva Angelina Jolie, Salma Hayek, Gemma Chan, Richard Madden, Kumail Nanjiani, Brian Tyree Henry e Barry Keoghan, tra gli altri.

Chloé Zhao tornerà a dirigere Eternals 2?

Data la tiepida accoglienza ottenuta dal film, tuttavia, al momento non sembrano esserci piani per un sequel. Lo stesso Kevin Feige, durante un’intervista rilasciata nel luglio del 2024 aveva affermato: “Non ci sono piani immediati per Eternals 2“, prima di aggiungere. “Ci sono, e penso che abbiate visto forse in un trailer che abbiamo rilasciato di recente, un riconoscimento di alcuni di quegli eventi. Alcune cose giganti sono uscite dall’oceano“. Naturalmente, ciò a cui Feige allude è la presenza della Celeste Tiamut, che attualmente emerge dall’oceano nel MCU e che viene mostrato in Captain America: New World Order.

Venezia 82: Jay Kelly di Noah Baumbach in concorso

Venezia 82: Jay Kelly di Noah Baumbach in concorso

Il regista Noah Baumbach, già autore di opere come Marriage Story e Rumore bianco, torna in concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia con il suo nuovo film, Jay Kelly. Un titolo che si annuncia come uno dei momenti più attesi del festival, capace di intrecciare introspezione e riflessione sul senso della vita attraverso il racconto del mondo del cinema.

La trama di Jay Kelly

La storia segue il celebre attore Jay Kelly e il suo devoto manager Ron in un viaggio vorticoso attraverso l’Europa, un percorso che si rivela sorprendentemente profondo. Lungo la strada entrambi si trovano a fare i conti con le scelte del passato, con i rapporti familiari e con la consapevolezza di ciò che lasceranno in eredità alle generazioni future.

Nel suo commento, Baumbach sottolinea come Jay Kelly sia un film sull’identità e sul ruolo che ciascuno recita nella propria vita: “Quando è troppo tardi per cambiare il corso della nostra esistenza? Cosa rende speciale una vita? Chi siamo davvero, come genitori, figli, amici, professionisti?”. Domande che il regista affronta con il suo sguardo intimo e universale, ponendo al centro il contrasto tra chi scegliamo di essere e chi, in fondo, siamo davvero.

Prodotto da Heyday Films (David Heyman), Pascal Pictures (Amy Pascal) e NBGG Pictures (lo stesso Baumbach), Jay Kelly ha una durata di 132 minuti ed è girato in lingua inglese. Si tratta di una coproduzione tra Stati Uniti, Regno Unito e Italia.

Il cast è ricchissimo: Adam SandlerGeorge ClooneyLaura Dern, Billy Crudup, Riley Keough, Grace Edwards, Stacy Keach, Jim Broadbent, Patrick Wilson, Eve Hewson, Greta Gerwig, Alba Rohrwacher, Josh Hamilton, Lenny Henry, Emily Mortimer, Nicôle Lecky, Thaddea Graham e Isla Fisher.

La sceneggiatura è firmata da Noah Baumbach ed Emily Mortimer. Alla fotografia troviamo Linus Sandgren, al montaggio Valerio Bonelli e Rachel Durance, alla scenografia Mark Tildesley e ai costumi Jacqueline Durran. La colonna sonora è composta da Nicholas Britell, mentre il suono è curato da Christopher Scarabosio.

Con Jay Kelly, Baumbach prosegue il suo percorso di esplorazione delle fragilità umane e dei rapporti interpersonali, portando a Venezia un’opera che promette emozione, introspezione e dialogo con il pubblico internazionale.

Venezia 82: oggi è il giorno di Bugonia di Yorgos Lanthimos

Venezia 82: oggi è il giorno di Bugonia di Yorgos Lanthimos

Tra i titoli più attesi della 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia c’è Bugonia, il nuovo film di Yorgos Lanthimos, in programma il 28 agosto. Dopo il successo internazionale di Povere Creature!, il regista greco torna con una satira visionaria che mescola humour nero, paranoia e riflessione politica.

La trama di Bugonia

La storia segue due giovani ossessionati dai complotti che rapiscono la potente amministratrice delegata di una grande azienda, convinti che sia in realtà un’aliena intenzionata a distruggere la Terra. Un intreccio surreale e disturbante che rispecchia la cifra stilistica di Lanthimos, da sempre interessato a raccontare l’assurdità dei rapporti di potere e le derive del comportamento umano.

Prodotto dallo stesso Lanthimos insieme a Element Pictures (Ed Guiney, Andrew Lowe), Fruit Tree (Emma Stone), Square Peg (Ari Aster e Lars Knudsen) e CJENM (Miky Lee, Jerry Kyoungboum Ko), Bugonia conferma la vocazione internazionale del progetto, con una durata di 120 minuti e girato in lingua inglese.

Nel cast spiccano Emma Stone, alla sua quinta collaborazione con il regista, affiancata da Jesse Plemons, Aidan Delbis, Stavros Halkias e Alicia Silverstone. La sceneggiatura è firmata da Will Tracy, la fotografia da Robbie Ryan, il montaggio da Yorgos Mavropsaridis e la scenografia da James Price. I costumi portano la firma di Jennifer Johnson, le musiche sono composte da Jerskin Fendrix e il suono è curato da Johnnie Burn.

Con Bugonia, Lanthimos sembra pronto a sorprendere ancora una volta il pubblico della Mostra, offrendo un’opera che unisce inquietudine, ironia e sguardo critico sul presente.

Venezia 82: il red carpet d’apertura accoglie La Grazia di Paolo Sorrentino

Si è aperta ufficialmente la 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia e, come da tradizione, il primo grande protagonista è stato il red carpet d’apertura. Tra flash, sorrisi e abiti da sogno, il Lido ha accolto i protagonisti di La Grazia, nuovo film di Paolo Sorrentino scelto come titolo inaugurale di questa edizione.

L’attesa per il ritorno del regista premio Oscar era palpabile. Dopo il Leone d’argento conquistato con È stata la mano di Dio, Sorrentino torna a Venezia con un’opera che promette emozione e riflessione, confermando ancora una volta il legame speciale tra il suo cinema e la Mostra.

A calcare il tappeto rosso, accanto al regista, c’era un cast di grande prestigio. Toni Servillo, attore feticcio di Sorrentino, ha attirato l’attenzione dei fotografi con la sua eleganza sobria, mentre Anna Ferzetti, Orlando Cinque, Massimo Venturiello, Milvia Marigliano, Giuseppe Gaiani, Linda Messerklinger e Vasco Mirandola hanno sfilato regalando al pubblico sorrisi e complicità. Accanto a loro, i membri della troupe, tra cui la direttrice della fotografia Daria D’Antonio, la scenografa Ludovica Ferrario e il costumista Carlo Poggioli, hanno ricordato il valore collettivo della creazione cinematografica.

Il tappeto rosso è stato illuminato anche dalla presenza della madrina del Festival, Emanuela Fanelli, che con ironia ed eleganza ha inaugurato ufficialmente l’edizione. Fanelli ha accompagnato i momenti ufficiali con la leggerezza che la contraddistingue, confermando il suo ruolo centrale nelle cerimonie di apertura e chiusura.

Atmosfera di festa, dunque, ma anche di attesa: La Grazia è un film che porta con sé grandi aspettative, non solo per la firma di Paolo Sorrentino, ma anche perché inaugura un’edizione che si annuncia ricca di titoli d’autore, star internazionali e momenti memorabili.

Il red carpet di apertura della Mostra ha dimostrato ancora una volta la capacità di Venezia di unire glamour e cultura, mondanità e riflessione, aprendo una finestra sul cinema che verrà.

Mother: recensione del film con Noomi Rapace – Venezia 82

Mother: recensione del film con Noomi Rapace – Venezia 82

Apre il concorso ufficiale di Orizzonti a Venezia 82 Mother, con Noomi Rapace nei panni di un’insolita Madre Teresa di Calcutta. Alla regia, la macedone Teona Strugar Mitevska, già autrice di un documentario sulla religiosa albanese naturalizzata indiana e fondatrice della congregazione delle Missionarie della Carità.

Calcutta, agosto 1948. Teresa, Madre Superiora del convento delle Suore di Loreto, attende con ansia la lettera che le permetterà finalmente di lasciare il monastero e fondare il suo nuovo ordine, in risposta alla chiamata ricevuta da Dio. Proprio quando tutto sembra pronto, si trova di fronte a un dilemma che mette in discussione le sue stesse ambizioni e la sua fede, in un momento cruciale della sua vita.

Una Madre Teresa inedita e complessa

L’ispirazione per questo insolito progetto è nata durante la lavorazione del documentario Madre Teresa – La storia mai raccontata, quando la regista ebbe l’occasione di intervistare le ultime quattro sorelle della congregazione che conobbero la futura santa. Da quelle testimonianze emerse una donna complessa, appassionata e determinata, molto distante dall’immagine fragile e sorridente impressa nell’immaginario collettivo. È da lì che prende forma la sua esigenza di restituirne un ritratto più umano, intriso di contraddizioni, ma proprio per questo ancora più potente e universale.

L’idea vincente di Strugar Mitevska è quella di raccontare un lato meno vissuto della storia di Madre Teresa e di rimarcarne la modernità iconografica. Fin dall’inizio, capiamo che la formula narrativa utilizzata da Mother non è strettamente biografica – gli indizi di una sorta di ageografia rock ci sono tutti – piuttosto di un cammino lungo sette giorni che tenterà di tracciare un ritratto più sui generis della religiosa.

Il ritratto in sette giorni tra fede e ambizione

La narrazione è scandita dai sette giorni che porteranno Madre Teresa verso la libertà tanto agognata, ossia il permesso garantito dal Vaticano per fondare il proprio ordine religioso. La sua vita quotidiana guarda continuamente al futuro, in ogni piccola parentesi sono ravvisabili i precetti che avrebbe poi rivendicato “ufficialmente” con l’istituzione delle Missionarie. A partire dal suo totale rifiuto di un attaccamento a spazi e oggetti, viene messo in luce l’animo erratico di Madre Teresa, che vuole stare per le strade e non confinare il suo aiuto alle mura di un convento. Non le importa che si parli del loro vagabondare per i vicoli più malandati di Calcutta, ha già le idee chiare su quelle che saranno le regole chiave del nuovo ordine da lei fondato. Quello che forse non aveva messo in conto, però, con lo sguardo troppo rivolto al domani, è che la prova più dura dovrà affrontarla proprio all’interno di quelle mura.

Noomi Rapace e la forza di un’interpretazione

Noomi Rapace è assolutamente convincente nei panni della religiosa, ha il mordente e la grinta necessari per prefigurare quello che il film non mostra e che il pubblico già sa, ovvero la vita di Madre Teresa come guida spirituale delle Missionarie della Carità. La sua performance trasuda l’aspetto più vincente di Mother ossia, come dicevamo, l’idea di un convento che stringe e confina, ben trainata anche da fotografia e regia. Non vediamo mai l’India nella sua vastità – aspetto che potrebbe essere fuorviante per il pubblico limitato a una conoscenza basilare della figura – perchè non è (ancora) quella che sta vivendo lei.

D’altra parte, il rischio è però quello di limitare troppo il quadro, non dare il tempo di assorbire veramente quello che si vuole raccontare sfruttando la formula del conto alla rovescia e tirando una figura così larger than life fuori dal macrocosmo in cui ha inequivocabilmente voluto vivere. Qui, Madre Teresa non indossa l’inconfondibile sari bianco e blu, ma abiti da monaca più convenzionale; è già in India ma rieccheggiano ancora in maniera preponderante le sue radici.

Libertà e sorellanza al centro del film

Centrale è anche la riflessione sul tema della libertà, affrontata in maniera volutamente contraddittoria. Come racconta la regista, molte delle donne che aderirono alle Missionarie della Carità scelsero la vita religiosa come forma di emancipazione da un destino imposto dalla società. È paradossale, ma dietro la rinuncia agli agi e alle convenzioni borghesi c’era spesso la ricerca di indipendenza e persino di sollievo da obblighi patriarcali. In questo senso, Mother diventa anche un film sulla sorellanza: la complicità tra Teresa, Agnieszka e padre Friedrich alimenta un gioco di forze che rimanda ai grandi dilemmi di potere, fede e identità femminile.

Alien: Pianeta Terra, la spiegazione del finale dell’episodio 4

Alien: Pianeta Terra, la spiegazione del finale dell’episodio 4

Dopo che Wendy ha ucciso uno Xenomorfo adulto nell’episodio precedente di Alien: Pianeta Terra (qui la recensione), Kirsh ha portato i cinque esemplari provenienti dalla nave spaziale Weyland-Yutani precipitata sull’isola segreta di Boy Kavalier, Neverland, dove si svolgono le ricerche di Prodigy. Kirsh ha studiato questi esemplari insieme ad altri ibridi, tra cui Ricciolo e Isaac, così recentemente ribattezzato.

Nel frattempo, cresce la tensione tra due ibridi, Piumino e Nibs, entrambi alle prese con lotte personali e dilemmi morali. Il primo è caduto sempre più nella trappola di Morrow, mettendo in pericolo la sua madre umana. Allo stesso tempo, Nibs mostra livelli spaventosi di instabilità che costringono Dame Sylvia a prendere drastiche misure protettive.

Wendy fa amicizia con un piccolo Xenomorfo per tenere Joe con sé

Uno dei motivi per cui Alien: Pianeta Terra viene definito un capolavoro di fantascienza dopo solo quattro episodi è il forte sviluppo dei personaggi alimentato da questioni filosofiche e da una solida tecnica narrativa. Ciò è evidente alla fine dell’episodio 4, quando Wendy non solo comunica con il piccolo Xenomorfo che viveva nel vecchio polmone di Joe, ma sembra anche fare amicizia con lui.

Wendy ha stretto un accordo con Boy Kavalier per capire come comunicare con uno Xenomorfo in modo che Joe potesse rimanere con lei sull’isola. Boy Kavalier ha già espresso le sue preoccupazioni sul fatto che Joe possa diventare una distrazione, ma Wendy gli promette che non sarà così e lui, sebbene riluttante, decide di tenere Joe con sé per placare Wendy, oltre che per motivi di ricerca e privacy.

C’è un momento alla fine dell’episodio 4 di Alien: Pianeta Terra che fa sembrare che il piccolo Xenomorfo pensi che Wendy possa essere sua madre, permettendole di toccarlo. Si strofina persino il muso contro la sua mano come un comune gatto domestico. Anche se non è certo che Wendy possa effettivamente controllare queste creature, sta sicuramente iniziando a comunicare con loro e scambiare informazioni, il che dovrebbe essere un’indicazione importante di dove sta andando la seconda metà della serie.

Alex Lawther e Sydney Chandler in Alien Pianeta Terra
Alex Lawther e Sydney Chandler in Alien: Pianeta Terra

Kirsh sa che Morrow sta manipolando Slightly

Kirsh non ha impiegato molto a scoprire che Piumino sta comunicando con Morrow attraverso un microfono che gli ha messo sul collo nell’episodio precedente. Uno degli obiettivi principali di Kirsh è quello di sorvegliare tutti gli ibridi, e lui è in grado di guardare le registrazioni retiniche e ascoltare le registrazioni audio del ragazzo che apparentemente parla con nessuno.

Kirsh riporta anche alla memoria il momento in cui Morrow chiede a Slightly: “Quando una macchina non è una macchina?” (leggi qui l’approfondimento a riguardo), prima di ascoltare il piano di Morrow di far entrare di nascosto una persona nel laboratorio Prodigy invece di far uscire di nascosto un uovo Xenomorfo. Piumino rivela il suo nome umano a Morrow, mettendo in pericolo sua madre umana, e la cosa lo motiva ad agire contro Wendy e gli altri ibridi.

Poiché Morrow ha minacciato la madre e i fratelli di Piumino, quest’ultimo deve ora trovare un essere umano da portare nel laboratorio e sembra che Joe sia il suo candidato principale. Sapendo tutto questo, non è chiaro se Kirsh interverrà, ma probabilmente informerà Boy Kavalier, che potrebbe semplicemente lasciare che il ragazzo porti Joe nel laboratorio per motivi di sperimentazione e così da eliminare Joe ed evitare che Wendy si distragga.

Lily Newmark in Alien Pianeta Terra
Lily Newmark in Alien: Pianeta Terra

Nibs è in isolamento dopo aver minacciato Dame Sylvia

Nibs, invece, è stata la più isolata degli ibridi dopo essere stata attaccata dall’alieno “bulbo oculare” nell’episodio 2 (qui la spiegazione del finale). La sua crisi esistenziale ha cominciato a peggiorare nell’episodio 3 fino a raggiungere un punto di rottura psicologica nell’episodio 4, convincendosi di essere sia umana che incinta nonostante la realtà del suo status di ibrido.

Nibs è la prima vera dissidente degli ibridi che dimostra la sua forza contro i suoi creatori. Dopo aver minacciato fisicamente Dame Sylvia, la figura materna per tutti gli ibridi, Nibs viene rinchiusa nella sua stanza e considerata una minaccia di livello 3. Non è chiaro se l’instabilità della ragazza sia il risultato della sua coscienza umana o di qualche tipo di errore computazionale, ma il protocollo “Livello 3” suggerisce che Prodigy abbia un piano per contenere gli ibridi incontrollabili.

La situazione di Nibs probabilmente non migliorerà nella seconda metà di Alien: Pianeta Terra, e lei potrebbe essere proprio il primo ibrido che dovrà essere “eliminato” a causa della minaccia che rappresenta per Prodigy. Inoltre, non sarà qualcuno, o qualcosa, che Prodigy potrà pubblicizzare una volta rivelata Wendy al mondo, quindi è probabile che i giorni di Nibs siano purtroppo contati.

Samuel Blenkin in Alien Pianeta Terra
Samuel Blenkin in Alien: Pianeta Terra

Cosa aspettarsi nell’episodio 5 di Alien: Pianeta Terra 

Wendy continua a ricevere un trattamento speciale da Boy Kavalier, soprattutto ora che è in grado di comunicare con gli Xenomorfi. Questo probabilmente continuerà a infastidire Ricciolo, che è chiaramente gelosa di Wendy e potrebbe decidere di attaccarla in qualche modo. Se Piumino chiederà aiuto a Ricciolo per far entrare Joe nel laboratorio Prodigy, come richiesto da Morrow, la ragazza potrebbe essere incentivata a farlo per il semplice fatto che questo ferirebbe profondamente Wendy.

Dame Sylvia, invece, probabilmente cercherà di aiutare Nibs a regolarizzarsi, ma dovrà tenerla confinata e isolata perché non ci si può più fidare di lei. Una volta che Boy Kavalier lo scoprirà, potrebbe essere molto più veloce di Dame Sylvia nel premere il pulsante di arresto su Nibs. Se la notizia su di lei venisse divulgata, la sua invenzione ibrida da trilioni di dollari sarebbe compromessa e Wendy sarebbe temuta, non celebrata.

L’aspetto più intrigante dell’episodio 5 sarà però Wendy che decifra il linguaggio degli Xenomorfi, il che dovrebbe rispondere alla domanda scottante: “Cosa hanno da dire?” e, cosa ancora più importante, “Cosa vogliono?”. Gli Xenomorfi potrebbero essere umanizzati, come mai prima d’ora nella serie Alien. Inoltre, Yutani dovrebbe iniziare a fare pressione per riavere i suoi esemplari da Prodigy, il che potrebbe creare ogni sorta di combattimento e carneficina nei futuri episodi di Alien: Pianeta Terra.

LEGGI ANCHE: Alien: Pianeta Terra, dove si colloca nella timeline della saga

I Play Rocky: Anthony Ippolito interpreterà il giovane Sylvester Stallone

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Anthony Ippolito è stato scelto come protagonista del film I Play Rocky, diretto da Peter Farrelly (Green Book) per Amazon MGM Studios e che arriverà prossimamente nelle sale cinematografiche da una sceneggiatura di Peter Gamble. Come riportato dal The Hollywood Reporter, Ippolito interpreterà proprio il giovane Sylvester Stallone nel film che racconta la vita dell’attore prima che diventasse una mega star. La sua convinzione incrollabile era che non era solo destinato a scrivere Rocky, ma era destinato a essere Rocky Balboa.

Ippolito è noto soprattutto per aver interpretato un altro grande attore in un progetto “making of”, ovvero Al Pacino nella serie limitata della Paramount+ The Offer. È poi apparso anche nel film di successo della Netflix Purple Hearts. The Hollywood Reporter ha inoltre rivelato informazioni incoraggianti sul processo che ha portato Anthony Ippolito a ottenere il ruolo di Stallone. “Dopo aver sentito parlare per la prima volta del progetto”, riporta la pubblicazione, “ha realizzato un video di audizione non richiesto e lo ha inviato direttamente ai produttori”.

Questo approccio è degno di nota perché riecheggia il modo in cui è nata la migliore serie di film di Stallone. Con l’attore che perseguiva il suo sogno di realizzare Rocky con instancabile determinazione, l’approccio di Ippolito suggerisce che il giovane attore ha una grinta e una mentalità perfettamente adatte alle esigenze della storia. Non resta a questo punto che attendere di poterlo vedere assumere i panni dell’icona del cinema per I Play Rock.

Di cosa parlerà I Play Rock

I Play Rocky racconterà di come Stallone concepisce il film Rocky e, pur dopo aver ricevuto numerosi “no”, scommette tutto su se stesso, rimanendo irremovibile nel suo voler interpretare il ruolo principale. Il risultato è la storia di rivalsa di un outsider (Stallone) grazie ad un film sull’outsider per eccellenza (Rocky). Uscito nel 1976, il film ha poi vinto l’Oscar come Miglior film e Stallone è stato invece nominato per il premio come miglior attore e miglior sceneggiatura originale.

La sua interpretazione e la sua visione creativa hanno trasformato Rocky in un punto di riferimento culturale e lo hanno consacrato come una leggenda di Hollywood. Distribuita dalla United Artists e successivamente dalla MGM, Rocky è poi divenuta una delle serie di film sportivi più iconiche e di maggior successo finanziario di tutti i tempi, con cinque film ed un incasso globale di oltre 1,7 miliardi di dollari, compresi i tre spin-off di Creed.

Dual – Il clone: la spiegazione del finale del film

Dual – Il clone: la spiegazione del finale del film

Diretto da Railey Stearns, Dual – Il clone fu un film di fantascienza con un mondo tutto suo. In esso, gli individui non esprimevano le proprie emozioni e i personaggi comunicavano principalmente con un’espressione impassibile. Ogni parola pronunciata era affermata come un dato di fatto. In un mondo che si era quindi evoluto per sostituire gli individui, l’umorismo nero giocava un ruolo centrale. Seguimmo così il viaggio di Sarah (Karen Gillan), che soffriva di una malattia terminale e decise di dar vita a una sua sostituta. La clonazione era una pratica comune in quel mondo e Sarah ricorse proprio ad essa prima di morire. L’unico problema fu che Sarah poi continuò a vivere.

La trama di Dual – Il clone

Dual – Il clone introdusse il concetto di duello all’inizio. Assistemmo a due uomini che lottavano per la vita su un campo mentre il pubblico li guardava con entusiasmo. Dopo aver pugnalato il suo avversario, l’altro emerse come vincitore. Scoprimmo poi che il sopravvissuto era il clone dell’uomo che aveva ucciso. Il conduttore annunciò che non sarebbe più stato un doppio, ma piuttosto l’originale Robert Michael da quel momento in poi. Presto incontrammo Sarah, una donna che non era particolarmente soddisfatta della sua vita. Temeva di confrontarsi con sua madre e per lo più evitava le sue telefonate.

Aveva un fidanzato, Peter, che in quel periodo lavorava a un progetto e viveva lontano. Le videochiamate tra Peter e Sarah divennero sempre più brevi con il passare del tempo. Una mattina Sarah si svegliò con il letto macchiato di sangue. Si rese conto di aver vomitato sangue nel sonno. Dopo aver fatto la doccia, andò dal medico e dopo una serie di analisi scoprì di avere una malattia terminale. Il medico consigliò allora a Sarah di organizzare il suo funerale e anche di valutare la possibilità di trovare un sostituto. Sarah guardò così dei video su come i sosia aiutassero le famiglie dei defunti ad affrontare il dolore della perdita dei loro cari.

Karen Gillan in Dual - Il clone
Karen Gillan in Dual – Il clone

Sarah credette che una sostituzione fosse l’ultima cosa buona che potesse fare per la sua famiglia e il suo amato. Accettò quindi di sottoporsi al processo. In pochi minuti, la sua clone fu davanti a lei. Il tecnico le fece notare che aveva gli occhi blu a causa di un errore di codifica, anche se Sarah ritenne che gli occhi blu la rendessero interessante. Sarah presentò poi alla sua doppia tutte le cose che le piacevano e che odiava. La nuova lei fu curiosa di sapere tutto della sua vita e, allo stesso tempo, pensò a come inserirsi perfettamente in essa.

Mentre guardava la sua vita essere presa in mano dal suo clone, Sarah ricevette però una chiamata dal suo medico, il quale le disse che inaspettatamente aveva superato la sua malattia e che era completamente guarita. Anche se quella notizia la rese felice, seppe di avere ora un grosso problema da affrontare. Solo una Sarah poteva restare in circolazione, quindi o l’originale o la clone doveva essere eliminata. Quando rivelò la sua situazione ed espresse il suo interesse a eliminare la sosia, sua madre e Peter ne parvero feriti. Peter spiegò che ormai era innamorato della sosia e non di lei.

Anche se assomigliava a Sarah, la sosia si impegnò a rendere felice Peter facendo tutto ciò che lui amava. Sarah fu allora combattuta nel rendersi conto che le persone per cui si era iscritta al programma di sostituzione l’avevano sostituita prima ancora che potesse morire. Era stata dimenticata, e questo la rese ancor più disperata nel voler rimuovere il clone dalla sua vita e riprendersi tutto ciò che le spettava di diritto. L’avvocato la informò a questo punto della necessità del duello. Se il doppio desiderava rimanere, lui e l’originale dovevano combattere per stabilire chi avrebbe potuto vivere.

Karen Gillan e Aaron Paul in Dual - Il clone
Karen Gillan e Aaron Paul in Dual – Il clone

Sarah contattò allora un allenatore economico, Trent, il quale la rese determinata a vincere la sfida e le fece guardare video cruenti per aiutarla a superare la sua paura del sangue. Sarah lavorò duramente per mantenere il suo corpo in forma e si addestrò con tutti gli strumenti che sarebbero stati forniti durante il duello. Alla fine, la Sarah originale fu pronta. Purtroppo, subì una battuta d’arresto quando il duello fu rinviato di un mese. Una mattina, mentre continuava ad allenarsi con Trent, notò la sua doppia che la osservava dall’altra parte della strada. Le scagliò una freccia, che non la ferì ma la spaventò. Sarah poi seguì la sua doppia mentre questa scappava.

La trovò nascosta nel parco giochi e le disse che non avrebbe cercato di farle del male. Le due si sedettero insieme e finalmente si confrontarono. Sarah sentì che la doppia le aveva fatto un torto portandole via tutto ciò che costituiva la sua vita. La doppia riconobbe l’odio di Sarah e ritenne che fosse giustificato. La doppia si lamentò di Peter e di sua madre, e di come le stessero gradualmente dando sui nervi. Chiese quindi a Sarah di accompagnarla in un posto: un gruppo di sostegno per duellanti. Sarah ascoltò i racconti di coloro che avevano continuato a vivere dopo il duello, di come stessero soffrendo e di come la vita non fosse così facile come avevano immaginato.

Sarah capì però che la sua doppia stava cercando di dissuaderla dall’ucciderla. Invece di biasimarla per la situazione in cui si trovava, il clone incolpò la società e le sue pratiche. Il duello era semplicemente uno spettacolo per coloro che guardavano mentre due persone lottavano per la sopravvivenza. Questo commosse Sarah. Cominciò a credere che il clone fosse empatico e pensasse a uno schema più ampio delle cose. Entrambe decisero quindi di fuggire dal paese il giorno del duello. Tuttavia, durante la fuga, il clone ingannò Sarah e le diede da bere dell’acqua avvelenata, uccidendola. Durante il finale di Dual – Il clone, la sosia si cambiò poi indossando gli abiti di Sarah e arrivò al luogo del duello zoppicando.

Karen Gillan nel film Dual - Il clone
Karen Gillan nel film Dual – Il clone

Cosa accade nel finale del film

La clone afferma a questo punto di essere la vera Sarah e che la sosia era stata eliminata. La madre e Peter testimoniarono poi a favore della sosia, confermando che era lei la vera Sarah. Il loro piano era sempre stato quello di porre fine alla vita dell’originale, soprattutto dopo che lei aveva incontrato Peter e aveva parlato con sicurezza di come avrebbe sicuramente ucciso il clone. Sapevano che Sarah aveva imparato diverse tecniche di combattimento, quindi usarono l’intelligenza per vincere. Anche se il veleno fu una morte lenta, fu la più facile da nascondere.

Sebbene il clone lottasse per la sua vita, seppe di essere ormai intrappolata in una vita che non aveva mai scelto. In assenza dell’originale, non aveva alcuna battaglia da vincere, ma semplicemente esisteva nel mondo di Sarah che la sopraffaceva in larga misura. Anche se sviluppò un gusto diverso per accontentare le persone nella sua vita, faticò a renderle felici. Proprio come Sarah, ora non riceveva più le telefonate di sua madre e si irritava per le piccole cose che Peter faceva o diceva. Alla fine, fermò la sua auto in mezzo alla strada e pianse a dirotto. Capì di aver combattuto una battaglia inutile.

Distrusse una persona per una vita che neanche le piaceva. L’insensatezza dell’intera situazione fu forse ciò che spinse il clone a fermare l’auto in mezzo alla strada, a significare il caos di cui ora doveva far parte. L’auto era l’unico spazio in cui sia Sarah che la sua doppia potevano esprimere le proprie emozioni. Il mondo intorno a loro non si era mai strappato, quindi fu solo quando erano sole e rinchiuse in uno spazio inaccessibile a chiunque altro che poterono essere sincere con se stesse.

Cosa ci lascia il film Dual – Il clone

Dual – Il clone ci lascia dunque una riflessione amara e inquietante sull’identità, sul valore dell’esistenza e sul desiderio di essere insostituibili agli occhi di chi amiamo. Attraverso il duello tra originale e copia, il film mette in discussione cosa significhi davvero vivere: è il semplice atto di esistere o la capacità di essere riconosciuti come unici? Sarah e la sua doppia mostrano come l’amore e l’accettazione possano trasformarsi in terreno di conflitto. Alla fine, la storia ci invita a interrogarci sulla fragilità delle relazioni e sull’illusione di poter essere davvero irripetibili.

Paradise Beach – Dentro l’incubo: la storia vera dietro il film

Paradise Beach – Dentro l’incubo: la storia vera dietro il film

Uscito nel 2016 e diretto da Jaume Collet-Serra (regista di Orphan L’uomo sul treno), Paradise Beach – Dentro l’incubo (qui la recensione) si inserisce nel filone del survival thriller con protagonista uno squalo assassino, un sottogenere che da decenni esercita un fascino particolare sul pubblico. Il film mescola così tensione claustrofobica e spettacolarità, costruendo una narrazione che si concentra soprattutto sulla lotta istintiva per la sopravvivenza e sulla capacità di resistenza fisica e mentale della protagonista, interpretata da Blake Lively.

L’opera si distingue inoltre per il suo approccio minimalista: pochi personaggi, una sola location principale e un pericolo costante e tangibile che mantiene viva la tensione dall’inizio alla fine. Non solo un survival movie, dunque, ma anche uno di quei film pressoché interamente ambientati in un unico ambiente (sebbene in questo caso all’aria aperta). Temi come la paura della natura incontrollabile, il coraggio di affrontare i propri limiti e la solitudine diventano quindi i cardini di un racconto che trova nello scontro tra uomo e predatore marino la sua massima espressione.

In questo senso, il film richiama alla memoria il classico Lo squalo di Steven Spielberg, ma anche pellicole più recenti come Open Water o 47 Metri. Se da un lato il film si muove all’interno di un genere già ben consolidato, dall’altro riesce a proporre un’esperienza intensa e avvincente, che unisce spettacolarità e tensione psicologica. Nel resto dell’articolo ci concentreremo però proprio su un particolare interrogativo che spesso accompagna film di questo tipo: Paradise Beach – Dentro l’incubo è ispirato a una storia vera o si tratta di pura finzione cinematografica?

Paradise Beach - Dentro L'Incubo

La trama di Paradise Beach – Dentro l’incubo

Il film racconta di Nancy Adams, una studentessa di medicina che cerca disperatamente di superare il lutto per la prematura morte di sua madre. Dopo aver ritrovato vecchie foto della donna, che la ritraggono intenta a fare surf sulle onde dell’idilliaca Paradise Beach, Nancy decide di partire alla volta dell’isolata spiaggia che raggiunge grazie all’aiuto di Carlos. Indossata la muta, Nancy si immerge così nelle acque cristalline del mare. Sebbene stia per calare la notte la ragazza, stizzita per una stressante conversazione telefonica con il padre, decide di rimanere ancora nell’acqua per sciogliere i nervi.

Improvvisamente, Nancy si imbatte nella carcassa di una megattera orribilmente squartata e percepisce nell’acqua la presenza di uno squalo bianco. Cercando di ripararsi sul corpo del cetaceo morente, la giovane studia un piano per allontanarsi dalle fauci del sanguinario animale e trova riparo su un gruppo di scogli. Sfortunatamente l’attacco dello squalo è andato a segno e Nancy si trova completamente sola, con una gamba gravemente ferita che dovrà ricucire come possibile per non morire dissanguata. Consapevole che prima che i soccorsi arrivino potrebbe essere troppo tardi, la ragazza dovrà trovare da sé un modo per salvarsi.

Blake Lively in Paradise Beach - Dentro l'incubo

Il film è tratto da una storia vera?

Partiamo con il dire che no, Paradise Beach – Dentro l’incubo non è tratto da una storia vera. Nasce come opera di pura finzione che si inserisce nel filone del survival thriller con protagonista uno squalo. A differenza di film come Soul Surfer (2011), ispirato alla vera vicenda della surfista Bethany Hamilton, qui la protagonista Nancy e le sue peripezie sono il frutto dell’immaginazione degli sceneggiatori. Nonostante ciò, il film riesce a trasmettere una sensazione di realismo grazie alla messa in scena essenziale e alla performance di Lively, capace di reggere quasi interamente il racconto da sola. La forza della sua interpretazione ha permesso al pubblico di immergersi in una vicenda che, pur essendo lontana da fatti reali, mantiene un forte impatto emotivo.

L’idea alla base della sceneggiatura nasce però dunque da Anthony Jaswinski, che in un’intervista ha raccontato come la fonte d’ispirazione non sia stata una vicenda di cronaca, bensì un mix di suggestioni. Dopo aver guardato lo speciale Shark Week, si rese conto che nel cinema e in TV gli squali avevano perso la loro aura di minaccia, diventando talvolta creature caricaturali come in Sharknado. A quel punto, decise di riportare la paura su un piano più realistico e claustrofobico, immaginando una storia semplice ma densa di tensione: una donna bloccata su una roccia, la terraferma visibile ma irraggiungibile, con uno squalo che la tiene in trappola.

A influenzare ulteriormente il progetto fu anche la visione di Duel (1971), sempre di Steven Spielberg, che mostrava come un antagonista apparentemente semplice potesse generare terrore costante. Jaswinski pensò di applicare la stessa dinamica alla figura dello squalo, costruendolo non solo come un predatore, ma come un “vecchio guerriero” temprato dalle battaglie, impegnato in un duello all’ultimo respiro con la protagonista. Da questa miscela di suggestioni cinematografiche e televisive nacque così la trama di Paradise Beach – Dentro l’incubo, confermando che non si tratta di un racconto tratto da fatti reali, ma di un thriller pensato per restituire al pubblico il brivido della lotta per la sopravvivenza.

Everest: la spiegazione del finale del film

Everest: la spiegazione del finale del film

Il finale di Everest (qui la recensione) vede gli scalatori sopravvissuti ricongiungersi in lacrime con i propri cari all’aeroporto della Nuova Zelanda, mentre Beck si ricongiunge con sua moglie Peach. Basato sul reale disastro del 1996 sul Monte Everest, Everest si apre con Rob Hall, una guida della Adventure Consultants, che si prepara a scalare il Monte Everest mentre sua moglie Jan, incinta, rimane a casa, con Rob che promette di essere presente per la nascita del loro primo figlio. Rob è accompagnato dai clienti Doug Hansen, Yasuko Namba, la seconda donna giapponese a scalare le Sette Cime, Jon Krakauer, scrittore della rivista Outside, e Beck Weathers. Insieme ai clienti di Rob c’è anche Scott Fischer, un’altra guida alpina.

Nonostante il successo nella scalata, il gruppo viene colpito da un’improvvisa tempesta durante la discesa dall’Everest, che blocca gli scalatori su tutta la montagna e rende quasi impossibili i tentativi di soccorso a causa delle condizioni meteorologiche. Rob, Doug, Yasuko, Scott, Andy e altri tre perdono la vita sulla montagna a causa di una combinazione di fattori, tra cui l’ipossia e il congelamento. Prima di morire sulla montagna, Rob e Jan decidono di chiamare la loro figlia Sarah. Beck riesce poi a tornare al campo gravemente congelato e alla fine viene trasportato in elicottero, ricongiungendosi in seguito con la moglie e i figli in Texas.

Il salvataggio di Beck Weathers sull’Everest (e cosa gli è successo dopo)

Il salvataggio di Beck Weathers (Josh Brolin) è stato uno dei momenti più audaci di Everest. Dopo essere stato abbandonato dagli altri alpinisti, Beck è riuscito a svegliarsi e a raggiungere il campo, dove è stato scoperto dagli alpinisti che erano con la troupe della IMAX. Con l’aiuto di sua moglie Peach (Robin Wright), viene organizzato un salvataggio in elicottero tramite l’ambasciata americana. Questo salvataggio era anche un azzardo, dato che l’aria era troppo rarefatta per consentire all’elicottero di raggiungere il campo o di ripartire in sicurezza. Ma grazie a un pilota esperto dell’esercito nepalese, il tenente colonnello Madan (Vijay Lama), Beck viene portato via dall’Everest e trasportato in ospedale senza problemi.

Essendo uno degli alpinisti più esperti, Beck aveva scalato quasi ovunque, il che gli dava un senso di appartenenza e di avventura. Purtroppo, questo ha avuto un forte impatto sulla sua vita personale, poiché spesso trascurava la sua famiglia a favore dell’alpinismo. Secondo l’epilogo alla fine di Everest, Beck Weathers alla fine ha perso il naso e entrambe le mani a causa del grave congelamento subito durante la tempesta. Al suo ritorno a casa, è anche riuscito a fare ammenda con sua moglie Peach, dato che in precedenza aveva dimenticato il loro anniversario di matrimonio.

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Everest film

Perché il gruppo ha abbandonato Beck e Yasuko?

Beck Weathers ha iniziato ad avere problemi alla vista a causa dei raggi UV e dell’alta quota, dovuti a un recente intervento di cheratotomia radiale, mentre Yasuko ha iniziato a soffrire di ipotermia durante la discesa dall’Everest. Ritenendo che sia Yasuko che Beck fossero ormai irrecuperabili e non sarebbero riusciti a scendere dalla montagna a causa dell’intensa bufera di neve, entrambi furono lasciati indietro. Beck alla fine perse conoscenza mentre Yasuko morì durante la notte. Come accennato in precedenza, Beck fu infine soccorso grazie all’aiuto del team IMAX e fece una straordinaria guarigione. Il corpo di Yasuko fu poi portato giù dalla montagna nel 1997.

Le allucinazioni di Andy sull’Everest e come hanno causato la sua morte

Dopo essere stato inviato dal campo base per consegnare ossigeno di riserva, la guida Andy Harris inizia ad avere un’emergenza medica dopo aver localizzato Rob. Con Doug caduto e morto e Rob bloccato in alto sull’Everest, Andy Harris si rannicchia con lui per aspettare che passi la tempesta. Mentre Rob dorme, Andy inizia ad avere allucinazioni e alla fine si spoglia dei suoi strati esterni, scivolando giù dall’Everest verso la morte.

Come spiegato da Caroline all’inizio del film, uno dei sintomi principali dell’ipotermia o dell’ipossia sono le allucinazioni e lo spogliarsi dei vestiti a causa dell’errata interpretazione da parte del cervello del freddo estremo come sensazione di calore, una condizione nota come spogliarsi paradossale. Si tratta di una condizione che è stata osservata in numerosi casi di ipotermia e ipossia e che generalmente indica che una persona si trova nelle fasi finali prima della morte. Essere rimasto bloccato sulla montagna per troppo tempo senza ossigeno supplementare gli ha causato allucinazioni e lo ha portato a togliersi gli strati esterni, anche se probabilmente era congelato.

Poiché non si sa cosa sia successo realmente ad Andy Harris, i realizzatori del film hanno dovuto prendersi alcune libertà artistiche nel descrivere la sua morte. La maggior parte delle persone concorda sul fatto che Andy sia tornato sulla vetta per aiutare gli alpinisti in difficoltà, poiché in seguito è stata ritrovata parte della sua attrezzatura da arrampicata. Il corpo di Andy non è mai stato recuperato e nessuno lo ha visto morire, quindi la sua morte è stata qualcosa che il film ha dovuto inventare. Everest mostra che Andy era salito sulla vetta sud per soccorrere Rob e Doug, probabilmente senza rendersi conto che in quel momento anche lui stava lottando contro l’ipotermia.

Everest cast

L’inesperienza è stata la causa delle morti sull’Everest

Otto persone sono morte nel disastro dell’Everest e la maggior parte degli alpinisti non aveva abbastanza esperienza per scalare la montagna. Poiché la maggior parte delle morti sull’Everest sono causate da problemi di salute o da malfunzionamenti dell’attrezzatura, gli alpinisti vivono davvero secondo la regola della “sopravvivenza del più forte”. Come afferma Rob Hall all’inizio del film, “gli esseri umani semplicemente non sono fatti per funzionare all’altitudine di crociera di un 747”. Il Monte Everest non è uno scherzo per gli alpinisti: è una delle montagne più pericolose al mondo e registra da 5 a 6 morti all’anno.

Con gli scalatori bloccati su tutto l’Everest senza alcun mezzo per scendere, le guide erano oberate dal compito di mantenere in vita i loro clienti a tutti i costi. C’era anche la competizione per arrivare in cima il più velocemente possibile e il numero di scalatori inesperti desiderosi di raggiungere la vetta significava che le pratiche più sicure venivano messe da parte a favore della rapidità. Probabilmente gli scalatori inesperti non avevano familiarità con la loro attrezzatura, che avrebbe potuto aiutarli durante la discesa se non ci fosse stata una bufera di neve. Come descritto nel film, alcuni dei clienti sull’Everest avevano poca o nessuna esperienza di alpinismo. È una ricetta per il disastro.

Il vero significato del finale di Everest

Il vero significato del finale di Everest è che, sebbene possa essere divertente correre dei rischi e fare qualcosa di avventuroso, scalare l’Everest è una sfida fisica, emotiva e mentale. Essendo la montagna più alta del mondo, l’Everest è essenzialmente una condanna a morte se il tempo decide di peggiorare o se uno scalatore non è abbastanza esperto da comprendere i rischi che comporta. Gli scalatori hanno affrontato molte difficoltà durante la scalata dell’Everest e hanno rischiato la propria vita per aiutarsi a vicenda a scendere in sicurezza, ma alla fine non è stato sufficiente.

Il fatto che l’ultima scena del film sia quella del corpo di Rob congelato nella neve mostra la realtà di quanto l’Everest possa essere ingannevolmente pericoloso nonostante il suo aspetto tranquillo. Questo è accentuato quando Helen torna in Nuova Zelanda e incontra Jan, che ora è vedova. Ciò conferisce al film un’attenzione solenne alla realtà della scalata dell’Everest invece che a un finale felice e glamour. Secondo EW, il regista di Everest, Baltasar Kormákur, voleva mostrare la vera esperienza cruda del disastro del 1996 invece di renderlo un film eroico glorificato. Questo è stato fatto anche per onorare i sopravvissuti nella vita reale e le loro famiglie.

La Grazia: recensione del film di Paolo Sorrentino – Venezia 82

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La Grazia: recensione del film di Paolo Sorrentino – Venezia 82

Cos’è la grazia? Terrence Malick in The Tree of Life la intendeva come una condizione spirituale che si contrapponeva alla legge dura dell’uomo, i giuristi invece parlano di “grazia” in caso di “un atto di clemenza individuale concesso dal Presidente della Repubblica”, per Paolo Sorrentino, potrebbe essere una via di mezzo tra uno stato di leggerezza e compiutezza emotiva e la capacità altrui di mettere fine alla sofferenza di un altro. La Grazia è l’ultimo film di Paolo Sorrentino che apre Venezia 82 e ne inaugura anche il Concorso.

Con Toni Servillo a servire ancora una volta da protagonista, il regista napoletano trova una rotondità di racconto e di esposizione di pensiero per immagini che aveva smarrito con il suo recente Parthenope, tornando finalmente a fuoco sulla rappresentazione di un’età particolare, in cui la passione per la vita si spegne, mentre la vita continua.

Cosa racconta La Grazia?

Toni Servillo in La grazia (2025)
Foto di Andrea Pirrello

La storia è quello di Mariano De Santis, irreprensibile e stimato giurista, divenuto Presidente della Repubblica Italiana. Il film lo accompagna negli ultimi sei mesi del suo mandato, mentre fa i conti da una parte con un dubbio che lo attanaglia da 40 anni e che riguarda la defunta e amatissima moglie Aurora, e con sua figlia, anche lei giurista e sua collaboratrice, che cerca di scuoterlo dal suo torpore, e dall’altra con la firma di una legge in favore dell’eutanasia e con una decisione da prendere in merito a due richieste di Grazia.

Paolo Sorrentino parte con cautela, proprio come il suo protagonista, per poi spingere a fondo: nella prima parte scalda i motori e olia gli ingranaggi, basandosi su una scrittura molto presente, formale, didascalica, a tratti invadente, che influisce anche sulla recitazione quasi salmodiante dei suoi attori. Questa esigenza di porre i pezzi sulla scacchiera appesantisce il ritmo del film che però nella seconda parte si scioglie, si apre a un Sorrentino molto autentico e schietto, profondamente emotivo, quando il suo protagonista si mette sulle tracce di una leggerezza perduta (forse mai posseduta per davvero).

Non c’è spazio per il mistero

Anna Ferzetti in La grazia (2025)
Foto di Andrea Pirrello

La riflessione nel film si concentra sulla ricerca della verità quando i punti di vista sono diversi e tutti con una loro ragione. Nella scrittura e nell’esposizione, il film abbraccia la complessità della sua premessa, avventurandosi solo nel finale liberatorio alla lusinga di una risoluzione. Il mistero, l’insoluto non trovano spazio nel film e forse questo sguardo così nitido lo ha reso un po’ meno affascinante, ma va bene così, il Sorrentino a fuoco, legato alla narrazione, con il suo sguardo privilegiato sulle persone e sui luoghi, l’eleganza della messa in scena e la bellezza nitida e splendente delle sue immagini, è quello che preferiamo.

Il film di Sorrentino è una commedia piena di momenti esilaranti, di interpretazioni deliziose (su tutte la splendida Cocò di Milvia Marigliano, ma anche Anna Ferzetti al suo migliore ruolo in carriera), di freddure e di momenti che stemperano la tragicità della vita con cruda verità e grande acume.

L’acquisizione di senso nella perdita di gravità

Ma La Grazia è anche un dramma senile, che si crogiola nella densità delle sue parole, offrendo una riflessione attenta sull’acquisizione di senso nella perdita di gravità, sia letterale che figurata, una corsa verso il raggiungimento della leggerezza. È questa “la grazia” del titolo? Una condizione di leggerezza che Mariano acquisisce nonostante la sua natura radicata alla ricerca della verità, così fondamentale eppure così complicata da ottenere. Oppure è la capacità di sollevare qualcuno da uno stato di sofferenza e attesa? Lo strumento del Presidente della Repubblica per porre fine al periodo di detenzione o il potere di “staccare la spina” a chi vive una vita che più vita non è?

Il regista sceglie di dare una risposta precisa nella splendida inquadratura conclusiva, in cui un Mariano De Santis ritrova se stesso e il senso delle cose, una nuova consapevolezza di sé e della percezione del suo corpo in uno spazio vuoto eppure pieno di possibilità.