È lo sguardo sperso,
assente, di
Laure Calamy ad accoglierci negli spogliatoi
di una fabbrica come tante nel prologo di Un vizio di
famiglia (L’origine du mal), dramma familiare dalle tinte
thriller che Sébastien Marnier aveva presentato a
Venezia 79. Il suo terzo film – dopo
Irréprochable (2016) e L’ultima
ora (2018) – è nei cinema dal 4 gennaio, distribuito
da I Wonder Pictures e Unipol Biografilm Collection, chiamato
a scontrarsi con i carri armati in testa al Box Office e con un
paio di titoli interessanti per vari motivi come
Godland e
Close. Ma attenzione a sottovalutarlo, o a
escluderlo dalle vostre scelte, sarebbe un peccato.
Nato come “fiaba”, almeno
nelle intenzioni del regista, che voleva parlare “della fine del
patriarcato” e ha affidato a un cast di quasi sole donne la
storia, il racconto è ben lungi dall’essere una commedia dark, come
spesso si ama sintetizzare un film che racconti di intrighi con una
certa dose di thriller, ma senza affidarsi al cruento.
Un vizio di famiglia: Chi è Stéphane? Chi è suo
padre?
Nel presentarlo, sono in
molti a sottolineare i colpi di scena, o ‘de théâtre’, che portano
avanti la vicenda di Stéphane, la protagonista interpretata
dall’attrice di
Call my Agent, già premiata alla Mostra
del Cinema di Venezia 2022 come Miglior attrice per Full
Time – Al cento per cento. Forse troppi, in alcuni
casi non del tutto necessari a portare avanti la narrazione molto
strutturata che si sviluppa nella lussuosa villa della famiglia
Dumontet nel “posto più bello del mondo”, l’isola di Porquerolles,
al largo della costa mediterranea della Francia, tra Tolone e Saint
Tropez.
Qui vive suo padre Serge,
con la moglie sillogomane Louise, la figlia George, impegnata a
risollevare l’impero economico di famiglia, la nipote ribelle
Jeanne e la ambigua e scostante cameriera Agnès (nell’ordine,
Jacques Weber, Dominique Blanc, Dora Tillier
di La Belle Époque, Céleste Brunnquell e Véronique
Ruggia Saura). Un gineceo, in apparenza, dietro la cui facciata
crescono odio e vendetta, un contesto di bugie nel quale Stéphane
sembra volersi inserire, o dal quale farsi accettare. A ogni
costo.
Non c’è famiglia senza
vizi. Chi è senza peccato…
L’origine del male del
titolo originale, stando a quanto dichiarato dal regista, dovrebbe
essere il burbero, maschilista, prevaricatore e male in arnese
padre ritrovato, unica figura maschile ed eterosessuale del novero,
eppure a ordire i piani migliori – o peggiori – è la cosiddetta
altra metà del cielo, anche in barba al supposto e tanto decantato
spirito di solidarietà femminile. Le donne sono le protagoniste
assolute della pièce, tanto più considerando la musa di Xavier
Dolan, Suzanne Clément, che come compagna di Stéphane
vediamo attendere gli eventi dal carcere in cui è rinchiusa.
Il bello del cinema è che
ciascuno può avere una sua idea di quel che vede, anche sbagliata
(in genere, sbagliata), anche in disaccordo con quel che sostiene
l’autore. Che in questo caso ci presenta un altro personaggio –
dopo i film precedenti – dai processi mentali poco chiari, dalla
socialità contorta e che mette in pratica decisioni discutibili.
Come quelle che scopriamo via via o che creano l’intreccio di un
film che potrebbe piacere ai fan di Agatha Christie come di
Claude Chabrol.
E che ha poco a che fare
con l’amore, nonostante siano citati tanti e diversi tipi di
relazioni e rapporti, ma a molto a che fare con il bisogno e
l’affermazione di sé. Non solo femminile, ovviamente. E’ un
continuo gioco di ruolo, e di sguardi, da quello iniziale della
Calamy a quello sarcastico e disincantato del padre, a quello
sospettoso o superiore o quasi fanciullesco delle altre figure di
una famiglia che definire disfunzionale sarebbe riduttivo. E che in
parte viene dalla stessa esperienza personale di Marnier, che non a
caso fa dire al suo alter-ego (la giovane aliena) che
“Non c’è niente di peggio della famiglia“.
Una matassa intricata
Nonostante le tante
svolte e rivelazioni, il percorso di Un vizio di
famiglia scorre lineare, anche per una caratterizzazione
piuttosto netta dei personaggi coinvolti, meno complessi del
previsto, eppure perfettamente adeguati e funzionali nel loro
affrontare l’invasione di Stéphane, un raggio di sole che minaccia
di bruciare quanto seminato da ciascuno, secondo le proprie
priorità. Alla fine – stante la prova magnifica della Calamy (e la
Blanc “della Comédie-Française”) – è la ragnatela stessa la
protagonista principale di un film che continua a offrire finali e
conclusioni fino al limite dell’accettabile, e oltre, per quanto
giustificabili.
Una ragnatela nella quale
ci accorgiamo di invischiarci sempre più, senza che la generale
leggerezza del tono usato ce ne faccia percepire i pericoli (altro
merito da ascrivere al film e al regista, che si diverte a
utilizzare degli split screen multipli in maniera
interessante e persino simbolica, per una volta). Anche quando il
labirinto di passioni, tradimenti e convenienze in cui siamo
invitati a vivere per le due ore necessarie ci mostri i suoi lati
più brutali, folli, violenti.
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