A due anni da La terra dell’abbastanza, i Fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo tornano a fare grande cinema con Favolacce, già presentato al Festival di Berlino 2020 e vincitore dell’Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura. Il film arriva on demand l’11 maggio, saltando l’uscita in sala prevista per il 16 aprile a causa dell’emergenza COVID-19.
I Fratelli D’Innocenzo nascondono in piena vista, proprio nel titolo, il primo indizio sulla storia che stanno per raccontarci: non sono fiabe, con principesse e magia, ma favole, parlano di animali, bestie e cuccioli. Inoltre, il dispregiativo indirizza ancora più precisamente lo sguardo dello spettatore. Assisteremo a storie brutte, sicuramente non edificanti, di animali.
La realtà non è molto diversa dalla premessa. La storia si apre con una voice over, quella di Max Tortora (già papà di uno dei due protagonisti de La terra dell’Abbastanza), racconta di aver trovato un diario di una bambina e ha deciso di continuare la storia che lei stava raccontando. Nelle parole dei D’Innocenzo, è quindi il racconto vero di una storia inventata.
Siamo a Spinaceto, nella periferia romana, ma non si tratta di quella periferia realistica di cemento che abbiamo visto nell’opera prima dei due registi. Siamo di fronte ad un margine della città completamente disancorato da luoghi reali e indicazioni geografiche. Siamo fuori al Grande Raccordo Anulare, ma potremmo essere anche in una campagna americana, con villette monofamiliari a schiera, atmosfera assolata e arsa dal sole dell’estate, nelle giornate lunghe e pigre.
Messa in scena impeccabile
La messa in scena, sempre impeccabile, racconta proprio di un luogo che potrebbe essere ovunque sulla Terra, ma anche nei sogni di qualcuno, un luogo sospeso dove le case possono sembrare quelle che vediamo nei film di Tim Burton, le persone quelle che raccontava il primo Pasolini, l’atmosfera quella magica e realistica, ma meno ruvida, di un film di Garrone, eppure Fabio e Damiano D’Innocenzo emergono con il loro occhio affettuoso e allo stesso tempo disincantato, raccontando di età, di famiglie, di realtà che irrompe nell’irrealtà nella scena di un primo rapporto sessuale, nella bellezza di una bambina con i pidocchi accanto ad una ragazza rimasta incinta, sfatta e trasandata, completamente abbandonata alla feccia che la circonda, immagine disperata di gioventù perduta.
Eppure non c’è mai condanna o giudizio, nell’occhio dei registi, solo, forse, una profonda compassione per l’abisso profondo in cui cercano di non affogare i grandi e la via di fuga che invece trovano i ragazzini, unica e sola, verso l’autodistruzione. Una compassione che finisce per mostrare dei bambini che nella loro purezza assurgono a eroi drammatici, di fronte ad una miserabile umanità, rappresentata dai loro genitori, che di contro sembra non smettere di sognare di evadere, senza mai fare i conti con ciò che succede davvero e provando a trascinare sul fondo anche la piccola innocente progenie.
Favolacce è un’opera di grandissima bellezza
Favolacce è un’opera di grandissima bellezza, in cui i D’Innocenzo costruiscono ogni inquadratura con una cura certosina, disponendo nello spazio dello schermo un piccolo racconto per ogni frame, con un’eleganza formale frutto sicuramente di studio ma anche di talento e di una sensibilità che emerge in maniera cristallina nelle inquadrature affettuose e carezzevoli, sui protagonisti più piccoli.
E loro, tutti volti talmente belli da sembrare davvero usciti da una fiaba, sono invece gli attori principali delle favolacce che si intrecciano, in un racconto crudo e ordinario che riesce a mantenere la purezza di uno sguardo fanciullo che trova la sua via di fuga, la sua salvezza, in un finale brutale eppure, liberatorio.
Favolacce racconta storie di bestie e cuccioli, in un non luogo da cui si scappa soltanto scomparendo da quello spazio-tempo indefinito, oppure spostandosi più in là, quel poco che basta per mettersi a guardare la tv, traendo conforto dalle miserie degli altri.
















Come già anticipato nell’articolo che parla delle differenze tra libro e film de Le Due Torri, è chiaro che anche qui ci sono alcune cose che cambiano. Infatti il secondo libro della trilogia termina con Frodo prigioniero degli orchi, dopo essere stato punto da Shelob, Sam da solo, con l’Anello fuori alle porte di Minas Morgul, mentre, dall’altro lato della Terra di Mezzo, Aragorn, Legolas e Gimli, con Gandalf, si sono ricongiunti con Merry e Pipino trai relitti di Isengard.
Il lavoro che Peter Jackson fa nel costruire la rivalità tra Sam e Gollum, come rappresentati di due accompagnatori complementari per Frodo, è davvero mirabile, imbastendola sin dall’inizio. Nel libro, però, Sam non si separa mai da Frodo, mentre nel film Gollum trama contro lo “hobbit grasso” per separarlo da Frodo, e alla fine ci riesce, tanto che Frodo si avventura da solo nella tana di Shelob e lì viene ferito.
Nei romanzi c’è un intero capitolo, alla fine de Le Due Torri, dedicato all’incontro della compagnia con Saruman. Sembra strano a pensarci, ma in realtà è la prima volta che incontriamo lo stregone votato al male nei libri, perché le altre volte era stato solo evocato nei racconti. Nel film lo vediamo sulla sua fortezza, Gandalf gli distrugge il bastone, tuttavia lo vediamo anche assassinato da Grima Vermilinguo. La caduta di Saruman dalla torre, causa anche la caduta del palantir che viene raccolto da Pipino.
Il romanzo parte con Theoden alla guida dei Rohirrim in marcia verso Gondor, con Aragorn, Legolas, Gimli e Merry nelle sue schiere, mentre Gandalf e Pipino sono andati avanti verso Gondor. Durante la traversata, i Dunedain si uniscono all’esercito e suggeriscono ad Aragorn di percorrere la strada del suo, verso la roccia nera di Erech, dove c’è l’esercito dei morti che infranse un giuramento fatto a Isildur. Quest’esercito maledetto risponderà solo alla chiamata del vero re, per sfuggire alla sua condanna. Aragorn intraprende così il cammino verso sud e indossa lo stemma di Gondor, l’albero bianco, uno stemma ricamato da Arwen stessa che lo renderà riconoscibile in quanto legittimo re agli occhi dei re dei morti.
La battaglia nei campi del Pelennor è più o meno simile nell’adattamento cinematografico de Il Signore degli Anelli: Il Ritorno del Re, tuttavia la sequenza successiva del romanzo si concentra molto sul potere di guarigione del re Aragorn. A questo punto della storia, sia nel romanzo che nel film, Aragorn ha abbracciato il suo destino, e si rivela in quanto erede di Isildur. Lo fa confrontandosi con Sauron nel palantir, ma lo fa anche guarendo tutti quelli rimasti feriti durante la battaglia del Pelennor. In particolare guarisce anche Faramir, Eowyn e Merry.
L’attraversamento della terra di Mordor da parte di Frodo e Sam è più o meno simile tra libro e film, tuttavia c’è un piccolo dettaglio che differisce. Quando, quasi alla voragine del Fato, Gollum raggiunge di nuovo gli hobbit, aggredisce prima Sam, poi Frodo indossa l’Anello e sparisce. Gollum aggredisce Frodo invisibile e gli stacca l’Anello dal dito.
In molti pensano che il finale del Il Signore degli Anelli: Il Ritorno del Re sia troppo lungo, o meglio che comprenda troppi momenti conclusivi, troppi finali. La verità è che il romanzo ne contiene anche di più, perché Tolkien ha dato spazio e un lieto fine a tutti i suoi personaggi.
Alla fine di questo viaggio tra i fotogrammi e le pagine, anche a distanza di un ventennio, si può affermare senza ombra di dubbio che il lavoro di Peter Jackson sul romanzo di Tolkien, con cambiamenti tagli e aggiustamenti, è stato un prezioso percorso che ha ridato visibilità ad una delle opere più importanti del ‘900, regalando a più di una generazione il fascino del fantasy senza tempo.



