Presenti all’incontro Renzo
Rossellini, Roberto Petrocchi e il
Preside della Scuola Nazionale di Cinema – Centro Sperimentale di
Cinematografia di Roma, Adriano De Santis.
E’ intervenuto, inoltre,
Francesco Verdinelli, Assessore alla Cultura del
Comune di Calvi dell’Umbria – dove questa estate si è svolto il
Premio Nazionale in onore di Rossellini.
L’Evento di Calvi apre alla
prospettiva di manifestazioni analoghe nell’intero territorio
nazionale, purché coerenti con gli obiettivi del Premio e in
sinergia con il Premio Internazionale Roberto Rossellini, con la
finalità di valorizzare il patrimonio artistico-culturale della
provincia.
Nato nel 1999 a Maiori – località
particolarmente cara al maestro del cinema italiano, in cui ha
girato diversi film come: Paisà, 1946;
L’amore, 1948; Viaggio in
Italia, 1954 – per volontà di Renzo
Rossellini (figlio del celebre cineasta), il Premio è
stato sospeso nel 2013 a causa della mancanza dei necessari apporti
finanziari.
Dopo questa lunga pausa, durata
circa un decennio, la manifestazione riprende finalmente la sua
attività.
Il Premio Internazionale
Roberto Rossellini, ha l’ambizione d’incentivare i giovani
talenti, in Italia e nel mondo – importante, in tal senso, il
contributo dell’Istituto Italiano di Cultura di New
York e di SIAE – Società Italiana degli Autori ed
Editori, assieme alle partnership degli Istituti
di Los Angeles e di Pechino, e ad altri istituti italiani
operanti nel mondo – ed inaugurare un percorso di studio parallelo
e coincidente con il Progetto completamento dell’Enciclopedia
Audiovisiva della Storia, fortemente voluta da Roberto
Rossellini.
Il punto di partenza sarà il
rinnovato omaggio al maestro, portando avanti la sua idea di cinema
e di arte: cinema etico e Umanesimo, ricerca di verità nel
frammento del presente ed interpretazione della storia.
La cerimonia di premiazione del
Premio Internazionale Roberto Rossellini si terrà
alla Casa del Cinema di Roma il 18
dicembre 2021, all’interno della XIII edizione
dell’International Fest Roma Film Corto.
Il disegno del logo del Premio
Rossellini è stato realizzato da Fabrizio
Cintoli.
NOTE DEL DIRETTORE ARTISTICO
ROBERTO PETROCCHI
“Quando Renzo Rossellini – al
quale avevo proposto un convegno permanente sull’opera e la figura
di Roberto Rossellini, che ne permettesse un approfondito studio in
ambito scolastico e universitario – mi ha proposto di ridare vita
al Premio intitolato a suo padre, sono stato investito
immediatamente dalla volontà di ricercare i presupposti necessari
affinché il Progetto si realizzasse ma, soprattutto, facendo mio il
desiderio di Renzo, che potesse attuarsi nel pieno rispetto delle
volontà di Roberto Rossellini: fare del cinema un’arte davvero
utile alle persone. Va in questa direzione il suo grande Progetto,
al quale dedicò molte delle sue energie, di un’Enciclopedia
Audiovisiva della Storia, ma anche il proposito d’incentivare il
Talento di giovani autori e registi.
Quanto ha rappresentato Roberto
Rossellini per il cinema e la cultura, c’impone la sfida di ridare
vita definitivamente al Premio, a Roma, come riteniamo giusto che
sia, con una connotazione Internazionale, pur lasciando aperta la
possibilità ad iniziative analoghe, sempreché rispettose delle
finalità del Progetto, che potranno nascere nella provincia
dell’intero territorio nazionale – è il caso del Premio, svoltosi
questa estate a Calvi dell’Umbria –, con lo scopo di valorizzarne
il patrimonio, ed operare in autonomia, ma sempre in modo sinergico
con l’Evento di Roma,. senza escludere la prospettiva di Premio
itinerante”.
Jamie Lee Curtis ha avuto una carriera incredibile,
piena di ogni sorta di opportunità. Lei stessa lo ha affermato in
conferenza stampa a
Venezia 78, dove presenta in anteprima, fuori
concorso, Halloween
Kills, ma dove riceve anche il
Leone d’Oro alla Carriera. “Sono un’attrice. Scrivo libri
per bambini. Creo siti web e podcast. Ho venduto yogurt che ti fa
fare la cacca. Ho fatto pubblicità Hertz con O.J. Simpson. Sono
stata in grado di fare così tanto e sono molto fortunata a poter
fare quello che faccio, in qualunque forma sia”. Queste le sue
parole alla platea di giornalisti accorsi ad ascoltarla.
Jamie Lee Curtis Leone d’oro alla carriera a Venezia
78
Eppure, il riconoscimento del
Leone d’oro alla carriera al Festival
Internazionale del Cinema di
Venezia 78 la sorprende molto, nonostante sia alla
Mostra per presentare l’ennesimo capitolo di una saga che porta
avanti dal 1978.
Dopo tanta attesa e tanti
spostamenti dovuti alla pandemia, finalmente il pubblico
(selezionato del festival
di Venezia) è riuscito a vedere nelle anticipate del mattino
Freaks
Out, il secondo film da regista di Gabriele
Mainetti, che, dopo il successo di Lo Chiamavano
Jeeg Robot, ha ripreso mano con Nicola
Guaglianone a una vecchia storia che hanno trasformato in
realtà.
“Dopo l’esperienza di Jeeg,
Nicola (Guaglianone, sceneggiatore, ndr) e io ci siamo detti ‘ora
che famo, cosa raccontiamo?’ – ha detto il regista –
Ci siamo visti in quello che poi sarebbe diventato lo studio della
mia casa di produzione e ci siamo detti ‘buttiamo giù tutti i film
che vogliamo fare e poi decidiamo’. Dall’unione di tante idee
diverse è arrivata questa storia. Poi un giorno Nicola mi ha detto
‘famolo nella seconda guerra mondiale’. Ci divertiva accostare ai
freak un elemento conflittuale forte, il nazista”.
Il film ha avuto una lavorazione
lunga e difficile, con la sfida di lavorare una produzione italiana
come fosse un colossal e di farlo in maniera credibile, soprattutto
per quello che riguarda la messa in scena e il fattore storico.
“Ci sono volute più settimane e più soldi ma siamo riusciti a
portare a termine il progetto e siamo felici di essere qui in
concorso. Raramente in Italia si sono fatti progetti di queste
dimensioni e qualità di artigianato. Mainetti sosteneva che le
capacità per fare grandi film di azione e effetti speciali nella
nostra tradizione ci sono. E ha dimostrato sulla sua pelle che è
possibile” ha spiegato Andrea Occhipinti di
Lucky Red che produce il film.
Ovviamente il primo riferimento che
viene in mente già dal titolo del film è
Freak di Tod Browing, vero capolavoro
senza tempo, e Mainetti ha ammesso che per lui si tratta di un
“maestro di un film meraviglioso che non è stato accolto come
doveva, e che ha avuto vita e carriera distrutta da
quell’insuccesso. Il titolo però è anche un gioco di parole perché
‘freak out’ in inglese vuol dire impazzire, come succede al nostro
Franz. Infine una terza interpretazione del titolo è il fatto che i
nostri freak sono nel grembo del circo Mezzapiotta e quando il
circo viene bombardato si ritrovano improvvisamente fuori dal loro
spazio sicuro, costretti a misurarsi con la loro diversità. Ci
siamo rifatti ai grandi sceneggiatori del passato Rodolfo Sonego,
Piero De Bernardi per raccontare dei personaggi vigliacchi che
riescono in un rapporto reale con gli altri a tirare fuori la parte
più bella. La nostra è una Armata Brancaleone, ma i nostri sono
ancora più tosti e simpatici”.
A cinque anni di distanza
da The Bad Batch torna in concorso a Venezia 78
con il suo ultimo film, Mona Lisa and the Blood
Moon, la regista di origine iraniana naturalizzata
statunitense Ana Lily Amirpour. Proprio a Venezia, la
regista dallo stile inconfondibile, convinse vincendo il Premio
Speciale della Giuria sbilanciando i pronostici che vedevano altri
film favoriti. Come nel film precedente la
protagonista è una donna che non accetta passivamente ciò che le
accade ma combatte per trovare il proprio posto nel mondo.
La Mona Lisa del titolo
fa di cognome Lee ed è interpretata da una giovane attrice, la
sudcoreana Jeon Jong-seo nota principalmente ai
più per il suo ruolo in Burning di Lee Chang-dong. La
ritroviamo ad inizio film in una prigione psichiatrica, non
sappiamo da dove viene ne tantomeno si scoprirà, però sarà
intuibile da subito il motivo della sua reclusione. Il modo in cui
la regista sceglie di mostrarla porterà il pubblico a parteggiare
immediatamente per lei e per quello che sarà la sua storia. La
vicenda è ambientata a New Orleans, il tessuto mistico e l’alone
magico che da sempre contraddistingue nell’immaginario collettivo
la città renderà la storia e il personaggio di Mona Lisa più
credibile.
La ragazza grazie alle sue
capacità riuscirà a scappare dalla struttura in cui è rinchiusa
proprio durante la notte di luna piena che il titolo richiama, da
lì la sua vicenda prosegue, si arricchisce di particolari, si fa
più intrigante a mano a mano che Mona incrocia vari
personaggi facendo
crescere la sceneggiatura insieme alla sua protagonista. Quello di
Mona Lisa Lee è un viaggio verso la consapevolezza di sé stessa che
ottiene solo dopo l’incontro con gli altri personaggi. Come nella
realtà ci sono persone che possono aiutare a raggiungere i nostri
obiettivi e persone che ce ne allontanano. Sicuramente per quanto
riguarda il film della prima sfera fanno parte l’eccentrico Dj Fuzz
interpretato da un convincente Ed Skrein, subentrato in corsa al posto di
Zac Efron, e Charlie, Evan
Whitten, bambino con cui la protagonista creerà un solido
legame e che ci regala i momenti più poetici del film; dell’altra
sfera fanno invece parte in primis la Bonnie Belle di
Kate Hudson che seppur può essere considerata
un’alleata di Mona lo fa invece solo per un proprio tornaconto
personale e l’agente Harold interpretato dal caratterista Craig
Robinson che risulterà essere un buffo ostacolo tra Mona e il suo
futuro e che avrebbe fatto meglio a dar retta a ciò che il biscotto
della fortuna gli suggeriva.
Colonna sonora come punto di forza
Punto di forza del film è
sicuramente una coinvolgente colonna sonora, curata dall’italiano
Daniele Luppi, dove emergono atmosfere funky house
e la fotografia di Paweł Pogorzelski che si sposa
sapientemente con le indicazioni che l’Amirpour ha impartito per
ottenere un ambientazione reale e allo stesso tempo surreale
puntellata di luci psichedeliche.
Ana Lily
Amipour si conferma una regista matura con le idee chiare,
nel suo stile non esistono mezze misure quindi se lo spettatore
sceglierà di stare al suo gioco l’esperienza non potrà che essere
rivelatrice di significato e significanti senza tralasciare il puro
intrattenimento, in caso contrario invece sarà difficile che il
film possa convincere fino in fondo.
Ecco la nostra intervista ai
protagonisti di Una Relazione, il film di
Stefano Sardo con Guido Caprino ed Elena
Radonicich. Presentato nella selezione di Giornate degli Autori a Venezia 78, il film
sarà al cinema il 13, 14 e 15 settembre e dopo disponibile su su
Amazon Prime Video.
La laureanda in astronomia Kate
Dibiasky (Jennifer Lawrence) e il professor Randall Mindy (Leonardo
DiCaprio) fanno una straordinaria scoperta: una cometa in orbita
all’interno del sistema solare. Il primo problema è che si trova in
rotta di collisione con la Terra. E l’altro? La cosa non sembra
interessare a nessuno. A quanto pare, avvisare l’umanità di una
minaccia delle dimensioni del monte Everest rappresenta un evento
scomodo da affrontare. Con l’aiuto del dottor Oglethorpe (Rob
Morgan), Kate e Randall partono per un tour mediatico che li porta
dall’ufficio dell’indifferente presidente Orlean (Meryl Streep) e
del suo servile figlio nonché capo di gabinetto Jason (Jonah Hill),
fino alla stazione di The Daily Rip, un vivace programma del
mattino condotto da Brie (Cate Blanchett) e Jack (Tyler Perry). A
sei mesi dall’impatto della cometa, gestire continuamente le
cronache e catturare l’attenzione del pubblico ossessionato dai
social media prima che sia troppo tardi risulta essere un’impresa
incredibilmente comica. Cosa spingerà il mondo intero a guardare in
alto?
Don’t
Look Up è scritto e diretto dal premio Oscar Adam
McKay (La grande scommessa) ed è anche interpretato da Mark
Rylance, Ron Perlman, Timothée Chalamet, Ariana Grande, Scott
Mescudi (alias Kid Cudi), Himesh Patel, Melanie Lynskey, Michael
Chiklis e Tomer Sisley.
Una versione decisamente spaventosa
di Doctor Strange è apparsa nel quarto
episodio della serie What If… ?. Tale versione ha acquisito la
magia oscura per diventare una delle varianti più potenti dello
Stregone Supremo nel Multiverso impostato dal MCU. Nei fumetti della Marvel Comics, ci sono diverse varianti di
Stephen Strange, alcune più potenti di altre, che esistono sia
nella continuity di Terra-616 che nel più ampio Multiverso composto
da realtà e dimensioni infinite.
Strange 2099
Strange 2099, o Jeannie
(come era anche conosciuta), è emersa cento anni avanti nel futuro,
in una delle linee temporali più oscure della Marvel Comics. La Strega Suprema ha numerosi
poteri magici, inclusa l’immunità ai cambiamenti nella linea
temporale dovuti ad alcune azioni del passato.
Ma le sue abilità di base, incluso
il lancio di illusioni e la guarigione magica, non sono così
avanzate come quelle del Doctor Strange di Terra-616. Nel momento
in cui appare nei fumetti, non ha avuto il livello di istruzione
che Stephen o altri hanno sperimentato, nonostante sia naturalmente
molto abile nella magia.
MC2
Nell’universo alternativo
MC2 di Terra-982, Doctor Strange non era più lo Stregone Supremo,
ma era ancora un Maestro delle Arti Mistiche. Ha mantenuto i suoi
poteri di Terra-616 e li ha usati quando è uscito dalla pensione e
ha riformato i Difensori per affrontare il suo successore, Doc
Magus.
Doc Magus ha effettivamente
sconfitto Doctor Strange in questo confronto, dimostrando che lo
stregone più anziano aveva perso colpi quando si trattava di arti
mistiche in questo universo.
Sir Stephen Strange
Sir Stephen Strange appartiene alla realtà 1602 di Terra-311,
dove l’Universo Marvel esiste in un ambiente
tipicamente elisabettiano. Ha gli stessi poteri e abilità della sua
versione contemporanea e ha usato i suoi poteri per raggiungere una
breve alleanza con la versione a fumetti di Uatu
l’Osservatore.
Ciò
gli ha concesso una rara visione del Multiverso e del pericolo che
potrebbe affrontare la sua realtà. Ha usato la sua conoscenza per
aiutare a salvare il suo mondo, ma a costo della sua stessa vita.
Fu ucciso per tradimento da King James, anche se non fu esattamente
quella la fine per Strange.
Ultimate Doctor Strange
Doctor Strange
nell’universo Ultimate di Terra-1610 sembra essere, in generale,
più potente di suo padre. Stephen Strange Jr. è in grado di
esercitare una varietà di poteri senza nemmeno usare la magia, tra
cui la proiezione astrale e l’ipnotismo.
Praticamente, ogni potere che suo
padre Stephen Strange Sr. aveva è stato realizzato attraverso la
magia, o nel caso delle sue abilità come artista delle arti
marziali, tramite un intenso allenamento. È meno abile di suo padre
quando si tratta di arti mistiche, in quanto non ha sperimentato
molta formazione, ma possiede una grande attitudine naturale per la
magia.
Ducktor Strange
Ducktor Strange, il
“papero” delle arti mistiche, proviene dalla stessa realtà di
Howard il papero. Questa variante di Doctor Strange sembra avere le
stesse abilità di quella di Terra-616. Ha anche un’abilità naturale
aggiunta, che ovviamente proviene dalla sua fisiologia aviaria.
Simon Strange ha dimostrato la sua
enorme abilità nelle arti mistiche quando ha usato la magia per
spostare le persone da Duckworld di Terra-791021 all’universo
Marvel principale di Terra-616,
attraverso il Nexus di tutte le realtà.
Croctor Strange
Ducktor Strange non è
l’unica variante antropomorfa di Doctor Strange nei fumetti.
Croctor Strange si unisce al rango di una delle migliori varianti
di Loki, Alligator Loki, in qualità di versione coccodrillo di
Strange.
Croctor Strange sembra avere gli
stessi poteri e abilità della sua controparte umana in Terra-616,
con l’aggiunta dei suoi attributi rettiliani. Croctor Strange
proviene dallo stesso universo di Spider-Ham, e dal momento che
quel personaggio è già apparso al cinema, è possibile che anche
questa variante di Doctor Strange possa andare incontro alla stessa
sorte.
Strange-Thing
Strange-Thing, una potente fusione di Doctor Strange e Uomo
Cosa, condivide le straordinarie abilità di entrambi i personaggi.
Non solo Strange-Thing è uno dei maghi più potenti dell’Universo
Marvel, ma in qualità di guardiano
del Nexus di tutte le realtà sulla Terra, ciò gli concede la
capacità di spostare la realtà e attraversare le
dimensioni.
Questa versione del personaggio proviene da Terra-1298, dove
aiutò a fermare Madelyne Pryor dallo sfruttare il potere del Nexus
per mezzi nefasti.
Braccio destro di Dottor Destino
Sebbene la variante di Doctor Strange che funge da braccio
destro di Destino in Secret Wars del 2015 sia
apparentemente simile in potenza alla sua versione di Terra-616, in
realtà ha contribuito alla creazione di Battleworld insieme alla
versione Dio Imperatore di Doom.
Aveva
anche il potere e il potenziale per diventare lui stesso Dio
Imperatore in questa versione al collasso del Multiverso, ma ha
ceduto l’occasione. Ciò suggerisce che il Braccio destro di Destino
avesse un potere terrificante. Tuttavia, non è stato abbastanza per
salvarlo dall’ira del Dottore, che alla fine lo ha ucciso per aver
tradito il trono.
Discepolo di Dormammu
Il Doctor Strange apparso
in What If.. ? si rivolge alla magia oscura per salvare la
vita di Christine. Nel numero 18 della serie di fumetti, Stephen
Strange segue un percorso altrettanto oscuro. Strange raggiunge un
enorme potere in qualità di discepolo di Dormammu, ma soprattutto
perde tutti i suoi scrupoli.
Questa variante di Strange uccide il
Barone Mordo, anche dopo la guarigione delle sue mani. Libera Umar,
la sorella di Dormammu, dalla sua prigione dimensionale e cospira
con lei contro il suo maestro oscuro, cosa che avvicina questa
versione di Strange al potere delle entità oscure.
Dr. Strangefate
Il Dr. Strangefate combina
i poteri mistici del Doctor Strange della Marvel Comics e del Dr. Fate della DC Comics. I
due personaggi magici presentano molti degli stessi poteri, ma Dr.
Fate ha la capacità di viaggiare naturalmente tra mondi paralleli,
rendendo questa variante incredibilmente potente.
Inoltre, il personaggio, emerso dal
crossover di Amalgam Comics negli anni ’90, è in realtà Charles
Xavier. Con il potere mentale del Professor X, questa fusione dei
tre personaggi classici è una delle più potenti presente nei
fumetti.
Ecco la nostra intervista a
Mario Martone, regista, e a Iaia
Forte e Maria Nazionale, tra i
protagonisti di Qui rido
io, il film sulla vita e sull’opera di Eduardo
Scarpetta presentato in concorso a Venezia 78 e
in sala dal 9 settembre con 01 Distribution.
Arriverà il 9 settembre al cinema
Qui rido
io, il nuovo film di Mario Martone
che sarà presentato a Venezia 78. Nel cast del film
Toni Servillo, Maria Nazionale, Cristiana Dell’Anna, Antonia
Truppo, Eduardo Scarpetta, Roberto De Francesco, Lino Musella,
Paolo Pierobon, con Gianfelice Imparato e
con Iaia Forte. Il film è distribuito da 01
Distribution.
La trama di Qui rido io
Agli inizi del ‘900, nella Napoli
della Belle Époque, splendono i teatri e il cinematografo. Il
grande attore comico Eduardo Scarpetta è il re del
botteghino. Il successo lo ha reso un uomo ricchissimo: di
umili origini si è affermato grazie alle sue commedie e alla
maschera di Felice Sciosciammocca che nel cuore del
pubblico
napoletano ha soppiantato Pulcinella. Il teatro
è la sua vita e attorno al teatro
gravita anche tutto il suo complesso nucleo
familiare, composto da mogli, compagne, amanti, figli
legittimi e illegittimi tra cui Titina,
Eduardo e Peppino De Filippo. Al culmine
del successo Scarpetta si concede quello che si
rivelerà un pericoloso azzardo. Decide di realizzare
la parodia de La figlia di Iorio, tragedia del più grande
poeta italiano del tempo, Gabriele D’Annunzio. La sera del
debutto in teatro si scatena un putiferio: la commedia viene
interrotta tra urla, fischi e improperi sollevati dai poeti e
drammaturghi della nuova generazione che gridano allo
scandalo e Scarpetta finisce con
l’essere denunciato per plagio dallo stesso
D’Annunzio. Inizia, così, la prima storica causa sul
diritto d’autore in Italia. Gli anni del processo saranno
logoranti per lui e per tutta la famiglia tanto che il
delicato equilibrio che la teneva insieme pare sul punto
di dissolversi. Tutto nella vita di Scarpetta sembra
andare in frantumi, ma con un numero da grande
attore saprà sfidare il destino che lo voleva perduto e
vincerà la sua ultima partita.
Ora che la data di uscita di
No Time to Die è finalmente più vicina che mai, si
continuano a susseguire le teorie in merito alla vera identità e
alle motivazioni del nuovo villain che James
Bond si troverà ad affrontare, ossia l’enigmatico Safin
interpretato dal premio Oscar Rami Malek.
Tuttavia, una delle più grandi
teorie in merito alla vera identità del personaggio è stata di
recente smentita da una voce più che autorevole, ossia il regista
del film Cary Joji Fukunaga. Secondo tale teoria,
infatti, Safin non sarebbe altri che il Dr. Julius No, celebre
nemesi di 007 creata da Ian Fleming nel romanzo “Licenza di
uccidere” del 1958 e interpretata dall’attore Joseph
Wiseman nel film Agente 007 – Licenza di
uccidere del 1962.
Intervistato da
SFX Magazine, Fukunaga ha parlato del misterioso personaggio
interpretato da Malek, spiegando come la difficoltà di creare un
antagonista credibile e memorabile abbia portato allo sviluppo di
Safin come nuovo cattivo, nella speranza che possa resistere alla
prova del tempo.
“Tutti pensano che sia facile
realizzare questi tentpole. Pensano che si basino tutti sulla
stessa identica formula e che basti questo per spingere la gente ad
andare al cinema”, ha detto Fukunaga. “La realtà, invece,
è che se vuoi fare un buon film devi prendere le cose seriamente e
spenderci del tempo. Ci vogliono persone davvero intelligenti per
dare vita a queste storie, soprattutto per creare questi personaggi
che, si spera, possano in qualche modo diventare immortali. Safin è
il nuovo cattivo e no… non è il Dr. No, come alcuni hanno
ipotizzato. Si spera che riesca a resistere alla prova del
tempo.”
“Dare vita ad un cattivo che non
sembri ridicolo, che può essere preso sul serio, che risulti
spaventoso anche per quello che sta cercando di fare e e per cui
deve essere necessariamente fermato, è più difficile di quanto le
persone riescano effettivamente ad immaginare”, ha concluso il
regista.
In
No Time
to Die, Bond si gode una vita tranquilla in Giamaica
dopo essersi ritirato dal servizio attivo. Il suo quieto vivere
viene però bruscamente interrotto quando Felix Leiter, un vecchio
amico ed agente della CIA, ricompare chiedendogli aiuto. La
missione per liberare uno scienziato dai suoi sequestratori si
rivela essere più insidiosa del previsto, portando Bond sulle
tracce di un misterioso villain armato di una nuova e pericolosa
tecnologia.
Il film ritrae il re dei comici
napoletani, il grande attore e commediografo Eduardo Scarpetta, che
sarà interpretato da Toni Servillo. Scarpetta, che fu padre
naturale di Titina, Eduardo e Peppino De Filippo, dedicò tutta la
sua vita al teatro, realizzando opere che sono diventate dei
classici intramontabili, come Miseria e Nobiltà. Ottenne
straordinari successi e fu protagonista della celebre disputa con
Gabriele D’Annunzio per Il figlio di Iorio, parodia dell’opera del
Vate, che fu oggetto di un memorabile processo.
Nonostante le riprese di
Black Panther:
Wakanda Forever siano attualmente in corso,
ancora non è chiaro quale direzione prenderà la storia del film.
Tuttavia, sia i Marvel Studios che il regista Ryan Coogler hanno confermato che il
personaggio di T’Challa non verrà né interpretato da un altro
attore né ricreato attraverso la CGI.
Sappiamo che il sequel onorerà
l’eredità del compianto Chadwick Boseman e che la maggior parte degli
attori del primo film riprenderanno i loro ruoli, mentre di recente
abbiamo avuto la conferma che il sequel servirà per introdurre
ufficialmente il personaggio di Riri Williams, alias Ironheart,
prima del debutto della serie destinata a Disney+. Ad oggi, questo è tutto ciò
che è stato reso noto in merito al film.
In una recente intervista con
The Guardian, Angela Bassett ha discusso della sua
lunga e fortunata carriera, parlando ovviamente anche del ruolo di
Ramonda in Black Panther e del suo attuale impegno con le
riprese di Wakanda Forever. Senza rivelare nulla a
proposito della trama, l’attrice candidata all’Oscar ha parlato
dell’impatto che la morte di Boseman ha avuto sul nuovo film e dei
modi in cui la sua eredità continua a vivere anche durante le
riprese.
“Durante la prima settimana di
riprese, tutti noi abbiamo sentito la presenza di Chadwick sul set
e, al tempo stesso, la sua assenza su quel trono”, ha spiegato
Bassett. “Ci siamo riuniti e gli abbiamo reso omaggio prima di
iniziare a girare. È stato un momento meraviglioso. Ognuno di noi
ha speso delle bellissime parole per lui. Tutti tenevano a
Chadwick. Ci ha cambiati e ispirati allo stesso tempo.”
Black
Panther: Wakanda Forever arriverà nelle sale l’8
luglio 2022. Il presidente dei Marvel Studios, Kevin Feige, ha
confermato che T’Challa, il personaggio interpretato al
compianto Chadwick
Boseman nel primo film, non verrà interpretato da
un altro attore, né tantomeno ricreato in CGI. Il sequel si
concentrerà sulle parti inesplorate di Wakanda e sugli altri
personaggi precedentemente introdotti nei fumetti Marvel.
Letitia Wright (Shuri), Angela
Bassett (Ramonda), Lupita
Nyong’o (Nakia), Danai
Gurira (Okoye), Winston
Duke (M’Baku) e Martin
Freeman (Everett Ross) torneranno nei panni dei
rispettivi personaggi interpretati già nel primo film.
L’attore Tenoch Huerta è in trattative
con i Marvel Studios per interpretare il
villain principale del sequel.
Terzo film italiano in concorso a
Venezia
78, Qui rido
io è il racconto della vita e dell’arte di Eduardo Scarpetta da parte di Mario
Martone, regista molto amato dalla Biennale che si
appoggia al talento di
Toni Servillo per mettere in scena uno dei geni
del teatro italiano.
Nelle parole di
Toni Servillo stesso, infatti, “Scarpetta è come
un animale, la sua brama di vivere lo porta a predare le donne, il
teatro, le tournée, i testi, in uno scambio continuo tra vita
privata e palcoscenico. Questo affresco dimostra di quanta vita sia
fatto il teatro e quanto teatro ci sia nella vita” e quanto,
aggiungiamo, questo atteggiamento predatorio abbia reso grande
l’arte di Scarpetta ma difficile la sua vita privata, come viene
raccontato nel film.
La conferenza stampa di Qui Rido Io di Mario Martone a
Venezia 78
L’idea del film nasce, in Martone,
dall’allestimento teatrale de Il Sindaco del Rione
Sanità, testo di De Filippo che
ha portato anche al cinema (presentato a Venezia). Il regista
afferma che “c’era un mistero che si poteva affrontare,
parlando di una tribù straordinaria con al centro un genio del
teatro, un patriarca amorale, che spinto dalla sua fame di riscatto
e di rivalsa, si era innalzato oltre il limite, tanto da far
scrivere sul muro della propria villa ‘Qui
rido io‘.”
Il film si concentra sulla figura
artistica e umana di Eduardo Scarpetta, che
Martone descrive come “una figura mitologica e primordiale,
aveva avuto figli con la moglie, con la sorella della moglie e con
la nipote della moglie, li fece studiare tutti, maschi e femmine, e
diventarono tutti attori, Eduardo De Filippo divenne il genio del
teatro italiano che sappiamo.
Scarpetta era un divoratore,
aveva divorato Pulcinella, il Teatro San Carlino dove ha visto
morire Antonio Petito, e divorava la vita, i figli che non avranno
mai il suo nome e la sua eredità, ma a cui trasmette
misteriosamente il seme potentissimo della creatività. In tutto
questo c’è anche molto dolore. Cosa potevano vivere queste donne,
questi figli? Abbiamo provato a immaginarlo. Pensiamo, ad esempio,
che tutti i suoi figli, legittimi e non, dovevano interpretare a un
certo punto della loro infanzia Peppeniello di Miseria e nobiltà,
che alla fine della commedia abbraccia il suo vero padre, Felice
Sciosciammocca, cioè appunto Scarpetta. In questo c’è qualcosa di
inconsciamente sadico.”
Qui rido io arriva
al cinema il 9 settembre distribuito da 01 Distribution.
In termini di incassi al botteghino,
Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli ha
superato qualsiasi aspettativa, incassando circa 90 milioni di
dollari negli Stati Uniti durante il weekend del Labor Day. Ora, la
star del film Simu Liu ha utilizzato i social
media per rispondere a tutti i troll di YouTube che avevano
profetizzato il flop del film ancora prima della sua uscita.
L’attore, che ha già dimostrato in
passato di essere una persona decisamente schietta e senza troppi
peli sulla lingua (come la
replica diretta a Bob Chapek, CEO Disney, che aveva
definito Shang-Chi “un esperimento”), ha condiviso
attraverso le sue Instagram Stories (via
CBM) un collage che riprende tutte le anteprime dei video di
YouTube che avevano parlato, con largo anticipo e senza alcuna
cognizione, di un presunto flop del cinecomic. Liu ha replicato
aggiungendo al centro dell’immagine un gigantesco “LOL”.
Chiaramente, l’interprete di
Shang-Chi ha tutte le ragioni per celebrare il successo del
cinecomic Marvel. Il film, infatti, è già
diventato la terza migliore apertura nell’era del Covid-19 con 29,6
milioni di dollari (appena dietro ai 29,9 milioni di Fast
and Furious 9). Parallelamente, Shang-Chi è anche
diventato il più grande weekend d’apertura durante la settimana del
Labor Day di tutti i tempi. All’estero, invece, il film ha
incassato 56,2 milioni di dollari, per un totale globale di 146,2
milioni.
Vi ricordiamo che nei panni del
protagonista ci sarà l’attore canadese Simu
Liu, visto di recente nella commedia di NetflixKim’s Convenience. Insieme a
lui, nel cast, figureranno anche Tony
Leung nei panni del Mandarino,
e Awkwafina, che dovrebbe interpretare un
“leale soldato” del Mandarino, e se è vero che il villain qui sarà
il padre di Shang-Chi, in tal caso ci sono ottime possibilità che
si tratti di Fah Lo Suee. Chi ha letto i fumetti saprà che è la
sorella dell’eroe del titolo e che il suo superpotere è
l’ipnosi.
Ecco la nostra intervista ai
protagonisti, regista e attori, de La
Scuola Cattolica, il nuovo film di Stefano
Mordini che è stato presentato a Venezia 78 nel Fuori
Concorso.
James Wan, regista
di Aquaman and the
Lost Kingdom, aveva già condiviso nei giorni scorsi un
primo sguardo al
nuovo costume che il protagonista Jason Momoa sfoggerà nell’attesissimo
sequel. Ora, invece, ha deciso di condividere uno scatto dal dietro
le quinte in compagnia di Patrick Wilson, che torna nei panni di Orm
Marius / Ocean Master.
La foto è decisamente particolare,
ma potrebbe avere un collegamento diretto con il finale del primo
film, dove re Orm è stato arrestato dalle guardie di
Atlantide. Nello scatto condiviso da Wan via Instagram,
infatti, è possibile notare che Wilson sfoggia un look
completamente diverso: non è più Ocean Master dopo essere stato
detronizzato dal suo fratellastro. Al contrario, nello scatto
sembra molto simile al Chuck Noland di
Cast Away, anche se non è ancora chiaro che tipo di ruolo
avrà il cattivo nella storia al centro del sequel.
È probabile che il personaggio,
trovandosi sulla Terra, non trascorrerà molto tempo dietro le
sbarre, sotto’acqua. Forse Arthur si rivolgerà a lui per chiedere
aiuto? Un’altra possibilità è che Ocean Master unisca le forze con
Black Manta. A questo punto, aspettiamoci che Wan condivida anche
il primo sguardo al personaggio di Mera interpretato da Amber Heard.
Jason Momoa è atteso di nuovo nei panni
dell’eroe in Aquaman and
the Lost Kingdom, sequel del film che ha rilanciato in
positivo le sorti dell’universo cinematografico DC. Nel sequel,
diretto ancora una volta da James
Wan (Insidious, The Conjuring), torneranno
anche Patrick
Wilson nei panni di Ocean Master, Amber
Heard, che tornerà nei panni di Mera, Dolph
Lundgren che sarà ancora una volta Re Nereus, il
padre di Mera, e ancora Yahya
Abdul-Mateen II nei panni di Black Manta,
che abbiamo visto riapparire nella scena post-credit del primo
film.
David Leslie
Johnson-McGoldrick, collaboratore ricorrente di
Wan, scriverà la sceneggiatura del film, mentre il
regista e Peter Safran saranno co-produttori. Aquaman and the Lost
Kingdom uscirà nelle sale americane il 16 dicembre
2022.
Due anni dopo aver adattato in
chiave moderna per il cinema l’opera teatrale Il sindaco del rione
Sanità, scritta da Eduardo De Filippo, il
regista Mario Martone porta sul grande schermo la
storia degli ultimi anni di vita di Eduardo
Scarpetta, padre dei De Filippo e tra i più celebri
commediografi e attori della scena teatrale napoletana. Il film in
questione è Qui rido io (affermazione che
riprende quella presente sulla facciata di Villa La Santarella, di
proprietà di Scarpetta), presentato in concorso alla Mostra del
Cinema di Venezia e interpretato da Toni Servillo. Da Martone scritta insieme a
Ippolita Di Majo, la pellicola è però ben più che
un semplice racconto biografico.
La vicenda si apre infatti sui primi
anni del Novecento, quando Scarpetta è un uomo di teatro già
affermato e popolarissimo. Le sue repliche di Miseria e
nobiltà registrano sempre il tutto esaurito e il successo
sembra destinato a non dover finire mai. In questo clima di
euforia, Scarpetta si concede però un pericoloso azzardo: realizza
una parodia de La figlia di Iorio, tragedia del più grande
poeta italiano del tempo, Gabriele D’Annunzio. Al
momento del debutto, la commedia viene interrotta tra urla e fischi
e Scarpetta finisce con l’essere denunciato per plagio dallo stesso
Vate. Inizia così la prima storica causa sul diritto d’autore in
Italia, che scuoterà profondamente Scarpetta e la sua ricca
famiglia composta da mogli, amanti e figli legittimi e
illegittimi.
L’arte di saper far ridere
Come anticipato, ad un primo impatto
Qui rido io potrebbe sembrare una classica biografia
di un personaggio tanto stravagante quanto importante del teatro e
della cultura italiana. Addentrandosi sempre più nel racconto,
tuttavia, ci si accorge come quella messa in atto da Martone sia
un’operazione molto più interessante, che non solo esplora le
origini di una dinastia teatrale ma si avvale di un caso storico
esemplare per riflettere sul concetto di commedia e di autore. Vero
punto centrale del film è infatti la causa per plagio che
D’Annunzio muove contro Scarpetta. Durata dal 1906 al 1908, questa
portò ad una sempre più necessaria definizione dell’odierno diritto
d’autore.
Ciò che emerse durante quella causa,
però, fu particolarmente interessante per la definizione della
commedia stessa, all’epoca considerata un genere infimo, che
distraeva dai veri problemi della vita e della gente. Quello tra
D’Annunzio e Scarpetta era dunque lo scontro tra chi si ergeva
intellettualmente a rappresentante del popolo e chi quello stesso
popolo lo raccontava in modo molto più sincero di quanto si
credesse. Non mancano le contraddizioni nello stesso Scarpetta, che
Martone sceglie saggiamente di non omettere, ma ciò che affascina è
il ritrovare qui quei primi segnali di riscatto che avrebbero
portato la commedia ad essere uno dei generi primari dello
spettacolo italiano.
E se per alcuni un altro film
biografico di Martone come Il giovane favoloso,
dedicato a Leopardi, poteva essere risultato particolarmente
pesante, Qui rido io risulta invece essere non solo un
racconto scorrevole e piacevole, ma anche una visione
particolarmente divertente. Il merito va in primis ad un Toni Servillo
mattatore assoluto che, in un ruolo come quello di Scarpetta che
non poteva che essere interpretato da lui, dà sfogo ad un carisma
eccezionale. Accanto a lui spiccano poi anche Maria
Nazionale nel ruolo della moglie Rosa, Cristiana
Dell’Anna in quelli dell’amante Luisa e Eduardo
Scarpetta (discendente della dinastia) nel ruolo di
Vincenzo, suo bisnonno e figlio dell’originale Eduardo.
Qui rido io: la recensione del film
Come si potrà intuire, la dinastia
degli Scarpetta-De Filippo è un altro degli elementi centrali del
film. Particolarmente articolata e ricca di nomi identici che si
ricorrono, questa ha percorso l’intero Novecento. Seguendo anche le
vicende di più membri della famiglia, molti dei quali sul punto di
ottenere la fama poi cresciuta e consolidatasi nel tempo, Qui
rido io diventa anche il ritratto di un uomo potentissimo al
momento del suo declino. La causa in cui Scarpetta si ritrova
coinvolto, e dalla quale comunque uscirà vittorioso, segnerà
comunque la fine della sua carriera. A partire da quel momento il
racconto si incupisce, il ritmo sembra rallentare proprio come il
suo protagonista.
Proprio come nel teatro si giunge ad
un ultimo atto in cui qualcosa sta finendo e qualcos’altro ha
invece inizio. Si svela anche così il continuo intrecciarsi tra
teatro e vita, con tutte le similitudini e le discordanze del caso.
Non per nulla Martone costruisce il suo film proprio come se ci si
trovasse dinanzi ad un palcoscenico, con frequenti inquadrature
totali, scene corali, caos e battute pronunciate a raffica. Si
tratta probabilmente del modo più interessante per far emergere
tutta la forza di un film come Qui ridoio, dove
la vita è teatro e dove il teatro è vita, dando vita ad un
cortocircuito da cui emergono spunti e riflessioni particolarmente
brillanti.
Noi esseri umani non
possiamo vederci. Vediamo gli altri, li giudichiamo, ma per sapere
come siamo, come stiamo con un certo colore di abiti, quanto siamo
alti, che faccia abbiamo dopo una serata per locali, abbiamo
bisogno di una superficie riflettente. Ma dietro quella stessa
superficie – porta diretta sul nostro essere esteriore – si possono
nascondere anche portali magici di universi interiori. Attraverso
gli specchi ci guardiamo in tutte le nostre sfaccettature, ma sulla
scia della potenza suggestiva del nostro inconscio, attraverso un
oggetto così banale e ordinario, possiamo scrutare anche altro:
mondi perduti, interiorizzati, e rispediti su superfici riverbanti,
ponti diretti con universi scomparsi.
Lo sa bene Edgar
Wright, sognatore e spettatore bulimico nutritosi per anni
di sostanza filmica attraverso la quale crescere e formarsi sia
professionalmente che affettivamente. Un apprendimento assimilato e
restituito per mezzo di uno stile dinamico e riconoscibile, che una
volta riflettuto su nuovi specchi, esplode per rinascere come una
fenice araba.
È uno scontro continuo
tra sguardi e superfici riflettenti, Last
Night in Soho. Specchi e schermi, reduplicazioni di
spazi interiori e universi sognati, si uniscono in una miccia
primordiale, reminiscenza espressionista (che genera con una forza
iconoclasta una nuova fase dell’opera di Edgar Wright. Una
nuova fase tutta da scoprire, con la stessa curiosità di chi si
approccia con fare indagatorio dinnanzi allo specchio.
Eloise “Ellie”
Turner (Thomasin McKenzie) si trasferisce a
Londra con il sogno di diventare una fashion designer.
L’impatto con la grande città non è
semplice per una ragazza che viene dalla Cornovaglia.
Lo studentato in cui vive si rivela inoltre un ambiente non
adatto alla propria indole, già ampiamente colpita da un lutto che
continua a tormentarla. Decide quindi di affittare una stanza a
casa di un’anziana signora. Una notte,
comincia a sognare la Londra degli anni
Sessanta e una giovane bella e piena di talento, Sandie
(Anya
Taylor-Joy), che cerca di sfondare nello spettacolo.
Il sogno si reitera con meraviglia, fino a quando il passato non
diventa un incubo che rischia di invadere il presente.
Il passato riflesso nel
futuro
Per ricostruire e non
rottamare bisogna avere una relazione passionale con il passato.
Edgar Wright lo sa bene, ha basato tutta la sua filmografia su tale
assunto. Nel corso della sua carriera ha saputo prendere tutto ciò
che ha visto per ribaltarlo, interiorizzarlo e farlo proprio,
creando patchwork cinematografici intessuti di omaggio con
il proprio passato da spettatore cinematografico. Ma adesso il
regista compie un ulteriore passo avanti nella sua carriera
registica. Partendo da questa stessa dichiarazioni d’intenti, ne
applica i principi alla sua filmografia per creare qualcosa di
nuovo. Stilisticamente Last
Night in Soho è un figlio ribelle che stacca
completamente i legami con i propri fratelli maggiori. Tracce del
regista che fu (e rimane) si ritrovano nella sua Ellie, figlia
degli anni Duemila con una mente forgiata dall’onda nostalgica di
una Swinging London che l’ha segnata, influenzandone il proprio
estro artistico.
Se già Baby
Driver si presentava come un ibrido, spartiacque tra un
discorso autoriale ben definito e riconoscibile, con Last
Night in Soho Wright si discosta completamente dalla
sua visione precedente per creare qualcosa di nuovo. Deostruisce il
proprio mondo, uscendo dalla sua comfort zone per rinascere di
nuovo. Spogliandosi di quell’aspetto
parodico con cui omaggiare, ribaltandoli, i film che lo hanno
segnato, cresciuto, modellato, e che tanto caratterizza la propria
visione dell’opera, Wright ricerca adesso la pura citazione e su
quella costruire un discorso maturo, serio, di angoscia e attesa.
Un gioco all’omaggio che in Last Night in Soho non preclude
l’apprezzamento completo del film anche per coloro che non riescono
a cogliere ogni riferimento cinefilo, permettendo loro di entrare
nei meandri di una mente rotta, a pezzi, come uno specchio
frantumato.
Mind the Gap in
Soho
Per un’opera incentrata
sui gap mentali, passaggi tra passato e presente, allucinazioni,
ghost story che incontrano l’horror più puro, non c’è spazio per un
umorismo dilagante, inquadrature strette, zoom, o movimenti di
macchina improvvisi. Tutto è disteso, allungato, come un braccio
pronto a sferrare una coltellata mortale, così da insinuare nello
spettatore quel giusto senso di angoscia e suspense tale da
scaraventarlo in una ragnatela di misteri, dubbi,
paure.
Sfruttando la potenza
riflettente di specchi, lame e vetrine, Wright si infila tra le
crepe di una giovane mente alimentata da sogni di un passato mai
incontrato, se non su poster, fotografie e vinile, enfatizzando
ogni distorsione e setacciando ogni metro fino a scavare le
propaggini incancrenite di incontri soprannaturali, macchiati di
vendetta e rivendicazione personale. La Londra degli anni Sessanta
è una coperta di Linus entro la quale avvolgersi per distanziarsi
dal mondo che la circonda. Toccare con le dita la superficie di uno
specchio è un campanello per entrare nell’universo agognato, desiderato. Eloise si traveste da
Alice attraverso lo specchio, per nascondersi nel mondo della
propria fantasia per scappare dalla propria realtà.
L’essenza duale e
dicotomica di spettri del passato che collimano in sogni del
presente si riscontra visivamente nella scelta della fotografia
ombrosa e in una resa cromatica accesa fatta di colori sgargianti,
luminosi, accesi come gli abiti che riveste il corpo di una Ana
Taylor-Joy evanescente e luciferina. Le inquadrature sembrano
invece accarezzare un incanto feroce di una stilista di abiti che
finisce per ricucire le violenze del passato tra i meandri onirici
del presente. Come il rosso che insegue il blu nel neon rotto
che illumina la stanza di Eloise a Soho (interessante che a essere
illuminata sia proprio la sillaba “BI”, associazione linguistica a
un concetto di doppio, lo stesso alla base del film), così quello
che nasce come un sogno, un passaggio segreto tra le vie di una
Londra anni Sessanta così tanto agognata, passerà il testimone alle
sfumature dell’incubo. Dormire, sognare, colpire, e rinascere, un
Uroboros onirico tinto di thriller che Wright costruisce con
attenzione, tra immagini sovrimpresse e moltiplicate, immergendo e
coinvolgere in maniera immersiva il proprio spettatore, rendendolo
partecipe in prima persona delle cadute all’inferno della sua
Ellie. Elettrizzanti le scene dei balli, momenti privilegiati di
uno scarto incosciente tra desiderio di sicurezza e reale
inquietante che sfugge ed eccede i confini dell’inquadratura e del
montaggio, reduplicandosi e moltiplicandosi in visioni
caleidoscopiche allucinanti e allucinogene.
Last night in Soho, un
gioco di doppi
Sfruttando appieno il
contrasto generante tra una colonna visiva giocata su violenza e
allucinazione, e quella musicale composta dA brani eleganti e
romantici da pop anni ’60, Edgar Wright si immerge nelle ossessioni
scavando sotto la profondità epidermica della normalità. La sua
Ellie è una ragazza giovane, piena di sogni, apparentemente
normale, che vive rinchiusa nella sua ammirazione per gli anni
Sessanta ritrovandosene poi prigioniera. E siccome tutti nutriamo
una passione viscerale, ecco che il regista insinua nello
spettatore il timore che dietro anche la nostra situazione di
persone ordinarie si possa nascondere qualcosa di terribile e
orrorifico. Si viene a creare dunque un ulteriore contrasto,
reiterato in quello estetico di uno sguardo angelico che nasconde
un’indole mefistofelica incarnato dal viso di Anya Taylor-Joy, il quale si oppone a sua
volte all’innocenza di una Thomasin Mackenzie
capace di reggere benissimo il peso del ruolo della protagonista,
giocando tra innocenza, fragilità e coraggio.
È un gioco di
duplicazioni Last Night in Soho, di sguardi riverberati
su specchi, lame taglienti, che fanno da ponti tra desideri
indicibili, e incubi spettrali. Come Lo studente di Praga, lo
specchio fa da perfetta congiunzione tra le due anime
imprigionandole in tempi e spazi a se stanti, mentre tutto attorno
è una danza del terrore da ballare sulle note di brani anni
Sessanta tra i locali di Soho.
Da quando Peter Parker è stato
introdotto in Captain
America: Civil War, Tony Stark è diventato il suo mentore.
Sebbene riluttante all’inizio, Tony alla fine si è sobbarcato la
grossa responsabilità si trattare il giovane eroe come suo
protetto.
Col tempo, la relazione tra
Spider-Man e Iron Man ha iniziato
ad assumere sempre più i contorni di quella tra un padre e suo
figlio. Nonostante Tony non fosse presente in Spider-Man:
Far From Home, la sua presenza ha comunque avuto un ruolo
chiave nel film, dal momento che Peter si è ritrovato ad affrontare
le conseguenze della morte del suo mentore dopo gli eventi Avengers:
Endgame. È innegabile che, attraverso i film del MCU in sui sono apparsi insieme, il
legame tra i due personaggi sia cambiato, iniziando come
strettamente professionale e terminando come rapporto molto più
intimo.
Sebbene Tony possa non essere il
mentore ideale, ha impartito alcune grandi lezioni al suo protetto,
inclusa probabilmente la più importante di tutte, presente in
Spider-Man: Homecoming. Dopo che il tentativo di Peter di
catturare Avvoltoio, causando l’incidente del Traghetto per Staten
Island, Tony si riprese il costume aggiornato che aveva regalato al
giovane eroe. Successivamente, Iron Man ha avuto modo di riflettere
su quanto assomigli a suo padre, ma questa lezione non proveniva
dallo stesso Howard Stark, ma bensì dall’esperienza dell’eroe in
Iron Man
3.
Dopo l’esperienza di pre-morte in
The Avengers, Tony era ossessionato dal pensiero di
un’altra invasione aliena. Ovviamente, a quel tempo, non sapeva
ancora che Thanos stava agendo nell’ombra, in attesa del momento
giusto per fare la sua mossa ed entrare in possesso di tutte le
Gemme dell’Infinito. Tuttavia, l’ansia di una minaccia invisibile
lo ha portato ad un vero e proprio stato di paranoia in Iron Man
3, spingendolo a creare una sfilza di costumi nella
speranza di essere preparato al peggio.
Proprio per questo, quando è stato
privato della protezione della sua armatura dopo essersi schiantato
in Tennessee, ha dovuto trovare un modo per andare avanti e
dirottare la tana del Mandarino senza il contributo del suo
costume. In un momento in cui stava per avere un altro attacco di
panico dopo aver realizzato che il costume di Iron Man non sarebbe
stato pronto in tempo per il suo attacco al nascondiglio del
terrorista, il suo giovane amico Harley Keener gli ha fornito
supporto emotivo, suggerendogli l’idea di improvvisare.
Alla fine, Tony voleva che Peter
imparasse che è l’uomo che indossa il costume che definisce l’eroe,
qualcosa che aveva capito a sue spese in Iron Man
3. A questo punto, Peter si sentiva troppo ansioso per
dimostrare a se stesso che Tony aveva ragione. Entrambi gli eroi
hanno quindi imparato una lezione durante gli eventi di
Spider-Man: Homecoming che non ha fatto altro che
rafforzare ancora di più il loro legame.
Alla fine del primo Venom,
Eddie Brock (Tom
Hardy) e il suo famelico “parassita” avevano
sviluppato una sorta di amicizia, seppur alquanto complicata. Ora,
sembra che quel fiorente legame sia destinato a essere una parte
importante nell’atteso sequel Venom: La
furia di Carnage.
In una nota di produzione ufficiale
(via
ComicBook), il regista Andy Serkis ha rivelato di concepire il
suo film come una storia d’amore non convenzionale. Ma in
riferimento a chi? Ovviamente, al simbionte e al suo “ospite”.
“Il film è una storia d’amore, ma non la classica storia
d’amore a cui potrebbero pensare tutti”, ha spiegato
Serkis.
“Riguarda la straordinaria
relazione tra il simbionte e l’ospite”, ha aggiunto. “Ogni
storia d’amore nasconde delle insidie, ha i suoi alti e i suoi
bassi. La relazione tra Venom e Eddie è causa di problemi e di
stress. Questi due personaggi provano quasi odio l’uno nei
confronti dell’altro, ma sono costretti a stare insieme. Non
possono vivere l’uno senza l’altro. Questa è l’amicizia, questo è
l’amore. Le relazioni umane si basano su questo tipo di
cose.”
Per molti fan, la dinamica tra Eddie
e Venom è stato uno degli aspetti più divertenti del primo film,
mentre altri hanno ritenuto che i dialoghi tra i due fossero più
irritanti che divertenti. Sarà di certo interessante vedere come
Andy Serkis e la sceneggiatrice
Kelly Marcel hanno lavorato sul rapporto tra
questi due personaggi. Di recente, il film è stato anticipato di
circa due settimane nelle sale americane, dove arriverà ora il
prossimo 1 ottobre. In Italia, l’uscita è fissata per il 14 dello
stesso mese.
Quello che sappiamo su Venom: La furia di Carnage
Tom Hardy ritorna sul grande schermo nel
ruolo del “protettore letale” Venom, uno dei personaggi Marvel più enigmatici e complessi.
In Venom: La
furia di Carnage assisteremo allo scontro tra il
simbionte e Cletus Kasady, aka Carnage, uno degli antagonisti più
celebri dei fumetti su Spider-Man, interpretato da Woody
Harrelson.
Nel cast del sequel
anche Michelle
Williams(Fosse/Verdon) nei panni
di Anne Weying, Naomie
Harris(No Time to Die) nei panni
di Shriek e l’attore inglese Stephen
Graham (Boardwalk Empire, Taboo). Il film
uscirà in autunno al cinema.
Lo scorso luglio è arrivata la
notizia che l’attrice Leslie Grace, vista di
recente nel musical Sognando a New York – In the Heights, interpreterà
Barbard Gordon in Batgirl, il film dedicato
all’iconico supereroe DC che arriverà direttamente sulla
piattaforma di streaming HBO Max.
Adesso, in una recente intervista
con
ET Online, Grace ha parlato per la prima volta del suo
ingaggio, anticipando quello che sarà l’arco narrativo del
personaggio nel film. Secondo l’attrice, Barbara sarà pronta a
dimostrare qualsiasi tipo di ostacolo che potrebbe presentarsi
lungo la sua strada, pur di dimostrare il suo valore.
“Barbara è una persona che è
stata sottovalutata anche dal suo stesso padre. Spesso e volentieri
è stata tenuta lontana rispetto ai grandi problemi della vita.
Quindi, è desiderosa di dimostrare a se stessa e agli altri che ci
sono tante cose che è in grado di gestire”, ha spiegato
l’attrice. “Questo viaggio si concentrerà molto su
quest’aspetto.”
“Mi sento come se fossi al
centro di un viaggio infinito per provare a me stessa quali
barriere si possono infrangere e quali limiti si possono superare
per se stessi”, ha aggiunto Grace. “Sono entusiasta di
mettere un po’ di quell’entusiasmo, di quella spinta e anche po’ di
testardaggine nel personaggio di Barbara.”
Cosa sappiamo del film su Batgirl
Batgirl, che
arriverà direttamente su HBO Max (la piattaforma di streaming di
proprietà di WarnerMedia), sarà diretto da Adil El
Arbi e Bilall Fallah, registi
di Bad
Boys for Life e di alcuni episodi dell’attesa
serie Ms.
Marvel, in arrivo su Disney+. Nel film
dovrebbe tornare J.K. Simmons nei panni del Commissario James
Gordon, già interpretato in Justice
League.
Christina Hodson,
che ha scritto lo spin-off Bumblebee e
che ha lavorato anche ai film DC Birds of
Prey e The
Flash, ha scritto la bozza più recente della
sceneggiatura. “Con Batgirl, speriamo di condurre il
pubblico in un viaggio divertente. L’obiettivo è mostrare loro un
lato diverso di Gotham”, aveva dichiarato il
produttore Kristin Burr. “La
sceneggiatura di Christina è piena di spirito. Adil e Bilall hanno
un’energia talmente viva che è quasi contagiosa, cosa che li rende
i registi perfetti per questo nuovo progetto sull’universo di
Batman. Sono semplicemente entusiasta di poter far parte
dell’universo DC. È fantastico.”
In
origine, Batgirl doveva essere diretto
da Joss Whedon, regista di The
Avengers e Avengers:
Age of Ultron, nonché della versione cinematografica
di Justice
League. Tuttavia, nel 2018, il regista ha deciso di
abbandonare il progetto, ammettendo di non essere riuscito a
“decrifrare la storia”.
Essendo il primo film della Fase 4
ad essere ambientato dopo gli eventi di Avengers:
Endgame, i fan si aspettavano un riferimento.
Tuttavia, è probabile che d’ora in avanti non ci sarà più bisogno
di rivisitare quei cinque anni in ogni singola storia futura. Ad
ogni modo, in una recente intervista con
The Direct, il produttore di Shang-Chi,
Jonathan Schwartz, ha spiegato il motivo per cui
nel cinecomic dedicato al primo supereroe asiatico della Marvel non sia stato dedicato più
tempo alle conseguenze del Blip.
“L’idea era quella di rendere
chiaro allo spettatore che il film fosse ambientato dopo Endgame,
ma al tempo stesso non volevamo soffermarci troppo su quegli
eventi”, ha dichiarato Schwartz. “C’era molto da
raccontare a proposito di Shang-Chi. Volevamo concentrarci sulla
storia di questo personaggio e raccontare al pubblico come lo
stesso si relaziona in merito al suo percorso, e non a quello già
tracciato da altri in precedenza.”
Shang-Chi non rivela,
infatti, se personaggi come l’eroe eponimo, Katy e Wenwu siano
stati ridotti in polvere durante gli eventi di Avengers:
Infinity War. Tuttavia, non sembra che sia
stato così, quindi è probabile che non siano stati influenzati più
di tanto dalla minaccia di Thanos quanto personaggi come Monica
Rambeau e gli stessi Vendicatori.
Vi ricordiamo che nei panni del
protagonista ci sarà l’attore canadese Simu
Liu, visto di recente nella commedia di NetflixKim’s Convenience. Insieme a
lui, nel cast, figureranno anche Tony
Leung nei panni del Mandarino, e Awkwafina,
che dovrebbe interpretare un “leale soldato” del Mandarino, e se è
vero che il villain qui sarà il padre di Shang-Chi, in tal caso ci
sono ottime possibilità che si tratti di Fah Lo Suee. Chi ha letto
i fumetti saprà che è la sorella dell’eroe del titolo e che il suo
superpotere è l’ipnosi.
Iniziata nel 1979, la saga di
Alien è oggi una delle più
affascinanti narrazioni sullo scontro tra l’essere umano e gli
alieni. Il primo film, diretto da Ridley Scott, è
ancora oggi considerato uno dei più importanti horror di
fantascienza di sempre e il suo sequel Aliens – Scontro
finale, diretto da JamesCameron, è uno dei migliori secondi capitoli
mai arrivati al cinema. Dopo questi, nel 1992 è arrivato al cinema
il poco apprezzato Alien³, diretto da
David Fincher e caratterizzato da divergenze
artistiche tra lo stesso regista e la produzione. Con questo terzo
capitolo la saga sembrava essersi conclusa, ma nel 1997 è invece
stato realizzato Alien – La
clonazione.
Il nuovo film, diretto stavolta da
Jean-Pierre Jeunet (che pochi anni dopo questo
film realizzerà il ben diverso Il favoloso mondo di
Amelie), si configura però come un seguito piuttosto diverso.
Questo è infatti ambientato 200 anni dopo gli eventi del precedente
film e con la presenza alla regia di Jeunet il film sfoggia uno
stile visivo particolarmente unico e a suo modo distinto da quello
dei precedenti film. Nonostante ciò, il film venne accolto in
maniera piuttosto tiepida dalla critica, che non mancò però di
sottolineare i miglioramenti presenti rispetto al precedente
film.
Dopo questo film, però, la saga di
Alien prese nuove strade, vedendo da prima arrivare al
cinema il crossover Alien vs. Predator e il
suo sequel, e in seguito i film Prometheus e Alien: Covenant, i
quali fungono da prequel della saga principale. Prima di
intraprendere una visione del film, però, sarà certamente utile
approfondire alcune delle principali curiosità relative a questo.
Proseguendo qui nella lettura sarà infatti possibile ritrovare
ulteriori dettagli relativi alla trama e al
cast di attori. Infine, si elencheranno anche le
principali piattaforme streaming contenenti il
film nel proprio catalogo.
Alien – La clonazione: la trama del
film
Duecento anni dopo la morte di
Ellen Ripley, a bordo di un’astronave laboratorio
in viaggio verso la Terra, grazie ad una combinazione diabolica di
genetica umana resa possibile da un’alleanza fra una banda di
contrabbandieri ribelli e un’equipe di scienziati, viene prodotto
un essere alieno che si rivela molto più pericoloso e ingestibile
del previsto. Per combattere la minaccia aliena, i responsabili
della mostruosità decidono di riportare in vita Ellen tramite la
clonazione, poiché lei è l’unica ad essere riuscita a sconfiggere
tali creature.
La nuova Ripley, chiamata anche
Clone 8, è tuttavia formata da una combinazione del sangue
originale con un DNA estraneo. Proprio a causa di tale miscuglio,
la donna ha generato una serie di mutazioni come anche una
gravidanza inaspettata e particolarmente pericolosa. Alleatasi con
il gruppo di mercenari e scienziati, Ripley si trova così
nuovamente a dover preservare la specie umana, specialmente
considerando la sempre più prossima vicinanza al pianeta Terra.
Nessuno può però prevedere da che parte stia realmente Ripley, che
sempre più avverte delle tendenze aliene.
Alien – La clonazione: il cast del
film
Per il nuovo Alien era
indispensabile la presenza dell’attrice Sigourney
Weaver nel ruolo di Ellen Ripley. L’attrice, tuttavia,
non era assolutamente interessata a partecipare ad un quarto
capitolo. Pur di convincerla, i produttori le offrirono un compenso
molto più elevato, ma alla fine la Weaver accettò anche poiché
aveva trovato interessante l’idea di dar vita ad un personaggio
allo stesso tempo simile e diverso rispetto a quello visto nei
precedenti film. L’attrice ha inoltre avuto grande potere
decisionale, e si impose ad esempio perché la scena dell’incontro
con la regina degli alieni non venisse rimossa.
L’attrice Winona Ryder recita
invece nel ruolo di Annalee Call, la più giovane tra i membri a cui
Ripley si allea. Per partecipare al film, la Ryder si è trovata
anche ad eseguire una scena d’immersione subacquea, cosa da lei
sempre rifiutata per via di un incidente avvenuto anni prima e nel
quale è quasi affogata. L’attore Ron Perlman,
celebre per aver interpretato Hellboy al cinema, è Ron Johner, il
mercenario del gruppo, mentre Dominique Pinon è
Dom Vriess, il paraplegico meccanico dell’astronave. Gli attori
Gary Dourdan e Mchael Wincott
sono poi i membri dell’equipaggio Gary Christie e Frank Elgyn.
Alien – La clonazione: il trailer e
dove vedere il film in streaming e in TV
È possibile fruire del film grazie
alla sua presenza su alcune delle più popolari piattaforme
streaming presenti oggi in rete. Alien – La
clonazione è infatti disponibile nei cataloghi di
Rakuten TV, Chili, Google Play, Apple iTunes, Amazon Prime Video, Disney+ e Tim Vision. Per
vederlo, una volta scelta la piattaforma di riferimento, basterà
noleggiare il singolo film o sottoscrivere un abbonamento generale.
Si avrà così modo di guardarlo in totale comodità e al meglio della
qualità video. È bene notare che in caso di noleggio si avrà
soltanto un dato limite temporale entro cui guardare il titolo. Il
film è inoltre presente nel palinsesto televisivo di
martedì 7 settembre alle ore
23:45 sul canale Rai 4.
Ecco il teaser trailer di
Matrix Resurrection che ci invita a visitare il
sito ufficiale del film per guardare le due versioni “interattive”
del primo teaser dell’atteso film che ci riporta nel mondo di
Neo.
Matrix
4 vedrà nel cast il ritorno
di Keanu
Reeves, Carrie-Ann
Moss e Jada
Pinkett-Smith al fianco delle new
entry Yahya Abdul-Mateen II, Neil
Patrick Harris, Jonathan Groff, Jessica
Henwick, Toby
Onwumere e Christina Ricci.
L’uscita nelle sale è fissata per il 22 dicembre 2021. Il nuovo
capitolo del franchise sarà diretto da Lana
Wachowski. La sceneggiatura del film è stata firmata a
sei mani con Aleksandar Hemon e David Mitchell.
Con il titolo di
La Caja, Lorenzo Vigas torna al Lido di Venezia,
presentandolo in concorso alla 78esima Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica, dopo che nel 2015 era stato premiato con il Leone
d’oro al miglior film per Ti guardo, facendolo
diventare la prima opera di nazionalità sudamericana a ricevere il
riconoscimento. I colleghi che lo seguiranno, saranno
Guillermo del Toro nel 2017 con La forma
dell’acqua (anche se, a onor del vero, concorreva con la
bandiera degli Stati Uniti) e Alfonso Cuaròn
l’anno successivo con Roma.
Ai tempi Vigas era
esordiente: Ti guardo era il suo primo
lungometraggio e parlava di un rapporto morboso dai tratti
omoerotici tra un uomo di mezza età e un giovane appartenente a una
gang di Caracas. Ne La Caja – la cui traduzione è
“la cassa” – la questione è molto diversa, ma ad avere séguito è la
relazione sbilanciata che s’instaura tra un uomo sulla cinquantina
e un ragazzo adolescente.
La Caja, la trama
Hatzín (interpretato da
Hatzín Mendoza) sta viaggiando in treno diretto al
nord del Messico per recuperare i resti del padre che son stati
trovati in una fossa comune. Solo e apparentemente abbandonato a se
stesso, l’unico contatto che ha è quello con la sua nonna, a cui
telefona periodicamente, rassicurandola e aggiornandola sui suoi
spostamenti.
La cassa del titolo è
quella dentro la quale ad Hatzín vengono finalmente consegnate le
spoglie del papà, e che lui tiene in braccio portandola
sommessamente su un autobus di ritorno verso casa della nonna.
Fintanto che, durante il viaggio, non nota dal finestrino un uomo
che gli pare fortemente familiare (Hernán
Navarrete), e che decide d’iniziare a seguire ad ogni
costo, anche quello di cambiare definitivamente rotta.
Sì, perché le tematiche
che Vigas fa emergere da La Caja, affondano le
radici in tanta della cultura e dell’immaginario sudamericani. Una
ferita e un dolore profondi e penetranti, che gridano gli effetti
di un’orfanezza così diffusa, da essere diventata una condizione
sociale.
Ed è di questa fame
continua che narra il film, prodotto ancora una volta da
Michel Franco, a sua volta presente a Venezia per
il film Sundown. Un vuoto appartenente ad un
popolo intero, che accomuna talmente tanto da generare un
incessante bisogno di giustizia.
L’uomo che Hatzín segue è
un personaggio semplice e ambiguo, per quanto non troppo calcato
nelle sue sfumature. E la resa che fanno entrambi gli attori della
loro relazione, è sempre su una linea vagamente tratteggiata, che
non regala mai prove degne di reale profondità, che raccontino per
davvero il dramma in corso.
Una storia che “gronda sangue”
Probabilmente è anche un
bene che sia così, perché, nell’essere certamente un’occasione
mancata, agevola nell’adoperare il giusto distacco a seguire una
storia che, in realtà, gronda sangue da ogni lato.
Perché Hatzín interpreta
lo smarrimento e l’estenuante ricerca di un padre che riguardano
Paesi interi. La necessità di sentire di appartenere a qualcuno, e
da questo qualcuno provenire, è così inscritta nell’uomo, da
generare una mancanza di senso rispetto alla propria stessa vita,
che è proprio quello contro cui dovrà iniziare a combattere il
giovane protagonista.
Ma se è vero che chi ci
genera ci spiega la nostra sorgente, è altrettanto vero che non ci
determina. Così può addirittura accadere di essere in grado di
prendere una posizione di netto distacco da qualcosa che
decisamente non si condivide, rifiutare di seguire le orme del
proprio padre, e da lì scegliere per la vita.
Perché, di fronte alle
sofferenze subite da una situazione politico sociale in cui Hatzín
è nato e per la quale non può fare niente, il potere che gli resta
in mano ha molta più forza di quella che gli può essere imposta
dalla sua storia. Ed è a partire da questo che può scegliere
davvero l’esempio da seguire.
Attualmente in sala,
Shang-Chi e la leggenda
dei Dieci Anelli (qui la recensione) è il nuovo
film della Marvel, nonché il primo a vantare
un supereroe asiatico. Come già avvenuto per gli altri titoli che
compongono questo ricco universo narrativo, anche il nuovo film si
configura come una origin story che lascia presumere che
il personaggio sarà tra i principali nuovi volti dell’MCU. Numerose sono poi le curiosità
legate al lungometraggio, da scoprire sia che se si è già visto il
film, sia se non lo si è ancora andati a vedere.
Ecco 10 curiosità su
Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli.
Shang-Chi e la leggenda dei Dieci
Anelli: un primo adattamento del personaggio
1. Stan Lee voleva dar vita
al personaggio già negli anni Ottanta. Ben prima che il
Marvel Cinematic Universe venisse
anche solo concepito, il padre di molti dei supereroi della
Marvel, Stan Lee,
aveva già ipotizzato un adattamento per il grande o piccolo schermo
del personaggio di Shang-Chi. Verso la fine degli anni Ottanta,
infatti, egli iniziò a sviluppare il progetto pensando a
Brandon Lee come interprete del protagonista. Il
personaggio di Shang-Chi era infatti basato a livello visivo su
Bruce Lee, e suo figlio Brandon sembrò essere una
scelta logica per il ruolo. Il progetto, però, non venne mai
realizzato.
Shang-Chi e la leggenda dei Dieci
Anelli: il primato stabilito dal film
2. È il primo film del
Marvel Cinematic Universe con un
protagonista asiatico. Oltre ad essere il venticinquesimo
film del MCU, Shang-Chi e la leggenda
dei Dieci Anelli ha stabilito l’importante primato di essere
il primo film incentrato su un supereroe asiatico. L’obiettivo era
infatti quello di esplorare “temi asiatici e asioamericani,
realizzati da cineasti asiatici e asioamericani”, in modo simile a
quanto fatto con la cultura africana e afroamericana in Black
Panther (2018).
Shang-Chi e la leggenda dei Dieci
Anelli: il cast del film
3. Simu Liuha richiesto alla Marvel di considerarlo per il ruolo
tramite Twitter. Divenuto noto grazie a serie televisive
come Kim’s Convenience, Blood and Water e Taken,
l’attore Simu Liu attendeva da tempo un ruolo che
potesse consacrarlo all’interno del mondo di Hollywood. Nel
dicembre del 2018 egli scrisse dunque tramite il social network
Twitter all’account ufficiale della Marvel, richiedendo espressamente
di essere preso in considerazione per il ruolo di Shang-Chi. Nel
luglio del 2019, infine, egli scrisse un nuovo Tweet in cui
ringraziava la Marvel per avergli assegnato il
ruolo.
4. Tony Leung non conosceva
Mandarino. Meglio noto per aver recitato in diversi film
di Wong Kar-wai, come Hong Kong Express, Happy
Together e soprattutto In the Mood for Love, l’attore
Tony Leung è stato scelto per interpretare il
villain Mandarino in Shang-Chi.
Leung, tuttavia, non sapeva assolutamente nulla del personaggio e
la Marvel gli permise di non dover
fare ricerche a riguardo, bensì di immaginare una storia originale
per il personaggio. Leung si concentrò così sull’ipotizzare ciò che
lo ha portato a divenire il cattivo che è.
5. Awkwafina si è allenata
in modo particolare per il suo ruolo. Nel film l’attrice
Awkwafina, recentemente vincitrice del Golden
Globe per il suo ruolo da protagonista in The Farewell – Una
bugia buona, interpreta qui Katy, la migliore amica del
protagonista, verso cui prova un affetto molto sincero. Coinvolta
anche lei in diverse scene d’azione, l’attrice si è preparata
addestrandosi nelle acrobazie d’auto e nel tiro con l’arco.
Shang-Chi e la leggenda dei Dieci
Anelli: il significato degli anelli
7. Gli Anelli hanno ognuno
un proprio simbolo. I simboli nel logo dei Dieci Anelli
sono caratteri cinesi: “hong” (vasto), “xiong” (che significa in
vario modo maestoso, maschile o eroico), qiang” (forza e potere),
“wei” (che significa in vario modo potere o timore reverenziale),
“quan” (autorità e potenza), “li” (potenza e forza), “zhuang”
(forte, robusto), “wei” (grandezza), “jie” (eccezionale) e “sheng”
(ascendente).
Shang-Chi e la leggenda dei Dieci
Anelli: i registi per il film
8. Ang Lee avrebbe potuto
dirigere il film. Quando nel 2003 il regista premio Oscar
Ang Lee portò
al cinema il film Hulk, primo adattamento dedicato al
personaggio, egli si disse intenzionato a produrre, ed
eventualmente anche dirigere, un film su Shang-Chi. Suo desiderio
era infatti di portare al cinema un supereroe asiatico,
dimostrandone il potenziale. A causa dello scarso successo di
Hulk, tuttavia, il progetto non venne mai realizzato.
9. Per Destin Daniel Cretton
è il primo film commerciale della sua carriera. Il regista
hawaiano con origini giapponesi Destin Daniel
Cretton vanta ad oggi una serie di lungometraggi di stampo
indipendente quali Short Term 12, Il castello di vetro e
Il diritto di opporsi, tutti interpretati dalla premio
Oscar Brie Larson.
Nel momento in cui questi è stato scelto per la regia di
Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli, per lui è stata
l’occasione per misurarsi con un progetto molto diverso e
particolarmente più commerciale rispetto ai suoi precedenti
lavori.
Shang-Chi e la leggenda dei Dieci
Anelli: le auto presenti nel film
10. Il film presenta diversi
nuovi modelli di BMW. Come Black Widow (2021), che ha debuttato due
mesi prima di questo film, anche Shang-Chi contiene un
ampio presenza di prodotti BMW. I coupé M8 e i8 sono infatti
presenti all’inizio del film nelle scene ambientate a San
Francisco, mentre Katy ruba un prototipo iX3, non ancora rivelato
pubblicamente all’inizio delle riprese, per il viaggio a Ta Lo.
A dirigerla è
Hagai Levi, regista e sceneggiatore israeliano,
che viene dalla creazione di In Treatment nel 2008
e The Affair del 2014. La serie è una
rivisitazione di quella omonima del ’73 di Ingmar Bergman, dove la
trama e le fila principali delle tematiche non si discostano molto
dalla versione svedese, ma possiedono fondanti distinzioni che
mostrano chiaramente l’ambientazione ai giorni nostri.
In Scene da un
matrimonio Mira (Jessica
Chastain) e Jonathan (Oscar
Isaac) sono due ex sposi che si incontrano in momenti
diversi, principalmente nella casa dove abitavano quando erano
moglie e marito, e discutono molto, a ondate, passandosi di volta
in volta il testimone dell’egoismo, del bisogno, del vuoto e della
dipendenza.
Scene da un matrimonio, un
racconto aggiornato ai tempi
Nonostante negli anni
’70, quando era uscito Scene da un matrimonio,
stessero iniziando le prime rivoluzioni d’idee e ruoli – anzi:
forse soprattutto per questo –, a prendere la decisione di
andarsene era stato Johan (Erland Josephson), così
come ad avere reazioni fisiche violente e ad avere il ruolo
talvolta più distaccato.
Nel dramma riscritto da
Hagai Levi, invece, le situazioni sono quasi del
tutto invertite, non fosse altro perché oggi a subire la scelta del
partner è il marito, che si trova quindi a dover gestire ogni
anfratto del proprio mondo emotivo, fino a quel momento pressoché
sconosciuto.
La ricchezza del
riaccostarsi alla triste storia di un matrimonio che finisce,
riadattandola alla mentalità di oggi, sta prevalentemente nel fatto
che non c’è spiegazione o matassa che possa veramente sbrogliarsi e
ricevere finalmente la luce, ed è una questione che vale da che
mondo è mondo. Perché il punto principale è sempre uno, e uno solo:
è difficile e ci vuol pazienza.
La sintonia armoniosa
con cui Jessica Chastain e Oscar Isaac si muovono e danzano nel corso
delle sequenze, racconta in maniera perfetta l’andatura di ogni
fase che si attraversa quando ci si lascia, ma non ci si vuole
lasciare. I protagonisti incastrano gli stati emotivi,
alternandoli, raccontandone lo smarrimento, e parlando di qualcosa
che conosciamo tutti molto bene – certo: chi più chi meno.
L’universalità dei sentimenti di Scene da un
matrimonio
Ma è buffo, per alcuni
aspetti, osservare come tutto il mondo (dei sentimenti) sia paese,
quando si parla di amore, e quando si capisce che non ci si capisce
più, ma in fondo ancora ci sia ama. E poi, come riconoscere se
ancora ci si ama veramente? C’è da ammettere che fiumi d’arte si
son sprecati su un argomento di tale portata, e tanti ancora ne
scorreranno.
Certo è che il lavoro
fatto da Hagai Levi è scritto in maniera efficace
e chiara, e lo sviluppo del canone naturalistico è reso, appunto,
in modo sempre scorrevole dagli attori, che si rimpallano il
bisogno di riconoscimento reciproco, con una complicità tale che a
volte quasi sfugge loro di mano.
In Scene da un
matrimonio Chastain e Isaac traducono un amore di coppia
della durata di diciassette anni con la capacità di un talento
interpretativo raro, che fu anche del duo formato dalla musa di
Ingmar Bergman, Liv Ullmann, e di Erland
Josephson. Così come era stato per Storia di un matrimonio di Noah
Baumbach, presentato in anteprima sempre a Venezia nel
2019, e per gran parte delle coppie raccontate in chiave assurda da
Woody Allen. La potenza di tali storie si
sorregge sulla forza del dialogo di chi le interpreta, anche e in
modo particolare di quel dialogo che non è espresso. Quasi a voler
mostrare, mettendolo in scena, ciò che nella vita parrebbe così
complicato da realizzare.
Gold Digger è la
nuova serie tv in arrivo su Sky Serie e
NOW, un
intenso thriller romantico con Julia Ormond e Ben
Barnes. Creata da Marnie Dickens (Thirteen) e con
la regia dei primi tre episodi affidata a Vanessa Caswill.
Gold Digger: in streaming, ecco dove vederlo
Gold Digger uscirà dall’8 settembre su SKY SERIE. Gold
Digger in streaming sarà disponibile su NOW
Gold Digger disponibile suNOWe anche on demand su Sky.Iscriviti a soli 3
europer il primo mese e guarda
il film e molto altro.
Gold Digger: trama e
cast
Dopo aver passato
decenni della sua vita totalmente concentrata sui bisogni delle
persone attorno a lei – il suo ex marito, Ted, e i suoi tre figli,
Patrick, Della e Leo – Julia Day (Ormond), una ricca sessantenne,
si lancia in una relazione destinata a suscitare accese
discussioni. Il suo nuovo compagno, infatti, è più giovane di lei,
anzi molto più giovane di lei. Infatti, Benjamin (Barnes), giovane
prestante, ha trentasei anni. La famiglia di Julia, compresa la sua
ex suocera, una donna senza peli sulla lingua, non ha dubbi: altro
che amore, quell’uomo dev’essere per forza un cacciatore di dote.
Se non fosse che Julia, innamoratissima, è pronta a difendere
questa relazione con tutta se stessa. Per tutta la vita ha
sacrificato la sua vita personale, erano anni, infatti, che non si
sentiva così viva, così capita e così amata. La sua sarà la scelta
giusta? Oppure i suoi figli e il suo ex marito riescono a vedere
qualcosa che lei non vede? Cosa nasconde Benjamin? Soprattutto,
cos’è successo nel passato della famiglia Day?
Nel cast di Gold Digger
protagonisti sono
Julia Ormond (Le
Streghe dell’East End,
The Walking Dead: World Beyond)
e Ben Barnes (Le
Cronache di Narnia, Dorian
Gray)
nei panni dei protagonisti, che con la loro scandalosa relazione
amorosa portano in scena un vero e proprio tabù: l’equilibrio dey
Day, una famiglia benestante della Londra viene infatti scosso
quando la madre annuncia di essersi innamorata di un ragazzo con la
metà dei suoi anni. Nel cast ancheAlex
Jenningscome Ted Day, l’ex marito di
Julia. Sebastian Armestocome
Patrick Day, il maggiore dei figli di Julia e
Ted. Yasmine Akramcome Eimear
Day, la moglie di Patrick. Jemima
Roopercome Della Day, la figlia di Julia e
Ted. Archie
Renauxcome Leo Day, il figlio
di 25 anni di Julia e Ted, che vive ancora con sua madre.Nikki Amuka-Birdcome Marsha, l’ex migliore
amica di Julia che ha avuto una relazione con
Ted. Karla-Simone Spenceinterpreta Cali Okello, la figlia di Marsha, la giovane
adulta travagliata alle prese con la perdita di suo
padre. Julia McKenziecome Hazel, la madre di Ted. Indica
Watsoncome Charlotte Day, la figlia di
Patrick e la nipote di Julia. David
Leoncome Kieran, fratellastro
di Benjamin
La prima stagione
di Gold Digger
St. 1 episodio 1: Her Boy: Julia e
Benjamin si incontrano per caso e iniziano a frequentarsi. Quando
Julia lo presenta ai suoi figli adulti, si chiedono se le
intenzioni di Benjamin siano motivate finanziariamente.
St. 1 episodio 2: Julia porta
Benjamin nella sua casa nel Devon, e lui è sorpreso di vedere
l’estensione della sua ricchezza. La visita è interrotta da un
confronto teso con Ted, che mette in discussione le motivazioni di
Julia per formare una nuova relazione. Julia sceglie di tornare a
Londra e chiede di incontrare gli amici di Benjamin, ma quando si
rifiuta di mostrarle dove vive, lei inizia a temere che le stia
nascondendo qualcosa. Della si presenta senza preavviso alla porta
del suo ex, e viene messa sotto pressione da suo fratello perché
dissotterra Benjamin.
St. 1 episodio 3: Quando i figli
di Julia accusano Benjamin di infedeltà, minaccia di dividerli. Ma
la loro relazione si rafforza man mano che vanno a vivere insieme e
Benjamin fa la proposta.
St. 1 episodio 4: Julia decide di
non dire ai suoi figli che è fidanzata quando visitano a Natale,
lasciando Benjamin sentirsi rifiutato. Tuttavia, finisce per
lasciarlo scivolare durante la cena e nessuno dei suoi figli è
felice per lei. Ted mette in discussione con rabbia le motivazioni
di Benjamin e propone cinicamente a Marsha in un atto di
superiorità. Quando individua le sue ragioni egoistiche e lo
rifiuta, lo spinge a ricominciare a bere, oltre a sollecitare i
suoi figli a impedire che il matrimonio vada avanti per il bene
della loro eredità.
St. 1 episodio 5: La tensione si
intensifica quando il membro della famiglia perduto da tempo di Ben
arriva a casa di Julia e si ingrazia la famiglia. Julia decide una
volta per tutte di scoprire la verità sul passato di Ben.
St. 1 episodio 6: Con l’arrivo del
giorno del matrimonio di Julia e Ben, vengono rivelati altri
segreti del passato: per Julia su Ben e per i bambini sul
tormentato matrimonio dei loro genitori. Julia e Ben riusciranno ad
arrivare all’altare?
È un nuovo anno: Otis fa
sesso occasionale, Eric e Adam hanno ufficializzato la loro
relazione e Jean sta per avere un bambino. Nel frattempo, la nuova
preside Hope (interpretata da Jemima Kirke) cerca di ripristinare gli
standard di eccellenza della Moordale, Aimee scopre il femminismo,
Jackson si prende una cotta, mentre un messaggio vocale perduto
incombe ancora.
Tra i nuovi membri del
cast anche: Jason Isaacs nel ruolo di Peter Groff, il fratello
maggiore, di maggior successo e decisamente poco modesto del padre
di Adam; l’artista Dua Saleh, al debutto attoriale nel ruolo di
Cal, un nuovo studente non binario della Moordale; e Indra Ové nel
ruolo di Anna, la madre adottiva di Elsie, la sorellina di
Maeve.
La serie è interpretata
da:
Asa Butterfield,
Gillian Anderson,
Emma Mackey, Ncuti Gatwa, Connor Swindells, Aimee-Lou Wood,
Kedar Williams-Stirling, Chaneil Kular, Simone Ashley, Mimi Keene,
Tanya Reynolds, Mikael Persbrandt, Patricia Allison, Sami
Outalbali, Anne-Marie Duff, George Robinson, Chinenye Ezeudu,
Alistair Petrie, Samantha Spiro, Rakhee Thakrar e Jim
Howick.
Sex Education è scritta e
creata da Laurie Nunn e prodotta da Eleven. Il team di
sceneggiatori comprende Sophie Goodhart, Selina Lim, Mawaan Rizwan,
Temi Wilkey e Alice Seabright, con il contributo di Jodie Mitchell.
La terza stagione è diretta da Ben Taylor e Runyararo Mapfumo,
mentre Laurie Nunn, Ben Taylor e Jamie Campbell sono i produttori
esecutivi.
Nel 2007, quando il
regista Michelangelo Frammartino stava girando in
Calabria Le quattro volte, viene invitato dal
sindaco per una visita nel Parco del Pollino e, nell’occasione, con
grande fierezza il primo cittadino gli fa vedere l’Abisso del
Bifurto. L’esperienza è così impressionante, da spingere
Frammartino a farne un film, mosso dalla suggestione di quei luoghi
primordiali, e dal suono senza fondo del baratro della grotta.
Perché è proprio attorno
a questi punti che ruota la narrazione de Il Buco,
presentato in Concorso alla 78esima Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica a Venezia. Il silenzio totalizzante, senza
alcun tipo di scelta musicale, i dialoghi praticamente inesistenti,
vengono fatti interrompere solo a tratti dal richiamo di un pastore
verso il suo gregge, o dai fischi di speleologi che si calano tra
le rocce, che risultano comunque essere parte di un codice
proveniente da un mondo antico.
Il Buco, un codice proveniente da un mondo antico
La storia, infatti, è
ambientata nel 1961, quando un gruppo di esploratori piemontesi
decide di partire per una spedizione volta a tracciare le
profondità dell’Abisso del Bifurto, appunto. E il tutto in un
periodo storico che stava gettando le basi per cui molti degli
equilibri biologici di quella zona si sarebbero iniziati
irreversibilmente a incrinare.
Quando in Italia il boom
economico stava esplodendo, e cominciavano a fiorire palazzi di
centinaia di metri, degli uomini si incuneavano nei primordi dei
meandri della Terra, evento che diventa l’ottima scusa per
Michelangelo Frammartino per raccontare e portare alla luce una
volta di più qualcosa che oggi abbiamo – evidentemente – sepolto
sotto strati di cemento.
Le uniche parole si
sentono all’inizio del film, e sono di una trasmissione televisiva
di quegli anni, nella quale il telecronista si mostra arrampicato
su un’impalcatura che sale verso la cima del Pirellone in
costruzione, nel cuore di Milano, e ne spiega la spettacolarità,
l’avanguardia. Ed è esattamente di questo calibro la missione che
vuole intraprendere il regista: scendere nella natura selvaggia e
incontaminata, grezza e inospitale, per narrarla in contrasto con
tutto quel che poi lo scintillio apparente della modernità avrebbe
inesorabilmente portato di lì a poco. E lo fa con espedienti che
lavorano per alternanza tra l’asprezza degli spazi e dei volti, e
l’affaccio di quel che stava penetrando man mano nel quotidiano,
proprio come la televisione vissuta come un rituale serale
condiviso nella piazza del paese. Il mondo artificiale,
l’intervento predatorio dell’uomo, è raccontato a chiazze di
colore, improvvise ma ancora timide, esemplificato da ritagli di
giornali raffiguranti Sophia Loren, Kennedy, Marilyn
Monroe, che vengono dati alle fiamme dagli speleologi e
poi gettati nella caverna per scorgerne eventuali passaggi.
Un inno al dominio del creato
Il quadro che dipinge
Frammartino è ancora avvolto dal dominio del creato, che abbraccia
e ingloba tutte le scene, quasi come se fosse un’entità che impera
dall’alto, e gestisce governando ciò che è concesso da ciò che non
lo è. È dell’incontaminazione che vuole parlare, di com’era un
tempo, lasciando una testimonianza che fa da monito su come sarebbe
davvero il luogo che abitiamo, dentro al quale siamo solo ospiti, e
che possiede una potenza che sa essere anche distruttiva.
Attraverso delle immagini
che spesso sono statiche, inamovibili come montagne, a volte
estenuanti per la lentezza, e che fanno sobbalzare dai rumori
tuonanti e inaspettati, Il Buco fa esattamente ciò
che promette: trascina in un terreno ostile, a cui è l’uomo a
doversi adattare, senza possibilità di contrattazione di sorta,
pena: la morte, oppure – e probabilmente, forse, è peggio –
l’estraniazione in grandi città che fanno dimenticare le radici
alle quali apparteniamo.