Negli ultimi anni gli adattamenti
dei videogiochi sono migliorati notevolmente e, sebbene ci siano
ancora alcuni casi di insuccesso, il genere sembra finalmente
ottenere il giusto riconoscimento sia sul grande che sul piccolo
schermo. Il film Minecraft
non ha riscosso un grande successo di critica quando è uscito
all’inizio di quest’anno, ma è destinato a diventare uno dei
maggiori successi al botteghino del 2025. Il film Super Mario Bros. è stato ben accolto su
entrambi i fronti; The
Last of Us e Fallout, invece,
hanno ricevuto ampi consensi in televisione. Secondo Puck, Call of Duty sarà il prossimo
ad essere adattato in un film live-action.
Il sito riporta che la
Paramount Pictures è in trattative per acquisire i
diritti cinematografici della longeva serie di videogiochi e,
sebbene sia ancora presto, si tratta di un segnale promettente. Non
si sa ancora quale gioco verrà adattato né se si tratterà di una
storia originale. I film di guerra non sono più popolari come un
tempo, come dimostra il film
Warfare della A24 uscito quest’anno (che ha incassato
33 milioni di dollari con un budget di 20 milioni).
La serie, sviluppata principalmente
da Infinity Ward, Treyarch e
Sledgehammer Games, è iniziata con Call of
Duty nel 2003. Inizialmente uno sparatutto in prima
persona per PC ambientato nella Seconda Guerra Mondiale, era
incentrato su campagne militari realistiche. Il suo successo ha
portato a Call of Duty 2, seguito da Call
of Duty 3. Call of Duty 4: Modern Warfare
ha poi cambiato le regole del gioco, passando a ambientazioni
moderne e introducendo personaggi iconici come il capitano Price e
una campagna cinematografica per giocatore singolo. La sua modalità
multiplayer ha rivoluzionato il gioco online, mentre World
at War ha introdotto l’ormai iconica modalità zombie.
Non resta a questo punto che
scoprire come evolverà la vicenda, con la Paramount che in caso di
effettivo acquisto dei diritti vorrà sicuramente dar seguito a
questo investimento con film per il cinema o serie TV da destinare
alla piattaforma Paramount+.
È online il nuovo trailer di
After the Hunt, il nuovo film di Luca Guadagninopresentato
oggi alla Mostra del Cinema di Venezia.
Il film è un avvincente dramma psicologico scritto da Nora
Garrett in cui una professoressa universitaria (Julia
Roberts) si trova in un momento cruciale della sua
vita personale e professionale, quando una studentessa modello
(Ayo
Edebiri) muove delle accuse verso uno dei suoi
colleghi (Andrew
Garfield) e un oscuro segreto del suo passato rischia
di venire alla luce.
Prodotto da Imagine Entertainment (Brian Grazer, Allan
Mandelbaum, Jeb Brody), il film ha una durata di 139 minuti ed è
girato in lingua inglese. Il cast è di altissimo livello: oltre a
Julia Roberts,
alla sua prima collaborazione con Guadagnino, Ayo Edebiri, Andrew
Garfield, il cast è composto anche da
Michael
Stuhlbarg (che ha già recitato per Guadagnino in Chiamami col tuo nome) e
Chloë Sevigny
(vista invece in Bones and All).
Nel cast, oltre ai tre attori
citati, si ritrovano anche Michael Stuhlbarg e Chloë Sevigny. La fotografia da
Malik Hassan
Sayeed, il montaggio da Marco Costa, la scenografia da
Stefano Baisi e
i costumi da Giulia
Piersanti. La colonna sonora è composta da
Trent Reznor e
Atticus Ross,
duo premiato con l’Oscar, mentre il suono è curato da
Yves-Marie
Omnes, Craig
Berkey e Davide
Favargiotti, con gli effetti visivi affidati a
Fabio
Cerrito.
Con After the Hunt, Luca Guadagnino porta a Venezia
un’opera che esplora temi di potere, colpa e verità nascoste,
confermando la sua capacità di fondere cinema d’autore e tensione
drammatica.
Il
film racconta la storia di Man-su, specialista nella produzione di carta con 25
anni di esperienza, che vive serenamente con la moglie e i figli
fino al giorno in cui viene improvvisamente licenziato. Determinato
a trovare un nuovo impiego, l’uomo affronta mesi di colloqui
falliti, lavori precari e l’incubo di perdere la casa. Umiliato
dall’azienda che lo ha escluso, prende una decisione drastica: se
non c’è un posto per lui, dovrà crearselo da solo.
Nel suo commento, Park Chan-wook ha dichiarato di essersi ispirato
al romanzo The Ax di
Donald E. Westlake, trovando in Man-su una figura specchio delle
difficoltà e delle responsabilità familiari che attraversano la
vita di molti uomini contemporanei.
Il teaser trailer anticipa le atmosfere tese e drammatiche di un
film che unisce realismo e allegoria, e che conferma l’autore
sudcoreano come uno dei registi più radicali e coerenti del cinema
internazionale.
No Other Choice – Non c’è
altra scelta uscirà prossimamente nelle sale italiane,
distribuito dopo il suo passaggio veneziano.
Adler Entertainment
è lieta di diffondere il teaser della riedizione di Lo
squalo, il capolavoro di Steven Spielberg, il primo blockbuster estivo,
capostipite degli shark movie e autentico manifesto della tensione
cinematografica, che tornerà nei cinema italiani
dall’1 al 3 settembre, in occasione del 50°
anniversario e dopo aver terrorizzato milioni di spettatori al
mondo.
La storia ha inizio quando ad Amity,
una piccola località sulla costa atlantica, un enorme squalo bianco
attacca i bagnanti, il capo della polizia (Roy
Scheider), un giovane biologo marino (Richard
Dreyfuss) ed un cacciatore di squali (Robert
Shaw) decidono di affrontare il terribile animale prima
che colpisca ancora.
Uscito negli Stati Uniti nell’estate
del 1975 e accolto da un successo planetario, Lo
squalo ha terrorizzato intere generazioni con la sua
minaccia invisibile e inarrestabile che arriva dal profondo.
L’iconica colonna sonora firmata da John Williams,
che grazie ad essa vinse il suo secondo Oscar, è entrata
nell’immaginario collettivo: due sole note che bastano a far
crescere la paura per un predatore che non lascia scampo.
Fu proprio con Lo squalo che venne
lanciata la carriera di Spielberg, allora ventisettenne,
spalancando la porta per i suoi futuri successi. La produzione non
fu semplice: lo squalo meccanico da usare per le riprese non
funzionava a dovere, le inquadrature sul mare erano continuamente
rovinate dalle imbarcazioni di passaggio e il tempo di lavorazione
triplicò rispetto a quanto previsto inizialmente.
Ma nonostante tutti gli imprevisti
il film fu un enorme successo al boxoffice mondiale e segnò il
passo per tutti i blockbuster successivi, dalle strategie di
marketing e distribuzione alle tecniche narrative e perfino alle
caratterizzazioni dei protagonisti. A cinquant’anni dalla sua prima
apparizione, questo film conserva intatta la sua forza: un ritmo
perfetto, una regia magistrale, personaggi iconici e una colonna
sonora da urlo, tanto che anche Quentin Tarantino lo ha definito
“il più grande film mai realizzato”.
Il ritorno in sala è un’occasione
unica per vivere (o rivivere) su grande schermo l’esperienza di un
classico assoluto, che ha dato il via a un intero genere e che oggi
continua a influenzare l’immaginario contemporaneo, dagli shark
movies ai film di sopravvivenza, dalle serie TV ai videogame.
Lo squalo, come già riportato, sarà in sala con
Adler dal 1 al 3 settembre.
L’estate non è ancora
finita ma è già tempo di prepararsi al ritorno sui banchi di scuola
con il trailer ufficiale di RIV4LI, la nuova serie
TV per ragazzi e ragazze creata da Simona
Ercolani,
presentata in anteprima al Giffoni Film Festival e disponibile
solo su Netflix dall’1 ottobre 2025.
RIV4LI
esplora i conflitti e le scoperte della preadolescenza: i primi
amori, la costruzione della propria identità, le aspirazioni dei
ragazzi e le aspettative degli adulti, la forza dell’amicizia, ma
anche i pregiudizi che decretano chi è dentro o fuori dal
“gruppo”.
RIV4LI
sono, infatti, i protagonisti della serie, divisi inizialmente in
due gruppi contrapposti. Siamo a Pisa, nella Terza D della scuola
media Montalcini: è questo il regno degli Insiders, il cui leader è
il ragazzo più popolare della scuola, Claudio
(Samuele Carrino), spalleggiato dal suo migliore
amico Dario (Edoardo Miulli). A
sfidarli sarà la nuova arrivata, Terry
(Kartika Malavasi) che, appena trasferita da Roma,
formerà un nuovo gruppo, quello degli Outsider. La rivalità è da
subito accesissima, ma quando la scuola sarà divisa in due da un
vero muro, Insider e Outsider sapranno unirsi per abbattere le
barriere fisiche e relazionali che li separano.
Nel cast anche
Lorenzo Ciamei (Luca), Eugenia
Cableri (Sabrina), Melissa Di Pasca
(Marzia), Joseph Figueroa (Alessio),
Duccio Orlando (Paolo), Andrea
Arru (Pietro).
RIV4LI è
una serie di Simona Ercolani, prodotta da Stand by
me con la regia di Alessandro Celli. Scritta da
Simona Ercolani con Serena Cervoni, Mauro
Uzzeo, Chiara Panedigrano, Sara Cavosi, Angelo Pastore, Ivan
Russo. Produttrice esecutiva è Grazia
Assenza.
Il club dei delitti del
giovedì è l’ultimo giallo su Netflix, e il finale ricco di colpi di scena
della storia deve essere analizzato nei dettagli per essere
compreso. Con una serie di libri da adattare e un cast incredibile
che include Pierce Brosnan, Helen Mirren e Ben Kingsley, il film potrebbe facilmente
diventare un franchise di successo per la piattaforma di streaming.
Il nuovo film apporta alcune modifiche al materiale originale, tra
cui il personaggio di Ron interpretato da Brosnan, ma rimane fedele
allo spirito dei romanzi.
Con un ottimo mistero, un umorismo
accessibile e una scenografia incredibilmente abile, guidata dal
regista di Mamma ho perso l’aereo,Chris
Columbus, c’è molto da apprezzare nel nuovo film. Con
componenti così efficaci, non sorprende che le recensioni di
Il club dei delitti del giovedì siano state molto
positive. Il nuovo film ha uno spirito così affascinante che
sicuramente sarà un grande successo per la piattaforma di
streaming. Con un finale così dettagliato, tuttavia, vale la pena
analizzare la conclusione in dettaglio.
Un membro de Il club dei
delitti del giovedì ha ucciso Peter Mercer
Il film inizia con il club che dà il
titolo al film che si riunisce per discutere della misteriosa morte
di Angela Hughes avvenuta decenni prima. Il caso
irrisolto sembra sospetto fin dall’inizio, con il fidanzato di
Angela, Peter Mercer, che afferma di aver visto un
uomo mascherato scappare dalla sua casa dopo aver gettato Angela
dalla finestra. L’uomo mascherato non è mai stato catturato, ma
sembra ovvio a tutti che Peter Mercer fosse il vero assassino.
Nonostante ciò, nessuno dei poliziotti ha mai avuto dubbi sulla sua
innocenza, tranne Penny Grey, ex membro della
polizia del Kent e co-fondatrice del club.
Penny, convinta che ci fosse stato
un errore giudiziario, ha preso la legge nelle sue mani e ha ucciso
Peter Mercer. Questo la portò a nascondere questo particolare caso
ai suoi compagni, e il club lo scoprì solo dopo che Penny era
diventata troppo malata per lavorare con loro. Al giorno d’oggi,
questo è importante a causa dello stato di Cooper’s Chase. I resti
di Mercer furono sepolti nella proprietà, e il progetto di sviluppo
in cui è coinvolto Ian Ventham prevederebbe lo
scavo del territorio.
Dopo che Tony,
l’ultima speranza per Cooper’s Chase, viene ucciso,
John, il marito di Penny, si sente con le spalle
al muro. Decide di farsi giustizia da solo, proprio come sua
moglie, per nascondere il suo senso di colpa. Con una dose di
fentanil procuratasi grazie al suo precedente lavoro di
veterinario, John uccide Ian. Sfortunatamente per entrambi,
l’intero complotto alla fine viene scoperto. Tuttavia, piuttosto
che andare in prigione, John prende l’importante decisione di porre
fine alla propria vita e a quella di sua moglie. Il film si
conclude con il funerale dei personaggi, avvolto da un’aura di
oscurità e tristezza.
Helen Mirren, Ben Kingsley e Pierce Brosnan e
Celia Imrie in Il club dei delitti del giovedì. Foto di Giles
Keyte/Netflix
Un incidente con Bogdan ha causato
la morte di Tony
Naturalmente, l’omicidio principale
del film ha poco a che fare con le azioni di John e Penny. Tony
Curran, comproprietario della Cooper’s Chase, sembra essere l’unico
a prendersi cura dei residenti della casa di riposo e si rifiuta di
vendere la proprietà ai costruttori. Questo inizialmente lo rende
un eroe. Purtroppo, non tutto è così semplice con Tony. L’uomo è in
realtà piuttosto disonesto, come viene rivelato nel corso della
storia. Lui e Bobby Tanner sono coinvolti in un piano che li vede
coinvolgere uomini disperati provenienti dall’estero per
lavorare.
Quando arrivano, Tony prende i loro
passaporti in modo che non possano andarsene e li sfrutta come
manodopera a basso costo. Bogdan, che all’inizio del film viene
portato a lavorare per Ian, è una di queste vittime. Stanco
dell’oppressione che ha subito e con una madre malata a casa,
Bogdan va a casa di Tony per riprendersi il passaporto. Purtroppo,
la situazione degenera e, nonostante le sue intenzioni contrarie,
Bogdan finisce per uccidere Tony accidentalmente.
Cooper viene salvato e Joyce entra
a far parte del club in modo permanente
Il finale del film vede la
formazione di una nuova versione del club, con Joyce che diventa un
membro più permanente. Nonostante le battute di
Elizabeth durante tutta la storia, tra le due
donne molto diverse inizia a formarsi un legame.
Joyce, in quanto ex infermiera, ha qualcosa di
molto speciale da offrire al club e si è guadagnata il loro
rispetto durante tutto il film. Inoltre, il Cooper’s Chase viene
fortunatamente acquistato dalla persona migliore possibile.
Joanna, la figlia di Joyce, investe nella
proprietà, sperando di renderla ancora migliore. L’amata casa di
riposo continuerà a vivere e il club omonimo avrà ulteriori
possibilità di risolvere altri omicidi negli anni a venire.
Ben Kingsley, Helen Mirren e Pierce Brosnan in Il club dei delitti
del giovedì. Foto di Giles Keyte/Netflix
Il vero significato di Il
club dei delitti del giovedì
Nonostante alcuni momenti di
autentica oscurità e alcuni temi pesanti, la sceneggiatura del film
è caratterizzata da una grande leggerezza. Tutti i membri del cast
hanno la possibilità di brillare in alcuni momenti emozionanti,
immergendosi in un dramma straziante e in una commedia edificante.
Questo equilibrio è difficile da trovare, ma il film ci riesce bene
con il suo sguardo sorprendentemente profondo sulla vita e la
mortalità, così come sul bene e sul male. Nessuno degli assassini
del film è il vero cattivo. Bogdan ha ucciso Tony, ma è stato un
incidente e il risultato del fatto che lui stesso era vittima di
abusi.
Lo stesso vale per Penny, che
desiderava semplicemente vedere fatta giustizia. Le azioni di John,
nell’uccidere Ian, sono forse le più egoistiche, ma sono state
compiute per proteggere la sua amata moglie. Niente è perfetto e
ciascuno dei personaggi ha una sorta di tristezza nella propria
vita. Il rapporto di Elizabeth con il marito, affetto da demenza, è
molto emotivo. La sua perdita arriverà alla fine, come è successo
anche a Penny. I personaggi del film sono complessi, ed è per
questo che la storia funziona.
Sono nella fase avanzata della loro
vita e devono fare i conti con la propria mortalità e le proprie
malattie, il che fa sembrare alcuni di questi omicidi molto più
piccoli e meno importanti. Il nuovo film di Netflix trova un
equilibrio sorprendente nella sua storia avvincente che rende il
film così straordinariamente efficace. Con una visione del mondo
più olistica, The Thursday Murder Club crea un legame emotivo con
gli spettatori che dura anche dopo che l’affascinante mistero è
stato risolto.
Il finale tortuoso di Una
scomoda circostanza –Caught Stealing è
ricco di sangue e colpi di scena inaspettati. Film poliziesco di
Darren Aronofsky basato sull’omonimo libro di
Charlie Huston, in esso si racconta la storia di
un barista di New York City che, accettando di badare al gatto del
vicino, finisce per essere trascinato in una complessa rete di
inganni e morte nella malavita della città. Si tratta di un film
frenetico, caotico e nel complesso divertente, soprattutto quando
Hank, interpretato da Austin Butler, diventa sempre più disperato (e
pericoloso) nei suoi tentativi di sfuggire ai suoi inseguitori.
I colpi di scena tengono Hank (e il
pubblico) con il fiato sospeso, anche quando amici e nemici vengono
eliminati in sparatorie e omicidi. Tutto questo porta a un finale
soddisfacente per l’arco narrativo del personaggio, che potrebbe
anche essere facilmente utilizzato per dare il via a un adattamento
del sequel del romanzo originale. Scopriamo allora con questo
approfondimento cosa succede a Hank nel finale di Una
scomoda circostanza –Caught Stealing e
come questo prepara potenziali future avventure del
personaggio.
Cosa succede a Hank nel finale di
Una scomoda circostanza –Caught
Stealing?
Hank è l’unico grande sopravvissuto
della trama caotica di Una scomoda circostanza –Caught Stealing, riuscendo alla fine a sfuggire
alle autorità fuggendo dal paese con la piccola fortuna in cui si è
imbattuto. Hank non sembra davvero un cattivo ragazzo quando viene
presentato, semplicemente un uomo in difficoltà che sta lottando
con i propri traumi e complessi, ma che in generale si presenta
come una persona perbene. Anche quando il caos del film di
Aronofsky diventa sempre più pericoloso, Hank mostra un notevole
autocontrollo.
Anche il suo omicidio di Russ,
causato da ripetuti traumi alla testa, è descritto in gran parte
come accidentale, con Hank che cerca (senza riuscirci) di portare
Russ in ospedale quando questi sviene a causa delle ferite
riportate. Hank conclude il film consapevole che le autorità lo
ritengono almeno coinvolto negli omicidi, ma con 4 milioni di
dollari a disposizione, che usa per fuggire a Tulum con Bud. Anche
se manda dei soldi a sua madre, questo permette a Hank di
ricominciare da capo, cosa che sembra accettare di buon grado, dato
che ordina una soda invece di un alcolico e si dichiara disposto a
spegnere una partita di baseball.
La morte di Yvonne (Zoe
Kravitz) all’inizio di Una scomoda
circostanza –Caught Stealing aumenta
enormemente la posta in gioco e aggiunge un tocco tragico (seppur
nauseante) al caos che ne consegue. Inizialmente, Hank crede che
siano stati Colorado e i suoi uomini ad uccidere Yvonne, poiché ha
deciso di chiamarli e ha sentito il gangster minacciarla. Tuttavia,
Roman sostiene che Colorado non sia il responsabile e che
probabilmente siano stati i fratelli Drucker, dai quali Hank era
fuggito in precedenza. Il trauma e il mistero della morte di Yvonne
passano leggermente in secondo piano nel corso del film,
soprattutto quando altri personaggi vengono eliminati uno dopo
l’altro.
Tuttavia, uno dei grandi colpi di
scena finali di Caught Stealing arriva dopo che i fratelli Drucker
collaborano con Hank per uccidere Roman. Inizialmente, sembrano
tutti contenti di lasciarsi andare per la propria strada, i Drucker
addirittura progettano di dargli una parte dei soldi per i “servizi
resi”. Tuttavia, si scopre che hanno l’accendino distintivo di
Yvonne, a prova che l’hanno uccisa. Secondo Lipa e Schmully, hanno
ucciso Yvonne perché Hank era fuggito quando erano venuti a
cercarlo la prima volta. Proprio come aveva previsto Roman, i due
volevano mandare un messaggio a Hank su ciò che sarebbe potuto
accadere se li avesse traditi di nuovo, portando direttamente alla
brutale morte di Yvonne.
Come Una scomoda
circostanza –Caught Stealing prepara il
terreno per un sequel
Una scomoda circostanza
–Caught Stealing si conclude dunque con
una nota piuttosto conclusiva per Hank. Dopo aver eliminato
praticamente tutti quelli che lo volevano morto o che fungevano da
capro espiatorio per il caos, il film si conclude con Hank che si
adatta alla sua nuova situazione. Anche le scene post-credits di
Budd suggeriscono che Hank abbia più o meno trovato la pace. Se non
ci fosse un sequel, sarebbe comunque un finale abbastanza
soddisfacente. Tuttavia, ci sono in realtà due seguiti al libro da
cui è tratto il film, che potrebbero facilmente essere utilizzati
come base per dei sequel.
Charlie Huston (che
ha scritto sia i libri originali che la sceneggiatura del film)
crea persino una situazione che potrebbe portare alla prossima
storia nella nuova casa di Hank. Il sequel di Caught
Stealing è Six Bad Things, che segue gli
sforzi di Hank per rimanere sotto il radar in Sud America, solo per
scoprire che la mafia russa vuole indietro i suoi soldi (ed è
disposta a prendere di mira la sua famiglia per ottenerli). Lungo
la strada, Hank deve affrontare una nuova serie di pericolosi tipi
strani, il tutto mentre corre in California per proteggere sua
madre.
Matt Smith e Austin Butler in Una scomoda circostanza – Caught
Stealing
Il terzo capitolo della serie,
A Dangerous Man, costringe Hank a tenere d’occhio
Miguel Arenas, un promettente giocatore di baseball, come parte di
un accordo con i russi. Questo alla fine costringe Hank a tornare a
New York City, una città da cui è fuggito una volta e da cui
potrebbe non riuscire a scappare di nuovo. Questi libri preparano
il terreno affinché Una scomoda circostanza –Caught Stealing possa potenzialmente dare vita a
una nuova serie cinematografica per Austin Butler.
Il vero significato di Una
scomoda circostanza –Caught
Stealing
Una scomoda circostanza
–Caught Stealing è dunque incentrato su
una persona che ha trascorso la propria vita fuggendo dai propri
problemi. Quando Hank si è ferito al ginocchio e ha ucciso il suo
amico in un incidente stradale causato accidentalmente con la sua
auto da adolescente, è fuggito dall’altra parte del Paese. Con
l’aiuto della negazione e dell’alcol, Hank è riuscito a mettere da
parte il suo trauma per un po’.
Quando scoppia una nuova battaglia e
le sue azioni portano inavvertitamente alla morte dei suoi cari,
come Yvonne e Russ, Hank inizialmente cerca di fuggire di nuovo.
Tuttavia, Hank può essere libero (e salvare le altre persone nella
sua vita) solo quando reagisce. Il film equipara la decisione di
Hank di affrontare i suoi problemi con i vari criminali alla sua
lotta finale contro la dipendenza dall’alcol.
Yvonne lo spiega chiaramente a Hank
poco prima di morire, chiedendogli se è il tipo di persona di cui
lei può fidarsi, capace di mantenere la propria posizione e lottare
per ciò che è importante. Anche se è troppo tardi per salvarla,
Hank alla fine prende a cuore queste parole e diventa il tipo di
persona che non solo riesce a sopravvivere, ma anche a prosperare
nel mondo spietato di Una scomoda circostanza –Caught Stealing.
Bella Ramsey non le manda a dire a chi ha
criticato la serie The Last of Us. In una nuova
intervista, Ramsey suggerisce infatti ai critici di giocare al
videogioco invece di guardare la terza stagione della serie HBO.
“Non posso farci niente comunque. La serie è già uscita. Non
c’è nulla che possa essere cambiato o modificato. Quindi penso che
non abbia davvero senso leggere o guardare nulla“, ha detto
Bella Ramsey durante un’apparizione al podcast The Awardist.
”Le persone hanno ovviamente
diritto alle loro opinioni. Ma questo non influisce sulla serie,
non influisce in alcun modo su come la serie continua o altro. Per
me sono cose molto separate. Quindi no, semplicemente non mi
interessa“. Con l’avvicinarsi della terza stagione
dell’adattamento live-action del videogioco post-apocalittico della
Naughty Dog, Bella Ramsey ha quindi dato un suggerimento agli
haters: “Non siete obbligati a guardarlo. Se lo odiate così
tanto, c’è sempre il gioco. Potete semplicemente giocarci di
nuovo”, ha detto. “Se invece volete guardarlo, spero che
vi piaccia”.
Basato sul pluripremiato videogioco
di Naughty Dog, The Last of Us è ambientato 20
anni dopo la distruzione della civiltà moderna. Joel, interpretato
da Pedro Pascal, un sopravvissuto incallito,
viene assunto per far uscire clandestinamente Ellie (Bella
Ramsey), una ragazza di 14 anni, da una zona di
quarantena oppressiva. Quello che inizia come un piccolo lavoro si
trasforma presto in un viaggio brutale e straziante, poiché
entrambi devono attraversare gli Stati Uniti e dipendere l’uno
dall’altra per sopravvivere.
La seconda stagione riprende cinque
anni dopo gli eventi della prima stagione, Joel ed Ellie sono
coinvolti in un conflitto tra loro e in un mondo ancora più
pericoloso e imprevedibile di quello che si sono lasciati alle
spalle. A loro, come protagonista della serie si aggiunge la Abby
di Kaitlyn Dever, la quale ha un conto in sospeso
con Joel. Proprio quest’ultima è stata indicata come personaggio
principale della prossima stagione, sulla quale vige però ancora
molta segretezza.
L’ultima volta che abbiamo visto
Loki, interpretato da Tom Hiddleston, aveva preso posto su un trono
situato nella Cittadella alla Fine dei Tempi. Il Dio delle Storie
ora governa il Multiverso, anche se l’esistenza delle Incursioni
suggerisce che potrebbe trattarsi di una soluzione temporanea.
Loki, infatti, tornerà in Avengers:
Doomsday, e ora sono stati diffusi alcuni dettagli
spoiler sul che potrebbe avere nel film.
Oggi, il fotografo @UnBoxPHD è
infatti stato il primo a rivelare che “si vocifera che
Hiddleston abbia girato oggi per Avengers Doomsday”. Da
allora, Daniel Richtman è
intervenuto per spiegare che “Tom Hiddleston ha girato una
scena nella casa di Steve e Peggy in cui ha una [conversazione] con
loro”. Quindi, se ciò venisse confermato, Loki lascerà la
vecchia fortezza di Colui che rimane per condividere lo schermo con
Capitan America di Chris Evans e Peggy Carter di Hayley Atwell.
In precedenza era stato riferito che
si tratta del Capitan America della Terra-616, con questo film che
riprende la sua storia dopo che è tornato indietro nel tempo alla
fine di Avengers: Endgame per avere il suo lieto fine con
Peggy. Un tempo c’erano progetti per un film o una serie che
seguissero la missione di Steve Rogers di riportare le Gemme
dell’Infinito al loro giusto posto nel tempo. Ora sembra che
spetterà ad Avengers:
Doomsday colmare le lacune.
A 22 anni dall’uscita del classico
di fantascienza Terminator 3: Le macchine ribelli,
il leggendario regista Ridley Scott rivela ulteriori dettagli sul
motivo per cui si è rifiutato di dirigere il film. James Cameron, come noto, è l’ideatore della
saga di Terminator e ha diretto i primi due
capitoli, senza dubbio i due migliori film della serie e candidati
al titolo di migliori film d’azione di tutti i tempi.
Tuttavia, Cameron ha fatto un passo
indietro per il terzo capitolo, che è stato diretto da
Jonathan Mostow. Ma il lavoro era stato offerto
prima a Ridley Scott; ironicamente, Cameron ha diretto
il film Aliens – Scontro finale del 1986, più orientato
all’azione, sequel del capolavoro horror spaziale Alien di
Scott del 1979, quindi questa assunzione come regista sarebbe stata
un ribaltamento della situazione.
Durante una recente intervista con
The Guardian, Ridley Scott ha
dunque rivelato di aver rifiutato 20 milioni di dollari per
dirigere Terminator 3 perché semplicemente
“non è il suo genere”. “Ho rifiutato un compenso di 20
milioni di dollari. Vedi, non posso essere comprato, amico.
Qualcuno mi ha detto: “Chiedi quanto prende Arnold”. Ho pensato:
“Ci provo”. Ho detto: “Voglio quello che prende Arnold”. Quando
hanno detto di sì, ho pensato: “Ca**o”. Ma non potevo farlo. Non è
il mio genere”.
“È come fare un film di Bond.
– ha aggiunto Scott – L’essenza di un film di Bond è il
divertimento e l’eccentricità. Terminator è puro fumetto. Io avrei
cercato di renderlo reale. Ecco perché non mi hanno mai chiesto di
fare un film di Bond, perché avrei potuto rovinarlo”. Molti
probabilmente avrebbero voluto che Scott dirigesse
Terminator 3, considerato un po’ deludente, un
banale rifacimento delle trame passate, che ha iniziato a
infrangere le regole del franchise in modo frustrante. Ma anche
Scott non è infallibile come regista, avendo prodotto alcuni film
che non hanno avuto un grande successo.
I commenti di Ridley Scott rivelano
però una comprensione più profonda del franchise di Terminator,
sapendo che è tonalmente al di fuori della sua area di competenza
quando realizza così tanti film storici dettagliati. Tuttavia,
avrebbe potuto eccellere nella regia del primo
Terminator, che fa qualcosa di simile ad
Alien nel tradurre i classici tropi dell’horror in una
storia di fantascienza.
Nel bene e nel male, Scott è dunque
rimasto lontano dal franchise di Terminator, sperando che una
scelta migliore di lui potesse dirigere qualcosa di degno dei suoi
predecessori. Non è quello che è successo, ma qualunque cosa sia
ora il franchise di Terminator nel suo complesso,
i vari alti e bassi nella qualità fanno tutti parte
dell’esperienza.
La
competizione ufficiale della 82ª
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia
accoglie oggi uno dei titoli più attesi: Eojjeol suga eopda (No Other Choice), il nuovo
film di Park
Chan-wook, regista sudcoreano che negli ultimi vent’anni
ha saputo imporsi come una delle voci più radicali e riconoscibili
del cinema internazionale, autore di cult come Oldboy, Lady Vendetta e Parasite.
La
storia ha come protagonista Man-su, specialista nella produzione di carta con 25
anni di esperienza, soddisfatto della propria vita familiare e
professionale. Tutto sembra perfetto, finché la sua azienda lo
licenzia con poche parole: “Non abbiamo altra scelta”. Da quel
momento, l’uomo si ritrova intrappolato in una spirale di
frustrazione e precarietà: un anno di colloqui andati a vuoto, un
lavoro mal pagato in un negozio al dettaglio, il rischio di perdere
la casa conquistata con sacrificio. Umiliato dal responsabile di
linea della Moon Paper, Man-su decide di forzare il destino: se non
c’è un posto per lui, sarà lui stesso a crearselo.
Nel suo commento, Park Chan-wook spiega di essersi ispirato al
romanzo The Ax di Donald
E. Westlake, da cui ha tratto una riflessione personale: “Anch’io,
come Man-su, credo che esista un certo modo di essere padre, marito
e uomo. Dopotutto, sono anch’io un uomo con una famiglia.”
No Other Choice arriva a
Venezia dopo una lunga gestazione – quasi vent’anni – e si presenta
come un dramma esistenziale e sociale, in equilibrio tra critica al
sistema e ritratto umano universale, arricchito dallo sguardo
rigoroso e visionario di Park Chan-wook.
La
storia ruota attorno a una professoressa universitaria che si
ritrova a un bivio personale e professionale quando una studentessa
modello muove un’accusa contro un collega. L’episodio rischia di
mettere a nudo un oscuro segreto del suo passato, portandola ad
affrontare verità sepolte e scelte difficili.
Prodotto da Imagine
Entertainment (Brian Grazer, Allan Mandelbaum, Jeb Brody),
il film ha una durata di 139 minuti ed è girato in lingua inglese.
Il cast è di altissimo livello: Julia Roberts,
alla sua prima collaborazione con Guadagnino, guida un gruppo di
interpreti che comprende Ayo Edebiri, Andrew
Garfield, Michael Stuhlbarg e Chloë Sevigny.
La sceneggiatura è firmata da Nora Garrett, la fotografia da Malik Hassan Sayeed, il montaggio
da Marco Costa,
la scenografia da Stefano
Baisi e i costumi da Giulia Piersanti. La colonna sonora è composta da
Trent Reznor e
Atticus Ross,
duo premiato con l’Oscar, mentre il suono è curato da
Yves-Marie
Omnes, Craig
Berkey e Davide
Favargiotti, con gli effetti visivi affidati a
Fabio
Cerrito.
Con After the Hunt, Luca
Guadagnino porta a Venezia un’opera che esplora temi di potere,
colpa e verità nascoste, confermando la sua capacità di fondere
cinema d’autore e tensione drammatica.
Il
concorso della 82ª
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha
vissuto uno dei suoi momenti più attesi con l’arrivo al Lido del
cast di Jay Kelly, il nuovo film di
Noah Baumbach.
Prima della proiezione ufficiale, il red carpet si è trasformato in
un evento spettacolare, illuminato dalla presenza di grandi star
hollywoodiane.
A
guidare la passerella c’erano George Clooney, accolto da applausi e
flash, e Adam Sandler,
protagonista al fianco dell’amico e regista. Accanto a loro
Laura Dern,
che ha portato sul tappeto rosso la sua eleganza naturale.
L’ensemble del cast comprendeva anche Riley Keough, Billy Crudup, Patrick Wilson, Greta Gerwig e Alba Rohrwacher, che hanno reso la
serata ancora più internazionale e glamour.
Il regista Noah Baumbach ha salutato il pubblico con entusiasmo,
accompagnato dai produttori David Heyman e Amy Pascal,
sottolineando l’importanza di presentare a Venezia un film che
esplora identità, scelte di vita e rapporti umani.
Le foto immortalano sorrisi, complicità e momenti di stile: Clooney
e Sandler hanno catalizzato l’attenzione con la loro presenza
carismatica, mentre le interpreti hanno incantato con abiti
raffinati che hanno dominato i social e i media internazionali.
Con Jay Kelly, Baumbach
porta a Venezia un’opera intima e universale, e il red carpet di
apertura del film ha confermato l’attesa che accompagna questo
titolo destinato a far discutere critica e pubblico.
Con Jay Kelly,
Noah Baumbachtorna in
concorso alla Mostra Internazionale del Cinema della Biennale
di Venezia con un’opera che sembra pensata per conquistare il
pubblico più vasto possibile, sacrificando parte della sua consueta
finezza autoriale. Il film, che vede George
Clooney nei panni di una star in crisi esistenziale,
si muove con disinvoltura tra i codici del dramma e quelli della
commedia, ma lo fa scegliendo scorciatoie narrative che ne limitano
la forza. L’impressione è quella di un racconto “ben
confezionato”, capace di intrattenere senza mai davvero
mettere in discussione lo spettatore.
Il tema centrale è quello
classico del successo pagato a caro prezzo: Jay Kelly, attore
adorato dalle masse, è costretto a confrontarsi con ciò che ha
sacrificato lungo il cammino, in particolare gli affetti familiari
e le relazioni autentiche. Se l’intento dichiarato di Baumbach era
quello di interrogarsi sull’identità e sul senso di una vita
vissuta “in scena”, il risultato appare in parte appiattito su
cliché già noti, dove l’uomo di successo paga l’inevitabile scotto
della solitudine.
Cliché e stereotipi
in viaggio per l’Europa
La cornice del viaggio
europeo dovrebbe offrire respiro al racconto, ma si trasforma in un
catalogo di stereotipi, sul clamore, la confusione, l’accoglienza e
i modi di fare goffi e riguardosi. Tutto ciò rafforza l’idea di un
film che cerca la “poesia” nelle scorciatoie, invece che scavare
davvero nella cultura o nelle contraddizioni dei luoghi
attraversati.
Baumbach sembra cadere
nella trappola di un certo immaginario hollywoodiano, dove l’Italia
in particolare diventa scenario pittoresco al servizio di una
parabola morale americana. Il viaggio del protagonista è ridotto a
specchio che riflette le nevrosi di Jay Kelly senza mai avere un
ruolo determinante.
Tra i momenti più
problematici del film c’è proprio l’incontro tra il divo e le
persone comuni, descritti come depositari di una purezza morale che
il protagonista avrebbe perduto. Baumbach insiste su questa
contrapposizione in modo fin troppo programmatico: il ricco che
scopre nella semplicità del povero una verità più autentica. Un
topos narrativo che, anziché offrire complessità, riduce i
personaggi secondari a funzioni esemplari, perdendo così in
credibilità.
Due star,
un’occasione mancata
La presenza di
George
Clooney nel ruolo principale è senza dubbio l’elemento
più attrattivo del film. L’attore mette al servizio della parte il
suo consueto carisma, reggendo da solo gran parte della scena. La
sua interpretazione ha l’eleganza che ci si aspetta, ma proprio
questa prevedibilità diventa un limite: Clooney è perfetto per
incarnare la star di successo tormentata, ma forse troppo perfetto
per sorprendere davvero.
Accanto a lui troviamo
Adam
Sandler, nei panni del manager Ron. Un personaggio
che, almeno sulla carta, poteva offrire un contrappunto
interessante: il punto di vista di chi vive la fama non da
protagonista ma da figura “satellite”, necessaria ma invisibile.
Purtroppo il film non gli concede abbastanza spazio: Sandler rimane
un comprimario abbozzato, un’ombra di ciò che avrebbe potuto
essere. Una scelta che priva Jay Kelly di
un’angolazione nuova, rinunciando a esplorare il lato più
ambivalente del rapporto tra star e entourage.
Tra cinema e vita: un
finale benevolo
Il finale del film
abbraccia una visione conciliatoria: in fondo, sembra dirci
Baumbach, sacrificare parte della vita privata in nome dell’arte e
della capacità di emozionare il pubblico è un prezzo che può valere
la pena pagare. È un messaggio che suona rassicurante e che, se da
un lato può toccare corde sincere, dall’altro rischia di suonare
autoassolutorio.
Più che un vero bilancio
amaro, Jay Kelly sceglie di chiudere con una nota di
benevolenza verso il protagonista e verso l’industria stessa. Un
atto di fede nel cinema, certo, ma che riduce la complessità del
discorso iniziale a una formula edificante. Il film sembra allora
rivolgersi a chi cerca conferme più che a chi desidera
interrogarsi.
Cortesia Netflix
Un passo indietro per
Baumbach
Jay Kelly appare
come un Baumbach più accomodante. Se opere precedenti come
Marriage Story riuscivano a scavare nelle
contraddizioni umane con lucidità e dolore, qui ci troviamo di
fronte a un prodotto levigato, pensato per piacere senza
urtare. Non a caso, l’opera richiama per atmosfere e
ambizioni la serie The Studio di Apple TV+,
con cui condivide l’idea del dietro le quinte del cinema senza però
la tendenza a graffiare davvero.
È un film che scorre
piacevolmente e che troverà certo il suo pubblico, ma che
difficilmente resterà tra le opere più memorabili del regista. Ben
confezionato, sì, ma anche troppo legato a formule già note,
Jay Kelly rischia di essere ricordato più
come un’occasione mancata che come un capitolo imprescindibile
della carriera di Baumbach.
Werner Herzog, il
venerato autore tedesco dietro “Fitzcarraldo”,
“Aguirre, furore di Dio”, “Nosferatu” e
“Grizzly Man” – tanto per citarne alcuni – ha dato alcuni
consigli molto pratici agli aspiranti registi giovedì durante una
masterclass alla Mostra del Cinema di Venezia. “Bisogna sapere
come falsificare un permesso di ripresa in un Paese con una
dittatura militare, come scassinare serrature”, ha detto.
“Per fare film bisogna essere dei criminali al limite della
legalità. Se non avete questa attitudine, non pensate nemmeno di
diventare registi”.
Altre perle di saggezza fornite
dall’82enne gigante del Nuovo Cinema Tedesco alla sala gremita di
giovani appassionati di cinema andavano dal “leggere molti
libri” – Herzog, a detta sua, guarda solo cinque o sei film
all’anno – al non fissarsi troppo su un progetto specifico.
“Naturalmente ci sono progetti che non sono riuscito a
realizzare”, ha detto, raccontando come negli anni ’90 lui e
Francis Ford Coppola volessero realizzare una
produzione sontuosa sulla conquista spagnola del Messico, vista e
narrata dal punto di vista degli Aztechi.
“Abbiamo passato molte notti
insonni a lavorarci, ma non si è mai concretizzato perché non è
stato possibile finanziarlo”. “L’industria funziona in un
modo specifico”, ha detto Herzog. “Ma invece di cercare di
ottenere finanziamenti senza successo per i prossimi vent’anni, ho
realizzato 28 film [da allora] e ho scritto sette libri in quel
periodo. Questo è quello che ho fatto. Quella sceneggiatura non
realizzata? Non ha importanza”, ha concluso.
Il prolifico regista ha anche
sottolineato che un anno due dei suoi film hanno compiuto l’impresa
unica di essere selezionati per il concorso di Venezia. Nel 2009
Herzog ha presentato in anteprima sia “My Son, My Son, What
Have Ye Done?” che “Bad Lieutenant: Port Of Call New
Orleans”. Herzog ha anche osservato che per lui “il cinema
indipendente non esiste. Si dipende dai sistemi di produzione, si
dipende dalla distribuzione. Si dipende dai permessi”, ha
detto.
“Ma esiste una cosa chiamata
autosufficienza”, ha continuato Herzog. “Guadagnate dei
soldi in qualche modo. Ma non rapinate una banca, perché è
controproducente. Di solito vi prendono”. A Venezia
quest’anno, Herzog ha ricevuto il Leone d’Oro alla Carriera e
presenta in anteprima il suo nuovo documentario “Ghost
Elephants” (qui
la nostra recensione direttamente dal Festival), sulla ricerca
di un branco di elefanti sfuggenti in una zona praticamente
disabitata degli altopiani dell’Angola, grande quanto
l’Inghilterra.
Nel frattempo è impegnato nelle
riprese del suo prossimo lungometraggio, “Bucking
Fastard”, in Irlanda, con le sorelle Kate e Rooney Mara. Herzog sta inoltre sviluppando un
film d’animazione basato sul suo romanzo “The Twilight
World” ed è stato scritturato
come doppiatore nel prossimo film d’animazione di Bong
Joon-ho sulle creature degli abissi marini. “Non
smetto mai di lavorare e ho sempre più di un progetto in
mente”, ha detto. “Ma se ce ne sono troppi, non riesco a
seguirli tutti. Quindi seguo quello che mi sembra più
urgente”.
No Way Up – Senza via di
uscita è un film horror-survival che vede i protagonisti
finire in fondo a un oceano infestato dagli squali (per altri film
sugli squali, leggi anche Paradise Beach – Dentro l’incubo: la storia vera
dietro il film e Lo squalo: la spiegazione del finale del film di
Steven Spielberg). Un aereo diretto a Cabo ospita una varietà
di passeggeri, tra cui Ava, i suoi amici e una
coppia di anziani nonni con la loro giovane nipotina,
Rosa. Tuttavia, l’emozionante viaggio prende
presto una brutta piega quando un incidente in volo fa precipitare
il velivolo direttamente nell’Oceano Pacifico.
Di conseguenza, Ava e i pochi
sopravvissuti che in qualche modo sono riusciti a resistere ai
danni dell’incidente si ritrovano in una lotta per la sopravvivenza
inimmaginabile. Il tutto mentre squali assassini iniziano a
circondare il loro aereo che sta affondando. L’interpretazione
unica del regista di Claudio Fäh di una
storia di squali traccia un percorso avvincente, inedito, mentre la
narrazione mette i personaggi in un angolo senza via d’uscita.
Tuttavia, Ava e i suoi compagni sopravvissuti si rifiutano di
arrendersi alla morte e lottano per raggiungere la superficie
dell’acqua fino all’ultimo respiro.
La trama di No Way Up –
Senza via di uscita
Ava e suo padre, il governatore
locale, hanno un debole per le misure di sicurezza eccessive. Per
lo stesso motivo, quando la studentessa universitaria si presenta
all’aeroporto per imbarcarsi in una divertente vacanza con il suo
ragazzo, Jed, e il suo amico,
Kyle, la sua ex guardia del corpo dei Navy SEAL,
Brandon, la accompagna. Tuttavia, anche Brandon si
rende conto dell’assurdità della situazione. Alla fine accetta,
quando capisce che Ava, che è sempre stata nervosa dopo la morte
prematura della madre, causata da un incidente che si sarebbe
potuto evitare, vuole davvero che lui sia lì.
Sophie McIntosh e Jeremias Amoore in No Way Up – Senza via di
uscita
Nel frattempo, una famiglia composta
da due nonni e dalla piccola Rosa, di 10 anni, si prepara per la
propria vacanza a Cabo. All’inizio, tutto procede senza intoppi
mentre l’aereo decolla. Tuttavia, Ava non riesce a non rimanere
nervosa, incapace di scrollarsi di dosso una brutta sensazione. Col
tempo, la sua premonizione si avvera quando un uccello vola
accidentalmente in uno dei motori dell’aereo. Inizialmente, il
personale di bordo cerca di placare le preoccupazioni dei
passeggeri, insistendo che tutto è sotto controllo. Tuttavia, le
cose prendono presto una piega drammatica.
Il motore prende fuoco, creando un
buco nella fiancata dell’aereo. Molti dei passeggeri che non
vengono risucchiati fuori da esso muoiono a causa delle schegge.
Altri annegano quando l’aereo precipita nell’Oceano Pacifico.
Tuttavia, Ava e i suoi amici, seduti nella parte posteriore
dell’aereo, sopravvivono all’incidente. Fortunatamente, anche
Brandon sopravvive e riesce a trascinare fuori alcuni altri
sopravvissuti: Rosa e sua nonna. Anche uno degli assistenti di
volo, Danilo, sopravvive allo schianto. Il gruppo
si stringe nella parte posteriore dell’aereo, dove si è formata una
sacca d’aria sufficiente a garantire un’ora o due di aria
respirabile.
In questo momento di grave crisi,
Brandon prende il comando e decide di aspettare i soccorsi.
Tuttavia, mentre cerca di procurarsi una bombola di ossigeno per
garantire che non finiscano l’aria, incontra il più grande ostacolo
alla loro sopravvivenza: gli squali. Di conseguenza, mentre Brandon
riesce a guadagnare un po’ di tempo per Ava e gli altri grazie alla
bombola di ossigeno, alla fine diventa cibo per i pesci. Nel
frattempo, una squadra di soccorso sorvola la zona con un
elicottero. Tuttavia, i sopravvissuti si trovano in una situazione
ancora più critica quando l’aereo scivola dalle rocce, affondando
sempre più nell’oceano.
Ava e gli altri capiscono quindi che
devono trovare rapidamente una soluzione proattiva. Per un attimo,
le loro speranze si accendono quando vedono i sommozzatori di
soccorso trovare il relitto. Tuttavia, il loro sollievo è di breve
durata, poiché gli squali divorano i sommozzatori. In seguito, Ava
e Jed tentano di ritirare le bombole di ossigeno dei sommozzatori
più vicini. Tuttavia, l’incontro di Jed con lo squalo gli provoca
una ferita quasi mortale che lo uccide poco dopo.
Grace Nettle e Sophie McIntosh in No Way Up – Senza via di
uscita
Cosa accade nel finale del
film
Nonostante la situazione impossibile
in cui si trovano Ava e gli altri sopravvissuti, poiché il loro
piano dipende da una roccia oceanica, rimane la speranza di
riuscire a fuggire. Grazie all’atteggiamento positivo di Brandon e
alla ricerca incessante dei pirati che il padre di Ava mette in
atto per trovarla, le possibilità che il gruppo resista abbastanza
a lungo da essere trovato rimangono alte. Tuttavia, un’altra
aggiunta alla loro situazione difficile, ovvero la presenza degli
squali, sembra segnare il loro destino. Mentre si trovano
sott’acqua, il gruppo deve trovare il modo di garantire che i
livelli di ossigeno durino abbastanza a lungo.
Tuttavia, questo significa che
devono uscire dalla loro sacca d’aria e dirigersi verso il foro
nell’aereo, dove il subacqueo ha trovato la morte. Ciò solleva il
problema degli squali che aspettano con il fiato sospeso per fare
di Ava e degli altri la loro preda. Fortunatamente, nella stiva
dell’aereo ci sono alcune attrezzature subacquee a cui Danilo può
accedere. Così, Ava, Kyle, Danilo e Rosa indossano le mute per
proteggersi dal freddo dell’oceano. Da parte sua, Nana rinuncia
all’attrezzatura per garantire la sicurezza della nipote. In
seguito, il gruppo si prepara a nuotare verso il foro sul lato
dell’aereo.
Hanno intenzione di prendere le
bombole di ossigeno dei subacquei e usarle mentre nuotano verso la
superficie. Quando il soffitto dell’aereo inizia a cedere alla
pressione dell’acqua dell’oceano e la loro precaria presa sulla
roccia scivola ulteriormente, diventa evidente che devono evacuare
immediatamente l’aereo. Nana, che ha sempre saputo che non sarebbe
riuscita a cavarsela senza attrezzatura nonostante le sue abilità
di nuotatrice, accetta il suo destino. Crede che uscire con il
gruppo li rallenterà solo perché cercheranno di dare la priorità
alla sua sicurezza. Tuttavia, alla donna importa solo della
sopravvivenza di sua nipote.
D’altra parte, Kyle rimane
mortalmente spaventato dal piano a causa di un traumatico incidente
infantile in cui è quasi annegato. Per lo stesso motivo, mentre Ava
e gli altri lasciano la sacca d’aria, Kyle finisce per tornare
indietro a causa della sua paura, il che alla fine lo rende un
facile bersaglio per gli squali. Alla fine, Danilo e Rosa riescono
a sopravvivere e a fuggire dall’aereo con la bombola da sub,
nuotando fino alla fonte. Tuttavia, uno squalo nuota vicino
all’apertura prima che Ava riesca a fuggire.
Phyllis Logan, Will Attenborough, Sophie McIntosh, Manuel Pacific,
Grace Nettle e Jeremias Amoore in No Way Up – Senza via di
uscita
Chi sopravvive alla fine del film?
Dopo la morte di Brandon, Ava
finisce per diventare la leader de facto del piccolo gruppo di
sopravvissuti. Anche se in passato è stata frenata dalla paura, è
in grado di pensare con lucidità e prendere decisioni
indipendentemente da quanto le cose possano sembrare impossibili.
Il suo ottimismo rimane la sua arma più potente. Tuttavia, alla
fine, finisce per affrontare il suo destino da sola. Mentre lo
squalo le impedisce di fuggire dallo scafo dell’aereo, Ava deve
mantenere la calma e il sangue freddo per assicurarsi che il
predatore non la noti.
In seguito, si rende conto che non
può fuggire dal lato della nave, poiché l’imbarcazione sta
scivolando sempre più sott’acqua. Di conseguenza, Ava non ha altra
scelta che nuotare fino alla parte anteriore dell’aereo e fuggire
da lì. Mentre l’aereo si ribalta dalla roccia e si tuffa in acqua,
deve nuotare contro la pressione crescente per evitare di
soccombere alla profondità dell’oceano. A differenza di Danilo e
Rosa, non ha nemmeno una bombola di ossigeno. Di conseguenza, anche
dopo essere fuggita dall’aereo, le sue possibilità di sopravvivenza
sembrano scarse.
Alla fine, la mancanza di ossigeno
ha la meglio sul suo corpo e lei è costretta ad arrendersi e
smettere di lottare per la vita. Questo aiuta il suo corpo a
galleggiare in superficie, grazie al giubbotto di salvataggio che
indossa. Così, il suo corpo galleggia fino alla superficie
dell’oceano, permettendo alla squadra di soccorso di individuarla e
tirarla fuori dall’acqua. Alla fine della storia, Ava, Danilo e
Rosa, gli unici sopravvissuti rimasti, vengono riportati in salvo
su un elicottero. Prima di essere salvata, Ava ha visto il peluche
di Rosa, Mr. Tibbs, nell’acqua e glielo ha riportato.
Prima di salire sull’aereo, Rosa
aveva perso il suo orsacchiotto, cosa che l’aveva fatta arrabbiare.
Mr. Tibbs è una fonte di conforto e sicurezza per la bambina, che
le permette di rimanere calma anche nelle situazioni più avverse.
All’aeroporto, Ava aveva trovato Mr. Tibbs per Rosa, conquistando
la fiducia della bambina. Tuttavia, quando Ava riporta Mr. Tibbs a
Rosa, la bambina decide di lasciarlo andare. Il signor Tibbs è
stato incredibilmente importante per la bambina, fungendo da sua
copertina di sicurezza.
Tuttavia, dopo essere sopravvissuta
a un’esperienza così traumatica, Rosa è cambiata profondamente. Per
lo stesso motivo, si rende conto che i suoi nonni, che hanno
trovato la morte nell’oceano, potrebbero aver bisogno della
protezione del signor Tibbs più di lei. Così, getta il peluche
nell’oceano, simboleggiando la crescita del suo carattere e la
conclusione della sua storia. Un finale “positivo”, ma che lascia
decisamente l’amaro per tutte quelle situazioni viste nel film e
che sono finite in tragedia.
Il
28 agosto la 82ª
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha
accolto il cast e la troupe di Bugonia, il nuovo film di
Yorgos Lanthimos,
tra i titoli più attesi del concorso. Prima della proiezione
ufficiale, il Lido si è acceso con un red carpet che ha visto
sfilare star internazionali e grande eleganza.
Al
centro dei riflettori Emma
Stone, musa del regista greco e già protagonista di
Povere Creature! e
Kinds of Kindness, che ha
illuminato il tappeto rosso con uno stile impeccabile, confermando
la sua intesa artistica con Lanthimos. Accanto a lei, Jesse Plemons,
Alicia
Silverstone, Aidan
Delbis e Stavros
Halkias, accolti dall’entusiasmo del pubblico e dei
fotografi. Presente naturalmente anche il regista, che ha salutato
i fan con la consueta ironia e compostezza.
Il red carpet ha offerto momenti di complicità tra gli interpreti e
i sorrisi condivisi con il pubblico, ma anche attimi di glamour
puro, grazie agli abiti scelti dai protagonisti, tra eleganza
classica e dettagli eccentrici che ben rispecchiano lo stile
visionario del film.
Le foto dal red carpet testimoniano l’entusiasmo per un titolo che
promette di diventare uno degli eventi cinematografici più discussi
della stagione.
Il film Troy
(2004), diretto da Wolfgang Petersen, si ispira
liberamente all’Iliade di Omero, epico
poema che narra le vicende dell’ultimo anno della guerra di Troia.
Pur prendendo spunto dai principali eventi dell’opera, il film
apporta modifiche significative ai personaggi e alle tempistiche,
concentrandosi soprattutto sulla figura di Achille
(Brad
Pitt) e sulla sua tragica tensione tra gloria e
mortalità. La narrazione cinematografica semplifica e riordina la
complessità del poema omerico, rendendo la storia accessibile a un
pubblico moderno pur conservando i temi classici di onore, vendetta
e destino.
Troy si inserisce
nel filone del cinema epico hollywoodiano, caratterizzato da
scenografie monumentali, battaglie spettacolari e un cast di star
internazionali. Accanto a Pitt, troviamo Eric Bana nel ruolo di Ettore e Orlando Bloom come Paride, senza dimenticare
Diane Kruger nei panni di Elena e Brian Cox come re Priamo. Il film unisce
azione, dramma e romanticismo, richiamando l’epica di opere come
IlGladiatore o Le crociate di Ridley Scott, ma distinguendosi per la fusione
tra mito greco e spettacolarità hollywoodiana contemporanea.
Tra i temi centrali emergono
l’eroismo, la lealtà familiare e il conflitto tra desiderio
personale e dovere morale. La vendetta, la passione amorosa e la
gloria eterna scandiscono le vicende dei protagonisti, rendendo
Troy un racconto di eroismo e tragedia umana. Le
battaglie, le strategie militari e le tensioni tra fazioni si
intrecciano con riflessioni sul destino e sulla mortalità. Nel
prosieguo dell’articolo verrà proposta una spiegazione del finale
del film, analizzando come le scelte dei personaggi e la tragedia
personale di Achille e Paride influenzino l’esito della guerra di
Troia.
La storia si svolge intorno al 1200
a.C., quando tutte le città-stato della Grecia sono sotto il
controllo dell’avido re acheo Agamennone. Solo una
di queste rifugge da lui, ed è la potente città di Troia.
Conosciuta per le sue mura difensive, questa è da sempre rimasta
inviolata. Desideroso di estendere il proprio dominio all’intero
territorio, Agamennone sfrutta il tradimento subito da
Menelao per dichiarare guerra alla città. Il
fratello del re, infatti, è stato privato della bella moglie
Elena, fuggita a Troia con il principe
Paride. Per riparare a questo torto, un enorme
flotta di achei intraprende la sua marcia verso la potente città
nemica.
Forte dietro le sue mura, il re
Priamo si dice tranquillo per l’imminente
battaglia, potendo vantare dalla sua parte il potente figlio e
soldato Ettore. Ciò che i troiani non sanno, però,
è che in guerra con gli achei è partito anche il temibile
Achille. Semidio in cerca di gloria eterna, questi
è pressocché immortale, non fosse per un unico punto debole. Sarà
lui l’arma segreta che i greci invieranno alla conquista di Troia.
Nel corso della lunga guerra, entrambe le fazioni dovranno
inevitabilmente fare i conti con le paure, le passioni e i desideri
di ognuno di loro, elementi che rischieranno di compromettere in
modo irreparabile le rispettive sorti.
La spiegazione del finale del film
Nel terzo atto di
Troy, la tensione raggiunge il culmine con il
duello tra Achille e Ettore fuori dalle mura della città. La
battaglia è intensa e letale: Achille uccide Ettore e trascina il
suo corpo sulla spiaggia di Troia, mostrando sia la sua forza
sovrumana sia la crudeltà della guerra. Il re Priamo riesce però a
introdursi nel campo greco e implora Achille di restituire il corpo
del figlio per i riti funebri. Mosso dalla vergogna e dal rispetto,
Achille acconsente, permette a Briseide di tornare a Troia con
Priamo e concede una tregua di dodici giorni per celebrare i
funerali.
Nonostante il gesto di Achille,
Agamennone insiste per conquistare Troia a qualsiasi costo. Odisseo
elabora un piano ingegnoso: costruire il famoso cavallo di legno
come presunto dono di pace, mentre le navi greche si nascondono in
una baia vicina. I Troiani portano il cavallo dentro le mura, e di
notte i soldati greci nascosti al suo interno aprono i cancelli
alla loro armata, dando inizio al sacco della città. La popolazione
troiana viene sterminata o ridotta in schiavitù, mentre Andromaca e
Elena guidano alcuni superstiti verso la salvezza, e Paride
consegna la Spada di Troia a Enea per proteggere i
sopravvissuti.
La resistenza finale dei Troiani
avviene nel palazzo, dove Glauco guida i soldati rimasti in una
coraggiosa difesa. Nonostante i successi iniziali, i Troiani
vengono però sopraffatti. Agamennone penetra nella sala del trono,
uccide Priamo e cattura Briseide, che poi vendica la morte del re
uccidendo Agamennone. Nel caos della battaglia, Paride trafigge
invece Achille al tallone con una freccia e lo colpisce più volte,
provocandone la morte. Achille, morente, si congeda quindi da
Briseide e la osserva fuggire con Paride prima di spirare.
Il finale evidenzia la tragicità
della guerra e il destino ineluttabile dei protagonisti. La morte
di Achille rappresenta la caducità della gloria e della vita,
mentre il sacco di Troia sottolinea la brutalità dei conflitti
umani. Allo stesso tempo, il gesto di restituzione del corpo di
Ettore e la protezione dei sopravvissuti dimostrano come il
coraggio e l’onore possano convivere con la violenza, offrendo uno
sguardo complesso sulle scelte morali in tempo di guerra.
Cosa ci lascia il film Troy
Troy è dunque di
una riflessione sulla fragilità della civiltà di fronte alla
guerra, sul sacrificio personale e sulla forza dei legami
familiari. Il filmunisce epica, emozione e
spettacolarità cinematografica, trasformando il mito omerico in un
racconto accessibile, capace di trasmettere temi universali come
l’eroismo, la vendetta e la mortalità, lasciando agli spettatori la
consapevolezza che anche nelle vittorie più grandi, il prezzo della
guerra è sempre altissimo.
Con Elysium
(qui la recensione),
Neill Blomkamp prosegue il percorso iniziato con
District 9,
confermando il suo interesse per una fantascienza radicata nella
realtà sociale e politica contemporanea. Se nel film d’esordio il
regista sudafricano utilizzava l’alieno come metafora
dell’apartheid, in Elysium mette al centro le
diseguaglianze globali, estremizzandole in un futuro distopico in
cui i ricchi vivono in una stazione spaziale lussuosa mentre i
poveri sopravvivono su una Terra devastata. Blomkamp consolida così
la sua fama di autore capace di coniugare spettacolo hollywoodiano
e riflessione politica.
Il genere di fantascienza che
Elysium esplora è dunque quello distopico e
sociopolitico, dove la tecnologia diventa specchio delle
contraddizioni del presente. L’esoscheletro indossato dal
protagonista Max (Matt
Damon) non è soltanto un mezzo per generare azione, ma
anche simbolo della lotta disperata di un individuo contro un
sistema che lo esclude. L’ambientazione cupa e realistica richiama
un’estetica cyberpunk, dove l’avanzamento tecnologico non porta
progresso equo, ma accentua la frattura tra privilegiati e
oppressi.
Il film si inserisce così in una
tradizione di opere che utilizzano la fantascienza come lente
critica: dalle distopie sociali di Metropolis di
Fritz Lang fino a film più recenti come Snowpiercer di Bong Joon-ho, che
racconta un’umanità divisa rigidamente in classi. Come in questi
esempi, Blomkamp sfrutta l’azione e l’immaginario futuristico per
parlare di diseguaglianza, potere e resistenza. Nonostante alcune
critiche Elysium resta quindi un’opera
significativa nel panorama sci-fi contemporaneo. Nel prosieguo
dell’articolo, approfondiremo il finale del film, cercando di
comprenderne il significato e il messaggio politico che Blomkamp
intende trasmettere.
La trama di Elysium
La storia è ambientata nel
2154 in un mondo ormai sovrappopolato, dove l’umanità si è spaccata
in due classi nettamente divise. Pochi eletti hanno infatti la
possibilità di vivere all’interno di un’enorme stazione spaziale
chiamata Elysium. Questa orbita attorno alla terra, e
contiene tutti i lussi desiderabili. Al contrario, la parte povera
della popolazione è costretta a vivere sul pianeta Terra, ormai
luogo inquinato e destinato al degrado. Le città sono diventate
veri e propri ammassi di gente, senza un preciso ordine a regolare
la loro esistenza.
In questo contesto vive Max
Da Costa, giovane operaio con un turbolento passato alle
spalle. Max nutre un profondo fascino nei confronti della stazione
spaziale e da sempre possiede il desiderio di potervisi recare un
giorno, dando una svolta alla propria vita. Le cose per lui
subiscono una piega inaspettata nel momento in cui, a causa di un
incidente in fabbrica, viene sottoposto ad una dose di radiazioni
gamma che gli conferiscono solo pochi giorni di vita. Per potersi
salvare, Max avrà bisogno di recarsi su Elysium, dove si trovano le
cure adatte a lui. Arrivare fin lassù, però, non sarà affatto
facile.
La spiegazione del finale del film
Nel terzo atto di
Elysium, Max scopre che i dati contenuti nel suo
cervello non sono semplici informazioni, ma un programma capace di
riavviare l’intero sistema della stazione orbitante. Deciso a
usarlo come merce di scambio, si scontra con Kruger, che nel
frattempo ha rapito Frey e sua figlia. Lo scontro culmina in un
viaggio verso Elysium, segnato da esplosioni e tradimenti, fino
allo schianto della navetta sulla stazione. Qui, le alleanze si
spezzano e Delacourt viene eliminata da Kruger, che assume il
controllo della situazione.
Il conflitto finale si svolge nel
cuore di Elysium: Max affronta Kruger in un duello feroce, reso
ancora più disperato dal peso delle sue condizioni fisiche. Con
astuzia e sacrificio, riesce a disabilitare l’esoscheletro del
nemico e a liberarsene definitivamente, gettandolo nel vuoto prima
dell’esplosione di una granata. Con Spider al suo fianco, Max
raggiunge il nucleo informatico della stazione e comprende la
portata della sua scelta: avviare il reboot del sistema
significherà la sua morte. Dopo un ultimo addio a Frey, decide di
sacrificarsi, permettendo così di rendere tutti gli abitanti della
Terra cittadini di Elysium e garantendo cure mediche a chiunque ne
abbia bisogno.
Il finale di
Elysium ha dunque un chiaro valore simbolico: la
morte di Max non è solo la conclusione di un percorso personale, ma
il gesto che spezza la logica di esclusione su cui si regge la
stazione. L’eroe rinuncia alla sua sopravvivenza individuale per un
bene collettivo, incarnando il modello del sacrificio redentore
tipico della fantascienza distopica. La sua decisione restituisce
dignità ai dimenticati della Terra, annullando i confini che
separavano due mondi divisi da privilegi e ingiustizie.
Cosa ci lascia il finale
di Elysium
Per lo spettatore, la chiusura
lascia un duplice messaggio: da un lato la speranza che la
tecnologia possa essere usata come strumento di uguaglianza,
dall’altro la consapevolezza che il cambiamento passa attraverso la
responsabilità individuale. Blomkamp invita a riflettere sul
presente, trasformando una vicenda futuristica in un monito sulle
diseguaglianze reali che caratterizzano la nostra società.
Elysium non è soltanto spettacolo, ma un racconto
che ci ricorda quanto la giustizia e la solidarietà restino
conquiste fragili e sempre da difendere.
Basato sul romanzo di Lauren
Weisberger, il film Il diavolo veste Prada segue le vicende
di un’ambiziosa giornalista, Andy Sachs (Anne
Hathaway), che ottiene un posto in una rivista di moda
e fatica a soddisfare le rigide richieste della sua potente
redattrice, Miranda Priestly (Meryl
Streep). Basato sul romanzo Revenge Wears Prada:
The Devil Returns, il prossimo Il
diavolo veste Prada 2 riporta sul grande schermo i membri
del cast originale, che riprenderanno i ruoli interpretati nel
primo film.
Anche la sceneggiatrice e il regista
dell’originale, Aline Brosh McKenna e
David Frankel, sono tornati ai rispettivi ruoli.
Durante un’intervista con ScreenRant,
dunque, anche a Caitríona Balfe è stato chiesto di
un suo possibile ritorno in Il diavolo veste Prada
2. L’attrice, con tono ironico ha detto: “Perché non
sono nel sequel?! Quella cosa dei tacchi alti in cui ero coinvolta.
Ho lavorato, credo, due giorni su quel film. Mi ha aiutato a
ottenere la tessera SAG, questo è certo”.
“Ma credo di essere rimasta
seduta nella mia roulotte, o meglio in quella minuscola roulotte,
uno dei due giorni, e poi il secondo giorno stavo camminando
davanti all’edificio mentre Miranda entrava al lavoro.Quindi proprio davanti all’edificio. Ho visto Meryl Streep, il
mio tacco è passato davanti alla telecamera e credo di essere stata
ufficialmente inserita come clapper. Ma questo è tutto”,
afferma l’attrice.
Perché Caitríona
Balfe non è in Il diavolo veste Prada
2?
Caitríona Balfe ha
iniziato la sua carriera come modella, lavorando con Chanel e Louis
Vuitton prima di passare alla recitazione con apparizioni in
Super 8 (2011), Now You See Me ed Escape
Plan (entrambi del 2013), anche se è meglio conosciuta per il
suo ruolo di Claire Fraser in Outlander. Tuttavia, un credito che manca
dalla sua pagina IMDb è proprio quello per Il diavolo veste
Prada. In precedenza, la Balfe aveva confermato di aver
fatto una breve apparizione nel film. “Ho lavorato per due
giorni da qui in giù”, dice indicando il suo addome.
“Ero una clacker, ero
ufficialmente una clacker, una delle ragazze che lavora a Vogue e
indossa tacchi alti… Non credo che mi si veda, ma c’ero”,
ammette. Considerando che aveva un ruolo così piccolo
nell’originale, e basandosi sulla sua risposta, non sembra dunque
che Caitríona Balfe tornerà in Il diavolo veste Prada
2. Il sequel è attualmente in fase di riprese e lei non è
stata confermata come uno dei membri del cast che torneranno.
Cosa sappiamo su Il diavolo veste prada
2?
Il
film originale del 2006, un cult classico per la sua satira
tagliente sul mondo spietato della moda, si concludeva con Andy che
lasciava Runway per un lavoro in un giornale di New York. Ora, i
fan potranno finalmente vedere cosa stanno facendo Miranda e Andy
in un panorama mediatico profondamente cambiato. Nel sequel,
Miranda, interpretata dalla Streep, si ritrova coinvolta in una
competizione ad alto rischio per ottenere importanti introiti
pubblicitari, trovandosi sorprendentemente a dover affrontare la
sua ex assistente dalla lingua tagliente Emily Charlton (Emily
Blunt), che ora è una potente dirigente nel settore
della moda.
David Frankel, che
ha diretto il primo film, è tornato alla regia di
Il diavolo veste Prada 2, lavorando su una
sceneggiatura di Aline Brosh McKenna, che ha
scritto anche l’originale. Le produttrici Wendy
Finerman e Karen Rosenfelt sono a bordo,
con la 20th Century Studios che ha in programma di distribuire il
film il 1° maggio 2026. Oltre a Meryl Streep, Anne Hathaway e Emily Blunt, nel cast si ritrovano anche
Stanley Tucci, che riprende il ruolo del
sempre solidale Nigel Kipling, insieme a Simone
Ashley, Pauline Chalamet e Helen
J. Shen. Tracie Thoms e Tibor
Feldman tornano sul set, mentre diversi volti nuovi si
uniscono al cast, tra cui Kenneth Branagh, che interpreterà il marito di
Miranda, insieme a Lucy Liu, Justin Theroux, B.J. Novak,
Pauline Chalamet, Rachel Bloom e
Patrick Brammall.
Oltre all’adattamento
Netflix di Guillermo del
Toro del classico di Mary Shelley, il
prossimo anno arriverà una versione molto diversa de La moglie
di Frankenstein. Il tanto atteso film di Maggie Gyllenhaal ha ora ricevuto la
classificazione ufficiale R per “contenuti violenti/sanguinosi,
contenuti sessuali/nudità e linguaggio scurrile”. Il primo
trailer di The
Bride!, con Jessie Buckley, Christian Bale e
Jake Gyllenhaal, ha debuttato durante il CinemaCon all’inizio
di quest’anno, ma non è ancora stato pubblicato online.
Gyllenhaal
ha pubblicato su Instagram le prime immagini del film girato lo
scorso anno, dandoci un assaggio di Bale nei panni del mostro di
Frankenstein e Buckley in quelli della sposa del mostro incompreso.
Abbiamo sentito parlare per la prima volta di questo progetto nel
2022, quando era in fase di sviluppo per Netflix,
ma un rapporto successivo indicava che era stato accantonato poco
dopo l’inizio degli scioperi di Hollywood e che era stato venduto
altrove.
Più recentemente, abbiamo appreso
che la Warner Bros. aveva acquisito The Bride!,
che ora è previsto per l’uscita nelle sale il 6 marzo 2026.
Gyllenhaal dirige dopo aver ottenuto il plauso della critica per il
suo film d’esordio, The Lost
Daughter. Stando a quanto riportato, il film sarà
ambientato nella Chicago degli anni ’30, dove Frankenstein chiede
al dottor Euphronius di aiutarlo a creare per lui una compagna.
Danno così vita a una donna nota come la Sposa, scatenando
romanticismo, interesse della polizia e cambiamento sociale
radicale.
Descritto come un thriller-horror,
The Bride! è dunque basato sul classico
romanzo gotico di Mary Shelley Frankenstein or The
Modern Prometheus. Oltre a Christian Bale nel ruolo di Frankenstein e
Jessie Buckley in quelli della Sposa, il film sarà
interpretato anche da Penelope Cruz nel ruolo di Myrna, Peter Sarsgaard nel ruolo di un detective. Di
certo, il nuovo rating ricevuto dal film rende il progetto più
interessante, lasciando pensare che potrebbe essere più orrorifico
di quanto si pensava.
Cosa ci si può aspettare ancora da
un sodalizio artistico che ci ha già regalato l’usurpatrice più
infida della Gran Bretagna del XVIII secolo (La
Favorita), un rigoglioso femminile alla scoperta del mondo
(Povere
Creature!), e un triplice studio di personalità
enigmatiche che elargiscono o richiedono diversi gradi di crudele
gentilezza (Kinds of Kindness)?
Se si risponde ai nomi di
Yorgos Lanthimos ed Emma Stone, ebbene, è lecito aspettarsi ancora
di più. Dopo la travolgente vittoria del Leone d’oro a
Venezia 2023 con l’adattamento del romanzo di Alasdair
Grey, il duo cinematografico più prolifico degli ultimi anni torna
in concorso alla Mostra del Cinema con
Bugonia, ennesimo – ma non meno
interessante – esperimento tra il mitologico e il surreale firmato
dal regista greco, mai stato così “contemporaneo”.
La cospirazione dell’ape
regina
Il punto di partenza di
Bugonia è una produzione sudcoreana del
2003 a cura di Joon-Hwan Jang, dal titolo Save the Green Planet! In questa commedia sci-fi
alquanto bizzarra, un giovane uomo rapisce il presidente di una
grossa azienda credendo che si tratti di un alieno sotto mentite
spoglie, con in programma un’invasione del Pianeta Terra da parte
della specie. Le premesse del film di Lanthimos rimangono circa le
stesse: un isolato apicoltore di una cittadina statunitense non
meglio identificata (Jesse
Plemons), assieme all’aiuto del cugino con cui vive,
decide di rapire la CEO di una multinazionale di successo, con la
radicata convinzione che da lei non solo dipendano i mali di tutto
il mondo ma anche la tragica distruzione della sua famiglia.
Le tinte da thriller cospirazionale,
già parzialmente esplorate nel secondo segmento di Kinds of
Kindness, diventano in Bugonia spunto di indagine
emotiva: dietro a ogni complotto intravisto, a ogni manipolazione
effettuata, si nasconde in realtà un’enorme sofferenza, almeno da
parte di chi inizialmente avremmo solo disprezzato. Jesse Plemons, forte della Palma d’oro al
miglior attore protagonista proprio con l’ultimo film di Lanthimos,
si conferma un talento ancora forse troppo nascosto, che riesce a
regalare complessità e sfumature a una figura che sembrava
impossibile separare dal suo apparente status di villain.
Ari Aster e Yorgos Lanthimos: il
binomio satirico-surreale
Di particolare rilevanza è il fatto
che la sceneggiatura di Bugonia sia stata sviluppata da
Ari Aster e Will Tracy.
Effettivamente, è impossibile non leggere l’ultima fatica di
Lanthimos in continuità con almeno qualche aspetto di Eddington e la satira cupa del regista di Hereditary
nonchè, parallelamente, con il lavoro dello sceneggiatore di
The
Menu e sodale collaboratore di Mark Mylod
(Succession).
Proprio dall’ossessione di Aster per
il rapporto con i genitori nasce forse quella che è l’immagine più
struggente di Bugonia, che ha per soggetto la
figura materna e fa perno sull’idea del rimanere agganciati a chi
ci ha partorito, all’origine. Lanthimos, che ha scandagliato le
relazioni sociali in molteplici forme, si apre qui a un confronto
serrato e quantomai “contenuto”, in cui si discute della fine del
mondo tra le mura di una casa, perchè in fondo, non importa il dove
ma il chi, quando si tratta di potere.
La danza della morte
Emma
Stone è stata chiunque per Lanthimos, e non soprende
dunque che sia arrivata ad incarnare l’ipotesi di una vita aliena,
enigmatica possibilità di una fonte di controllo totalizzante. Se
Bella Baxter doveva ancora scoprire tutto, Michelle
potrebbe già sapere tutto. Non fatichiamo a crederci,
perchè nelle mani del regista greco Stone diventa semplicemente
eccezionale.
La
bugonia è un
episodio narrato nelle Georgiche di Virgilio, che riflette un’antica
credenza diffusa fino al XVII secolo: quella della generazione
spontanea della vita. In particolare, nel quarto libro del poema
viene descritto come, dal corpo senza vita di un animale, possa
originarsi uno sciame di api. Vita e morte, indagate nei modi più
surreali e bizzarri possibili dal regista greco, in
Bugonia ci vengono forse per la prima volta mostrate
da uno sguardo ancora più ravvicinato al nostro. Non c’è nessuna
sequenza di danze inquietanti a cui ci ha abituato Lanthimos, ma
solo una cruda e spiazzante verità: probabilmente, stiamo già
ballando da morti.
Molte nuove star si sono unite al
cast di Star
Wars: Starfighter mentre la produzione del film entra
ufficialmente nel vivo. Il prossimo film è descritto come un
capitolo autonomo dell’iconica saga fantascientifica che si
svolgerà cinque anni dopo gli eventi di L’ascesa di Skywalker del 2019. Il film, che sarà il
prossimo capitolo di Star
Wars nelle sale dopo The
Mandalorian & Grogu del 2026, avrà come protagonista
Ryan Gosling. In precedenza era stato rivelato
che Matt Smith e Mia Goth interpreteranno due antagonisti nel
film.
Secondo il sito ufficiale di Star
Wars, dunque, le riprese di Star Wars: Starfighter sono
iniziate oggi nel Regno Unito. È stato ora rivelato anche il cast
completo del film. La sei volte candidata all’Oscar Amy Adams si è unita al cast di Starfighter
insieme ad Aaron Pierre, Flynn Gray, Simon
Bird, Jamael Westman e Daniel
Ings. A questo link, invece, si può
vedere il post che annuncia l’inizio della produzione. L’immagine
in bianco e nero presente nel post mostra Ryan Gosling e Flynn
Gray seduti insieme su un Landspeeder.
Shawn Levy ha anche rilasciato una
dichiarazione sulla produzione: “Provo un profondo senso di
eccitazione e onore mentre iniziamo la produzione di Star Wars:
Starfighter. Dal giorno in cui Kathy Kennedy mi ha chiamato,
invitandomi a sviluppare un’avventura originale in questa
incredibile galassia di Star Wars, questa esperienza è stata un
sogno che si è avverato, sia dal punto di vista creativo che
personale. Star Wars ha plasmato la mia idea di ciò che una storia
può fare, di come i personaggi e i momenti cinematografici possano
vivere con noi per sempre. Entrare a far parte di questa galassia
di storie con collaboratori così brillanti, sia sullo schermo che
fuori, è l’emozione di una vita”.
Finora, la trama del prossimo film
di Star Wars è rimasta segreta. Tuttavia, l’immagine condivisa nel
post dell’annuncio sembra suggerire che il personaggio di Ryan
Gosling sarà in qualche modo una figura protettrice o mentore del
personaggio interpretato da Flynn Gray. Questo evocherebbe una
relazione adulto-bambino che è comune in tutta la saga di Star
Wars ed è stata al centro di episodi come The Mandalorian,
Obi-Wan
Kenobi, Skeleton
Crew e La minaccia fantasma. Il film è ora atteso al cinema
28 maggio 2027.
Ridley Scott torna a parla di Il
Gladiatore 3 e di un terzo prequel di Alien, fornendo
aggiornamenti promettenti. Per quanto riguarda il primo dei due
franchise, il seguito del film epico del 2000, Il
Gladiatore, ha narrato le vicende del figlio di Massimo,
Lucio, che diventa un eroe del Colosseo. Il film non ha avuto un
grande successo al botteghino, ma il regista aveva già espresso
interesse per un sequel e aveva anticipato di aver già scritto
qualcosa a riguardo.
Per quanto riguarda il franchise di
Alien, Scott ricopre attualmente il ruolo di produttore esecutivo,
dopo aver supervisionato Alien: Romulus (2024) e la nuova serie TV Alien: Pianeta Terra (attualmente in corso
su Disney+). Scott non ha però più diretto
film del franchise dai prequel Prometheus
(2012) e Alien:
Covenant (2017).
Durante una recente intervista con
The Guardian, in cui rispondeva
alle domande degli utenti su Internet, Ridley Scott ha chiarito che la sua avventura
nel mondo di Il gladiatore e Alien potrebbe non essere ancora
finita. Il regista ha infatti rivelato che sta attualmente
continuando a lavorare a Il gladiatore 3 e che anche un
altro prequel di Alien non è da escludere. “Il Gladiatore 3 è
in fase di lavorazione in questo momento. Un altro prequel di
Alien? Sì, se mi viene un’idea, sicuramente”, sono le
parole esatte del regista.
Ridley Scott
tornerà davvero sui franchise di Il Gladiatore e
Alien?
Le stime sul budget di Il Gladiatore 2 variano, ma
quelle più alte lo collocano intorno ai 240 milioni di dollari. Se
fossero accurate, ciò renderebbe deludente l’incasso finale del
film, pari a 462 milioni di dollari in tutto il mondo. È quindi
curioso che Scott stia lavorando al terzo film della saga. Vale la
pena notare, tuttavia, che Il Gladiatore 3 non è stato
ufficialmente approvato dallo studio. Scott è probabilmente in fase
di sviluppo della trama e della sceneggiatura, ma molti film non
superano questa fase per un motivo o per l’altro.
Se un altro film dovesse però andare
avanti, è probabile che sarà realizzato con un budget inferiore. Un
altro prequel di Alien, invece, non sembra imminente,
poiché sembra che Scott non abbia ancora trovato un’idea che valga
la pena perseguire. L’accoglienza riservata a Prometheus e
Alien:
Covenant è stata piuttosto contrastante, e quest’ultimo è
stato anche un insuccesso al botteghino rispetto ai precedenti
capitoli. Il franchise di Alien sta però attualmente vivendo
una sorta di rinascita.
Alien: Romulus è stato un successo lo scorso anno e
Alien: Pianeta Terra dello showrunner
Noah Hawley ha ricevuto recensioni molto positive
dopo la sua anteprima il 12 agosto. Con un sequel di
Romulus che sembra sarà girato alla fine di quest’anno,
chiaramente non mancherà materiale su Alien in futuro. La speranza,
però, è che Ridley Scott trovi l’idea giusta per terminare quella
che originariamente sembra dovesse essere un trilogia prequel che
forniva indicazioni sulle origini degli elementi alla base della
saga.
Presentato fuori concorso alla
40ª Settimana della Critica, nell’ambito della 82ª Mostra
Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia,
Stereo Girls segna l’esordio alla regia
di lungometraggio di Caroline Deruas Peano. Un
debutto che, pur con alcune ingenuità, si distingue per sensibilità
visiva e coerenza poetica, rafforzato da una fotografia che è già
uno dei suoi marchi distintivi.
Il film, ambientato negli anni
Novanta nel sud della Francia, segue la storia di due inseparabili
amiche diciassettenni, legate da una passione viscerale per la
musica e da un ardente desiderio di libertà. L’atmosfera che si
respira è quella di un’epoca di transizione,
segnata dall’energia del rock e dell’alternative, ma anche dal
fascino di un immaginario ancora profondamente analogico:
registratori, cassette, vinili e notti lunghe passate a sognare un
futuro diverso. È in questo contesto che la regista costruisce un
racconto di formazione sospeso tra nostalgia e urgenza, destinato a
infrangersi bruscamente contro la tragedia che separerà le due
ragazze, lasciandone una sola a portare avanti i sogni di
entrambe.
Stereo
Girls non punta sull’originalità ma sulla autenticità
emotiva
La trama di Stereo Girls
non punta a sorprendere per originalità, ma per autenticità
emotiva. Deruas Peano sceglie una narrazione
intima, quasi diaristica, che restituisce con delicatezza i
turbamenti dell’adolescenza femminile. A rendere l’esperienza
davvero memorabile è però il lavoro di Vincent
Biron alla fotografia: la sua sensibilità visiva esalta
l’aspetto “analogico” del film, immergendo lo spettatore in un
universo fatto di toni caldi, luci soffuse e texture materiche.
Ogni inquadratura sembra evocare la grana delle fotografie
sviluppate in camera oscura, restituendo la sensazione di un tempo
in cui le immagini non erano istantanee digitali, ma ricordi
tangibili.
Questa estetica non è solo un vezzo
stilistico, ma diventa parte integrante della narrazione:
l’amicizia tra le due protagoniste si imprime nello sguardo dello
spettatore proprio come una pellicola impressionata dalla luce,
destinata a durare oltre la vita stessa. È qui che la scelta di
Biron si rivela decisiva: la fotografia trasforma la storia in una
sorta di reliquia visiva, dove il passato non è mai davvero perduto
ma continua a risuonare, come un brano inciso su nastro.
Un cast intenso e
naturale
Il cast contribuisce in modo
sostanziale a dare credibilità al racconto. Emmanuelle
Béart, icona del cinema francese, porta con sé un’aura di
eleganza e malinconia che si innesta perfettamente nell’atmosfera
crepuscolare del film. Accanto a lei, Lena Garrel
– figlia della regista – offre un’interpretazione sorprendente per
intensità e naturalezza, incarnando una giovinezza inquieta, piena
di speranze ma anche di fragilità. L’alchimia tra le due giovani
protagoniste regge gran parte della narrazione: la loro amicizia
appare palpabile, fatta di piccoli gesti, di complicità silenziose
e di improvvise esplosioni di vitalità.
Dal punto di vista della regia,
Caroline Deruas Peano si dimostra capace di dare
voce a un universo femminile spesso sottorappresentato sul grande
schermo. Non c’è compiacimento nel raccontare l’adolescenza, ma un
sincero desiderio di coglierne i chiaroscuri: la ribellione e la
dolcezza, la spensieratezza e il dolore, la promessa di un futuro e
la consapevolezza che ogni sogno comporta un rischio. La regista
opta per un ritmo dilatato, fatto di pause e silenzi, che permette
allo spettatore di entrare davvero nello spazio emotivo delle
protagoniste.
Stereo
Girls è un film che convince soprattutto per la sua
capacità di evocare un’epoca e uno stato d’animo. Più che un
racconto lineare, è un’esperienza sensoriale che si nutre di
immagini e suoni, di luci e di ombre. La fotografia di
Vincent Biron rimane impressa come la vera
protagonista, capace di trasformare la memoria personale in memoria
collettiva. Caroline Deruas Peano firma così
un’opera prima delicata, che parla della fragilità e della forza
dell’amicizia femminile, e che ci ricorda come anche il dolore
della perdita possa contenere in sé una promessa di continuità:
quella dei sogni che, una volta condivisi, non muoiono mai del
tutto.
Un debutto promettente, che lascia
intravedere una voce autoriale da seguire con attenzione.
Adam Sandler ha colto con entusiasmo
l’opportunità di interpretare un ruolo diverso dal solito e di
interpretare un ruolo drammatico nel film di Noah
BaumbachJay
Kelly. Sandler interpreta un manager schietto e
diretto per una star del cinema in ascesa, Jay Kelly
(George
Clooney).
“Essere in questo film e non
solo cercare battute e momenti di divertimento, è questo che è
fantastico”, ha dichiarato Sandler durante la conferenza
stampa ufficiale di Jay Kelly alla Mostra del
Cinema di Venezia. “Ho fatto due film con Noah e non potrei
essere più orgoglioso di provare le emozioni che trasmette. Sa fare
tutto, e poi trova anche i momenti in cui ridere. Tutti i nostri
personaggi ti regalano un momento per ridere e provare dolore. Come
attore, quando leggi una sceneggiatura come questa dici: ‘Caspita,
non posso credere di ricevere questo regalo'”.
“Ho sempre apprezzato il mio
manager, il mio agente, la mia responsabile stampa”, ha detto
Sandler. “So quanto lavorano duramente e quanto sia difficile
ascoltare i miei alti e bassi e sostenermi, anche quando a volte
potrei alzare la voce. Ero entusiasta di interpretare un uomo
devoto; ammiro tutti coloro che lo fanno.”
Nel film, scritto insieme da
Baumbach e Emily Mortimer, George
Clooney interpreta una star del cinema in crisi,
Jay
Kelly, che intraprende un viaggio vorticoso attraverso
l’Europa con il suo devoto manager (Adam
Sandler). Lungo il cammino, si confronteranno con le
scelte fatte, i rapporti con i propri cari e l’eredità che
lasceranno dietro di sé.
Il quarto episodio di Alien: Pianeta
Terra (qui
la recensione) di questa settimana ha approfondito il
misterioso legame di Wendy (Sydney Chandler) con
gli Xenomorfi, ponendo una domanda intrigante: è possibile
controllare, o addirittura domare, questa specie extraterrestre
notoriamente aggressiva? In “Observation”, Boy Kavalier
incoraggia Wendy a vocalizzare gli strani suoni che sente nella sua
testa da quando si è avvicinata agli alieni per la prima volta
nell’episodio 2.
Lei lo fa e da quel momento lui
convince la ragazza/ibrido a tentare di comunicare con la creatura
che sta attualmente gestando all’interno del polmone rimosso
chirurgicamente a suo fratello Joe. Alla fine dell’episodio, un
piccolo xenomorfo che ne esce fuori e Wendy riesce a usare la sua
nuova abilità per calmare la creatura e addirittura accarezzarla
sulla testa. Gli alieni hanno in qualche modo “scelto” Wendy come
loro portavoce, o la sua capacità di comunicare con le creature è
semplicemente dovuta alla sua fisiologia ibrida umana/sintetica e
alla sua programmazione?
“Niente è casuale per un
bambino, giusto? Sai, tutto sembra significativo”, dice lo
showrunner Noah Hawley a Decider.com. “C’è un momento
nel quarto episodio in cui lei dice: ‘Hanno scelto me’. Giusto? Il
che non è vero. Giusto? Non l’hanno scelta. Lei riesce solo a
sentirli a causa di un problema hardware o software che ha”.
Che si tratti di una stranezza nella sua programmazione o meno,
Wendy sembra certamente credere di avere una sorta di vocazione
superiore, che potrebbe rivelarsi disastrosa per chi le sta
intorno.
“L’altra cosa con i bambini è
che loro non danno davvero importanza… Voglio dire, per loro sono
solo animali, capisci? Quindi lei guarda queste creature e prova
empatia, proprio come mia figlia è diventata vegetariana quando
aveva nove anni”, ha aggiunto Hawley. “Beh, queste
creature non hanno chiesto di venire qui, e forse sono spaventate.
Sai, lei dice a suo fratello: ‘Questo, forse questo potrebbe essere
buono’. E sembra… non so, ‘il tuo amico squalo’, ma si può capire
il suo impulso a provarci”.
Dovremo aspettare e vedere come si
svilupperà questa trama, ma l’animale domestico di Wendy è ben
lungi dall’essere l’unico problema che attende i nostri
protagonisti, con una Nibs sempre più instabile e potenzialmente
pericolosa convinta di essere incinta, quell’inquietante alieno
dagli occhi che aspetta il momento giusto per colpire e Piumino che
sembra intenzionato a far diventare Joe a diventare un ospite del
facehugger.
È
online il nuovo trailer di Bugonia, il nuovo film di
Yorgos Lanthimos
che arriverà nelle sale italiane il 23 ottobre 2025. Dopo il successo di
Povere Creature! e
Kinds of Kindness, il regista greco torna
con una nuova storia visionaria che mescola satira, inquietudine e
fantascienza.
Il
film segue due giovani ossessionati dai complotti che rapiscono la
potente amministratrice delegata di una grande azienda, convinti
che sia un’aliena pronta a distruggere il pianeta Terra. Da questa
premessa prende forma un racconto che alterna ironia, tensione e
riflessioni sul potere, tipico dello stile surreale e provocatorio
di Lanthimos.
Il
cast riunisce ancora una volta Emma
Stone, ormai musa del regista, affiancata da
Jesse Plemons,
Aidan Delbis,
Stavros Halkias e
Alicia
Silverstone. La sceneggiatura è firmata da
Will Tracy,
mentre la fotografia è affidata a Robbie Ryan, collaboratore storico di
Lanthimos.
Prodotto da Element Pictures, Fruit Tree, Square Peg e CJENM,
Bugonia è stato
presentato in concorso alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia,
raccogliendo grande attenzione da parte della critica e del
pubblico.
Il
nuovo trailer mostra atmosfere disturbanti e paradossali, in
perfetto equilibrio tra satira sociale e fantascienza distopica,
confermando Bugonia come
uno dei film più attesi della stagione autunnale.
L’appuntamento in sala è fissato al 23 ottobre 2025, data di uscita ufficiale
nelle sale italiane.
Enfant prodige del cinema europeo e
vincitore dell’Oscar al miglior film straniero con Il
figlio di Saul, László Nemes approda in concorso a Venezia 82
con Orphan, ritratto di un giovane in
fiamme nella Budapest del 1957, dopo la rivolta contro il regime
comunista in Ungheria. Forte di una performance magnetica da parte
del giovanissimo attore protagonista Bojtorján
Barábas, la nuova pellicola del regista ungherese non
punta a replicare l’impatto emotivo straziante della sua opera
prima, ma prosegue il desiderio di Nemes di raccontare una
sofferenza circoscritta che, nella sua intimità, rispecchi il
trauma più grande di un determinato periodo storico.
Lo sguardo di Andor, tra infanzia e trauma
Come di consueto in Nemes, il filtro
attraverso cui leggere il suo nuovo racconto è lo sguardo del
protagonista, in questo caso un ragazzino di 12 anni di nome
Andor che, in un breve flashback iniziale, vediamo
ricongiungersi con la madre dopo essere stato accolto da un
orfanotrofio durante gli anni dell’occupazione nazista. Il piccolo,
nascosto in una sorta di “tana”, è restio nel tornare a casa con la
donna, che non riconosce come la propria madre essendo stato
abbandonato in tenera età. Già dal posizionamento di questo punto
di vista, che cerca di nascondere, rintanarsi e resistere a ciò che
gli altri gli dicono, cogliamo tutti i tratti della psicologia del
giovane Andor. Una volta cresciuto, continuerà a interrogarsi
sull’assenza della figura paterna e a vivere delle fantasie della
madre, che gli racconta di un padre idealizzato. Andor rivendica
con fierezza questo cognome e ha delle conversazioni immaginarie
frequenti con il padre; tuttavia, la sua vita è destinata a
cambiare per sempre quando fa capolino un misterioso e inquietante
uomo soprannominato “Il Macellaio”, che ha nascosto la madre
durante i rastrellamenti e che sostiene di essere suo padre.
Padri, madri e ferite della Storia
Girato in pellicola come Il
figlio di Saul e Sunset,
Orphan contribuisce a formalizzare e
solidificare il cinema di Nemes come cinema di sguardo soprattutto
storico, di un passato che ha in una certa misura conosciuto –
questo terzo film, in particolare, si rifà alla storia del nonno –
e che, purtroppo, continua a dialogare col presente di un mondo che
ancora conosce troppe sofferenze. La materia trattata non è
certamente leggera, ancor più perchè filtrata dalla rabbia di uno
sguardo che non si spegne, che continua a scrutrare tramite i
vetri, a confidarsi nei bassifondi e a portare avanti una propria
personale rivolta.
Guidato da un cast di supporto di
tutto rispetto – Andrea Waskovics, Grégory Gadebois, Elíz Szabó,
Sándor Soma, Marcin Czarnik – Orphan è,
come dicevamo, un film profondamente personale per Nemes, ispirato
all’infanzia del padre nella Budapest degli anni Cinquanta. Con la
sua co-sceneggiatrice Clara Royer, il regista ha preso spunto dalla
memoria familiare per costruire un racconto universale sul
passaggio dall’infanzia all’età adulta, sull’accettazione
dell’oscurità dentro di sé e sul peso che la Storia imprime ai
destini individuali. Non si tratta quindi di una semplice cronaca
di un’epoca, ma di una riflessione sul trauma generazionale che si
trasmette di padre in figlio, di madre in figlio, e che ancora oggi
segna la società europea.
Un cinema che interroga la memoria
Orphan è anche un racconto sulla
trasmissione del trauma: le ferite del Novecento, dalla guerra
all’Olocausto fino alla repressione politica, si insinuano nelle
generazioni successive, segnando profondamente il destino dei
bambini. Come ricorda Nemes, è un film che riflette su come il
passato continui a perseguitarci, e su quanto sia necessario
affrontare le ombre per non riprodurre gli stessi errori.
László Nemes prosegue un percorso
autoriale coerente e coraggioso: raccontare l’indicibile attraverso
sguardi marginali, dare voce ai fantasmi della Storia con un rigore
estetico che può apparire austero, ma che trova nella sua
radicalità il segno distintivo di uno dei cineasti europei più
rilevanti della sua generazione.
Ogni documentario di
Werner Herzog è prima di tutto un viaggio dentro
la sua voce. Quel timbro inconfondibile, basso e graffiato, con il
suo accento tedesco mai stemperato, non è un semplice
accompagnamento narrativo: è una lente che modella le immagini, una
presenza che piega la realtà alla sua continua ricerca di
meraviglia e spaesamento. In Ghost Elephants, presentato
Fuori Concorso a Venezia 82, questa voce si
posa su un’Africa al tempo stesso concreta e mitica, trasformando
la spedizione di un naturalista sudafricano in un racconto sospeso
tra scienza, leggenda e sogno. Herzog non si limita a mostrare:
incanta, solleva dubbi, trasforma ogni dettaglio in un segno del
destino.
Ghost Elephants: tra
mito e scienza
Il cuore del film è
l’ossessione del Dr. Steve Boyes, naturalista che
da dieci anni insegue la possibilità dell’esistenza di un branco
misterioso di “elefanti fantasma” sull’altopiano angolano di Bié,
vasto quanto l’Inghilterra e quasi privo di insediamenti umani.
Boyes vuole verificare se questi giganti, mai documentati
ufficialmente, possano essere parenti del più grande elefante mai
registrato, il celebre esemplare conservato allo Smithsonian di
Washington, chiamato Henry. La sua è una missione
che oscilla fra rigore scientifico e tensione visionaria, con tanto
di campioni di DNA da raccogliere come in un romanzo d’avventura.
Herzog, fedele al suo metodo, non giudica: osserva la passione e la
trasfigura, facendo del desiderio stesso di cercare la traccia un
tema narrativo centrale.
Una delle intuizioni più
potenti del film è che la spedizione non inizia nel momento in cui
i protagonisti mettono piede in Angola, ma molto prima. Herzog
dedica ampio spazio alla fase preparatoria, trascorsa in Namibia
accanto ai leggendari tracker San, capaci di leggere il terreno
come un libro aperto e di imitare con il corpo gli animali che
seguono. Qui il film si allontana dalla pura ricerca zoologica e
diventa un ritratto dell’intelligenza ancestrale di uomini che
incarnano la continuità con la natura. È in queste scene che la
voce del regista raggiunge vertici di ironia e lirismo, quando
ammette con disarmante sincerità: «So di non dover
romanticizzare, ma un uomo circondato da polli… non può esserci
nulla di meglio». È in questa tensione tra romanticismo e
autocritica che emerge il vero Herzog.
Lo sguardo
sull’ignoto
Nella seconda parte,
quando la spedizione si addentra tra le nebbie dell’altopiano
angolano, Ghost Elephants assume i toni di una favola
realista. Herzog lascia che la lentezza, i momenti sospesi e
persino le distrazioni — come l’arrivo di un ragno velenoso, subito
trasfigurato dalla sua voce in presagio apocalittico — diventino
parte del racconto. Ciò che interessa al regista non è solo la
possibilità di filmare un animale leggendario, ma la potenza del
desiderio che spinge a cercarlo, la dimensione interiore che il
mito dell’elefante fantasma rivela in chi si mette sulle sue
tracce.
Ad amplificare questa
atmosfera sospesa contribuisce la colonna sonora firmata da
Ernst Reijseger, che intreccia arrangiamenti di canti
tradizionali sardi con le immagini africane. Un accostamento che
potrebbe sembrare arbitrario, ma che nelle mani di Herzog diventa
naturale: il dialogo fra due mondi distanti restituisce l’idea di
una ricerca che non appartiene a un solo luogo, ma che parla
dell’umanità intera. La musica agisce come eco del racconto,
rinforzando la percezione che i “fantasmi” non siano solo elefanti
invisibili, ma figure del nostro immaginario collettivo.
Un racconto puramente
herzoghiano
Come in Grizzly
Man o in Encounters at the End of the World, anche qui
Herzog ci ricorda che i suoi documentari sono sempre “tanto su di
lui quanto sull’oggetto filmato”. Ghost Elephants è un
film sul senso stesso della ricerca, sul confine fra realtà e
leggenda, sul bisogno umano di inseguire qualcosa che potrebbe non
esistere. Il regista non si sofferma esplicitamente sulle ombre del
colonialismo, sul ruolo dell’“esploratore bianco” o sul retaggio
della caccia: lascia che queste domande restino in sospeso, dando
al film una dimensione aperta e ambivalente.
Ghost
Elephants è, in definitiva, un documentario che non
offre un “colpo di scena” finale, ma che non ne ha bisogno. La
sua forza sta nel modo in cui Herzog trasforma una spedizione
scientifica in un viaggio esistenziale, in cui l’oggetto della
ricerca conta meno del desiderio stesso di cercare. E soprattutto
sta nella sua voce: quel tedesco gutturale, carico di ironia e
malinconia, che ci fa credere che ogni dettaglio — un villaggio
sperduto, un animale invisibile, un uomo che vive fra polli —
contenga un frammento di meraviglia. È questa voce, più ancora
delle immagini, a ricordarci che l’essenza del cinema herzoghiano
non è catturare la realtà, ma renderla degna di essere sognata.