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Call of Duty: Paramount ad un passo dall’acquisto dei diritti

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Call of Duty: Paramount ad un passo dall’acquisto dei diritti

Negli ultimi anni gli adattamenti dei videogiochi sono migliorati notevolmente e, sebbene ci siano ancora alcuni casi di insuccesso, il genere sembra finalmente ottenere il giusto riconoscimento sia sul grande che sul piccolo schermo. Il film Minecraft non ha riscosso un grande successo di critica quando è uscito all’inizio di quest’anno, ma è destinato a diventare uno dei maggiori successi al botteghino del 2025. Il film Super Mario Bros. è stato ben accolto su entrambi i fronti; The Last of Us e Fallout, invece, hanno ricevuto ampi consensi in televisione. Secondo Puck, Call of Duty sarà il prossimo ad essere adattato in un film live-action.

Il sito riporta che la Paramount Pictures è in trattative per acquisire i diritti cinematografici della longeva serie di videogiochi e, sebbene sia ancora presto, si tratta di un segnale promettente. Non si sa ancora quale gioco verrà adattato né se si tratterà di una storia originale. I film di guerra non sono più popolari come un tempo, come dimostra il film Warfare della A24 uscito quest’anno (che ha incassato 33 milioni di dollari con un budget di 20 milioni).

La serie, sviluppata principalmente da Infinity Ward, Treyarch e Sledgehammer Games, è iniziata con Call of Duty nel 2003. Inizialmente uno sparatutto in prima persona per PC ambientato nella Seconda Guerra Mondiale, era incentrato su campagne militari realistiche. Il suo successo ha portato a Call of Duty 2, seguito da Call of Duty 3. Call of Duty 4: Modern Warfare ha poi cambiato le regole del gioco, passando a ambientazioni moderne e introducendo personaggi iconici come il capitano Price e una campagna cinematografica per giocatore singolo. La sua modalità multiplayer ha rivoluzionato il gioco online, mentre World at War ha introdotto l’ormai iconica modalità zombie.

 Non resta a questo punto che scoprire come evolverà la vicenda, con la Paramount che in caso di effettivo acquisto dei diritti vorrà sicuramente dar seguito a questo investimento con film per il cinema o serie TV da destinare alla piattaforma Paramount+.

After the Hunt: Dopo la caccia, il nuovo trailer del film di Luca Guadagnino

È online il nuovo trailer di After the Hunt, il nuovo film di Luca Guadagnino presentato oggi alla Mostra del Cinema di Venezia. Il film è un avvincente dramma psicologico scritto da Nora Garrett in cui una professoressa universitaria (Julia Roberts) si trova in un momento cruciale della sua vita personale e professionale, quando una studentessa modello (Ayo Edebiri) muove delle accuse verso uno dei suoi colleghi (Andrew Garfield) e un oscuro segreto del suo passato rischia di venire alla luce.

Prodotto da Imagine Entertainment (Brian Grazer, Allan Mandelbaum, Jeb Brody), il film ha una durata di 139 minuti ed è girato in lingua inglese. Il cast è di altissimo livello: oltre a Julia Roberts, alla sua prima collaborazione con Guadagnino, Ayo Edebiri, Andrew Garfield, il cast è composto anche da Michael Stuhlbarg (che ha già recitato per Guadagnino in Chiamami col tuo nome) e Chloë Sevigny (vista invece in Bones and All).

Nel cast, oltre ai tre attori citati, si ritrovano anche Michael Stuhlbarg e Chloë Sevigny. La fotografia da Malik Hassan Sayeed, il montaggio da Marco Costa, la scenografia da Stefano Baisi e i costumi da Giulia Piersanti. La colonna sonora è composta da Trent Reznor e Atticus Ross, duo premiato con l’Oscar, mentre il suono è curato da Yves-Marie Omnes, Craig Berkey e Davide Favargiotti, con gli effetti visivi affidati a Fabio Cerrito.

Con After the Hunt, Luca Guadagnino porta a Venezia un’opera che esplora temi di potere, colpa e verità nascoste, confermando la sua capacità di fondere cinema d’autore e tensione drammatica.

Il film sarà al cinema dal 16 ottobre.

No Other Choice – Non c’è altra scelta: il teaser trailer del nuovo film di Park Chan-wook

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È stato diffuso il teaser trailer di No Other Choice – Non c’è altra scelta, il nuovo film di Park Chan-wook presentato in concorso alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia. Dopo successi come Oldboy, Lady Vendetta e The Handmaiden, il regista sudcoreano torna con un dramma intenso che intreccia critica sociale e ritratto esistenziale.

Il film racconta la storia di Man-su, specialista nella produzione di carta con 25 anni di esperienza, che vive serenamente con la moglie e i figli fino al giorno in cui viene improvvisamente licenziato. Determinato a trovare un nuovo impiego, l’uomo affronta mesi di colloqui falliti, lavori precari e l’incubo di perdere la casa. Umiliato dall’azienda che lo ha escluso, prende una decisione drastica: se non c’è un posto per lui, dovrà crearselo da solo.

Nel suo commento, Park Chan-wook ha dichiarato di essersi ispirato al romanzo The Ax di Donald E. Westlake, trovando in Man-su una figura specchio delle difficoltà e delle responsabilità familiari che attraversano la vita di molti uomini contemporanei.

Il teaser trailer anticipa le atmosfere tese e drammatiche di un film che unisce realismo e allegoria, e che conferma l’autore sudcoreano come uno dei registi più radicali e coerenti del cinema internazionale.

No Other Choice – Non c’è altra scelta uscirà prossimamente nelle sale italiane, distribuito dopo il suo passaggio veneziano.

Lo Squalo: il teaser trailer della riedizione al cinema dal 1 al 3 settembre

Adler Entertainment è lieta di diffondere il teaser della riedizione di Lo squalo, il capolavoro di Steven Spielberg, il primo blockbuster estivo, capostipite degli shark movie e autentico manifesto della tensione cinematografica, che tornerà nei cinema italiani dall’1 al 3 settembre, in occasione del 50° anniversario e dopo aver terrorizzato milioni di spettatori al mondo.

La storia ha inizio quando ad Amity, una piccola località sulla costa atlantica, un enorme squalo bianco attacca i bagnanti, il capo della polizia (Roy Scheider), un giovane biologo marino (Richard Dreyfuss) ed un cacciatore di squali (Robert Shaw) decidono di affrontare il terribile animale prima che colpisca ancora.

Uscito negli Stati Uniti nell’estate del 1975 e accolto da un successo planetario, Lo squalo ha terrorizzato intere generazioni con la sua minaccia invisibile e inarrestabile che arriva dal profondo. L’iconica colonna sonora firmata da John Williams, che grazie ad essa vinse il suo secondo Oscar, è entrata nell’immaginario collettivo: due sole note che bastano a far crescere la paura per un predatore che non lascia scampo.

Fu proprio con Lo squalo che venne lanciata la carriera di Spielberg, allora ventisettenne, spalancando la porta per i suoi futuri successi. La produzione non fu semplice: lo squalo meccanico da usare per le riprese non funzionava a dovere, le inquadrature sul mare erano continuamente rovinate dalle imbarcazioni di passaggio e il tempo di lavorazione triplicò rispetto a quanto previsto inizialmente.

Ma nonostante tutti gli imprevisti il film fu un enorme successo al boxoffice mondiale e segnò il passo per tutti i blockbuster successivi, dalle strategie di marketing e distribuzione alle tecniche narrative e perfino alle caratterizzazioni dei protagonisti. A cinquant’anni dalla sua prima apparizione, questo film conserva intatta la sua forza: un ritmo perfetto, una regia magistrale, personaggi iconici e una colonna sonora da urlo, tanto che anche Quentin Tarantino lo ha definito “il più grande film mai realizzato”.

Il ritorno in sala è un’occasione unica per vivere (o rivivere) su grande schermo l’esperienza di un classico assoluto, che ha dato il via a un intero genere e che oggi continua a influenzare l’immaginario contemporaneo, dagli shark movies ai film di sopravvivenza, dalle serie TV ai videogame.

Lo squalo, come già riportato, sarà in sala con Adler dal 1 al 3 settembre.

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RIV4LI: Il trailer della nuova serie Netflix con Samuele Carrino

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RIV4LI: Il trailer della nuova serie Netflix con Samuele Carrino

L’estate non è ancora finita ma è già tempo di prepararsi al ritorno sui banchi di scuola con il trailer ufficiale di RIV4LI, la nuova serie TV per ragazzi e ragazze creata da Simona Ercolani, presentata in anteprima al Giffoni Film Festival e disponibile solo su Netflix dall’1 ottobre 2025.

RIV4LI esplora i conflitti e le scoperte della preadolescenza: i primi amori, la costruzione della propria identità, le aspirazioni dei ragazzi e le aspettative degli adulti, la forza dell’amicizia, ma anche i pregiudizi che decretano chi è dentro o fuori dal “gruppo”.

RIV4LI sono, infatti, i protagonisti della serie, divisi inizialmente in due gruppi contrapposti. Siamo a Pisa, nella Terza D della scuola media Montalcini: è questo il regno degli Insiders, il cui leader è il ragazzo più popolare della scuola, Claudio (Samuele Carrino), spalleggiato dal suo migliore amico Dario (Edoardo Miulli). A sfidarli sarà la nuova arrivata, Terry (Kartika Malavasi) che, appena trasferita da Roma, formerà un nuovo gruppo, quello degli Outsider. La rivalità è da subito accesissima, ma quando la scuola sarà divisa in due da un vero muro, Insider e Outsider sapranno unirsi per abbattere le barriere fisiche e relazionali che li separano.

Nel cast anche Lorenzo Ciamei (Luca), Eugenia Cableri (Sabrina), Melissa Di Pasca (Marzia), Joseph Figueroa (Alessio), Duccio Orlando (Paolo), Andrea Arru (Pietro).

RIV4LI è una serie di Simona Ercolani, prodotta da Stand by me con la regia di Alessandro Celli. Scritta da Simona Ercolani con Serena Cervoni, Mauro Uzzeo, Chiara Panedigrano, Sara Cavosi, Angelo Pastore, Ivan Russo. Produttrice esecutiva è Grazia Assenza.

LEGGI ANCHE: Parlare ai ragazzi coi ragazzi: il talk dell’ARF! Festival con Andrea Arru, Samuele Carrino, Alessandro Celli e Licia Troisi

Il club dei delitti del giovedì: la spiegazione del finale del film Netflix

Il club dei delitti del giovedì è l’ultimo giallo su Netflix, e il finale ricco di colpi di scena della storia deve essere analizzato nei dettagli per essere compreso. Con una serie di libri da adattare e un cast incredibile che include Pierce Brosnan, Helen Mirren e Ben Kingsley, il film potrebbe facilmente diventare un franchise di successo per la piattaforma di streaming. Il nuovo film apporta alcune modifiche al materiale originale, tra cui il personaggio di Ron interpretato da Brosnan, ma rimane fedele allo spirito dei romanzi.

Con un ottimo mistero, un umorismo accessibile e una scenografia incredibilmente abile, guidata dal regista di Mamma ho perso l’aereo, Chris Columbus, c’è molto da apprezzare nel nuovo film. Con componenti così efficaci, non sorprende che le recensioni di Il club dei delitti del giovedì siano state molto positive. Il nuovo film ha uno spirito così affascinante che sicuramente sarà un grande successo per la piattaforma di streaming. Con un finale così dettagliato, tuttavia, vale la pena analizzare la conclusione in dettaglio.

Un membro de Il club dei delitti del giovedì ha ucciso Peter Mercer

Il film inizia con il club che dà il titolo al film che si riunisce per discutere della misteriosa morte di Angela Hughes avvenuta decenni prima. Il caso irrisolto sembra sospetto fin dall’inizio, con il fidanzato di Angela, Peter Mercer, che afferma di aver visto un uomo mascherato scappare dalla sua casa dopo aver gettato Angela dalla finestra. L’uomo mascherato non è mai stato catturato, ma sembra ovvio a tutti che Peter Mercer fosse il vero assassino. Nonostante ciò, nessuno dei poliziotti ha mai avuto dubbi sulla sua innocenza, tranne Penny Grey, ex membro della polizia del Kent e co-fondatrice del club.

Penny, convinta che ci fosse stato un errore giudiziario, ha preso la legge nelle sue mani e ha ucciso Peter Mercer. Questo la portò a nascondere questo particolare caso ai suoi compagni, e il club lo scoprì solo dopo che Penny era diventata troppo malata per lavorare con loro. Al giorno d’oggi, questo è importante a causa dello stato di Cooper’s Chase. I resti di Mercer furono sepolti nella proprietà, e il progetto di sviluppo in cui è coinvolto Ian Ventham prevederebbe lo scavo del territorio.

Dopo che Tony, l’ultima speranza per Cooper’s Chase, viene ucciso, John, il marito di Penny, si sente con le spalle al muro. Decide di farsi giustizia da solo, proprio come sua moglie, per nascondere il suo senso di colpa. Con una dose di fentanil procuratasi grazie al suo precedente lavoro di veterinario, John uccide Ian. Sfortunatamente per entrambi, l’intero complotto alla fine viene scoperto. Tuttavia, piuttosto che andare in prigione, John prende l’importante decisione di porre fine alla propria vita e a quella di sua moglie. Il film si conclude con il funerale dei personaggi, avvolto da un’aura di oscurità e tristezza.

Helen Mirren, Ben Kingsley e Pierce Brosnan e Celia Imrie in Il club dei delitti del giovedì
Helen Mirren, Ben Kingsley e Pierce Brosnan e Celia Imrie in Il club dei delitti del giovedì. Foto di Giles Keyte/Netflix

Un incidente con Bogdan ha causato la morte di Tony

Naturalmente, l’omicidio principale del film ha poco a che fare con le azioni di John e Penny. Tony Curran, comproprietario della Cooper’s Chase, sembra essere l’unico a prendersi cura dei residenti della casa di riposo e si rifiuta di vendere la proprietà ai costruttori. Questo inizialmente lo rende un eroe. Purtroppo, non tutto è così semplice con Tony. L’uomo è in realtà piuttosto disonesto, come viene rivelato nel corso della storia. Lui e Bobby Tanner sono coinvolti in un piano che li vede coinvolgere uomini disperati provenienti dall’estero per lavorare.

Quando arrivano, Tony prende i loro passaporti in modo che non possano andarsene e li sfrutta come manodopera a basso costo. Bogdan, che all’inizio del film viene portato a lavorare per Ian, è una di queste vittime. Stanco dell’oppressione che ha subito e con una madre malata a casa, Bogdan va a casa di Tony per riprendersi il passaporto. Purtroppo, la situazione degenera e, nonostante le sue intenzioni contrarie, Bogdan finisce per uccidere Tony accidentalmente.

Cooper viene salvato e Joyce entra a far parte del club in modo permanente

Il finale del film vede la formazione di una nuova versione del club, con Joyce che diventa un membro più permanente. Nonostante le battute di Elizabeth durante tutta la storia, tra le due donne molto diverse inizia a formarsi un legame. Joyce, in quanto ex infermiera, ha qualcosa di molto speciale da offrire al club e si è guadagnata il loro rispetto durante tutto il film. Inoltre, il Cooper’s Chase viene fortunatamente acquistato dalla persona migliore possibile. Joanna, la figlia di Joyce, investe nella proprietà, sperando di renderla ancora migliore. L’amata casa di riposo continuerà a vivere e il club omonimo avrà ulteriori possibilità di risolvere altri omicidi negli anni a venire.

Ben Kingsley, Helen Mirren e Pierce Brosnan in Il club dei delitti del giovedì
Ben Kingsley, Helen Mirren e Pierce Brosnan in Il club dei delitti del giovedì. Foto di Giles Keyte/Netflix

Il vero significato di Il club dei delitti del giovedì

Nonostante alcuni momenti di autentica oscurità e alcuni temi pesanti, la sceneggiatura del film è caratterizzata da una grande leggerezza. Tutti i membri del cast hanno la possibilità di brillare in alcuni momenti emozionanti, immergendosi in un dramma straziante e in una commedia edificante. Questo equilibrio è difficile da trovare, ma il film ci riesce bene con il suo sguardo sorprendentemente profondo sulla vita e la mortalità, così come sul bene e sul male. Nessuno degli assassini del film è il vero cattivo. Bogdan ha ucciso Tony, ma è stato un incidente e il risultato del fatto che lui stesso era vittima di abusi.

Lo stesso vale per Penny, che desiderava semplicemente vedere fatta giustizia. Le azioni di John, nell’uccidere Ian, sono forse le più egoistiche, ma sono state compiute per proteggere la sua amata moglie. Niente è perfetto e ciascuno dei personaggi ha una sorta di tristezza nella propria vita. Il rapporto di Elizabeth con il marito, affetto da demenza, è molto emotivo. La sua perdita arriverà alla fine, come è successo anche a Penny. I personaggi del film sono complessi, ed è per questo che la storia funziona.

Sono nella fase avanzata della loro vita e devono fare i conti con la propria mortalità e le proprie malattie, il che fa sembrare alcuni di questi omicidi molto più piccoli e meno importanti. Il nuovo film di Netflix trova un equilibrio sorprendente nella sua storia avvincente che rende il film così straordinariamente efficace. Con una visione del mondo più olistica, The Thursday Murder Club crea un legame emotivo con gli spettatori che dura anche dopo che l’affascinante mistero è stato risolto.

Una scomoda circostanza – Caught Stealing: la spiegazione del finale del film

Il finale tortuoso di Una scomoda circostanza – Caught Stealing è ricco di sangue e colpi di scena inaspettati. Film poliziesco di Darren Aronofsky basato sull’omonimo libro di Charlie Huston, in esso si racconta la storia di un barista di New York City che, accettando di badare al gatto del vicino, finisce per essere trascinato in una complessa rete di inganni e morte nella malavita della città. Si tratta di un film frenetico, caotico e nel complesso divertente, soprattutto quando Hank, interpretato da Austin Butler, diventa sempre più disperato (e pericoloso) nei suoi tentativi di sfuggire ai suoi inseguitori.

I colpi di scena tengono Hank (e il pubblico) con il fiato sospeso, anche quando amici e nemici vengono eliminati in sparatorie e omicidi. Tutto questo porta a un finale soddisfacente per l’arco narrativo del personaggio, che potrebbe anche essere facilmente utilizzato per dare il via a un adattamento del sequel del romanzo originale. Scopriamo allora con questo approfondimento cosa succede a Hank nel finale di Una scomoda circostanza – Caught Stealing e come questo prepara potenziali future avventure del personaggio.

Cosa succede a Hank nel finale di Una scomoda circostanza – Caught Stealing?

Hank è l’unico grande sopravvissuto della trama caotica di Una scomoda circostanza – Caught Stealing, riuscendo alla fine a sfuggire alle autorità fuggendo dal paese con la piccola fortuna in cui si è imbattuto. Hank non sembra davvero un cattivo ragazzo quando viene presentato, semplicemente un uomo in difficoltà che sta lottando con i propri traumi e complessi, ma che in generale si presenta come una persona perbene. Anche quando il caos del film di Aronofsky diventa sempre più pericoloso, Hank mostra un notevole autocontrollo.

Anche il suo omicidio di Russ, causato da ripetuti traumi alla testa, è descritto in gran parte come accidentale, con Hank che cerca (senza riuscirci) di portare Russ in ospedale quando questi sviene a causa delle ferite riportate. Hank conclude il film consapevole che le autorità lo ritengono almeno coinvolto negli omicidi, ma con 4 milioni di dollari a disposizione, che usa per fuggire a Tulum con Bud. Anche se manda dei soldi a sua madre, questo permette a Hank di ricominciare da capo, cosa che sembra accettare di buon grado, dato che ordina una soda invece di un alcolico e si dichiara disposto a spegnere una partita di baseball.

Zoe Kravitz e Austin Butler in Una scomoda circostanza - Caught Stealing
Zoe Kravitz e Austin Butler in Una scomoda circostanza – Caught Stealing

Chi ha ucciso Yvonne e perché

La morte di Yvonne (Zoe Kravitz) all’inizio di Una scomoda circostanza – Caught Stealing aumenta enormemente la posta in gioco e aggiunge un tocco tragico (seppur nauseante) al caos che ne consegue. Inizialmente, Hank crede che siano stati Colorado e i suoi uomini ad uccidere Yvonne, poiché ha deciso di chiamarli e ha sentito il gangster minacciarla. Tuttavia, Roman sostiene che Colorado non sia il responsabile e che probabilmente siano stati i fratelli Drucker, dai quali Hank era fuggito in precedenza. Il trauma e il mistero della morte di Yvonne passano leggermente in secondo piano nel corso del film, soprattutto quando altri personaggi vengono eliminati uno dopo l’altro.

Tuttavia, uno dei grandi colpi di scena finali di Caught Stealing arriva dopo che i fratelli Drucker collaborano con Hank per uccidere Roman. Inizialmente, sembrano tutti contenti di lasciarsi andare per la propria strada, i Drucker addirittura progettano di dargli una parte dei soldi per i “servizi resi”. Tuttavia, si scopre che hanno l’accendino distintivo di Yvonne, a prova che l’hanno uccisa. Secondo Lipa e Schmully, hanno ucciso Yvonne perché Hank era fuggito quando erano venuti a cercarlo la prima volta. Proprio come aveva previsto Roman, i due volevano mandare un messaggio a Hank su ciò che sarebbe potuto accadere se li avesse traditi di nuovo, portando direttamente alla brutale morte di Yvonne.

Come Una scomoda circostanza – Caught Stealing prepara il terreno per un sequel

Una scomoda circostanza – Caught Stealing si conclude dunque con una nota piuttosto conclusiva per Hank. Dopo aver eliminato praticamente tutti quelli che lo volevano morto o che fungevano da capro espiatorio per il caos, il film si conclude con Hank che si adatta alla sua nuova situazione. Anche le scene post-credits di Budd suggeriscono che Hank abbia più o meno trovato la pace. Se non ci fosse un sequel, sarebbe comunque un finale abbastanza soddisfacente. Tuttavia, ci sono in realtà due seguiti al libro da cui è tratto il film, che potrebbero facilmente essere utilizzati come base per dei sequel.

Charlie Huston (che ha scritto sia i libri originali che la sceneggiatura del film) crea persino una situazione che potrebbe portare alla prossima storia nella nuova casa di Hank. Il sequel di Caught Stealing è Six Bad Things, che segue gli sforzi di Hank per rimanere sotto il radar in Sud America, solo per scoprire che la mafia russa vuole indietro i suoi soldi (ed è disposta a prendere di mira la sua famiglia per ottenerli). Lungo la strada, Hank deve affrontare una nuova serie di pericolosi tipi strani, il tutto mentre corre in California per proteggere sua madre.

Matt Smith e Austin Butler in Una scomoda circostanza - Caught Stealing
Matt Smith e Austin Butler in Una scomoda circostanza – Caught Stealing

Il terzo capitolo della serie, A Dangerous Man, costringe Hank a tenere d’occhio Miguel Arenas, un promettente giocatore di baseball, come parte di un accordo con i russi. Questo alla fine costringe Hank a tornare a New York City, una città da cui è fuggito una volta e da cui potrebbe non riuscire a scappare di nuovo. Questi libri preparano il terreno affinché Una scomoda circostanza – Caught Stealing possa potenzialmente dare vita a una nuova serie cinematografica per Austin Butler.

Il vero significato di Una scomoda circostanza – Caught Stealing

Una scomoda circostanza – Caught Stealing è dunque incentrato su una persona che ha trascorso la propria vita fuggendo dai propri problemi. Quando Hank si è ferito al ginocchio e ha ucciso il suo amico in un incidente stradale causato accidentalmente con la sua auto da adolescente, è fuggito dall’altra parte del Paese. Con l’aiuto della negazione e dell’alcol, Hank è riuscito a mettere da parte il suo trauma per un po’.

Quando scoppia una nuova battaglia e le sue azioni portano inavvertitamente alla morte dei suoi cari, come Yvonne e Russ, Hank inizialmente cerca di fuggire di nuovo. Tuttavia, Hank può essere libero (e salvare le altre persone nella sua vita) solo quando reagisce. Il film equipara la decisione di Hank di affrontare i suoi problemi con i vari criminali alla sua lotta finale contro la dipendenza dall’alcol.

Yvonne lo spiega chiaramente a Hank poco prima di morire, chiedendogli se è il tipo di persona di cui lei può fidarsi, capace di mantenere la propria posizione e lottare per ciò che è importante. Anche se è troppo tardi per salvarla, Hank alla fine prende a cuore queste parole e diventa il tipo di persona che non solo riesce a sopravvivere, ma anche a prosperare nel mondo spietato di Una scomoda circostanza – Caught Stealing.

Bella Ramsey agli Hater di The Last of Us: “Se non vi piace la serie, giocate al videogioco”

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Bella Ramsey non le manda a dire a chi ha criticato la serie The Last of Us. In una nuova intervista, Ramsey suggerisce infatti ai critici di giocare al videogioco invece di guardare la terza stagione della serie HBO. “Non posso farci niente comunque. La serie è già uscita. Non c’è nulla che possa essere cambiato o modificato. Quindi penso che non abbia davvero senso leggere o guardare nulla“, ha detto Bella Ramsey durante un’apparizione al podcast The Awardist.

Le persone hanno ovviamente diritto alle loro opinioni. Ma questo non influisce sulla serie, non influisce in alcun modo su come la serie continua o altro. Per me sono cose molto separate. Quindi no, semplicemente non mi interessa“. Con l’avvicinarsi della terza stagione dell’adattamento live-action del videogioco post-apocalittico della Naughty Dog, Bella Ramsey ha quindi dato un suggerimento agli haters: “Non siete obbligati a guardarlo. Se lo odiate così tanto, c’è sempre il gioco. Potete semplicemente giocarci di nuovo”, ha detto. “Se invece volete guardarlo, spero che vi piaccia”.

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Di cosa parla The Last of Us 

Basato sul pluripremiato videogioco di Naughty Dog, The Last of Us è ambientato 20 anni dopo la distruzione della civiltà moderna. Joel, interpretato da Pedro Pascal, un sopravvissuto incallito, viene assunto per far uscire clandestinamente Ellie (Bella Ramsey), una ragazza di 14 anni, da una zona di quarantena oppressiva. Quello che inizia come un piccolo lavoro si trasforma presto in un viaggio brutale e straziante, poiché entrambi devono attraversare gli Stati Uniti e dipendere l’uno dall’altra per sopravvivere.

La seconda stagione riprende cinque anni dopo gli eventi della prima stagione, Joel ed Ellie sono coinvolti in un conflitto tra loro e in un mondo ancora più pericoloso e imprevedibile di quello che si sono lasciati alle spalle. A loro, come protagonista della serie si aggiunge la Abby di Kaitlyn Dever, la quale ha un conto in sospeso con Joel. Proprio quest’ultima è stata indicata come personaggio principale della prossima stagione, sulla quale vige però ancora molta segretezza.

Avengers: Doomsday, rivelati possibili dettagli sul ruolo di Loki

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L’ultima volta che abbiamo visto Loki, interpretato da Tom Hiddleston, aveva preso posto su un trono situato nella Cittadella alla Fine dei Tempi. Il Dio delle Storie ora governa il Multiverso, anche se l’esistenza delle Incursioni suggerisce che potrebbe trattarsi di una soluzione temporanea. Loki, infatti, tornerà in Avengers: Doomsday, e ora sono stati diffusi alcuni dettagli spoiler sul che potrebbe avere nel film.

Oggi, il fotografo @UnBoxPHD è infatti stato il primo a rivelare che “si vocifera che Hiddleston abbia girato oggi per Avengers Doomsday”. Da allora, Daniel Richtman è intervenuto per spiegare che “Tom Hiddleston ha girato una scena nella casa di Steve e Peggy in cui ha una [conversazione] con loro”. Quindi, se ciò venisse confermato, Loki lascerà la vecchia fortezza di Colui che rimane per condividere lo schermo con Capitan America di Chris Evans e Peggy Carter di Hayley Atwell.

In precedenza era stato riferito che si tratta del Capitan America della Terra-616, con questo film che riprende la sua storia dopo che è tornato indietro nel tempo alla fine di Avengers: Endgame per avere il suo lieto fine con Peggy. Un tempo c’erano progetti per un film o una serie che seguissero la missione di Steve Rogers di riportare le Gemme dell’Infinito al loro giusto posto nel tempo. Ora sembra che spetterà ad Avengers: Doomsday colmare le lacune.

Cosa sappiamo di Avengers: Doomsday

Avengers: Doomsday e Avengers: Secret Wars arriveranno in sala rispettivamente il 18 dicembre 2026, e il 17 dicembre 2027. Entrambi i film saranno diretti da Joe e Anthony Russo, che tornano anche nel MCU dopo aver diretto Captain America: The Winter Soldier, Captain America: Civil War, Avengers: Infinity War e Avengers: Endgame.

Sono confermati nel cast del film (per ora): Paul Rudd (Ant-Man), Simu Liu (Shang-Chi), Tom Hiddleston (Loki), Lewis Pullman (Bob/Sentry), Florence Pugh (Yelena), Danny Ramirez (Falcon), Ian McKellen (Magneto), Sebastian Stan (Bucky), Winston Duke (M’Baku), Chris Hemsworth (Thor), Kelsey Grammer Bestia), James Marsden (Ciclope), Channing Tatum (Gambit), Wyatt Russell (U.S. Agent), Vanessa Kirby (Sue Storm), Rebecca Romijn (Mystica), Patrick Stewart (Professor X), Alan Cumming (Nightcrawler), Letitia Wright (Black Panther), Tenoch Huerta Mejia (Namor), Pedro Pascal (Reed Richards), Hannah John-Kamen (Ghost), Joseph Quinn (Johnny Storm), David Harbour (Red Guardian), Robert Downey Jr. (Dottor Destino), Ebon Moss-Bachrach (La Cosa), Anthony Mackie (Captain America).

Ridley Scott spiega perché ha detto no a Terminator 3

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Ridley Scott spiega perché ha detto no a Terminator 3

A 22 anni dall’uscita del classico di fantascienza Terminator 3: Le macchine ribelli, il leggendario regista Ridley Scott rivela ulteriori dettagli sul motivo per cui si è rifiutato di dirigere il film. James Cameron, come noto, è l’ideatore della saga di Terminator e ha diretto i primi due capitoli, senza dubbio i due migliori film della serie e candidati al titolo di migliori film d’azione di tutti i tempi.

Tuttavia, Cameron ha fatto un passo indietro per il terzo capitolo, che è stato diretto da Jonathan Mostow. Ma il lavoro era stato offerto prima a Ridley Scott; ironicamente, Cameron ha diretto il film Aliens – Scontro finale del 1986, più orientato all’azione, sequel del capolavoro horror spaziale Alien di Scott del 1979, quindi questa assunzione come regista sarebbe stata un ribaltamento della situazione.

Durante una recente intervista con The Guardian, Ridley Scott ha dunque rivelato di aver rifiutato 20 milioni di dollari per dirigere Terminator 3 perché semplicemente “non è il suo genere”. “Ho rifiutato un compenso di 20 milioni di dollari. Vedi, non posso essere comprato, amico. Qualcuno mi ha detto: “Chiedi quanto prende Arnold”. Ho pensato: “Ci provo”. Ho detto: “Voglio quello che prende Arnold”. Quando hanno detto di sì, ho pensato: “Ca**o”. Ma non potevo farlo. Non è il mio genere”.

“È come fare un film di Bond. – ha aggiunto Scott – L’essenza di un film di Bond è il divertimento e l’eccentricità. Terminator è puro fumetto. Io avrei cercato di renderlo reale. Ecco perché non mi hanno mai chiesto di fare un film di Bond, perché avrei potuto rovinarlo”. Molti probabilmente avrebbero voluto che Scott dirigesse Terminator 3, considerato un po’ deludente, un banale rifacimento delle trame passate, che ha iniziato a infrangere le regole del franchise in modo frustrante. Ma anche Scott non è infallibile come regista, avendo prodotto alcuni film che non hanno avuto un grande successo.

I commenti di Ridley Scott rivelano però una comprensione più profonda del franchise di Terminator, sapendo che è tonalmente al di fuori della sua area di competenza quando realizza così tanti film storici dettagliati. Tuttavia, avrebbe potuto eccellere nella regia del primo Terminator, che fa qualcosa di simile ad Alien nel tradurre i classici tropi dell’horror in una storia di fantascienza.

Nel bene e nel male, Scott è dunque rimasto lontano dal franchise di Terminator, sperando che una scelta migliore di lui potesse dirigere qualcosa di degno dei suoi predecessori. Non è quello che è successo, ma qualunque cosa sia ora il franchise di Terminator nel suo complesso, i vari alti e bassi nella qualità fanno tutti parte dell’esperienza.

Venezia 82: in concorso No Other Choice di Park Chan-wook

Venezia 82: in concorso No Other Choice di Park Chan-wook

La competizione ufficiale della 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia accoglie oggi uno dei titoli più attesi: Eojjeol suga eopda (No Other Choice), il nuovo film di Park Chan-wook, regista sudcoreano che negli ultimi vent’anni ha saputo imporsi come una delle voci più radicali e riconoscibili del cinema internazionale, autore di cult come Oldboy, Lady Vendetta e Parasite.

La storia ha come protagonista Man-su, specialista nella produzione di carta con 25 anni di esperienza, soddisfatto della propria vita familiare e professionale. Tutto sembra perfetto, finché la sua azienda lo licenzia con poche parole: “Non abbiamo altra scelta”. Da quel momento, l’uomo si ritrova intrappolato in una spirale di frustrazione e precarietà: un anno di colloqui andati a vuoto, un lavoro mal pagato in un negozio al dettaglio, il rischio di perdere la casa conquistata con sacrificio. Umiliato dal responsabile di linea della Moon Paper, Man-su decide di forzare il destino: se non c’è un posto per lui, sarà lui stesso a crearselo.

Nel suo commento, Park Chan-wook spiega di essersi ispirato al romanzo The Ax di Donald E. Westlake, da cui ha tratto una riflessione personale: “Anch’io, come Man-su, credo che esista un certo modo di essere padre, marito e uomo. Dopotutto, sono anch’io un uomo con una famiglia.”

No Other Choice arriva a Venezia dopo una lunga gestazione – quasi vent’anni – e si presenta come un dramma esistenziale e sociale, in equilibrio tra critica al sistema e ritratto umano universale, arricchito dallo sguardo rigoroso e visionario di Park Chan-wook.

Venezia 82: oggi è il giorno di After the Hunt di Luca Guadagnino con Julia Roberts

Il 29 agosto alla 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia debutta After the Hunt, il nuovo film di Luca Guadagnino, regista di Chiamami col tuo nome e Bones and All. Si tratta di un thriller psicologico che promette di essere uno dei titoli più discussi del concorso.

La trama di After the Hunt

La storia ruota attorno a una professoressa universitaria che si ritrova a un bivio personale e professionale quando una studentessa modello muove un’accusa contro un collega. L’episodio rischia di mettere a nudo un oscuro segreto del suo passato, portandola ad affrontare verità sepolte e scelte difficili.

Prodotto da Imagine Entertainment (Brian Grazer, Allan Mandelbaum, Jeb Brody), il film ha una durata di 139 minuti ed è girato in lingua inglese. Il cast è di altissimo livello: Julia Roberts, alla sua prima collaborazione con Guadagnino, guida un gruppo di interpreti che comprende Ayo Edebiri, Andrew Garfield, Michael Stuhlbarg e Chloë Sevigny.

La sceneggiatura è firmata da Nora Garrett, la fotografia da Malik Hassan Sayeed, il montaggio da Marco Costa, la scenografia da Stefano Baisi e i costumi da Giulia Piersanti. La colonna sonora è composta da Trent Reznor e Atticus Ross, duo premiato con l’Oscar, mentre il suono è curato da Yves-Marie Omnes, Craig Berkey e Davide Favargiotti, con gli effetti visivi affidati a Fabio Cerrito.

Con After the Hunt, Luca Guadagnino porta a Venezia un’opera che esplora temi di potere, colpa e verità nascoste, confermando la sua capacità di fondere cinema d’autore e tensione drammatica.

Venezia 82: il red carpet di Jay Kelly con George Clooney, Adam Sandler e Laura Dern

Il concorso della 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha vissuto uno dei suoi momenti più attesi con l’arrivo al Lido del cast di Jay Kelly, il nuovo film di Noah Baumbach. Prima della proiezione ufficiale, il red carpet si è trasformato in un evento spettacolare, illuminato dalla presenza di grandi star hollywoodiane.

A guidare la passerella c’erano George Clooney, accolto da applausi e flash, e Adam Sandler, protagonista al fianco dell’amico e regista. Accanto a loro Laura Dern, che ha portato sul tappeto rosso la sua eleganza naturale. L’ensemble del cast comprendeva anche Riley Keough, Billy Crudup, Patrick Wilson, Greta Gerwig e Alba Rohrwacher, che hanno reso la serata ancora più internazionale e glamour.

Il regista Noah Baumbach ha salutato il pubblico con entusiasmo, accompagnato dai produttori David Heyman e Amy Pascal, sottolineando l’importanza di presentare a Venezia un film che esplora identità, scelte di vita e rapporti umani.

Le foto immortalano sorrisi, complicità e momenti di stile: Clooney e Sandler hanno catalizzato l’attenzione con la loro presenza carismatica, mentre le interpreti hanno incantato con abiti raffinati che hanno dominato i social e i media internazionali.

Con Jay Kelly, Baumbach porta a Venezia un’opera intima e universale, e il red carpet di apertura del film ha confermato l’attesa che accompagna questo titolo destinato a far discutere critica e pubblico.

Jay Kelly: recensione del film di Noah Baumbach – Venezia 82

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Jay Kelly: recensione del film di Noah Baumbach – Venezia 82

Con Jay Kelly, Noah Baumbach torna in concorso alla Mostra Internazionale del Cinema della Biennale di Venezia con un’opera che sembra pensata per conquistare il pubblico più vasto possibile, sacrificando parte della sua consueta finezza autoriale. Il film, che vede George Clooney nei panni di una star in crisi esistenziale, si muove con disinvoltura tra i codici del dramma e quelli della commedia, ma lo fa scegliendo scorciatoie narrative che ne limitano la forza. L’impressione è quella di un racconto “ben confezionato”, capace di intrattenere senza mai davvero mettere in discussione lo spettatore.

Il tema centrale è quello classico del successo pagato a caro prezzo: Jay Kelly, attore adorato dalle masse, è costretto a confrontarsi con ciò che ha sacrificato lungo il cammino, in particolare gli affetti familiari e le relazioni autentiche. Se l’intento dichiarato di Baumbach era quello di interrogarsi sull’identità e sul senso di una vita vissuta “in scena”, il risultato appare in parte appiattito su cliché già noti, dove l’uomo di successo paga l’inevitabile scotto della solitudine.

Cliché e stereotipi in viaggio per l’Europa

La cornice del viaggio europeo dovrebbe offrire respiro al racconto, ma si trasforma in un catalogo di stereotipi, sul clamore, la confusione, l’accoglienza e i modi di fare goffi e riguardosi. Tutto ciò rafforza l’idea di un film che cerca la “poesia” nelle scorciatoie, invece che scavare davvero nella cultura o nelle contraddizioni dei luoghi attraversati.

Baumbach sembra cadere nella trappola di un certo immaginario hollywoodiano, dove l’Italia in particolare diventa scenario pittoresco al servizio di una parabola morale americana. Il viaggio del protagonista è ridotto a specchio che riflette le nevrosi di Jay Kelly senza mai avere un ruolo determinante.

Adam Sandler – Cortesia Netflix

Il ricco e la bontà del povero

Tra i momenti più problematici del film c’è proprio l’incontro tra il divo e le persone comuni, descritti come depositari di una purezza morale che il protagonista avrebbe perduto. Baumbach insiste su questa contrapposizione in modo fin troppo programmatico: il ricco che scopre nella semplicità del povero una verità più autentica. Un topos narrativo che, anziché offrire complessità, riduce i personaggi secondari a funzioni esemplari, perdendo così in credibilità.

Due star, un’occasione mancata

La presenza di George Clooney nel ruolo principale è senza dubbio l’elemento più attrattivo del film. L’attore mette al servizio della parte il suo consueto carisma, reggendo da solo gran parte della scena. La sua interpretazione ha l’eleganza che ci si aspetta, ma proprio questa prevedibilità diventa un limite: Clooney è perfetto per incarnare la star di successo tormentata, ma forse troppo perfetto per sorprendere davvero.

Accanto a lui troviamo Adam Sandler, nei panni del manager Ron. Un personaggio che, almeno sulla carta, poteva offrire un contrappunto interessante: il punto di vista di chi vive la fama non da protagonista ma da figura “satellite”, necessaria ma invisibile. Purtroppo il film non gli concede abbastanza spazio: Sandler rimane un comprimario abbozzato, un’ombra di ciò che avrebbe potuto essere. Una scelta che priva Jay Kelly di un’angolazione nuova, rinunciando a esplorare il lato più ambivalente del rapporto tra star e entourage.

Tra cinema e vita: un finale benevolo

Il finale del film abbraccia una visione conciliatoria: in fondo, sembra dirci Baumbach, sacrificare parte della vita privata in nome dell’arte e della capacità di emozionare il pubblico è un prezzo che può valere la pena pagare. È un messaggio che suona rassicurante e che, se da un lato può toccare corde sincere, dall’altro rischia di suonare autoassolutorio.

Più che un vero bilancio amaro, Jay Kelly sceglie di chiudere con una nota di benevolenza verso il protagonista e verso l’industria stessa. Un atto di fede nel cinema, certo, ma che riduce la complessità del discorso iniziale a una formula edificante. Il film sembra allora rivolgersi a chi cerca conferme più che a chi desidera interrogarsi.

Cortesia Netflix

Un passo indietro per Baumbach

Jay Kelly appare come un Baumbach più accomodante. Se opere precedenti come Marriage Story riuscivano a scavare nelle contraddizioni umane con lucidità e dolore, qui ci troviamo di fronte a un prodotto levigato, pensato per piacere senza urtare. Non a caso, l’opera richiama per atmosfere e ambizioni la serie The Studio di Apple TV+, con cui condivide l’idea del dietro le quinte del cinema senza però la tendenza a graffiare davvero.

È un film che scorre piacevolmente e che troverà certo il suo pubblico, ma che difficilmente resterà tra le opere più memorabili del regista. Ben confezionato, sì, ma anche troppo legato a formule già note, Jay Kelly rischia di essere ricordato più come un’occasione mancata che come un capitolo imprescindibile della carriera di Baumbach.

Werner Herzog agli aspiranti registi: “Per fare film bisogna essere dei criminali borderline”

Werner Herzog, il venerato autore tedesco dietro “Fitzcarraldo”, “Aguirre, furore di Dio”, “Nosferatu” e “Grizzly Man” – tanto per citarne alcuni – ha dato alcuni consigli molto pratici agli aspiranti registi giovedì durante una masterclass alla Mostra del Cinema di Venezia. “Bisogna sapere come falsificare un permesso di ripresa in un Paese con una dittatura militare, come scassinare serrature”, ha detto. “Per fare film bisogna essere dei criminali al limite della legalità. Se non avete questa attitudine, non pensate nemmeno di diventare registi”.

Altre perle di saggezza fornite dall’82enne gigante del Nuovo Cinema Tedesco alla sala gremita di giovani appassionati di cinema andavano dal “leggere molti libri” – Herzog, a detta sua, guarda solo cinque o sei film all’anno – al non fissarsi troppo su un progetto specifico. “Naturalmente ci sono progetti che non sono riuscito a realizzare”, ha detto, raccontando come negli anni ’90 lui e Francis Ford Coppola volessero realizzare una produzione sontuosa sulla conquista spagnola del Messico, vista e narrata dal punto di vista degli Aztechi.

Abbiamo passato molte notti insonni a lavorarci, ma non si è mai concretizzato perché non è stato possibile finanziarlo”. “L’industria funziona in un modo specifico”, ha detto Herzog. “Ma invece di cercare di ottenere finanziamenti senza successo per i prossimi vent’anni, ho realizzato 28 film [da allora] e ho scritto sette libri in quel periodo. Questo è quello che ho fatto. Quella sceneggiatura non realizzata? Non ha importanza”, ha concluso.

Il prolifico regista ha anche sottolineato che un anno due dei suoi film hanno compiuto l’impresa unica di essere selezionati per il concorso di Venezia. Nel 2009 Herzog ha presentato in anteprima sia “My Son, My Son, What Have Ye Done?” che “Bad Lieutenant: Port Of Call New Orleans”. Herzog ha anche osservato che per lui “il cinema indipendente non esiste. Si dipende dai sistemi di produzione, si dipende dalla distribuzione. Si dipende dai permessi”, ha detto.

Ma esiste una cosa chiamata autosufficienza”, ha continuato Herzog. “Guadagnate dei soldi in qualche modo. Ma non rapinate una banca, perché è controproducente. Di solito vi prendono”. A Venezia quest’anno, Herzog ha ricevuto il Leone d’Oro alla Carriera e presenta in anteprima il suo nuovo documentario “Ghost Elephants” (qui la nostra recensione direttamente dal Festival), sulla ricerca di un branco di elefanti sfuggenti in una zona praticamente disabitata degli altopiani dell’Angola, grande quanto l’Inghilterra.

Nel frattempo è impegnato nelle riprese del suo prossimo lungometraggio, “Bucking Fastard”, in Irlanda, con le sorelle Kate e Rooney Mara. Herzog sta inoltre sviluppando un film d’animazione basato sul suo romanzo “The Twilight World” ed è stato scritturato come doppiatore nel prossimo film d’animazione di Bong Joon-ho sulle creature degli abissi marini. “Non smetto mai di lavorare e ho sempre più di un progetto in mente”, ha detto. “Ma se ce ne sono troppi, non riesco a seguirli tutti. Quindi seguo quello che mi sembra più urgente”.

No way up – Senza via di uscita: la spiegazione del finale del film

No Way Up – Senza via di uscita è un film horror-survival che vede i protagonisti finire in fondo a un oceano infestato dagli squali (per altri film sugli squali, leggi anche Paradise Beach – Dentro l’incubo: la storia vera dietro il film e Lo squalo: la spiegazione del finale del film di Steven Spielberg). Un aereo diretto a Cabo ospita una varietà di passeggeri, tra cui Ava, i suoi amici e una coppia di anziani nonni con la loro giovane nipotina, Rosa. Tuttavia, l’emozionante viaggio prende presto una brutta piega quando un incidente in volo fa precipitare il velivolo direttamente nell’Oceano Pacifico.

Di conseguenza, Ava e i pochi sopravvissuti che in qualche modo sono riusciti a resistere ai danni dell’incidente si ritrovano in una lotta per la sopravvivenza inimmaginabile. Il tutto mentre squali assassini iniziano a circondare il loro aereo che sta affondando. L’interpretazione unica del regista di Claudio Fäh di una storia di squali traccia un percorso avvincente, inedito, mentre la narrazione mette i personaggi in un angolo senza via d’uscita. Tuttavia, Ava e i suoi compagni sopravvissuti si rifiutano di arrendersi alla morte e lottano per raggiungere la superficie dell’acqua fino all’ultimo respiro.

La trama di No Way Up – Senza via di uscita

Ava e suo padre, il governatore locale, hanno un debole per le misure di sicurezza eccessive. Per lo stesso motivo, quando la studentessa universitaria si presenta all’aeroporto per imbarcarsi in una divertente vacanza con il suo ragazzo, Jed, e il suo amico, Kyle, la sua ex guardia del corpo dei Navy SEAL, Brandon, la accompagna. Tuttavia, anche Brandon si rende conto dell’assurdità della situazione. Alla fine accetta, quando capisce che Ava, che è sempre stata nervosa dopo la morte prematura della madre, causata da un incidente che si sarebbe potuto evitare, vuole davvero che lui sia lì.

Sophie McIntosh e Jeremias Amoore in No Way Up - Senza via di uscita
Sophie McIntosh e Jeremias Amoore in No Way Up – Senza via di uscita

Nel frattempo, una famiglia composta da due nonni e dalla piccola Rosa, di 10 anni, si prepara per la propria vacanza a Cabo. All’inizio, tutto procede senza intoppi mentre l’aereo decolla. Tuttavia, Ava non riesce a non rimanere nervosa, incapace di scrollarsi di dosso una brutta sensazione. Col tempo, la sua premonizione si avvera quando un uccello vola accidentalmente in uno dei motori dell’aereo. Inizialmente, il personale di bordo cerca di placare le preoccupazioni dei passeggeri, insistendo che tutto è sotto controllo. Tuttavia, le cose prendono presto una piega drammatica.

Il motore prende fuoco, creando un buco nella fiancata dell’aereo. Molti dei passeggeri che non vengono risucchiati fuori da esso muoiono a causa delle schegge. Altri annegano quando l’aereo precipita nell’Oceano Pacifico. Tuttavia, Ava e i suoi amici, seduti nella parte posteriore dell’aereo, sopravvivono all’incidente. Fortunatamente, anche Brandon sopravvive e riesce a trascinare fuori alcuni altri sopravvissuti: Rosa e sua nonna. Anche uno degli assistenti di volo, Danilo, sopravvive allo schianto. Il gruppo si stringe nella parte posteriore dell’aereo, dove si è formata una sacca d’aria sufficiente a garantire un’ora o due di aria respirabile.

In questo momento di grave crisi, Brandon prende il comando e decide di aspettare i soccorsi. Tuttavia, mentre cerca di procurarsi una bombola di ossigeno per garantire che non finiscano l’aria, incontra il più grande ostacolo alla loro sopravvivenza: gli squali. Di conseguenza, mentre Brandon riesce a guadagnare un po’ di tempo per Ava e gli altri grazie alla bombola di ossigeno, alla fine diventa cibo per i pesci. Nel frattempo, una squadra di soccorso sorvola la zona con un elicottero. Tuttavia, i sopravvissuti si trovano in una situazione ancora più critica quando l’aereo scivola dalle rocce, affondando sempre più nell’oceano.

Ava e gli altri capiscono quindi che devono trovare rapidamente una soluzione proattiva. Per un attimo, le loro speranze si accendono quando vedono i sommozzatori di soccorso trovare il relitto. Tuttavia, il loro sollievo è di breve durata, poiché gli squali divorano i sommozzatori. In seguito, Ava e Jed tentano di ritirare le bombole di ossigeno dei sommozzatori più vicini. Tuttavia, l’incontro di Jed con lo squalo gli provoca una ferita quasi mortale che lo uccide poco dopo.

Grace Nettle e Sophie McIntosh in No Way Up - Senza via di uscita
Grace Nettle e Sophie McIntosh in No Way Up – Senza via di uscita

Cosa accade nel finale del film

Nonostante la situazione impossibile in cui si trovano Ava e gli altri sopravvissuti, poiché il loro piano dipende da una roccia oceanica, rimane la speranza di riuscire a fuggire. Grazie all’atteggiamento positivo di Brandon e alla ricerca incessante dei pirati che il padre di Ava mette in atto per trovarla, le possibilità che il gruppo resista abbastanza a lungo da essere trovato rimangono alte. Tuttavia, un’altra aggiunta alla loro situazione difficile, ovvero la presenza degli squali, sembra segnare il loro destino. Mentre si trovano sott’acqua, il gruppo deve trovare il modo di garantire che i livelli di ossigeno durino abbastanza a lungo.

Tuttavia, questo significa che devono uscire dalla loro sacca d’aria e dirigersi verso il foro nell’aereo, dove il subacqueo ha trovato la morte. Ciò solleva il problema degli squali che aspettano con il fiato sospeso per fare di Ava e degli altri la loro preda. Fortunatamente, nella stiva dell’aereo ci sono alcune attrezzature subacquee a cui Danilo può accedere. Così, Ava, Kyle, Danilo e Rosa indossano le mute per proteggersi dal freddo dell’oceano. Da parte sua, Nana rinuncia all’attrezzatura per garantire la sicurezza della nipote. In seguito, il gruppo si prepara a nuotare verso il foro sul lato dell’aereo.

Hanno intenzione di prendere le bombole di ossigeno dei subacquei e usarle mentre nuotano verso la superficie. Quando il soffitto dell’aereo inizia a cedere alla pressione dell’acqua dell’oceano e la loro precaria presa sulla roccia scivola ulteriormente, diventa evidente che devono evacuare immediatamente l’aereo. Nana, che ha sempre saputo che non sarebbe riuscita a cavarsela senza attrezzatura nonostante le sue abilità di nuotatrice, accetta il suo destino. Crede che uscire con il gruppo li rallenterà solo perché cercheranno di dare la priorità alla sua sicurezza. Tuttavia, alla donna importa solo della sopravvivenza di sua nipote.

D’altra parte, Kyle rimane mortalmente spaventato dal piano a causa di un traumatico incidente infantile in cui è quasi annegato. Per lo stesso motivo, mentre Ava e gli altri lasciano la sacca d’aria, Kyle finisce per tornare indietro a causa della sua paura, il che alla fine lo rende un facile bersaglio per gli squali. Alla fine, Danilo e Rosa riescono a sopravvivere e a fuggire dall’aereo con la bombola da sub, nuotando fino alla fonte. Tuttavia, uno squalo nuota vicino all’apertura prima che Ava riesca a fuggire.

Phyllis Logan, Will Attenborough, Sophie McIntosh, Manuel Pacific, Grace Nettle e Jeremias Amoore in No Way Up - Senza via di uscita
Phyllis Logan, Will Attenborough, Sophie McIntosh, Manuel Pacific, Grace Nettle e Jeremias Amoore in No Way Up – Senza via di uscita

Chi sopravvive alla fine del film?

Dopo la morte di Brandon, Ava finisce per diventare la leader de facto del piccolo gruppo di sopravvissuti. Anche se in passato è stata frenata dalla paura, è in grado di pensare con lucidità e prendere decisioni indipendentemente da quanto le cose possano sembrare impossibili. Il suo ottimismo rimane la sua arma più potente. Tuttavia, alla fine, finisce per affrontare il suo destino da sola. Mentre lo squalo le impedisce di fuggire dallo scafo dell’aereo, Ava deve mantenere la calma e il sangue freddo per assicurarsi che il predatore non la noti.

In seguito, si rende conto che non può fuggire dal lato della nave, poiché l’imbarcazione sta scivolando sempre più sott’acqua. Di conseguenza, Ava non ha altra scelta che nuotare fino alla parte anteriore dell’aereo e fuggire da lì. Mentre l’aereo si ribalta dalla roccia e si tuffa in acqua, deve nuotare contro la pressione crescente per evitare di soccombere alla profondità dell’oceano. A differenza di Danilo e Rosa, non ha nemmeno una bombola di ossigeno. Di conseguenza, anche dopo essere fuggita dall’aereo, le sue possibilità di sopravvivenza sembrano scarse.

Alla fine, la mancanza di ossigeno ha la meglio sul suo corpo e lei è costretta ad arrendersi e smettere di lottare per la vita. Questo aiuta il suo corpo a galleggiare in superficie, grazie al giubbotto di salvataggio che indossa. Così, il suo corpo galleggia fino alla superficie dell’oceano, permettendo alla squadra di soccorso di individuarla e tirarla fuori dall’acqua. Alla fine della storia, Ava, Danilo e Rosa, gli unici sopravvissuti rimasti, vengono riportati in salvo su un elicottero. Prima di essere salvata, Ava ha visto il peluche di Rosa, Mr. Tibbs, nell’acqua e glielo ha riportato.

Prima di salire sull’aereo, Rosa aveva perso il suo orsacchiotto, cosa che l’aveva fatta arrabbiare. Mr. Tibbs è una fonte di conforto e sicurezza per la bambina, che le permette di rimanere calma anche nelle situazioni più avverse. All’aeroporto, Ava aveva trovato Mr. Tibbs per Rosa, conquistando la fiducia della bambina. Tuttavia, quando Ava riporta Mr. Tibbs a Rosa, la bambina decide di lasciarlo andare. Il signor Tibbs è stato incredibilmente importante per la bambina, fungendo da sua copertina di sicurezza.

Tuttavia, dopo essere sopravvissuta a un’esperienza così traumatica, Rosa è cambiata profondamente. Per lo stesso motivo, si rende conto che i suoi nonni, che hanno trovato la morte nell’oceano, potrebbero aver bisogno della protezione del signor Tibbs più di lei. Così, getta il peluche nell’oceano, simboleggiando la crescita del suo carattere e la conclusione della sua storia. Un finale “positivo”, ma che lascia decisamente l’amaro per tutte quelle situazioni viste nel film e che sono finite in tragedia.

Venezia 82: il red carpet di Bugonia di Yorgos Lanthimos con Emma Stone

Il 28 agosto la 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha accolto il cast e la troupe di Bugonia, il nuovo film di Yorgos Lanthimos, tra i titoli più attesi del concorso. Prima della proiezione ufficiale, il Lido si è acceso con un red carpet che ha visto sfilare star internazionali e grande eleganza.

Al centro dei riflettori Emma Stone, musa del regista greco e già protagonista di Povere Creature! e Kinds of Kindness, che ha illuminato il tappeto rosso con uno stile impeccabile, confermando la sua intesa artistica con Lanthimos. Accanto a lei, Jesse Plemons, Alicia Silverstone, Aidan Delbis e Stavros Halkias, accolti dall’entusiasmo del pubblico e dei fotografi. Presente naturalmente anche il regista, che ha salutato i fan con la consueta ironia e compostezza.

Il red carpet ha offerto momenti di complicità tra gli interpreti e i sorrisi condivisi con il pubblico, ma anche attimi di glamour puro, grazie agli abiti scelti dai protagonisti, tra eleganza classica e dettagli eccentrici che ben rispecchiano lo stile visionario del film.

Le foto dal red carpet testimoniano l’entusiasmo per un titolo che promette di diventare uno degli eventi cinematografici più discussi della stagione.

Troy: la spiegazione del finale del film

Troy: la spiegazione del finale del film

Il film Troy (2004), diretto da Wolfgang Petersen, si ispira liberamente all’Iliade di Omero, epico poema che narra le vicende dell’ultimo anno della guerra di Troia. Pur prendendo spunto dai principali eventi dell’opera, il film apporta modifiche significative ai personaggi e alle tempistiche, concentrandosi soprattutto sulla figura di Achille (Brad Pitt) e sulla sua tragica tensione tra gloria e mortalità. La narrazione cinematografica semplifica e riordina la complessità del poema omerico, rendendo la storia accessibile a un pubblico moderno pur conservando i temi classici di onore, vendetta e destino.

Troy si inserisce nel filone del cinema epico hollywoodiano, caratterizzato da scenografie monumentali, battaglie spettacolari e un cast di star internazionali. Accanto a Pitt, troviamo Eric Bana nel ruolo di Ettore e Orlando Bloom come Paride, senza dimenticare Diane Kruger nei panni di Elena e Brian Cox come re Priamo. Il film unisce azione, dramma e romanticismo, richiamando l’epica di opere come Il Gladiatore o Le crociate di Ridley Scott, ma distinguendosi per la fusione tra mito greco e spettacolarità hollywoodiana contemporanea.

Tra i temi centrali emergono l’eroismo, la lealtà familiare e il conflitto tra desiderio personale e dovere morale. La vendetta, la passione amorosa e la gloria eterna scandiscono le vicende dei protagonisti, rendendo Troy un racconto di eroismo e tragedia umana. Le battaglie, le strategie militari e le tensioni tra fazioni si intrecciano con riflessioni sul destino e sulla mortalità. Nel prosieguo dell’articolo verrà proposta una spiegazione del finale del film, analizzando come le scelte dei personaggi e la tragedia personale di Achille e Paride influenzino l’esito della guerra di Troia.

LEGGI ANCHE: Troy: le differenze tra il film e il poema epico

Troy cast attori
Eric Bana, Orlando Bloom e Diane Kruger in Troy. © 2004 Warner Bros. Ent. All Rights Reserved

La trama di Troy

La storia si svolge intorno al 1200 a.C., quando tutte le città-stato della Grecia sono sotto il controllo dell’avido re acheo Agamennone. Solo una di queste rifugge da lui, ed è la potente città di Troia. Conosciuta per le sue mura difensive, questa è da sempre rimasta inviolata. Desideroso di estendere il proprio dominio all’intero territorio, Agamennone sfrutta il tradimento subito da Menelao per dichiarare guerra alla città. Il fratello del re, infatti, è stato privato della bella moglie Elena, fuggita a Troia con il principe Paride. Per riparare a questo torto, un enorme flotta di achei intraprende la sua marcia verso la potente città nemica.

Forte dietro le sue mura, il re Priamo si dice tranquillo per l’imminente battaglia, potendo vantare dalla sua parte il potente figlio e soldato Ettore. Ciò che i troiani non sanno, però, è che in guerra con gli achei è partito anche il temibile Achille. Semidio in cerca di gloria eterna, questi è pressocché immortale, non fosse per un unico punto debole. Sarà lui l’arma segreta che i greci invieranno alla conquista di Troia. Nel corso della lunga guerra, entrambe le fazioni dovranno inevitabilmente fare i conti con le paure, le passioni e i desideri di ognuno di loro, elementi che rischieranno di compromettere in modo irreparabile le rispettive sorti.

La spiegazione del finale del film

Nel terzo atto di Troy, la tensione raggiunge il culmine con il duello tra Achille e Ettore fuori dalle mura della città. La battaglia è intensa e letale: Achille uccide Ettore e trascina il suo corpo sulla spiaggia di Troia, mostrando sia la sua forza sovrumana sia la crudeltà della guerra. Il re Priamo riesce però a introdursi nel campo greco e implora Achille di restituire il corpo del figlio per i riti funebri. Mosso dalla vergogna e dal rispetto, Achille acconsente, permette a Briseide di tornare a Troia con Priamo e concede una tregua di dodici giorni per celebrare i funerali.

Troy trama film
Il cavallo di Troia in Troy. © 2004 Warner Bros. Ent. All Rights Reserved

Nonostante il gesto di Achille, Agamennone insiste per conquistare Troia a qualsiasi costo. Odisseo elabora un piano ingegnoso: costruire il famoso cavallo di legno come presunto dono di pace, mentre le navi greche si nascondono in una baia vicina. I Troiani portano il cavallo dentro le mura, e di notte i soldati greci nascosti al suo interno aprono i cancelli alla loro armata, dando inizio al sacco della città. La popolazione troiana viene sterminata o ridotta in schiavitù, mentre Andromaca e Elena guidano alcuni superstiti verso la salvezza, e Paride consegna la Spada di Troia a Enea per proteggere i sopravvissuti.

La resistenza finale dei Troiani avviene nel palazzo, dove Glauco guida i soldati rimasti in una coraggiosa difesa. Nonostante i successi iniziali, i Troiani vengono però sopraffatti. Agamennone penetra nella sala del trono, uccide Priamo e cattura Briseide, che poi vendica la morte del re uccidendo Agamennone. Nel caos della battaglia, Paride trafigge invece Achille al tallone con una freccia e lo colpisce più volte, provocandone la morte. Achille, morente, si congeda quindi da Briseide e la osserva fuggire con Paride prima di spirare.

Il finale evidenzia la tragicità della guerra e il destino ineluttabile dei protagonisti. La morte di Achille rappresenta la caducità della gloria e della vita, mentre il sacco di Troia sottolinea la brutalità dei conflitti umani. Allo stesso tempo, il gesto di restituzione del corpo di Ettore e la protezione dei sopravvissuti dimostrano come il coraggio e l’onore possano convivere con la violenza, offrendo uno sguardo complesso sulle scelte morali in tempo di guerra.

Cosa ci lascia il film Troy

Troy è dunque di una riflessione sulla fragilità della civiltà di fronte alla guerra, sul sacrificio personale e sulla forza dei legami familiari. Il film unisce epica, emozione e spettacolarità cinematografica, trasformando il mito omerico in un racconto accessibile, capace di trasmettere temi universali come l’eroismo, la vendetta e la mortalità, lasciando agli spettatori la consapevolezza che anche nelle vittorie più grandi, il prezzo della guerra è sempre altissimo.

Elysium: la spiegazione del finale del film

Elysium: la spiegazione del finale del film

Con Elysium (qui la recensione), Neill Blomkamp prosegue il percorso iniziato con District 9, confermando il suo interesse per una fantascienza radicata nella realtà sociale e politica contemporanea. Se nel film d’esordio il regista sudafricano utilizzava l’alieno come metafora dell’apartheid, in Elysium mette al centro le diseguaglianze globali, estremizzandole in un futuro distopico in cui i ricchi vivono in una stazione spaziale lussuosa mentre i poveri sopravvivono su una Terra devastata. Blomkamp consolida così la sua fama di autore capace di coniugare spettacolo hollywoodiano e riflessione politica.

Il genere di fantascienza che Elysium esplora è dunque quello distopico e sociopolitico, dove la tecnologia diventa specchio delle contraddizioni del presente. L’esoscheletro indossato dal protagonista Max (Matt Damon) non è soltanto un mezzo per generare azione, ma anche simbolo della lotta disperata di un individuo contro un sistema che lo esclude. L’ambientazione cupa e realistica richiama un’estetica cyberpunk, dove l’avanzamento tecnologico non porta progresso equo, ma accentua la frattura tra privilegiati e oppressi.

Il film si inserisce così in una tradizione di opere che utilizzano la fantascienza come lente critica: dalle distopie sociali di Metropolis di Fritz Lang fino a film più recenti come Snowpiercer di Bong Joon-ho, che racconta un’umanità divisa rigidamente in classi. Come in questi esempi, Blomkamp sfrutta l’azione e l’immaginario futuristico per parlare di diseguaglianza, potere e resistenza. Nonostante alcune critiche Elysium resta quindi un’opera significativa nel panorama sci-fi contemporaneo. Nel prosieguo dell’articolo, approfondiremo il finale del film, cercando di comprenderne il significato e il messaggio politico che Blomkamp intende trasmettere.

Elysium cast

La trama di Elysium

La storia è ambientata nel  2154 in un mondo ormai sovrappopolato, dove l’umanità si è spaccata in due classi nettamente divise. Pochi eletti hanno infatti la possibilità di vivere all’interno di un’enorme stazione spaziale chiamata Elysium. Questa orbita attorno alla terra, e contiene tutti i lussi desiderabili. Al contrario, la parte povera della popolazione è costretta a vivere sul pianeta Terra, ormai luogo inquinato e destinato al degrado. Le città sono diventate veri e propri ammassi di gente, senza un preciso ordine a regolare la loro esistenza.

In questo contesto vive Max Da Costa, giovane operaio con un turbolento passato alle spalle. Max nutre un profondo fascino nei confronti della stazione spaziale e da sempre possiede il desiderio di potervisi recare un giorno, dando una svolta alla propria vita. Le cose per lui subiscono una piega inaspettata nel momento in cui, a causa di un incidente in fabbrica, viene sottoposto ad una dose di radiazioni gamma che gli conferiscono solo pochi giorni di vita. Per potersi salvare, Max avrà bisogno di recarsi su Elysium, dove si trovano le cure adatte a lui. Arrivare fin lassù, però, non sarà affatto facile.

La spiegazione del finale del film

Nel terzo atto di Elysium, Max scopre che i dati contenuti nel suo cervello non sono semplici informazioni, ma un programma capace di riavviare l’intero sistema della stazione orbitante. Deciso a usarlo come merce di scambio, si scontra con Kruger, che nel frattempo ha rapito Frey e sua figlia. Lo scontro culmina in un viaggio verso Elysium, segnato da esplosioni e tradimenti, fino allo schianto della navetta sulla stazione. Qui, le alleanze si spezzano e Delacourt viene eliminata da Kruger, che assume il controllo della situazione.

Elysium film

Il conflitto finale si svolge nel cuore di Elysium: Max affronta Kruger in un duello feroce, reso ancora più disperato dal peso delle sue condizioni fisiche. Con astuzia e sacrificio, riesce a disabilitare l’esoscheletro del nemico e a liberarsene definitivamente, gettandolo nel vuoto prima dell’esplosione di una granata. Con Spider al suo fianco, Max raggiunge il nucleo informatico della stazione e comprende la portata della sua scelta: avviare il reboot del sistema significherà la sua morte. Dopo un ultimo addio a Frey, decide di sacrificarsi, permettendo così di rendere tutti gli abitanti della Terra cittadini di Elysium e garantendo cure mediche a chiunque ne abbia bisogno.

Il finale di Elysium ha dunque un chiaro valore simbolico: la morte di Max non è solo la conclusione di un percorso personale, ma il gesto che spezza la logica di esclusione su cui si regge la stazione. L’eroe rinuncia alla sua sopravvivenza individuale per un bene collettivo, incarnando il modello del sacrificio redentore tipico della fantascienza distopica. La sua decisione restituisce dignità ai dimenticati della Terra, annullando i confini che separavano due mondi divisi da privilegi e ingiustizie.

Cosa ci lascia il finale di Elysium 

Per lo spettatore, la chiusura lascia un duplice messaggio: da un lato la speranza che la tecnologia possa essere usata come strumento di uguaglianza, dall’altro la consapevolezza che il cambiamento passa attraverso la responsabilità individuale. Blomkamp invita a riflettere sul presente, trasformando una vicenda futuristica in un monito sulle diseguaglianze reali che caratterizzano la nostra società. Elysium non è soltanto spettacolo, ma un racconto che ci ricorda quanto la giustizia e la solidarietà restino conquiste fragili e sempre da difendere.

Il diavolo veste Prada 2: Caitríona Balfe parla della sua assenza nel sequel

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Basato sul romanzo di Lauren Weisberger, il film Il diavolo veste Prada segue le vicende di un’ambiziosa giornalista, Andy Sachs (Anne Hathaway), che ottiene un posto in una rivista di moda e fatica a soddisfare le rigide richieste della sua potente redattrice, Miranda Priestly (Meryl Streep). Basato sul romanzo Revenge Wears Prada: The Devil Returns, il prossimo Il diavolo veste Prada 2 riporta sul grande schermo i membri del cast originale, che riprenderanno i ruoli interpretati nel primo film.

Anche la sceneggiatrice e il regista dell’originale, Aline Brosh McKenna e David Frankel, sono tornati ai rispettivi ruoli. Durante un’intervista con ScreenRant, dunque, anche a Caitríona Balfe è stato chiesto di un suo possibile ritorno in Il diavolo veste Prada 2. L’attrice, con tono ironico ha detto: “Perché non sono nel sequel?! Quella cosa dei tacchi alti in cui ero coinvolta. Ho lavorato, credo, due giorni su quel film. Mi ha aiutato a ottenere la tessera SAG, questo è certo”.

“Ma credo di essere rimasta seduta nella mia roulotte, o meglio in quella minuscola roulotte, uno dei due giorni, e poi il secondo giorno stavo camminando davanti all’edificio mentre Miranda entrava al lavoro. Quindi proprio davanti all’edificio. Ho visto Meryl Streep, il mio tacco è passato davanti alla telecamera e credo di essere stata ufficialmente inserita come clapper. Ma questo è tutto”, afferma l’attrice.

Perché Caitríona Balfe non è in Il diavolo veste Prada 2?

Caitríona Balfe ha iniziato la sua carriera come modella, lavorando con Chanel e Louis Vuitton prima di passare alla recitazione con apparizioni in Super 8 (2011), Now You See Me ed Escape Plan (entrambi del 2013), anche se è meglio conosciuta per il suo ruolo di Claire Fraser in Outlander. Tuttavia, un credito che manca dalla sua pagina IMDb è proprio quello per Il diavolo veste Prada. In precedenza, la Balfe aveva confermato di aver fatto una breve apparizione nel film. “Ho lavorato per due giorni da qui in giù”, dice indicando il suo addome.

Ero una clacker, ero ufficialmente una clacker, una delle ragazze che lavora a Vogue e indossa tacchi alti… Non credo che mi si veda, ma c’ero”, ammette. Considerando che aveva un ruolo così piccolo nell’originale, e basandosi sulla sua risposta, non sembra dunque che Caitríona Balfe tornerà in Il diavolo veste Prada 2. Il sequel è attualmente in fase di riprese e lei non è stata confermata come uno dei membri del cast che torneranno.

Cosa sappiamo su Il diavolo veste prada 2?

Il film originale del 2006, un cult classico per la sua satira tagliente sul mondo spietato della moda, si concludeva con Andy che lasciava Runway per un lavoro in un giornale di New York. Ora, i fan potranno finalmente vedere cosa stanno facendo Miranda e Andy in un panorama mediatico profondamente cambiato. Nel sequel, Miranda, interpretata dalla Streep, si ritrova coinvolta in una competizione ad alto rischio per ottenere importanti introiti pubblicitari, trovandosi sorprendentemente a dover affrontare la sua ex assistente dalla lingua tagliente Emily Charlton (Emily Blunt), che ora è una potente dirigente nel settore della moda.

David Frankel, che ha diretto il primo film, è tornato alla regia di Il diavolo veste Prada 2, lavorando su una sceneggiatura di Aline Brosh McKenna, che ha scritto anche l’originale. Le produttrici Wendy Finerman e Karen Rosenfelt sono a bordo, con la 20th Century Studios che ha in programma di distribuire il film il 1° maggio 2026. Oltre a Meryl Streep, Anne Hathaway e Emily Blunt, nel cast si ritrovano anche Stanley Tucci, che riprende il ruolo del sempre solidale Nigel Kipling, insieme a Simone Ashley, Pauline Chalamet e Helen J. Shen. Tracie Thoms e Tibor Feldman tornano sul set, mentre diversi volti nuovi si uniscono al cast, tra cui Kenneth Branagh, che interpreterà il marito di Miranda, insieme a Lucy Liu, Justin Theroux, B.J. Novak, Pauline Chalamet, Rachel Bloom e Patrick Brammall.

The Bride!, il film sarà vietato ai minori per “contenuti violenti, sanguinosi e sessuali”

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Oltre all’adattamento Netflix di Guillermo del Toro del classico di Mary Shelley, il prossimo anno arriverà una versione molto diversa de La moglie di Frankenstein. Il tanto atteso film di Maggie Gyllenhaal ha ora ricevuto la classificazione ufficiale R per “contenuti violenti/sanguinosi, contenuti sessuali/nudità e linguaggio scurrile”. Il primo trailer di The Bride!, con Jessie Buckley, Christian Bale e Jake Gyllenhaal, ha debuttato durante il CinemaCon all’inizio di quest’anno, ma non è ancora stato pubblicato online.

Gyllenhaal ha pubblicato su Instagram le prime immagini del film girato lo scorso anno, dandoci un assaggio di Bale nei panni del mostro di Frankenstein e Buckley in quelli della sposa del mostro incompreso. Abbiamo sentito parlare per la prima volta di questo progetto nel 2022, quando era in fase di sviluppo per Netflix, ma un rapporto successivo indicava che era stato accantonato poco dopo l’inizio degli scioperi di Hollywood e che era stato venduto altrove.

Più recentemente, abbiamo appreso che la Warner Bros. aveva acquisito The Bride!, che ora è previsto per l’uscita nelle sale il 6 marzo 2026. Gyllenhaal dirige dopo aver ottenuto il plauso della critica per il suo film d’esordio, The Lost Daughter. Stando a quanto riportato, il film sarà ambientato nella Chicago degli anni ’30, dove Frankenstein chiede al dottor Euphronius di aiutarlo a creare per lui una compagna. Danno così vita a una donna nota come la Sposa, scatenando romanticismo, interesse della polizia e cambiamento sociale radicale.

Descritto come un thriller-horror, The Bride! è dunque basato sul classico romanzo gotico di Mary Shelley Frankenstein or The Modern Prometheus. Oltre a Christian Bale nel ruolo di Frankenstein e Jessie Buckley in quelli della Sposa, il film sarà interpretato anche da Penelope Cruz nel ruolo di Myrna, Peter Sarsgaard nel ruolo di un detective. Di certo, il nuovo rating ricevuto dal film rende il progetto più interessante, lasciando pensare che potrebbe essere più orrorifico di quanto si pensava.

Bugonia: recensione del film di Yorgos Lanthimos – Venezia 82

Bugonia: recensione del film di Yorgos Lanthimos – Venezia 82

Cosa ci si può aspettare ancora da un sodalizio artistico che ci ha già regalato l’usurpatrice più infida della Gran Bretagna del XVIII secolo (La Favorita), un rigoglioso femminile alla scoperta del mondo (Povere Creature!), e un triplice studio di personalità enigmatiche che elargiscono o richiedono diversi gradi di crudele gentilezza (Kinds of Kindness)?

Se si risponde ai nomi di Yorgos Lanthimos ed Emma Stone, ebbene, è lecito aspettarsi ancora di più. Dopo la travolgente vittoria del Leone d’oro a Venezia 2023 con l’adattamento del romanzo di Alasdair Grey, il duo cinematografico più prolifico degli ultimi anni torna in concorso alla Mostra del Cinema con Bugonia, ennesimo – ma non meno interessante – esperimento tra il mitologico e il surreale firmato dal regista greco, mai stato così “contemporaneo”.

La cospirazione dell’ape regina

Il punto di partenza di Bugonia è una produzione sudcoreana del 2003 a cura di Joon-Hwan Jang, dal titolo Save the Green Planet! In questa commedia sci-fi alquanto bizzarra, un giovane uomo rapisce il presidente di una grossa azienda credendo che si tratti di un alieno sotto mentite spoglie, con in programma un’invasione del Pianeta Terra da parte della specie. Le premesse del film di Lanthimos rimangono circa le stesse: un isolato apicoltore di una cittadina statunitense non meglio identificata (Jesse Plemons), assieme all’aiuto del cugino con cui vive, decide di rapire la CEO di una multinazionale di successo, con la radicata convinzione che da lei non solo dipendano i mali di tutto il mondo ma anche la tragica distruzione della sua famiglia.

Le tinte da thriller cospirazionale, già parzialmente esplorate nel secondo segmento di Kinds of Kindness, diventano in Bugonia spunto di indagine emotiva: dietro a ogni complotto intravisto, a ogni manipolazione effettuata, si nasconde in realtà un’enorme sofferenza, almeno da parte di chi inizialmente avremmo solo disprezzato. Jesse Plemons, forte della Palma d’oro al miglior attore protagonista proprio con l’ultimo film di Lanthimos, si conferma un talento ancora forse troppo nascosto, che riesce a regalare complessità e sfumature a una figura che sembrava impossibile separare dal suo apparente status di villain.

Ari Aster e Yorgos Lanthimos: il binomio satirico-surreale

Di particolare rilevanza è il fatto che la sceneggiatura di Bugonia sia stata sviluppata da Ari Aster e Will Tracy. Effettivamente, è impossibile non leggere l’ultima fatica di Lanthimos in continuità con almeno qualche aspetto di Eddington e la satira cupa del regista di Hereditary nonchè, parallelamente, con il lavoro dello sceneggiatore di The Menu e sodale collaboratore di Mark Mylod (Succession).

Proprio dall’ossessione di Aster per il rapporto con i genitori nasce forse quella che è l’immagine più struggente di Bugonia, che ha per soggetto la figura materna e fa perno sull’idea del rimanere agganciati a chi ci ha partorito, all’origine. Lanthimos, che ha scandagliato le relazioni sociali in molteplici forme, si apre qui a un confronto serrato e quantomai “contenuto”, in cui si discute della fine del mondo tra le mura di una casa, perchè in fondo, non importa il dove ma il chi, quando si tratta di potere.

La danza della morte

Emma Stone è stata chiunque per Lanthimos, e non soprende dunque che sia arrivata ad incarnare l’ipotesi di una vita aliena, enigmatica possibilità di una fonte di controllo totalizzante. Se Bella Baxter doveva ancora scoprire tutto, Michelle potrebbe già sapere tutto. Non fatichiamo a crederci, perchè nelle mani del regista greco Stone diventa semplicemente eccezionale.

La bugonia è un episodio narrato nelle Georgiche di Virgilio, che riflette un’antica credenza diffusa fino al XVII secolo: quella della generazione spontanea della vita. In particolare, nel quarto libro del poema viene descritto come, dal corpo senza vita di un animale, possa originarsi uno sciame di api. Vita e morte, indagate nei modi più surreali e bizzarri possibili dal regista greco, in Bugonia ci vengono forse per la prima volta mostrate da uno sguardo ancora più ravvicinato al nostro. Non c’è nessuna sequenza di danze inquietanti a cui ci ha abituato Lanthimos, ma solo una cruda e spiazzante verità: probabilmente, stiamo già ballando da morti.

Star Wars: Starfighter, una prima foto con Ryan Gosling annuncia l’inizio delle riprese

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Molte nuove star si sono unite al cast di Star Wars: Starfighter mentre la produzione del film entra ufficialmente nel vivo. Il prossimo film è descritto come un capitolo autonomo dell’iconica saga fantascientifica che si svolgerà cinque anni dopo gli eventi di L’ascesa di Skywalker del 2019. Il film, che sarà il prossimo capitolo di Star Wars nelle sale dopo The Mandalorian & Grogu del 2026, avrà come protagonista Ryan Gosling. In precedenza era stato rivelato che Matt Smith e Mia Goth interpreteranno due antagonisti nel film.

Secondo il sito ufficiale di Star Wars, dunque, le riprese di Star Wars: Starfighter sono iniziate oggi nel Regno Unito. È stato ora rivelato anche il cast completo del film. La sei volte candidata all’Oscar Amy Adams si è unita al cast di Starfighter insieme ad Aaron Pierre, Flynn Gray, Simon Bird, Jamael Westman e Daniel Ings. A questo link, invece, si può vedere il post che annuncia l’inizio della produzione. L’immagine in bianco e nero presente nel post mostra Ryan Gosling e Flynn Gray seduti insieme su un Landspeeder.

Shawn Levy ha anche rilasciato una dichiarazione sulla produzione: “Provo un profondo senso di eccitazione e onore mentre iniziamo la produzione di Star Wars: Starfighter. Dal giorno in cui Kathy Kennedy mi ha chiamato, invitandomi a sviluppare un’avventura originale in questa incredibile galassia di Star Wars, questa esperienza è stata un sogno che si è avverato, sia dal punto di vista creativo che personale. Star Wars ha plasmato la mia idea di ciò che una storia può fare, di come i personaggi e i momenti cinematografici possano vivere con noi per sempre. Entrare a far parte di questa galassia di storie con collaboratori così brillanti, sia sullo schermo che fuori, è l’emozione di una vita”.

Finora, la trama del prossimo film di Star Wars è rimasta segreta. Tuttavia, l’immagine condivisa nel post dell’annuncio sembra suggerire che il personaggio di Ryan Gosling sarà in qualche modo una figura protettrice o mentore del personaggio interpretato da Flynn Gray. Questo evocherebbe una relazione adulto-bambino che è comune in tutta la saga di Star Wars ed è stata al centro di episodi come The Mandalorian, Obi-Wan Kenobi, Skeleton Crew e La minaccia fantasma. Il film è ora atteso al cinema 28 maggio 2027.

Ridley Scott aggiorna su Il gladiatore 3 e un nuovo prequel di Alien

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Ridley Scott torna a parla di Il Gladiatore 3 e di un terzo prequel di Alien, fornendo aggiornamenti promettenti. Per quanto riguarda il primo dei due franchise, il seguito del film epico del 2000, Il Gladiatore, ha narrato le vicende del figlio di Massimo, Lucio, che diventa un eroe del Colosseo. Il film non ha avuto un grande successo al botteghino, ma il regista aveva già espresso interesse per un sequel e aveva anticipato di aver già scritto qualcosa a riguardo.

Per quanto riguarda il franchise di Alien, Scott ricopre attualmente il ruolo di produttore esecutivo, dopo aver supervisionato Alien: Romulus (2024) e la nuova serie TV Alien: Pianeta Terra (attualmente in corso su Disney+). Scott non ha però più diretto film del franchise dai prequel Prometheus (2012) e Alien: Covenant (2017).

Durante una recente intervista con The Guardian, in cui rispondeva alle domande degli utenti su Internet, Ridley Scott ha chiarito che la sua avventura nel mondo di Il gladiatore e Alien potrebbe non essere ancora finita. Il regista ha infatti rivelato che sta attualmente continuando a lavorare a Il gladiatore 3 e che anche un altro prequel di Alien non è da escludere. “Il Gladiatore 3 è in fase di lavorazione in questo momento. Un altro prequel di Alien? Sì, se mi viene un’idea, sicuramente”, sono le parole esatte del regista.

Ridley Scott tornerà davvero sui franchise di Il Gladiatore e Alien?

Le stime sul budget di Il Gladiatore 2 variano, ma quelle più alte lo collocano intorno ai 240 milioni di dollari. Se fossero accurate, ciò renderebbe deludente l’incasso finale del film, pari a 462 milioni di dollari in tutto il mondo. È quindi curioso che Scott stia lavorando al terzo film della saga. Vale la pena notare, tuttavia, che Il Gladiatore 3 non è stato ufficialmente approvato dallo studio. Scott è probabilmente in fase di sviluppo della trama e della sceneggiatura, ma molti film non superano questa fase per un motivo o per l’altro.

Se un altro film dovesse però andare avanti, è probabile che sarà realizzato con un budget inferiore. Un altro prequel di Alien, invece, non sembra imminente, poiché sembra che Scott non abbia ancora trovato un’idea che valga la pena perseguire. L’accoglienza riservata a Prometheus e Alien: Covenant è stata piuttosto contrastante, e quest’ultimo è stato anche un insuccesso al botteghino rispetto ai precedenti capitoli. Il franchise di Alien sta però attualmente  vivendo una sorta di rinascita.

Alien: Romulus è stato un successo lo scorso anno e Alien: Pianeta Terra dello showrunner Noah Hawley ha ricevuto recensioni molto positive dopo la sua anteprima il 12 agosto. Con un sequel di Romulus che sembra sarà girato alla fine di quest’anno, chiaramente non mancherà materiale su Alien in futuro. La speranza, però, è che Ridley Scott trovi l’idea giusta per terminare quella che originariamente sembra dovesse essere un trilogia prequel che forniva indicazioni sulle origini degli elementi alla base della saga.

Stereo Girls: recensione del film di Caroline Deruas Peano – SIC – Venezia 82

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Presentato fuori concorso alla 40ª Settimana della Critica, nell’ambito della 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Stereo Girls segna l’esordio alla regia di lungometraggio di Caroline Deruas Peano. Un debutto che, pur con alcune ingenuità, si distingue per sensibilità visiva e coerenza poetica, rafforzato da una fotografia che è già uno dei suoi marchi distintivi.

Il film, ambientato negli anni Novanta nel sud della Francia, segue la storia di due inseparabili amiche diciassettenni, legate da una passione viscerale per la musica e da un ardente desiderio di libertà. L’atmosfera che si respira è quella di un’epoca di transizione, segnata dall’energia del rock e dell’alternative, ma anche dal fascino di un immaginario ancora profondamente analogico: registratori, cassette, vinili e notti lunghe passate a sognare un futuro diverso. È in questo contesto che la regista costruisce un racconto di formazione sospeso tra nostalgia e urgenza, destinato a infrangersi bruscamente contro la tragedia che separerà le due ragazze, lasciandone una sola a portare avanti i sogni di entrambe.

Stereo Girls non punta sull’originalità ma sulla autenticità emotiva

La trama di Stereo Girls non punta a sorprendere per originalità, ma per autenticità emotiva. Deruas Peano sceglie una narrazione intima, quasi diaristica, che restituisce con delicatezza i turbamenti dell’adolescenza femminile. A rendere l’esperienza davvero memorabile è però il lavoro di Vincent Biron alla fotografia: la sua sensibilità visiva esalta l’aspetto “analogico” del film, immergendo lo spettatore in un universo fatto di toni caldi, luci soffuse e texture materiche. Ogni inquadratura sembra evocare la grana delle fotografie sviluppate in camera oscura, restituendo la sensazione di un tempo in cui le immagini non erano istantanee digitali, ma ricordi tangibili.

Questa estetica non è solo un vezzo stilistico, ma diventa parte integrante della narrazione: l’amicizia tra le due protagoniste si imprime nello sguardo dello spettatore proprio come una pellicola impressionata dalla luce, destinata a durare oltre la vita stessa. È qui che la scelta di Biron si rivela decisiva: la fotografia trasforma la storia in una sorta di reliquia visiva, dove il passato non è mai davvero perduto ma continua a risuonare, come un brano inciso su nastro.

Un cast intenso e naturale

Il cast contribuisce in modo sostanziale a dare credibilità al racconto. Emmanuelle Béart, icona del cinema francese, porta con sé un’aura di eleganza e malinconia che si innesta perfettamente nell’atmosfera crepuscolare del film. Accanto a lei, Lena Garrel – figlia della regista – offre un’interpretazione sorprendente per intensità e naturalezza, incarnando una giovinezza inquieta, piena di speranze ma anche di fragilità. L’alchimia tra le due giovani protagoniste regge gran parte della narrazione: la loro amicizia appare palpabile, fatta di piccoli gesti, di complicità silenziose e di improvvise esplosioni di vitalità.

Dal punto di vista della regia, Caroline Deruas Peano si dimostra capace di dare voce a un universo femminile spesso sottorappresentato sul grande schermo. Non c’è compiacimento nel raccontare l’adolescenza, ma un sincero desiderio di coglierne i chiaroscuri: la ribellione e la dolcezza, la spensieratezza e il dolore, la promessa di un futuro e la consapevolezza che ogni sogno comporta un rischio. La regista opta per un ritmo dilatato, fatto di pause e silenzi, che permette allo spettatore di entrare davvero nello spazio emotivo delle protagoniste.

Stereo Girls è un film che convince soprattutto per la sua capacità di evocare un’epoca e uno stato d’animo. Più che un racconto lineare, è un’esperienza sensoriale che si nutre di immagini e suoni, di luci e di ombre. La fotografia di Vincent Biron rimane impressa come la vera protagonista, capace di trasformare la memoria personale in memoria collettiva. Caroline Deruas Peano firma così un’opera prima delicata, che parla della fragilità e della forza dell’amicizia femminile, e che ci ricorda come anche il dolore della perdita possa contenere in sé una promessa di continuità: quella dei sogni che, una volta condivisi, non muoiono mai del tutto.

Un debutto promettente, che lascia intravedere una voce autoriale da seguire con attenzione.

Adam Sandler sul suo ruolo in Jay Kelly: “Non posso credere di aver ricevuto questo regalo”

Adam Sandler ha colto con entusiasmo l’opportunità di interpretare un ruolo diverso dal solito e di interpretare un ruolo drammatico nel film di Noah Baumbach Jay Kelly. Sandler interpreta un manager schietto e diretto per una star del cinema in ascesa, Jay Kelly (George Clooney).

“Essere in questo film e non solo cercare battute e momenti di divertimento, è questo che è fantastico”, ha dichiarato Sandler durante la conferenza stampa ufficiale di Jay Kelly alla Mostra del Cinema di Venezia. “Ho fatto due film con Noah e non potrei essere più orgoglioso di provare le emozioni che trasmette. Sa fare tutto, e poi trova anche i momenti in cui ridere. Tutti i nostri personaggi ti regalano un momento per ridere e provare dolore. Come attore, quando leggi una sceneggiatura come questa dici: ‘Caspita, non posso credere di ricevere questo regalo'”.

“Ho sempre apprezzato il mio manager, il mio agente, la mia responsabile stampa”, ha detto Sandler. “So quanto lavorano duramente e quanto sia difficile ascoltare i miei alti e bassi e sostenermi, anche quando a volte potrei alzare la voce. Ero entusiasta di interpretare un uomo devoto; ammiro tutti coloro che lo fanno.”

Nel film, scritto insieme da Baumbach e Emily Mortimer, George Clooney interpreta una star del cinema in crisi, Jay Kelly, che intraprende un viaggio vorticoso attraverso l’Europa con il suo devoto manager (Adam Sandler). Lungo il cammino, si confronteranno con le scelte fatte, i rapporti con i propri cari e l’eredità che lasceranno dietro di sé.

Alien: Pianeta Terra, lo showrunner spiega il legame di Wendy con gli Xenomorfi

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Il quarto episodio di Alien: Pianeta Terra (qui la recensione) di questa settimana ha approfondito il misterioso legame di Wendy (Sydney Chandler) con gli Xenomorfi, ponendo una domanda intrigante: è possibile controllare, o addirittura domare, questa specie extraterrestre notoriamente aggressiva? In “Observation”, Boy Kavalier incoraggia Wendy a vocalizzare gli strani suoni che sente nella sua testa da quando si è avvicinata agli alieni per la prima volta nell’episodio 2.

Lei lo fa e da quel momento lui convince la ragazza/ibrido a tentare di comunicare con la creatura che sta attualmente gestando all’interno del polmone rimosso chirurgicamente a suo fratello Joe. Alla fine dell’episodio, un piccolo xenomorfo che ne esce fuori e Wendy riesce a usare la sua nuova abilità per calmare la creatura e addirittura accarezzarla sulla testa. Gli alieni hanno in qualche modo “scelto” Wendy come loro portavoce, o la sua capacità di comunicare con le creature è semplicemente dovuta alla sua fisiologia ibrida umana/sintetica e alla sua programmazione?

Niente è casuale per un bambino, giusto? Sai, tutto sembra significativo”, dice lo showrunner Noah Hawley a Decider.com. “C’è un momento nel quarto episodio in cui lei dice: ‘Hanno scelto me’. Giusto? Il che non è vero. Giusto? Non l’hanno scelta. Lei riesce solo a sentirli a causa di un problema hardware o software che ha”. Che si tratti di una stranezza nella sua programmazione o meno, Wendy sembra certamente credere di avere una sorta di vocazione superiore, che potrebbe rivelarsi disastrosa per chi le sta intorno.

L’altra cosa con i bambini è che loro non danno davvero importanza… Voglio dire, per loro sono solo animali, capisci? Quindi lei guarda queste creature e prova empatia, proprio come mia figlia è diventata vegetariana quando aveva nove anni”, ha aggiunto Hawley.  “Beh, queste creature non hanno chiesto di venire qui, e forse sono spaventate. Sai, lei dice a suo fratello: ‘Questo, forse questo potrebbe essere buono’. E sembra… non so, ‘il tuo amico squalo’, ma si può capire il suo impulso a provarci”.

Dovremo aspettare e vedere come si svilupperà questa trama, ma l’animale domestico di Wendy è ben lungi dall’essere l’unico problema che attende i nostri protagonisti, con una Nibs sempre più instabile e potenzialmente pericolosa convinta di essere incinta, quell’inquietante alieno dagli occhi che aspetta il momento giusto per colpire e Piumino che sembra intenzionato a far diventare Joe a diventare un ospite del facehugger.

LEGGI ANCHE: Alien: Pianeta Terra, la spiegazione del finale dell’episodio 4

Bugonia: il nuovo trailer del film di Yorgos Lanthimos con Emma Stone

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È online il nuovo trailer di Bugonia, il nuovo film di Yorgos Lanthimos che arriverà nelle sale italiane il 23 ottobre 2025. Dopo il successo di Povere Creature! e Kinds of Kindness, il regista greco torna con una nuova storia visionaria che mescola satira, inquietudine e fantascienza.

Il film segue due giovani ossessionati dai complotti che rapiscono la potente amministratrice delegata di una grande azienda, convinti che sia un’aliena pronta a distruggere il pianeta Terra. Da questa premessa prende forma un racconto che alterna ironia, tensione e riflessioni sul potere, tipico dello stile surreale e provocatorio di Lanthimos.

Il cast riunisce ancora una volta Emma Stone, ormai musa del regista, affiancata da Jesse Plemons, Aidan Delbis, Stavros Halkias e Alicia Silverstone. La sceneggiatura è firmata da Will Tracy, mentre la fotografia è affidata a Robbie Ryan, collaboratore storico di Lanthimos.

Prodotto da Element Pictures, Fruit Tree, Square Peg e CJENM, Bugonia è stato presentato in concorso alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia, raccogliendo grande attenzione da parte della critica e del pubblico.

Il nuovo trailer mostra atmosfere disturbanti e paradossali, in perfetto equilibrio tra satira sociale e fantascienza distopica, confermando Bugonia come uno dei film più attesi della stagione autunnale.

L’appuntamento in sala è fissato al 23 ottobre 2025, data di uscita ufficiale nelle sale italiane.

Orphan: recensione del film di László Nemes – Venezia 82

Orphan: recensione del film di László Nemes – Venezia 82

Enfant prodige del cinema europeo e vincitore dell’Oscar al miglior film straniero con Il figlio di Saul, László Nemes approda in concorso a Venezia 82 con Orphan, ritratto di un giovane in fiamme nella Budapest del 1957, dopo la rivolta contro il regime comunista in Ungheria. Forte di una performance magnetica da parte del giovanissimo attore protagonista Bojtorján Barábas, la nuova pellicola del regista ungherese non punta a replicare l’impatto emotivo straziante della sua opera prima, ma prosegue il desiderio di Nemes di raccontare una sofferenza circoscritta che, nella sua intimità, rispecchi il trauma più grande di un determinato periodo storico.

Lo sguardo di Andor, tra infanzia e trauma

Come di consueto in Nemes, il filtro attraverso cui leggere il suo nuovo racconto è lo sguardo del protagonista, in questo caso un ragazzino di 12 anni di nome Andor che, in un breve flashback iniziale, vediamo ricongiungersi con la madre dopo essere stato accolto da un orfanotrofio durante gli anni dell’occupazione nazista. Il piccolo, nascosto in una sorta di “tana”, è restio nel tornare a casa con la donna, che non riconosce come la propria madre essendo stato abbandonato in tenera età. Già dal posizionamento di questo punto di vista, che cerca di nascondere, rintanarsi e resistere a ciò che gli altri gli dicono, cogliamo tutti i tratti della psicologia del giovane Andor. Una volta cresciuto, continuerà a interrogarsi sull’assenza della figura paterna e a vivere delle fantasie della madre, che gli racconta di un padre idealizzato. Andor rivendica con fierezza questo cognome e ha delle conversazioni immaginarie frequenti con il padre; tuttavia, la sua vita è destinata a cambiare per sempre quando fa capolino un misterioso e inquietante uomo soprannominato “Il Macellaio”, che ha nascosto la madre durante i rastrellamenti e che sostiene di essere suo padre.

Padri, madri e ferite della Storia

Girato in pellicola come Il figlio di Saul e Sunset, Orphan contribuisce a formalizzare e solidificare il cinema di Nemes come cinema di sguardo soprattutto storico, di un passato che ha in una certa misura conosciuto – questo terzo film, in particolare, si rifà alla storia del nonno – e che, purtroppo, continua a dialogare col presente di un mondo che ancora conosce troppe sofferenze. La materia trattata non è certamente leggera, ancor più perchè filtrata dalla rabbia di uno sguardo che non si spegne, che continua a scrutrare tramite i vetri, a confidarsi nei bassifondi e a portare avanti una propria personale rivolta.

Guidato da un cast di supporto di tutto rispetto – Andrea Waskovics, Grégory Gadebois, Elíz Szabó, Sándor Soma, Marcin Czarnik – Orphan è, come dicevamo, un film profondamente personale per Nemes, ispirato all’infanzia del padre nella Budapest degli anni Cinquanta. Con la sua co-sceneggiatrice Clara Royer, il regista ha preso spunto dalla memoria familiare per costruire un racconto universale sul passaggio dall’infanzia all’età adulta, sull’accettazione dell’oscurità dentro di sé e sul peso che la Storia imprime ai destini individuali. Non si tratta quindi di una semplice cronaca di un’epoca, ma di una riflessione sul trauma generazionale che si trasmette di padre in figlio, di madre in figlio, e che ancora oggi segna la società europea.

Un cinema che interroga la memoria

Orphan è anche un racconto sulla trasmissione del trauma: le ferite del Novecento, dalla guerra all’Olocausto fino alla repressione politica, si insinuano nelle generazioni successive, segnando profondamente il destino dei bambini. Come ricorda Nemes, è un film che riflette su come il passato continui a perseguitarci, e su quanto sia necessario affrontare le ombre per non riprodurre gli stessi errori.

László Nemes prosegue un percorso autoriale coerente e coraggioso: raccontare l’indicibile attraverso sguardi marginali, dare voce ai fantasmi della Storia con un rigore estetico che può apparire austero, ma che trova nella sua radicalità il segno distintivo di uno dei cineasti europei più rilevanti della sua generazione.

Ghost Elephants: recensione del documentario di Werner Herzog – Venezia 82

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Ogni documentario di Werner Herzog è prima di tutto un viaggio dentro la sua voce. Quel timbro inconfondibile, basso e graffiato, con il suo accento tedesco mai stemperato, non è un semplice accompagnamento narrativo: è una lente che modella le immagini, una presenza che piega la realtà alla sua continua ricerca di meraviglia e spaesamento. In Ghost Elephants, presentato Fuori Concorso a Venezia 82, questa voce si posa su un’Africa al tempo stesso concreta e mitica, trasformando la spedizione di un naturalista sudafricano in un racconto sospeso tra scienza, leggenda e sogno. Herzog non si limita a mostrare: incanta, solleva dubbi, trasforma ogni dettaglio in un segno del destino.

Ghost Elephants: tra mito e scienza

Il cuore del film è l’ossessione del Dr. Steve Boyes, naturalista che da dieci anni insegue la possibilità dell’esistenza di un branco misterioso di “elefanti fantasma” sull’altopiano angolano di Bié, vasto quanto l’Inghilterra e quasi privo di insediamenti umani. Boyes vuole verificare se questi giganti, mai documentati ufficialmente, possano essere parenti del più grande elefante mai registrato, il celebre esemplare conservato allo Smithsonian di Washington, chiamato Henry. La sua è una missione che oscilla fra rigore scientifico e tensione visionaria, con tanto di campioni di DNA da raccogliere come in un romanzo d’avventura. Herzog, fedele al suo metodo, non giudica: osserva la passione e la trasfigura, facendo del desiderio stesso di cercare la traccia un tema narrativo centrale.

Una delle intuizioni più potenti del film è che la spedizione non inizia nel momento in cui i protagonisti mettono piede in Angola, ma molto prima. Herzog dedica ampio spazio alla fase preparatoria, trascorsa in Namibia accanto ai leggendari tracker San, capaci di leggere il terreno come un libro aperto e di imitare con il corpo gli animali che seguono. Qui il film si allontana dalla pura ricerca zoologica e diventa un ritratto dell’intelligenza ancestrale di uomini che incarnano la continuità con la natura. È in queste scene che la voce del regista raggiunge vertici di ironia e lirismo, quando ammette con disarmante sincerità: «So di non dover romanticizzare, ma un uomo circondato da polli… non può esserci nulla di meglio». È in questa tensione tra romanticismo e autocritica che emerge il vero Herzog.

Lo sguardo sull’ignoto

Nella seconda parte, quando la spedizione si addentra tra le nebbie dell’altopiano angolano, Ghost Elephants assume i toni di una favola realista. Herzog lascia che la lentezza, i momenti sospesi e persino le distrazioni — come l’arrivo di un ragno velenoso, subito trasfigurato dalla sua voce in presagio apocalittico — diventino parte del racconto. Ciò che interessa al regista non è solo la possibilità di filmare un animale leggendario, ma la potenza del desiderio che spinge a cercarlo, la dimensione interiore che il mito dell’elefante fantasma rivela in chi si mette sulle sue tracce.

Ad amplificare questa atmosfera sospesa contribuisce la colonna sonora firmata da Ernst Reijseger, che intreccia arrangiamenti di canti tradizionali sardi con le immagini africane. Un accostamento che potrebbe sembrare arbitrario, ma che nelle mani di Herzog diventa naturale: il dialogo fra due mondi distanti restituisce l’idea di una ricerca che non appartiene a un solo luogo, ma che parla dell’umanità intera. La musica agisce come eco del racconto, rinforzando la percezione che i “fantasmi” non siano solo elefanti invisibili, ma figure del nostro immaginario collettivo.

Un racconto puramente herzoghiano

Come in Grizzly Man o in Encounters at the End of the World, anche qui Herzog ci ricorda che i suoi documentari sono sempre “tanto su di lui quanto sull’oggetto filmato”. Ghost Elephants è un film sul senso stesso della ricerca, sul confine fra realtà e leggenda, sul bisogno umano di inseguire qualcosa che potrebbe non esistere. Il regista non si sofferma esplicitamente sulle ombre del colonialismo, sul ruolo dell’“esploratore bianco” o sul retaggio della caccia: lascia che queste domande restino in sospeso, dando al film una dimensione aperta e ambivalente.

Ghost Elephants è, in definitiva, un documentario che non offre un “colpo di scena” finale, ma che non ne ha bisogno. La sua forza sta nel modo in cui Herzog trasforma una spedizione scientifica in un viaggio esistenziale, in cui l’oggetto della ricerca conta meno del desiderio stesso di cercare. E soprattutto sta nella sua voce: quel tedesco gutturale, carico di ironia e malinconia, che ci fa credere che ogni dettaglio — un villaggio sperduto, un animale invisibile, un uomo che vive fra polli — contenga un frammento di meraviglia. È questa voce, più ancora delle immagini, a ricordarci che l’essenza del cinema herzoghiano non è catturare la realtà, ma renderla degna di essere sognata.