Arriva dal l’Hollywood
Reporterun nuovo report che svela
un’ampia storia sullo stato attuale stato delle cose alla DC sotto
la nuova guida della Warner Bros. Discovery, e
sembra che alcuni fan potrebbero essere molto, molto felici, poiché
il report svela che lo studio si sta attivamente sviluppando un
nuovofilm di Superman (fondamentalmenteMan of Steel 2) e sono estremamente
desiderosi di riportare Henry Cavill come supereroe
titolare.
Il progetto è attualmente
alla ricerca di scrittori e ha una lista dei desideri dei migliori
talenti con cui stanno già avendo incontrando. Si credeva che l’ex
collaboratore di Cavill Christopher McQuarrie
fosse in cima a quella lista, ma secondo quanto riferito lo studio
non lo ha contattato perché è attualmente impegnato a scrivere e
dirigere un paio di sequel di
Mission: Impossible con
Tom Cruise, quindi non sarà disponibile per
adattarsi ai piani accelerati dello studio.
Nel frattempo, c’è anche un
altro potenziale progetto di Superman in lavorazione poiché la star
di Black
AdamDwayne
Johnson si è concentrata sulla realizzazione di un
film Superman contro Black
Adam, e considerando che era impegnato in prima linea
nel riportare Henry Cavill al ruolo, sembra abbastanza
probabile che lo studio acconsentirà alle sue richieste ad alto
budget.
Secondo le loro fonti, Superman non
è mai stato nelle carte per Black
Adam, ma il piano si è concretizzato durante le
recenti riprese. Tuttavia, quando il capo della DC Films
Walter Hamada ha bocciato l’ambiziosa proposta di Johnson, l’attore
ha aggirato l’esecutivo e ha ottenuto il via libera dai capi degli
studi Warner Bros. Michael De Luca e Pam
Abdy. C’è stato un lungo giro di trattative tra le
due parti, con una scadenza per la festa del lavoro, e la scena è
stata girata a metà settembre.Inoltre, c’è anche un
terzo progetto incentrato su Superman nelle opere
di Ta-Nehisi Coates, che
introdurrà un Superman nero e sarà prodotto da JJ
Abrams. Si dice che sia un film più autonomo nella
stessa vena diJokerpiuttosto che collegarsi alla continuità principale della
DC. Il suo stato rimane in sospeso, a causa dei recenti
sviluppi.
Il cast completo
di Black
Adam, oltre a Dwayne
Johnson nei panni dell’anti-eroe del titolo,
annovera anche Noah
Centineo (Atom Smasher), Quintessa
Swindell (Cyclone), Aldis
Hodge (Hawkman) e Pierce
Brosnan (Doctor Fate). Insieme a loro ci saranno
anche Sarah Shahi, che interpreterà Isis,
e Marwan Kenzari, che sarà invece
l’antagonista principale (anche se il personaggio non è stato
ancora svelato).
Black
Adam, che sarà diretto da Jaume
Collet-Serra (già dietro Jungle
Cruise, sempre con Johnson), ha dovuto far fronte a non
pochi problemi durante il suo travagliatissimo sviluppo. Inoltre,
la pandemia di Coronavirus ha ulteriormente complicate le cose e
costretto la produzione del film all’ennesimo rinvio. L’uscita del
film nelle sale americane è fissata per il 29 luglio 2022. Black
Adam uscirà al cinema in Italia giovedì 21 ottobre 2022.
Il progetto originale della Warner
Bros. su Shazam!aveva
previsto l’epico scontro tra il supereroe e la sua
nemesi, Black
Adam appunto, una soluzione esclusa dalla sceneggiatura
per dedicarsi con più attenzione al protagonista e alla
sua origin story. A quanto pare, il film
su Black
Adam dovrebbe ispirarsi ai lavori di Geoff Johns dei
primi anni duemila.
La star di The
Flash, Ezra Miller si è dichiarato non colpevole
delle accuse di furto con scasso questa mattina nel Vermont.
Autorizzato a comparire da remoto all’inizio della sessione nella
divisione penale della Corte Superiore dello Stato di Green
Mountain, a Miller è stato detto di stare lontano dal vicino di cui
è entrato a casa all’inizio di quest’anno. Insieme al vicino
Isaac Winokur, a Miller è stato anche proibito di
interagire con un altro residente nel Vermont, Aiden
Early, come condizioni per il loro rilascio.
Miller rischia un massimo di 26 anni
dietro le sbarre e oltre $ 2.000 di multa se ritenuto colpevole
delle accuse derivanti dall’incidente primaverile che ha comportato
il furto di tre bottiglie di liquore – gin, vodka e rum – dalla
dispensa di Winokur.
“Ezra vorrebbe riconoscere
l’amore e il sostegno che hanno ricevuto dalla loro famiglia e dai
loro amici, che continuano a essere una presenza vitale nella loro
salute mentale in corso”, ha affermato in parte una
dichiarazione subito dopo l’udienza di oggi dall’avvocato
Lisa B. Shelkrot.
L’udienza di oggi nel Vermont era
originariamente fissata per il 26 settembre, ma è stata posticipata
alla fine dell’estate. Ritardato in numerose occasioni da quando è
stato annunciato per la prima volta nel 2014 per problemi di regia
e la pandemia di Covid, tra gli altri, The
Flash arriverà finalmente nelle sale il 23 giugno
2023.
ATTENZIONE:
Questo articolo contiene spoiler del nono episodio
della serie House of the Dragon
L’episodio numero
nove di House of the Dragon contiene un sacco di
dettagli che ci svelano il senso dello show e alcuni collegamenti
con Il Trono di
Spade. Dopo la morte di ReViserys
nell’episodio
8, la serie subisce un cambiamento di ritmo. Mancano
completamente personaggi come Rhaenyra e DaemonTargaryenma, nonostante la loro assenza, l’episodio si
rivela ricco di avvenimenti epocali e termina con l’incoronazione
di un nuovo re.
Anche se siamo
giunti al penultimo capitolo della serie,
l’episodio9 sembra aprire nuove
piste più che avvicinarsi ad un finale: le fazioni si stanno
formando – i Verdi di Alicent e Aegon
contro i Neri di Rhaenyra – e tutto è
sembra pronto per la Danza dei Draghi. Scopriamo ora nel
dettaglio tutte le caratteristiche del nono episodio di
House of the Dragon.
Le candele alla finestra
Dopo che la notizia della
morte di Re Viserys si diffonde nella Fortezza
Rossa, la signora di Alicent, accende alcune candele
poste su una finestra. Questo sembra essere un segnale prestabilito
per Mysaria: la conferma della morte del Re.
Sappiamo che la candela vicino alla finestra è un messaggio segreto
da
Game of Thrones. Nello
show, Sansa la usa ad esempio per chiedere aiuto
a Brienne ma, sfortunatamente, Brienne non
fa in tempo a vedere il segnale.
Cosa succede a Drone?
Incuriosito dall’improvvisa
e segreta riunione del Piccolo Consiglio, Tyland
Lannister chiede: “Dorne è stata invasa?“. Per
ora, Dorne ha soltanto fatto parte dello sfondo della
storia di House
of the Dragon, ma la domanda funge da promemoria. Ci
ricorda che i Sette Regni del Continente Occidentale
non sono ancora giunti a compimento: Dorne ha resistito
all’invasione di Aegon il Conquistatore e non
diventerà ufficialmente parte dei Sette Regni fino al 187
AC.
La
morte di Lyman Beesbury
Ancora una volta, Ser
Criston Cole uccide un personaggio in modo brutale, questa
volta si tratta di Lyman Beesbury. Anche in Fuoco e
SangueBeesbury muore, ma vengono narrate più
versioni di ciò che è successo: qualcuno afferma che è morto nelle
celle nere, qualcun’altro dice che Criston Cole si è
tagliato la gola; un terzo dice che Criston l’ha
defenestrato. Anche in House
of the DragonLyman affronta una fine
brutale: viene schiacciato contro una delle palle usate
dal Piccolo Consiglio.
Qual è ora il ruolo di Harrold Westerling?
Nell’episodio numero nove,
Harrold Westerling si dimette dalla Guardia
Reale, lasciando la posizione di Lord Comandante a
Criston Cole. L’aspetto interessante è la differenza tra
la storia di Harrold nel libro – dove muore nel 112 AC – e
quella in House of the Dragon. La sua storia nello
show è tutta da inventare e, apparentemente, il personaggio sarà un
grande sostenitore alla fazione dei Neri di
Rhaenyra.
Capo Tempesta è un
luogo importante
Con una lezione di
geografia occidentale, Tyland sottolinea che Capo
Tempesta diventerà un problema per i Verdi. Il luogo
è un posto importante perché conserva la chiave per le
Stormlands. Nel futuro di House of the
Dragon, avere Capo Tempesta dalla propria parte
sarà essenziale per entrambe le fazioni. Sia i Verdi che i
Neri si recheranno a Capo Tempesta per cercare di
ottenere il supporto di Borros, cosa che probabilmente
porterà ad un incontro tra Aemond e Lucerys e ad
una battaglia coi draghi, la prima della Danza.
Qualcuno deve
inginocchiarsi
Nel nono episodio di
House of the Dragon, Daenerys Targaryen
fa riferimento più volte all’inginocchiarsi, gesto che, a suo dire,
Rhaenyra non farà. Con queste parole, il personaggio crea
un parallelismo tra questa battaglia di successione e quella di
Game of Thrones. Sia Rhaenyra che
Daenerys considerano il Trono di Spade come un
proprio diritto, ma uno dei due viene costretto ad
inginocchiarsi.
La profezia di
Helaena, parte uno
Helaena
Targaryen ripete la sua profezia anche nel nono episodio di
House of the Dragon: c’è una “bestia
tra le assi“. Questa volta la frase è un avvertimento
diretto ad Alicent. Alla fine dell’episodio si scopre il
senso della profezia di Helaena. La bestia sotto le tavole
sembra essere il drago di Rhaenys: Meleys,
nascosto sotto il pavimento di Fossa del Drago, viene alla
luce con l’esplosione del finale dell’episodio.
La profezia di
Helaena, parte due
In realtà,
Helaena Targaryen fa un’altra profezia nell’episodio 9 di
House of the Dragon quando dice “Se uno
possiede una cosa, l’altro la porterà via“. Questa frase viene
riferita ai figli che litigano per i giocattoli, ma potrebbe avere
un senso più ampio e prevedere eventi futuri. Alla fine
dell’episodio, il marito e il fratello di Aegon ottengono
il Trono di Spade, ma sappiamo che, nella Danza dei
Draghi, Rhaenyra cercherà di accaparrarselo.
Le campane
in House of the Dragon
Dopo la morte di Re
Viserys, nel nono episodio di House of the Dragon le campane vengono
suonate ad Approdo del Re. Le campane hanno svolto diverse
funzioni in Game of Thrones: sono state essenziali per
Daenerys Targaryen durante la distruzione di Approdo
del Re e si diceva che rappresentassero la resa. Inoltre, il
loro suono è legato alla morte di un monarca. Varys
infatti dice di odiare le campane perché “suonano per orrore …
un re morto, una città sotto assedio.”
Casa Fell
Tra le casate che Otto
Hightower vuole convincere a rompere la fedeltà con
Rhaenyra c’è Casa Fell. Questo fatto è tratto
direttamente dal libro, dove Lady Fell rifiuta di
sostenere Aegon II e viene decapitata. Dato che l’episodio
mostra Lord Caswell, un altro sostenitore di
Rhaenyra, impiccato, è probabile che anche Lady
Fellabbia fatto la stessa fine. Inoltre, nel libro, Casa
Fell è dalla parte di Aegon e uno dei suoi membri,
Ser Willis, fa parte della Guardia Reale e diventa
addirittura Lord Comandante.
Yi Ti
Durante la ricerca di
Aegon, Aemond dice che l’uomo avrebbe potuto
imbarcarsi su una nave diretta a Yi Ti. Yi Ti si
trova a Essos, a est di Qarth, ed è un luogo
ispirato all’impero cinese. Yi Ti è infatti un vasto
impero governato da un dio-imperatore ed è una delle più grandi e
più antiche nazioni del mondo conosciuto. Fun fact: tra i molti
spin-off di Game of Thrones c’è anche una serie animata
basata su Yi Ti.
Il bastardo di
Aegon
Nel nono episodio di
House of the Dragon viene introdotto un
bambino che è, secondo quanto riferito, uno dei bastardi di
Aegon. Probabilmente si tratta di Gaemon
Palehair. Nel libro, Gaemon è descritto come il
figlio bastardo di Aegon nato da una donna di nome
Essie che lavorava in un bordello ad Approdo del
Re. Dopo che Aegon lascia la città, Gaemon
cresce nel bordello e accumula un sostanzioso seguito tra coloro
che lo vedono come legittimo monarca. Quando re Aegon
ritorna ad Approdo, risparmia Gaemon a causa
della sua giovane età. Alla fine, il giovane diventa un amico del
figlio di Rhaenyra e di Daemon, colui che sarà re
Aegon III.
Aemond si crede il legittimo erede al trono
Aemond
afferma che, se fosse accaduto qualcosa al fratello, sarebbe stato
lui il prossimo nella linea di successione per l’Iron
Throne. Questa affermazione non è del tutto corretta.
House of the Dragon mostra i due figli di
Aegon ed Helaena, uno dei quali è presumibilmente
Jaehaerys. In base alla linea di successione, se
Aegon diventasse il legittimo re, il suo erede sarebbe suo
figlio maggiore, non suo fratello. Tuttavia, quando Aegon
rimane costretto a letto a causa di un colpo subito durante la
Danza dei Draghi, il fratello diventa Principe
Reggente e indossa la corona di Aegon il
Conquistatore.
Larys
diventa Lord Confessore
Il nono episodio di
House of the Dragon rivela che LarysStrong al momento sta servendo come Lord
Confessore, una posizione che non esiste in Game of
Thrones. Si tratta di un lavoro oscuro, che va di pari passo
con la carica di Larys come Maestro dei
sussurratori: grazie ai suoi ruoli, ll’uomo può torturare le
persone per ottenere informazioni da essi.
Che fine fa la
corona di Viserys?
Nella puntata,
vediamo anche la corona di re Viserys che, posta sul suo
corpo, è destinata a far parte della sua pira funebre. Tuttavia, il
pubblico non vede l’accensione della pira: forse la corona non è
stata realmente distrutta. In Fuoco e Sangue, la corona è
portata da Approdo del Re a Dragonstone da
Ser Steffon Darklyn, un membro della Guardia
Reale. La corona viene inoltre usata per l’incoronazione di
Rhaenyra, cosa che probabilmente vedremo anche in
House of the Dragon.
Le parole di
Mysaria
Nell’episodio 9 di
House of the Dragon, Mysaria dice a
Varys che il potere risiede dove il popolo
permette ai sovrani di prenderlo. Il fatto che la donna si
preoccupi per i giovani di Approdo del re riflette anche
gli obiettivi di Varys che vuole il meglio per il
regno.
Alicent Hightower e il parallelismo mancato con Cersei
Lannister
Alicent
Hightower è stata paragonata più volte a Cersei
Lannister, tuttavia nel nono episodio di House of the
Dragonprende le distanze dal personaggio di GOT
quando dice “nulla dituttoquesto è un
gioco” Al contrario, nella stagione 1 di Game of
Thrones, Cersei Lannister dice a Ned Stark:
“Quando giochi al trono,ovinci o
muori“.
La corona di Aegon il Conquistatore e la
spada Blackfyre
Aegon
diventa Re Aegon II Targaryen, in segno della sua
legittimità sul Trono di Spade, indossa la corona e la spada di
Aegon il Conquistatore. La corona è in acciaio
valyriano e, nel libro, Aegon è il primo re ad
indossare questa corona dopo Maegor I. Quest’ultimo è noto
come Maegor il Crudele ed è tra i re più disprezzati della
storia. Proprio per questo motivo, nessuno ha voluto indossare il
copricapo dopo di lui. La corona di Aegon poggerà
successivamente sul capo diAemond e da re Daeron
I, il nipote di Rhaenyra e Daemon.
Anche spada Blackfyre segue
un percorso simile: verrà tramandata attraverso diversi re e, alla
fine, andrà a Daeron e a Ser Daemon Blackfyre
(che la brandisce durante le Ribellioni Blackfyre).
Cosa vuole dire
Larys?
Larys Strong usa
diverse metafore animali: parla della rete di spie, dei
‘’piccoli ragni’’ e dice ad Alicent che
è necessario‘’eliminare la regina per distruggere
l’alveare’’. Alicent
sembra cogliere le parole di Larys: un’inquadratura mostra
un edificio avvolto nelle fiamme, qualcosa di molto simile a quello
dove si trovava Mysaria nell’episodio 8. La scena mostra
quanto lontano Larys riuscirà ad arrivare e quanto
Alicent ami appiccare incendi.
Il teschio di Balerion
Mentre è in fuga, Rhaenys passa attraverso la
Fortezza Rossa e si ferma perché vede il grande teschio di
Balerion. La scena anticipa la
comparsa del suo dragoMeleys, che avviene nel
finale dell’episodio, ma è anche un rimando al cugino morto:
Viserys è stata ultima persona che ha cavalcato
Balerion.
Il nuovo sigillo di casa Targaryen
Durante
l’incoronazione di Aegon, si vedono alcuni stendardi con
un drago d’oro su sfondo nero. Questo non è il tipico rosso della
casa Targaryen, ma è il sigillo personale di
Aegon, con l’oro che fa onore al suo drago dorato
Sunfyre. In realtà, c’è uno scopo ancora più
profondo: avere diversi più sigilli permetterà alle fazioni di
sapere esattamente chi attaccare durante la guerra.
Il nono episodio
in House of the Dragon come in
GOT
Il nono episodio di
House of the Dragon si svolge ad Approdo del
Re ed è privo di due personaggi chiave, Rhaenyra
e Daemon. Questo dettaglio crea un parallelismo con
l’episodio 9 di parecchie stagioni di Game of Thrones.
Tendenzialmente, si tratta degli episodi più avvincenti della
stagione, spesso autosufficienti e ambientati in un unico
luogo.
Sino ad oggi attiva come attrice
nella sua Germania, la giovane Devrim Lingnau è
ora divenuta una celebrità di livello mondiale grazie alla serie
L’imperatrice. Giovanissima e talentuosa, la Alcock è ora
una nuova stella della recitazione tutta da scoprire, tra passioni
e progetti futuri.
Ecco 10 cose che non sai sull’attrice Devrim
Lingnau.
Devrim Lingnau: i suoi film e le serie TV
1. È nota per diversi ruoli
televisivi. La carriera dell’attrice, ad oggi svoltasi
interamente in patria, è caratterizzata da serie TV come Unter
Verdacht (2017), Immortality (2018), Die
Kanzlei (2018), Der Bozen Krimi (2019), Il
commissario Schumann (2020) e Allmen (2021). Ad
averle conferito popolarità internazionale è però stata la serie
NetflixL’imperatrice (2022), dove
interpreta Elisabeth von Wittelsbach, riproponendo dunque la storia di Elisabetta
d’Austria.
2. Ha recitato anche per il
cinema. Oltre alla televisione, la Lingnau ha però avuto
modo di recitare in alcuni lungometraggi di produzione tedesca,
come Carmilla (2019), una sorprendente
storia d’amore sul raggiungimento della maggiore età intrisa di
mistero, e la commedia Auerhaus (2019). Nel 2021 è invece
stata Emma nel film drammatico Borga.
Devrim Lingnau è Sissi in L’imperatrice
3. È la protagonista della
serie. Nella serie L’imperatrice, presente su
Netflix, l’attrice è la protagonista nel ruolo di una giovane
Elisabetta, detta Sissi, la quale si innamora del futuro imperatore
d’Austria Franz Joseph. Per l’attrice si è trattato non del primo
ruolo da protagonista, ma del primo a conferirle una popolarità
internazionale, merito anche del fatto che la serie grazie a
Netflix è disponibile grossomodo in tutto il mondo.
4. Ha studiato molto per il
ruolo. Per prepararsi alla serie e al personaggio da dover
interpretare, l’attrice ha raccontato di aver letto molti libri
dedicati alle vicende politiche e sociali dell’epoca, oltre
ovviamente a biografie di Elisabetta d’Austria. L’attrice ha poi
avuto modo di confrontarsi con diversi storici, così da poter
essere certa di fornire un ritratto sincero e preciso della vera
Elisabetta.
5. Si è posta molte
domande. Nell’assumere il ruolo di Elisabetta d’Austria,
però, l’attrice non ha solo studiato tutto su di lei, ma si è anche
posta alcune domande su quali novità le interessava apportare al
ruolo e quali aspetti erano secondo lei particolarmente importanti
da raccontare dal punto di vista odierno. La Lingnau si è così
concentrata sul mostrare la voglia di libertà di quella donna e
della sua curiosità nei confronti del mondo.
Devrim Lingnau ha un fidanzato?
6.È molto
riservata sulla propria vita sentimentale. Ad oggi non si
sa nulla sulla vita sentimentale dell’attrice e non è dunque
possibile stabilire se sia o meno impegnata in una relazione. La
Lingnau sembra essere ora molto concentrata sulla propria carriera
e non sembra esserci dunque spazio per una storia d’amore. Ora che
è divenuta più celebre, però, sarà certamente più facile sapere di
più anche a riguardo.
Devrim Lingnau e Philippe Froissant
7. Non sono una
coppia. Nella serie L’imperatrice la Lingnau
recita a stretto contatto con l’attore Philip
Froissant, che interpreta Franz Joseph I d’Austria, ovvero
il marito di Elisabetta nonché imperatore dal 1848 al 1916. Data la
grande chimica di coppia sfoggiata dai due attori, in molti hanno
iniziato a pensare che tra loro potesse esserci una storia anche al
di fuori del set. La cosa è però stata poi smentita.
Devrim Lingnau è su Instagram
8.È
presente sul social network. L’attrice è presente sul
social network Instagram, con un proprio profilo verificato seguito
da 35.5 mila persone e dove attualmente si possono ritrovare 60
post. Questi sono principalmente immagini relative a suoi lavori da
attrice, ma non mancano anche curiosità, momenti di svago, eventi a
cui ha preso parte e altre situazioni ancora. Seguendola, si può
dunque rimanere aggiornati su tutte le sue novità.
Devrim Lingnau: età e altezza e origini dell’attrice
9. Devrim Lingnau è nata nel
1998 a Mannheim, inGermania. Si tratta
di una città tedesca situata nel land del
Baden-Wurttemberg. L’attrice è alta complessivamente 1,67
metri.
10. Ha origini tedesche e
turche. L’attrice tedesca vanta origini variegate grazie
ai suoi genitori. Se sua madre è come lei tedesca, il padre è
invece proveniente dalla Turchia. I due genitori hanno poi
cresciuto l’attrice insegnandole entrambe le loro lingue.
Nel Fuori Concorso di Alice
nella Città, la sezione parallela e autonoma della
Festa del Cinema di Roma è stato presentato
Aftersun, film acclamato a livello
internazionale che ha avuto la sua prima presentazione al 75°
Festival
di Cannes, nel programma della Semaine de la
Critique. Protagonista del film è Sophie,
una donna che a distanza di vent’anni si ritrova a ripensare ad una
vacanza trascorsa in Turchia con suo padre Calum.
Tra ricordi reali e immaginari, nostalgia e paure, Sophie cerca di
riconciliare l’uomo della propria memoria con colui che non ha mai
effettivamente conosciuto.
A presentare il film a Roma ci sono
la regista e l’attore interprete di Calum. Lei è Charlotte Wells, filmmaker scozzese
indicata come una delle grandi promesse del cinema indipendente e
qui al suo film d’esordio. Lui, invece, è Paul
Mescal, divenuto celebre a livello internazionale per aver
interpretato Connell nella serie Normal People. Pur se
non fisicamente insieme all’Auditorium Parco della Musica, in
quanto Mescal per problemi personali si è potuto collegare solo
virtualmente, i due hanno dunque raccontato qualcosa di più su
Aftersun, svelandone retroscena e intenti.
“Aftersun è idealmente la
prosecuzione di un mio cortometraggio intitolato
Tuesday, – esordisce spiegando la regista –
che analizzava gli stessi temi, ovvero la ricerca del senso del
dolore. La struttura della storia di questo giovane e figlia in
vacanza era inizialmente molto più tradizionale. Quando poi ho
capito di voler raccontare il tutto dal punto di vista di Sophie è
allora subentrato l’elemento della memoria e quindi più inserivo
miei ricordi personali, più ottenevo uno sguardo retrospettivo,
divenuto assolutamente imprescindibile dalla storia in sé. Il
ricordo ci permette di soffermarci con più attenzione su alcuni
dettagli del passato a cui magari sul momento non avevamo fatto
caso”.
La ricerca dei giusti
interpreti
La regista passa poi a parlare di
come abbia scoperto la giovane Frankie Corio,
l’attrice che interpreta Sophie da bambina. “Una cosa che
abbiamo appreso la nostra protagonista, è che cercavamo di dar vita
ad un personaggio che fosse in quel momento critico della
transizione dall’infanzia all’adolescenza. Ci siamo resi che la
stessa cosa doveva valere anche per l’interprete che avrebbe
assunto il ruolo. Abbiamo incontrato Frankie dopo un processo di
casting durato sei mesi. Abbiamo cercato quanti più attori bambini
possibile attraverso alcuni gruppi appositi su Facebook e in uno di
questi c’era lei”.
“Quando è stata selezionata per
sostenere un audizione dal vivo, io cercavo semplicemente
un’attrice che riuscisse ad essere il più naturale possibile, ma
lei è stata molto di più. Ci ha stupiti tutti con il suo carisma,
la sua curiosità e il suo essere così naturalmente spontanea e
divertente. Sapeva entrare in vari stati emotivi senza che questi
finissero per dominarla. Per preservare tutto ciò, non le abbiamo
mai dato l’intera sceneggiatura del film, ma le dicevamo di volta
in volta cosa sarebbe successo”.
“Per quanto riguarda Paul, egli
è un po’ più giovane del suo personaggio, – spiega la regista
– ma lo avevo visto recitare in Normal People e lo trovavo
magnetico, ricco di un fascino e un calore che sarebbero stati
perfetti per il personaggio e per raccontare in modo romantico i
demoni che si porta dentro”. “Sono rimasto subito colpito dal
personaggio di Calum, – aggiunge poi Paul
Mescal – in particolare mi ha interessato il suo
conflitto tra l’essere un ottimo padre e quei momenti bui in cui
invece si trova in difficoltà, a lottare con una forma di
depressione che neanche lui comprende fino in fondo”.
Raccontare il complesso rapporto
tra padre e figlia
“Questa è stata la prima volta
che interpretavo un padre, – continua poi Mescal – ed è
stato incredibilmente difficile ma allo stesso tempo ti dà una
soddisfazione incredibile. Ha cambiato davvero il mio modo di
lavorare come attore, perché ho sentito una forte responsabilità
nei confronti di Frankie, si è sviluppato un senso di protezione
nei suoi confronti e ciò che facevamo si rifletteva nell’altro.
Abbiamo avuto molto tempo da poter passare insieme, conoscendoci
meglio e facendo varie attività. Credo che se il rapporto tra i due
personaggi nel film appaia così forte sia anche per l’amicizia che
è spontaneamente nata tra di noi”.
“Il mio obiettivo era quello di
raccontare il dolore che deriva dalla separazione e degli sforzi
che si fanno per conservare un legame spezzato, – spiega la
regista, concludendo l’incontro – che se nonostante ciò rimane
intatto è grazie alla forza dei sentimenti che sopravvivono nel
cuore dei due protagonisti. Girare questo film mi ha cambiata, mi
ha insegnato molto, banalmente anche solo che adoro questo
mestiere. Il cinema mi permette di raccontare i miei stessi
sentimenti e non vedo l’ora di poter replicare tale
esperienza”.
Saranno incentrate sul tema della
violenza maschile contro le donne le due proiezioni
cinematografiche, a ingresso gratuito, organizzate il 18 e il 23
ottobre al MAXXI dalla Festa del Cinema di Roma e
da
Alice nella Città in collaborazione con la Casa
Internazionale delle Donne.
Si inizia domani, martedì 18
ottobre alle ore 17, con La ragazza ha
volato di Wilma Labate. Il film racconta
la storia di Nadia, un’adolescente scomoda che cresce in solitudine
a Trieste, città di confine tra tante culture. Vittima di un abuso,
la ragazza decide di non denunciare, ma fa comunque una scelta
potente di autodeterminazione. Ad introdurre i temi della
pellicola, assieme alla regista, ci saranno la presidente della
Casa Internazionale delle Donne, Maura Cossutta, e la
ginecologa e presidente dell’associazione ‘Vita di Donna’,
Elisabetta Canitano. L’evento è organizzato dalla Festa del Cinema
di Roma in collaborazione con la Casa Internazionale delle
Donne.
Domenica 23 ottobre, sempre alle
ore 17 al MAXXI, sarà la volta della proiezione in anteprima
di Backlash-Misogyny in the Digitale Age di Léa
Clermont-Dion e Guylaine Maroist, un’immersione nel vortice della
misoginia online che racconta l’evidente odio verso le donne
seguendone quattro in due continenti: l’ex presidente della Camera
dei deputati italiana, Laura Boldrini, l’ex rappresentante
democratica alla Camera statunitense Kiah Morris, l’attrice
francese e youtuber Marion Séclin e Donna Zuckerberg, esperta di
violenza online contro le donne. Il documentario rivela gli effetti
devastanti che questo tipo di odio ha sulle vittime e porta alla
luce l’obiettivo della cyber-misoginia: mettere a tacere le donne
che brillano. Alla proiezione seguirà un incontro con Laura
Boldrini e le giornaliste Silvia Garambois (GIULIA Giornaliste) e
Luisa Betti Dakli (DonneXDiritti), con la moderazione di Giulia
Minoli. L’evento è organizzato da Alice nella città in
collaborazione con la Casa Internazionale delle Donne.
Dopo Daniel Radcliffe, anche Emma Watson, Rupert Grint e Tom Felton hanno affidato ai loro account
social un ricordo e un
omaggio di Robbie Coltrane, attore che ha
interpretato Rubeus Hagrid nel franchise di Harry
Potter che ha dato notorietà ai citati attori i quali sono
letteralmente cresciuti nei panni di Hermione, Ron e Draco
Malfoy.
Jennifer Lawrence si rimette in gioco con
Causeway, presentato in anteprima alla
Festa del Cinema di Roma 2022, e che sarà disponibile dal 4
novembre su Apple
TV+. Consegnando il proprio bagaglio attoriale nelle
mani della regista Lila Neugebauer, che ha saputo
dare un taglio incisivo alla produzione seriale di stampo
drammatico – sua la regia di alcuni episodi della miniserie
Maid (2021) – Lawrence
attraversa un ponte sospeso tra le sue interpretazioni femminili
più ardite, Madre!
di DarrenAronofsky, in cui la
sua figura era piegata a volontà simboliche, e quelle emotivamente
più verosimili, come quella nel film Il Lato
Positivo, che le ha fruttato il suo primo Oscar.
Causeway: il viaggio di Lynsey
Lynsey è una
soldatessa che fa ritorno a New Orleans, sua città natale, dopo
essere stata vittima di un incidente quasi mortale in Afghanistan.
Causeway segue il suo percorso di riabilitazione
fisica e mentale nei confronti di una vita che le è sempre stata
stretta, le cui radici traumatiche, forse, sono ben lontane dal
sud-ovest asiatico molto più vicine alla città statunitense.
Quello di Causeway
è un racconto estremamente lineare, diretto nitidamente e in
maniera consapevole; una messa in scena asciutta, rarissimi
accompagnamenti musicali e un uso sapiente del simbolismo cromatico
lasciano che la storia di Lynsey si dispieghi
lentamente, dandole il tempo per tornare a respirare o, ancor
meglio, riuscire a rituffarsi nelle acque dove si è sempre
divertita a nuotare. Proprio l’acqua sancisce il primo contatto
della protagonista con l’idea di una realtà professionale estranea
all’Afghanistan ma, quello che aveva pensato inizialmente come un
impiego temporaneo, in attesa di riessere ammessa tra le fila
dell’esercito, si rivelerà un regalo inaspettato per ricavare
insegnamenti inaspettati dall’immobilità respingente di una
condizione opprimente.
Il trauma invisibile
L’elaborazione del trauma di
Lynsey passa soprattutto attraverso la riscoperta
di una nuova idea di nucleo famigliare; le mancanze e i dissapori
di un passato di cui non ci viene detto esplicitamente tanto, ma
intuiamo dalla fattualità circostanziale, vengono progressivamente
risanati dall’incontro fortuito con chi ha vissuto qualcosa di
molto simile al nostro dolore, il personaggio di James,
interpretato da un Brian Tyree Henry in stato di
grazia. Nel consolidarsi di un legame inedito e che non è
necessario etichettare, Causeway trova
maggiormente vigore narrativo, unendo le strade di due personaggi
che ci fanno scoprire una nuova facciata di New Orleans: quella di
chi rimane ai margini della festosità che ne caratterizza
l’atmosfera e di cui il cinema ci ha inondato, mettendo in primo
piano le fatiche di adattamento di chi lotta contro un sistema
affettivamente mai abbastanza inclusivo.
Forse i traumi che più ci
attanagliano non corrispondono a quelli che hanno maggiore
concretezza, a quelli imputabili di un malessere comprensibile e
che combinano le difficoltà fisiche a quelle psicologiche. Le
ferite vanno spesso a ritroso e la fuga verso un luogo
apparentemente inospitale e pericoloso, in cui nessuno si
rifugerebbe mai, potrebbe risultare l’unico sbocco di un
ponte che ci sembra troppo lungo da percorrere.
Lynsey continuerà a recitare davanti agli altri
mantenendo una postura rigidissima – ottima prova attoriale per la
Lawrence – per liberarsi del fardello di dover
giustificare l’inesprimibile, una volontà ferrea che nessuno della
cerchia di New Orleans può comprendere. Solo quando arriva qualcuno
che non guarda ai piani futuri, quanto piuttosto allo scorrere del
presente e al cercare di trattenerlo per rivedere il proprio
passato, ecco che possiamo ascoltare gli altri, valutare più
opzioni, sentirci liberi di scegliere e dare spazio alla nostra
definitiva dichiarazione di intenti.
Tracciare il nostro ponte
Causeway non
raggiunge le vette espressive di Maid, dove
semplicità visiva e compattezza narrativa si univano perfettamente,
ma si conferma un’opera interessante di una regista che sa lavorare
benissimo con le proprie protagoniste, rendendole veicoli fisici di
più livelli di lettura di storie che cercano prevalentemente nella
verosimiglianza un aggancio col proprio pubblico.
Quando il coraggio di andare avanti
si paleserà sotto forma di un costume blu con cui ci tuffiamo in
piscina e che va a sostituire l’intimo nero che
Lynsey indossa per tutto il film; quando capiamo
che è giunta l’ora di riconnetterci con il nostro elemento per
stringere la mano a chi abbiamo ritrovato, forse allora possiamo
vedere la fine del nostro ponte, senza mai dimenticarci che in
passato eravamo in grado di trattenere il respiro per tanto tempo
senza annaspare, e forse lo siamo anche ora.
Un nuovo breve video di Black
Panther: Wakanda Forever ci dà l’opportunità di
dare un nuovo sguardo più approfondito all’armatura di Riri
Williams/Ironheart, personaggio che farà il suo esordio nel
MCU in questo film e che sarà poi
protagonista di una serie Disney+. Dominique
Thorne è stata scelta per interpretare Riri Williams.
I dettagli ufficiali della trama
sono ancora nascosti, ma ci è stato assicurato che il sequel del
MCU onorerà il defunto Chadwick Boseman mentre continuerà l’eredità
del suo personaggio, T’Challa. Black
Panther: Wakanda Forever arriverà nelle sale l’11
novembre 2022. Il presidente dei Marvel Studios,
Kevin Feige, ha confermato che T’Challa, il personaggio
interpretato al compianto Chadwick
Boseman nel primo film, non verrà interpretato da
un altro attore, né tantomeno ricreato in CGI. Il sequel si
concentrerà sulle parti inesplorate di Wakanda e sugli altri
personaggi precedentemente introdotti nei fumetti Marvel.
Letitia Wright (Shuri), Angela
Bassett (Ramonda), Lupita
Nyong’o (Nakia), Danai
Gurira (Okoye), Winston
Duke (M’Baku) e Martin
Freeman (Everett Ross) torneranno nei panni dei
rispettivi personaggi interpretati già nel primo film.
L’attore Tenoch Huerta è in trattative
con i Marvel Studios per
interpretare il villain principale del sequel.
Rian Johnson,
regista di Glass Onion – Knives
Out, ha condiviso il suo pensiero
sull’opportunità che ha avuto di girare una scena con Dame Angela Lansbury prima della sua recente
scomparsa. Secondo Deadline, Johnson ha parlato del ruolo
di Lansbury in Glass Onion – Knives
Out durante un evento stampa al London Film
Festival.
Durante l’evento, ha rivelato le sue
riflessioni sull’opportunità di lavorare sia con Lansbury che con
Stephen Sondheim, scomparso lo scorso novembre, in
Glass Onion. È rimasto scioccato e onorato che entrambi abbiano
detto di sì, condividendo che “personalmente il solo fatto di
poter avere 10 minuti con ciascuno di loro per dire loro cosa ha
significato il loro lavoro per me è stato davvero
speciale”.
“Erano così gentili e così
generosi. Non avremmo mai pensato che uno dei due avesse potuto
accettare? Non pensavamo che l’avrebbero fatto. Ed entrambi erano
così fantastici. Per entrambi, oltre al solo onore di averli nel
film, poter avere personalmente 10 minuti con ciascuno di loro per
raccontare loro cosa ha significato per me il loro lavoro è stato
davvero speciale.”
Glass Onion – Knives
Out, il sequel di Cena con delitto –
Knives Out diretto nuovamente da Ryan
Johnson e sempre con Daniel Craig
protagonista, arriverà prossimamente al cinema e poi su
Netflix dal 23 dicembre. La trama di questo
seguito, come rivelato di recente, si concentra sul magnate della
tecnologia Miles Bron che invita alcuni dei suoi più cari amici in
vacanza sulla sua isola privata in Grecia. Ben presto, tuttavia,
quell’oasi di pace si macchia di sangue e mistero, un mistero che
solo il detective Benoit Blanc può risolvere.
Dopo essersi mostrato grazie ad
alcune prime immagini ufficiali, il
film concede un’ulteriore assaggio di sé attraverso il primo
trailer. In questo vengono presentati i personaggi principali,
interpretati da un cast di attori del calibro di Edward
Norton, Janelle Monáe,Jessica
Henwick, Kathryn Hahn, Leslie Odom Jr, Madelyn
Cline,Kate HudsoneDave
Bautista. Poco viene invece svelato
del mistero alla base del film, anche se il regista ha rivelato che
Glass Onion sarà diverso rispetto a Knives Out in
quanto a tono, ambizioni e ragion d’essere.
Johnson ha inoltre spiegato che la
sua tecnica per la scelta del cast è come “organizzare una cena
per gli ospiti.Inviti sempre le persone che ti
piacciono, ma è difficile sapere davvero come andrà e alla
fine puoi solo cercare di scegliere i migliori attori per una
parte, quelli che sembrano più adatti a un ruolo specifico. A quel
punto ti tuffi e trattieni il respiro. Per fortuna abbiamo messo
insieme un gruppo stupendo e davvero coeso”. Non resta dunque che
attendere che il film diventi disponibile per la visione, potendo
intanto godere del suo elettrizzante trailer.
L’ufficializzazione di
Hugh Jackman in Deadpool
3 nei panni di Wolverine ha ridestato improvvisamente
l’attenzione del pubblico sul progetto Marvel/Disney con Ryan Reynolds e così, come spesso è accaduto
negli ultimi giorni, ecco un nuovo fan trailer del film in cui
vediamo i due personaggi interagire!
Deadpool 3, quello che
sappiamo
Shawn Levy dirigerà
Deadpool
3. Rhett Reese e Paul
Wernick, che hanno già firmato i primi due film sul
Mercenario Chiacchierone, scriveranno anche Deadpool 3, basandosi sui fumetti creati da
Rob Liefeld, confermandosi nella squadra creativa
del progetto, dopo che per un breve periodo erano stati sostituiti
da Lizzie Molyneux-Loeglin e Wendy
Molyneux.
Oltre a Ryan Reynolds non ci sono nomi confermati nel
cast del film. In Deadpool 2 c’erano Josh
Brolin nel ruolo di Cable e Zazie Beetz
in quello di Domino, mentre il primo film vedeva la presenza di
Morena Baccarin come Vanessa e T.J.
Miller come Weasel. Nel cast è stato anche confermato
Hugh Jackman, che torna a rivestire i panni di
Wolverine/Logan, dopo la sua gloriosa uscita di scena nel 2017 in
Logan, di James Mangold.
Paul Wernick e
Rhett Reese hanno dichiarato sul film: “È
una meravigliosa opportunità per i pesci fuor d’acqua. Deadpool è
un pazzo al centro di un film. Far cadere un pazzo in un mondo
molto sano di mente, è oro puro. Sarà davvero divertente.”Deadpool
3 uscirà il 8 novembre 2024.
In una recente intervista con
Deadline,Park Chan-wook ha parlato di come il franchise
di James
Bond abbia avuto una grande influenza sulla sua carriera di
regista. Quando gli è stato chiesto se avrebbe voluto dirigere un
film della serie, il regista di Oldboy ha dichiarato che “sarebbe stato
divertente”, ma ha notato che il pubblico potrebbe non essere così
interessato a una visione del franchise come la sua.
“Sì, sarebbe divertente. Ma non sono
sicuro che le persone che lo guarderanno si potrebbero divertire
tanto quanto me, a fare il film. Quelli di voi che hanno visto il
mio ultimo film potrebbero trovarlo difficile da credere, ma penso
che tutto sia iniziato con un film di Bond. Ero alle elementari in
quel momento. Penso che fosse forse Moonraker – Operazione spazio,
ma era certamente uno con Roger Moore. Mi sono
davvero appassionato al film e mi sono divertito a immaginare
storie diverse nella mia testa quando ero a casa da solo.
A quel tempo, la Corea era una
società militare totalitaria, quindi non permettevano a tutti, o
solo a persone particolari, di poter viaggiare fuori dal Paese.
Questo è, credo, il motivo per cui mi è particolarmente piaciuto
immaginarmi in un luogo esotico, interagire con diverse razze di
persone e vivere avventure divertenti. Quindi sono rimasto
suggestionato quelle trappole e quelle armi strane realizzate con
tecnologia ed effetti speciali e i modi ingegnosi per fuggire da
esse, avevo pensato storie molto dettagliate e fantasiose nella mia
testa. Sono andato così tanto nei dettagli che ho anche immaginato
il posizionamento della telecamera o il movimento della telecamera
che riprende quelle situazioni. E penso che sia stato il mio primo
storyboard mentale, anche se poi non li ho disegnati.”
Il futuro cinematografico di James
Bond è al momento in sospeso, visto che deve ancora essere
annunciato il nuovo interprete, dopo l’addio di Daniel Craig.
Tuttavia, l’idea di affidare a Park
Chan-wook un film del genere, sarebbe molto
interessante.
Deadline ha rivelato
che Dune: The
Sisterhood (che al momento è solo il titolo
provvisorio dello show) inizierà la produzione a Budapest, in
Ungheria, a novembre. Vale la pena notare che la serie HBO
Max sarà in produzione contemporaneamente a Dune: Part
Two. Il regista Denis Villeneuve si
trova attualmente negli Origo Studios di Budapest,
lo stesso luogo in cui hanno girato gran parte del primo film. Se
ci sarà la possibilità di vedere una sorta di crossover non è stato
ancora chiarito.
Dopo aver precedentemente scelto
Emily Watson e Shirley Henderson,
è stato anche confermato che la star di Obi-Wan Kenobi e di Game of
Thrones Indira Varma si è unita al cast in un ruolo da
protagonista. Questa notizia è un’aggiunta degna di nota al
progetto, e si dice che l’attrice interpreterà l’imperatrice
Natalya, “una formidabile reale che ha unito migliaia di
mondi nel suo matrimonio con l’imperatore Corrino”.
Varma è anche nota per il suo
lavoro in The Legend of Vox Machina e The
Capture, e sarà presto vista insieme a Tom Cruise in Mission:
Impossible – Dead Reckoning – Part One del prossimo anno.
C’è molta eccitazione tra i fan nel vedere il franchise
di Dune
espandersi in questo modo, in particolare dopo che la doppia uscita
cinematografica/HBO Max del primo film gli ha impedito di
conquistare il botteghino. Nonostante questo il film ha
rappresentato un enorme successo di critica e ha ottenuto diversi
premi, successo che ha assicurato alla produzione il proseguo.
Dune: The Sisterhood,
la serie tv
Basato sul romanzo classico di
Frank Herbert, Dune: The
Sisterhood è ambientato 10.000 anni prima
dell’ascesa di Paul Atreides e segue le sorelle Harkonnen,
interpretate da Watson e Henderson, mentre combattono le forze che
minacciano il futuro dell’umanità e fondano la leggendaria setta
conosciuta come il Bene Gesserit.
In Dune: The
Sisterhood Diane Ademu-John si prenderà cura
dello show in qualità di creatrice, scrittrice, co-showrunner e
produttrice esecutiva, mentre Alison Schapker sarà co-showrunner e
produttrice esecutiva. Johan Renck dirigerà il primo episodio
e sarà produttore esecutivo, mentre Villeneuve sarà anche
produttore esecutivo. L’uscita di Dune: Part
Two è prevista nelle sale il 17 novembre 2023, anche se al
momento non si sa quando vedremo Dune:
The Sisterhood su HBO Max.
Mentre la sua priorità rimane, per
ora, interpretare Kang in Ant-Man and the Wasp: Quantumania,
Jonathan Majors conferma a Variety (tramite ComicBook) di aver già iniziato
a discutere di
Avengers:The Kang
Dynasty con Destin Daniel
Cretton. Non è chiaro se l’attore apparirà in qualsiasi
altro progetto tra Ant-Man 3 e Avengers 5,
poiché non c’è stato neanche alcun annuncio sul suo ritorno nella
seconda stagione di Loki. Nonostante abbiano
trascorso poco tempo insieme, Majors non ha altro che grandi cose
da dire sul regista designato da Kevin Feige per
The Kang Dynasty.
“Beh, abbiamo solo fatto qualche
chiacchierata. Abbiamo parlato a lungo, e lui è una mente aperta, è
un cuore aperto ed è radicato. Sia lui che il suo lavoro sono
radicati, e penso che questa sia la parte più importante a questo
proposito, perché abbiamo a che fare con miti, sai? Cos’è Kang?
Cos’è un film? Cos’è un film MCU, sai? Cosa significa? Che
aspetto ha? Queste sono le domande che ci siamo posti, ce lo stiamo
chiedendo, ma tutto ciò funziona quando le risposte sono radicate
nella realtà e nelle circostanze date da ciò che sta accadendo tra
queste persone, e ciò che possiamo illuminare noi stessi come
specie”.
Destin Daniel
Cretton dirigerà il film da una sceneggiatura di
Jeff Loveness. Avengers:
The Kang Dynasty, che debutterà il 2 maggio 2025. Il
seguito, Avengers:
Secret Wars, uscirà solo sei mesi dopo, il 7 novembre
2025.
Il finale de Il Signore degli Anelli: Gli anelli del
potere ha confermato che Sauron si è nascosto in
bella vista per tutto questo tempo, con Halbrand dichiarato il
Signore Oscuro e non il Re delle Terre del Sud scomparso
da tempo.
L’Hollywood
Reporter ha incontrato gli showrunner e gli sceneggiatori
JD Payne e Patrick McKay per svelare la grande rivelazione e hanno
spiegato perché hanno dovuto mostrarci il lato umano del
cattivo. Poco più di un occhio nella trilogia di Peter
Jackson, il duo ha deciso di raccontare una storia sulle origini
dell’iconico grande cattivo, seguendo il suo viaggio nell’essere
mostruoso che regnava su Mordor.
“In Tolkien, Sauron è un
ingannatore e sappiamo che nella Seconda Era appare in ‘buona
forma’”, dice Payne. “E se si
avvicinasse di soppiatto a te e fosse in grado di farti
simpatizzare con lui e farti stare d’accordo con lui in modo che
una volta che ti rendi davvero conto di chi è, ha già i suoi ganci
in te?” McKay aggiunge: “Spero che dopo la
messa in onda dell’ultimo episodio, gli spettatori guardino di
nuovo l’intera stagione, che ora è un’esperienza diversa. Speriamo
che, mentre entriamo nella seconda stagione, renda le persone come
la prima stagione ancora migliori perché stai vedendo attraverso un
nuovo prisma.
Le riprese della seconda stagione sono in
corso
La stagione 2 de Il Signore degli Anelli: Gli anelli del
potere non dovrebbe arrivare su Prime Video fino al 2024. La produzione si sta
spostando dalla Nuova Zelanda al Regno Unito e le riprese sono
iniziate solo di recente, quindi aspetteremo un po’ prima di
saperne di più su Sauron. Tuttavia, Payne promette che tutte
le risposte che vogliamo sono in arrivo.
“La prima stagione si apre
con: chi è Galadriel? Da dove viene? Di cosa ha sofferto? Perché
viene spinta? Stiamo facendo la stessa cosa con Sauron nella
seconda stagione. Riempiremo tutti i pezzi mancanti”.
“Sauron ora può essere solo
Sauron”, aggiunge McKay. “Come Tony
Soprano o Walter White. È malvagio, ma complessamente malvagio. Ci
siamo sentiti come se lo avessimo fatto nella prima stagione,
avrebbe oscurato tutto il resto. Quindi la prima stagione è come
Batman Begins, e il Cavaliere Oscuro è la prossima film, con Sauron
che si muove all’aperto. Siamo davvero eccitati”.“La seconda stagione ha una storia canonica. Potrebbero
esserci spettatori che dicono, ‘Questa è la storia che speravamo di
ottenere nella prima stagione!’ Nella seconda stagione, glielo
diamo”.
La prima stagione sembra un prequel
della storia molto più grande che verrà, e con alcuni dei più
grandi misteri dello show ora risolti, siamo sicuri che ci sarà
molta eccitazione nel trascorrere del tempo con Sauron. C’è
chiaramente più in lui di quanto sospettassimo all’inizio, e il
viaggio di Halbrand da qui promette di essere affascinante e
complesso in egual misura.
Quando uscirà la seconda stagione de
Gli Anelli del Potere?
Chi si aspetta che la nuova
stagione possa arrivare ad un anno di distanza dovrà farsene una
ragione perché la stagione 2 de Il signore Degli Anelli
difficilmente uscirà a settembre del 2023. A tal
proposito Jennifer Salke, capo di Amazon Studios, ha affermato
qualche tempo fa: Vogliamo che passi meno tempo
possibile tra una stagione e l’altra, ma vogliamo anche che
l’asticella si mantenga molto alta. Quindi ci vorrà quello che ci
vorrà. Abbiamo una certa urgenza circa il muoverci rapidamente, che
è il motivo per cui abbiamo messo gli sceneggiatori a scrivere
durante la pausa del lockdown. Ci stiamo muovendo
rapidamente.
Sono attualmente in corso le
riprese della quarta stagione di The
Boys e alcune foto rivelatrici dal set di
Toronto sono state condivise online. Di recente abbiamo
dato un’occhiata ufficiale a Susan
Heyward di Orange
Is the New Black e all’attrice Valorie Curry
di The Following nei panni
rispettivamente delle nuove Supes Sister Sage e Firecracker, ed
entrambi i personaggi possono essere visti qui partecipare a una
sorta di manifestazione insieme a Homelander e altri membri dei
Sette.Ciò sembrerebbe confermare che, come la maggior parte degli
altri Supes, questi due non saranno particolarmente eroici.
Spoiler avanti!
È interessante notare che le foto
rivelano anche il ritorno di Black Noir, che è stato ucciso da
Homelander nel finale della terza stagione. Lo showrunner Eric
Kripke ha già confermato che Noir è definitivamente morto, quindi
dobbiamo presumere che si tratti di qualcun altro nella tuta.
I dettagli della trama della quarta
stagione di The
Boys sono un mistero per ora, ma sappiamo che l’ex di
The Walking DeadJeffrey Dean
Morgan si unirà alla mischia in un ruolo
sconosciuto. Abbiamo anche appreso che Cameron Crovertti
(Ryan) è stato nominato regular della serie, il che non sorprende
dopo il sinistro scatto finale della terza stagione.
Durante una recente intervista
con Collider , Kripke ha confermato che Ryan
sarà il punto focale della quarta stagione di The
Boys. “Andando avanti, Ryan è una parte
davvero importante. Sia Butcher che Homelander hanno ottime ragioni
per litigare per Ryan perché la posta in gioco non potrebbe essere
più alta. Se Ryan segue la strada di Homelander e poi ci sono due
Homelander nel mondo, allora è tutto un incubo per il pianeta. Se
Butcher riesce a portare Ryan alla luce, allora questa è
probabilmente l’arma migliore che hanno contro Homelander. È sempre
stato uno show sulla famiglia, e gran parte della terza stagione
riguardava i padri, quindi penso che renda sento che la stagione 4
parla di figli”.
Ryan sembra già aver scelto “la via
di Homelander”, ma ciò non significa che sia al di là del
salvataggio. Butcher ha commesso un grave errore respingendo
il giovane facilmente influenzabile nella falsa convinzione che
sarebbe stato più al sicuro senza una figura paterna così fatalista
nella sua vita, ma questo si è completamente ritorto contro quando
Victoria Neuman ha dato a Homelander la posizione di suo
figlio.
In occasione della Festa del Cinema
di Roma 2022, abbiamo incontrato
Matteo Parisini, documentarista e regista di
Infinito: l’Universo di Luigi Ghirri, un
documentario sulla vita e l’opera del fotografo emiliano. Ecco
cosa ci ha raccontato del suo film.
«Lo spazio tra infinitamente
grande e infinitamente piccolo è riempito da qualcosa di
infinitamente complesso: l’uomo e la sua vita, la natura.
L’esigenza di conoscenza nasce dunque tra questi due estremi (…)
per poter tradurre e interpretare il reale, il pensiero, la
memoria, l’immaginazione. Da qui nasce il mio lavoro» Così
affermava il fotografo, uno dei maggiori e più influenti fotografi
italiani del Novecento.
A trent’anni dalla scomparsa, a lui
è dedicato il documentario Infinito. L’universo di Luigi
Ghirri del regista Matteo Parisini
(Il nostro Paese, La mia virgola) e con la voce di
Stefano Accorsi.
Consacratosi con la Palma
d’Oro al Festival
di Cannes nel 2018 con Un affare di
famiglia, il regista giapponese Hirokazu Kore’eda ha poi deciso nel
2019 di uscire dai confini del suo paese per recarsi in Francia e
girare lì Le
verità, un film da alcuni meno apprezzato
rispetto ai suoi altri, con il quale il regista si era però
misurato in modo interessante con una lingua e un modo di vivere le
emozioni molto differente da quello che gli è proprio. A tre anni
di distanza da quella prima volta fuori dal Giappone, Kore’eda
decide di replicare l’esperienza, spostandosi però in un territorio
a lui più vicino, quello della Corea del Sud. È qui che gira
Le buone stelle – Broker.
Presentato in Concorso al Festival
di Cannes di quest’anno, dove l’attore Song
Kang-ho (lo stesso di Parasite) ha vinto il
premio per la miglior interpretazione, il nuovo film del maestro
giapponese si offre come un’ennesima variazione sul tema della
famiglia, da Kore’eda esplorata con sfumature diverse sin dal suo
folgorante esordio nel 1995 con Maborosi. A tale elemento
tematico, però, si aggiungono alcune novità, specialmente a livello
di impostazione narrativa, che permettono a Le buone stelle –
Broker di risultare un’opera familiare e al contempo
imprevedibile. Kore’eda esce stavolta dalle mura casalinghe dove la
maggior parte dei suoi film si svolgono per rivolgersi invece al
viaggio, sia fisico che esistenziale.
Lo spunto per il suo nuovo film
nasce infatti dalla sempre più diffusa pratica nella Corea del Sud
della Baby Box, ovvero dei luoghi dove i genitori che non possono
(o non vogliono) più tenere con sé i propri figli hanno modo di
lasciare i loro neonati, sapendo che verranno presi in custodia da
chi, idealmente, potrà offrire loro un futuro migliore.
Sang-hyeon e Dong-soo, due
mercanti di bambini, entrano proprio così in possesso di un neonato
abbandonato dalla giovane madre single So-young.
Insieme a lei, parzialmente tornata sui suoi passi, tenteranno di
vendere il bambino a due nuovi genitori, intraprendendo così quel
viaggio che permetterà loro di scoprire il valore della
famiglia.
Viaggio di famiglia con
tempesta
Il regista giapponese, da molti
considerato l’erede di Yasujiro Ozu per il modo in
cui affronta il tema della famiglia, sembra realizzare con questo
suo nuovo film una sorta di sequel spirituale proprio di
Un affare di famiglia. I protagonisti di
quel lungometraggio sono dei ladruncoli che avevano dato vita ad un
nucleo famigliare auto-costituito, non caratterizzato cioè da
legami di sangue quanto piuttosto affettivi. Ognuno di quei
personaggi, a modo suo, commetteva atti che andavano contro la
legge, perseguendo però ragioni del cuore ben più profonde. Anche
in questo caso, i protagonisti di Le buone stelle – Broker
sono persone discutibili, intente a compiere azioni tutt’altro che
lecite ma giustificate da un presunto buon fine.
In un primo momento, dunque, ci si
può comprensibilmente trovare in difficoltà ad entrare in sintonia
con questi personaggi, non essendo chiaro quanto realmente ciò che
fanno sia a fin di bene. Kore’eda non sembra affatto preoccupato da
tale dinamica, ma anzi calca la mano su quanto la situazione che si
viene a generare sia controversa. Ciò porta ad avere una prima ora
del film caratterizzata da un certo distacco e diffidenza, che sono
poi le stesse sensazioni che i personaggi provano reciprocamente
tra di loro. Costretti a stare insieme nel tragitto tra Busan e
Seul, i tre adulti più un bambino e il neonato da vendere vedranno
però accadere ciò che accade sempre durante un viaggio: una
trasformazione esistenziale.
La famiglia che ti scegli
Nel momento in cui i loro cuori
iniziano a schiudersi, ciò accade anche al film, il quale svela il
proprio ai suoi spettatori. Più i personaggi si raccontano, si
smontano di ogni preconcetto e si privano di ogni segreto, più il
ritmo rallenta, concentrandosi quella dimensione intima ed
esistenzialista che Kore’eda è un maestro nel mettere in scena. È
in questa seconda metà del film che fuori escono tutte le
riflessioni sul significato di famiglia, di genitorialità e, in
particolare, sul conflitto tra il voler essere dei genitori e
l’incapacità di esserlo davvero. Un’incapacità che è però anche in
questo caso la conseguenza di un contesto sociale sempre più
individualista, che non protegge i propri membri.
Tale dinamica è in particolare
esplicitata dalla presenza delle due detective intente ad osservare
i movimenti del gruppo per coglierli in flagrante e arrestarli. Si
tratta di due personaggi che incarnano quella legge cieca a
determinate dinamiche e unicamente motivata a punire ogni
infrazione, senza valutare gli elementi di contorno. Quella legge
che, come avvenuto anche in Un affare di famiglia,
riporta il racconto ad una dimensione particolarmente cupa e
soffocante. L’elemento crime è in effetti particolarmente
presente all’interno di Le buone stelle – Broker, con una
serie di indagini portate avanti dalla polizia e che contribuiranno
a far emergere ulteriori scheletri nell’armadio dei
protagonisti.
La sceneggiatura di Kore’eda si
configura dunque come un continuo susseguirsi di elementi e generi
diversi tra loro, che si incastrano a meraviglia grazie alla
delicatezza con cui il tutto è narrato. Un lavoro di scrittura a
dir poco brillante il suo, che traspare anche grazie al controllo
con cui egli regola i toni del film, capace di passare dalla
commedia spensierata al dramma più puro. Con un impostazione di
regia come suo solito invisibile, discreta, che lascia parlare le
immagini, Kore’eda si divincola dal solito rischio di ripetersi per
regalarci un’opera che ancora una volta aggiunge qualcosa di nuovo
alla poetica, ribadendo però la bellezza delle tante sfumature che
una famiglia può possedere.
Dopo l’interessante esordio
registico Non conosci Papicha (2019),
Monia Meddour torna a lavorare con la splendida
Lyna Khoudri in Houria,
presentato in anteprima alla Festa del
Cinema di Roma 2022 e che esplora ancora una volta la
condizione femminile nell’attuale Algeria, come i sogni e le
speranze delle donne che abitano questa terra – incanalate in un
feroce talento, per il fashion design in Papicha,
per la danza in Houria – debbano inevitabilmente
fare i conti con un’oppressione socio-politica fagocitante.
Houria: il rischio di un sogno
precario
Houria(Lyna Khoudri) è una giovane
ballerina che sogna di entrare nel corpo di ballo del Balletto
Algerino. Insieme alle sue compagne di corso e alla mamma
insegnante, sta preparando la coreografia per l’audizione che
dovrebbe aprirle la strada a un futuro poderoso, quanto il mare
verso cui si rivolge sempre dal terrazzo della sua palazzina,
perfezionando i passi di frangenti prelevati dal Lago dei Cigni.
Houria deve interpretareOdettema, mentre balla, ha lo sguardo daOdile: fermezza e chiarezza di intenti sono due
delle qualità principali che la nostra protagonista sarà chiamata a
mettere in primo piano quando un imprevisto, che assume la forma
del trauma, farà capire a Houria che non si balla soltanto con le
ali ai piedi ma, soprattutto, con la fluidità delle mani collegate
direttamente al nostro cuore.
Forse è proprio la parte più oscura
di Houria, la tendenza ad accogliere su di sè
l’intemperanza e la convinzione di Odile, esplicitate da un
cappuccio nero, che la condurrà oltre i limiti della parte di
Algeria che vorrebbe abbandonare, dove i cigni sono capre trattate
miseramente, carne da macello su cui scommettere, che dipendono
dalla volontà di uomini malvagiamente inscalfibili.
Il trauma diventa insegnamento
Ma come Odette parla sempre tramite
le proprie ali, anche quando non ha voce e non può svelare il
terribile incantesimo di cui è rimasta vittima, una volta che le
scarpette da punta non avvolgeranno più i piedi di
Houria, questa dovrà incanalare ogni sfumatura
ritmica – che avvolge la regia e anche il montaggio del film –
nella parte superiore del corpo. Scrivere con le proprie mani,
stabilire un confine il più lontano possibile per chi non vuole
smettere di sognare, anche quando l’occasione più importante della
propria vita ci è appena scivolata tra le dita. Entrando in
contatto con altre mani, altre storie da accogliere con premura, le
donne di Houria cercano di sbloccare un nuovo
livello di accessibilità, in cui l’insegnamento diventa viatico di
accoglienza, la paura innerva la creatività e le onde vengono
tracciate dalle braccia, innalzando canti di gioia e dolore nei
confronti di un oceano che, in un qualche modo, si deve
affrontare.
Le donne di Houria hanno
conosciuto in diversa misura il trauma; nessuna ne è esente ed è
proprio nella difficoltà di adattarsi a un percorso indesiderato
che suggellano un patto di alleanza tersicoreo, facendo proprio un
linguaggio anticonvenzionale, che dal singolo talento si estende al
gruppo. La danza di Houria diventa coreografia di e per
tutte queste donne, le avvolge con la fluidità delle carezze che si
scambiano silenziosamente, forse incerte nei riguardi del domani,
ma sempre in prima linea nel quotidiano, perchè il futuro si
costruisce allenandosi.
Houria è donna
La regia di Mounia
Meddour cavalca le onde di una danza inarrestabile,
assecondando il tempo di recupero della sua protagonista,
combinando il background professionale della
Khoudri – che è stata ballerina – alla sua urgenza
creativa. Da “maestra”, coordinatrice di un quadro tecnico e
narrativo, Mounia Meddour diventa compagna di viaggio, si mescola
alle sue donne per navigare nelle stesse acque, per rivaleggiare
contro chi le vuole abbattere ma non sa che, proprio nella
sopportazione, la danza diventa resilienza.
La regista consegna piccole parti di
se alle donne che accompagnano Houria: è
contemporaneamente madre, insegnante di una professione che diventa
vita; è amica, solidale e intraprendente; è un gruppo di donne,
eterogenee e allo stesso unicuum inossidabile, che parla danzando e
danza vivendo. Houria è un viaggio dagli intenti
chiarissimi, che trasforma il movimento vocale in una
nuova idea di gineceo, in cui si urla a gran voce solo dopo aver
ascoltato con fierezza la canzone del mare.
Poker
Face: una canzone, un meme, uno stile di vita, ora
anche un film diretto e interpretato dal premio Oscar Russell Crowe.
L’attore celebre per film come Il gladiatore, A Beautiful Mind e
Cinderella Man torna infatti dietro la macchina da presa a
otto anni di distanza da The Water Diviner per
dirigere una storia da lui anche scritta, che mescola dramma
esistenziale a thriller psicologico, sfociando, tra le altre cose,
anche nel cosiddetto home invasion. Dinanzi a
tutto ciò, la celebre “poker face“, ovvero la faccia priva
di qualsiasi espressione interpretabile, rischia di essere quella
che assumono gli spettatori al termine della visione.
Il film, presentato nell’ambito di
Alice nella Città, sezione parallela e autonoma
della Festa del Cinema, narra di
Jake Foley, un giocatore d’azzardo miliardario, il
quale offre ai suoi migliori amici d’infanzia la possibilità di
vincere più denaro di quanto abbiano mai sognato. In cambio, però,
dovranno rinunciare a ciò che hanno protetto per tutta la vita: i
loro segreti. Nel corso della serata in cui tutti loro si giocano
quanto hanno di più caro, però, una serie di imprevisti vanno in
scena e i piani di Foley devono prontamente essere riarrangiati,
per il bene di tutti.
Un film dalle tante direzioni
La cosa che colpisce più di tutto di
Poker Face è quanto possa rivelarsi un film disorientante.
Non è certo se l’intenzione di Crowe fosse proprio quella di
trasmettere questa sensazione, che è sostanzialmente quella che
prova anche il suo personaggio, ma i tanti elementi narrativi,
stilistici e tematici introdotti nel corso del lungometraggio
finiscono proprio per far sentire lo spettatore piuttosto confuso
su quanto si sta vedendo. Il problema non è tanto la quantità e la
varietà di questi elementi, quanto il fatto che essi non riescano
mai, se non raramente, ad apparire coesi verso un unico fine.
Il film, come poi rivelato, è stato
ostacolato da una serie di problemi produttivi, tra cui il primo
lockdown che ha portato all’abbandono del regista inizialmente
chiamato a ricoprire tale ruolo. Crowe, dunque, si è trovato a
gestire un film partendo innanzitutto dalla riscrittura della
sceneggiatura, avvenuta come da lui raccontato in pochissimi
giorni. In particolare, l’attore si è concentrato sul trasformare
il film da un racconto d’azione ad uno incentrato sull’eredità che
lasciamo a quanti a noi vicini. Cambiamenti e incidenti di percorso
che certamente hanno influito sul risultato finale di Poker
Face, da Crowe descritto come la sfida più assurda mai
intrapresa.
Il poker, una metafora mancata
Guardando Poker Face viene
dunque naturale chiedersi come sarebbe potuto essere se Crowe
avesse avuto più tempo a disposizione per prendersene cura. Gli
elementi dedicati alla ricerca di un senso della vita da parte del
protagonista hanno un loro particolare fascino, ma finiscono con
l’evocare più di quanto poi riescano a concretizzare. Questo
continuo cambiare direzione, lasciando in sospeso quanto fino a
quel momento mostrato finisce naturalmente con il trasmettere una
certa frustrazione e la cosa non migliora nel momento in cui si
passa alle sequenze più propriamente d’azione.
Si tratta a questo punto di un
cambio di registro troppo drastico, troppo forzato, che si scontra
con quanto proposto fino a quel momento in un modo che non permette
di dar vita a nulla di buono. Il che è un peccato, perché si
affossa così un film già instabile, che nonostante qualche trovata
interessante (ad esempio il perverso gioco che si instaura tra
Foley e i suoi amici) finisce con il non trovare una propria anima.
A poco serve il fatto che Crowe vanti come sempre una presenza
scenica invidiabile e che il suo personaggio possegga elementi
psicologici interessanti.
In un’ultima analisi, non si può non
menzionare il fatto che il poker, forse l’unico elemento ricorrente
dall’inizio alla fine, non venga sfruttato come avrebbe meritato.
Poker Face poteva infatti fare di questo gioco di carte
una metafora della vita, accostamento certamente non nuovo ma
sempre affascinante. In realtà, il poker in sé ha una presenza
estremamente ridotta all’interno del film, cosa che non permette di
conferirgli il valore che avrebbe meritato. Specialmente visto
l’interesse di Crowe di parlare di come si giocano le carte della
propria vita. Mancando anche in questo, Poker Face manca
definitivamente nel trovare una propria voce.
Se Brado di
Kim Rossi Stuart fosse una canzone sarebbe
sicuramente Father & Son di Cat Stevens. Contenuta
nell’album “Tea for the
Tillerman” del 1970, la
canzone parla di un padre e un figlio che si confrontano in un
momento difficile per entrambi, quello del cambiamento. Il film,
che uscirà in sala dal 20 ottobre, è il terzo film da regista per
Kim Rossi Stuart e segna anche un passaggio di
testimone con i precedenti. I protagonisti, infatti, hanno nomi che
ritornano nelle sue pellicole quelli di Renato e Tommaso, questa
volta padre e figlio. Kim Rossi Stuart è Renato, un padre scontroso
che, come i personaggi dei film di Clint Eastwood, non si lascia andare
facilmente alle emozioni e tiene tutto dentro. E Saul
Nanni che interpreta Tommaso, un ragazzo cresciuto troppo
in fretta che, a differenza del padre, farà di tutto per esternare
i suoi sentimenti.
Brado, la
trama
Un figlio che non voleva più avere
niente a che fare con suo padre è costretto ad aiutarlo a mandare
avanti il ranch di famiglia dopo che questi si è fratturato alcune
ossa. I due si ritrovano per addestrare un cavallo recalcitrante e
portarlo a vincere una competizione di cross-country, ma allo
stesso tempo provano a sciogliere quel grumo di rabbia, ostilità,
rancore, che ha impedito loro per tanto tempo di essere vicini. È
un difficile percorso a ostacoli quello che deve compiere il
cavallo, ma anche quello che devono affrontare i due per
ricostruire l’amore e la vicinanza che avevano perduto. In questa
impresa li aiuterà un’addestratrice di cavalli, di cui il giovane
si innamora.
Quella
di Brado è una storia d’amore tormentata che
segue padre e figlio in un rapporto apparentemente ai ferri corti.
Il film è un adattamento del suo romanzo Le guarigioni, tema
centrale nel film. Si parla di guarigione dei rapporti, di cucire
le vecchie ferite e mettere da parte i vecchi rancori. Così nasce
la contrapposizione simbolica tra il cavallo, Travor, e Renato. Due
bestie indomabili che non accettano le costrizioni della società e
che vogliono vivere liberi. Tommaso, il figlio, cercherà di domare
entrambi ma per farlo dovrà lasciarsi andare e mettere via i vecchi
dissapori.
Barbora Bobulova nel film Brado – Foto di Claudio
Iannone
Il rapporto
padre-figlio
Un’infanzia tormentata e difficile
quella che ha vissuto Tommaso in Brado, sobbarcandosi i problemi
del padre. I due avevano tagliato i ponti da parecchi anni e un
incidente di percorso li ha rimessi sullo stesso cammino. Travor,
il cavallo imbizzarrito, farà da veicolo per esternare le paure e
le debolezze laddove entrambi non riescono a trovare le parole
giuste. Ma i due “cowboy” sanno anche dialogare in silenzio e con
gli sguardi. Tommaso guarda Renato quasi con orrore perché è
l’unico che riesca davvero a guardargli dentro. Ma padre e figlio
sono due facce della stessa medaglia, eppure rimangono comunque
così distanti. Renato, il cavallo pazzo, capace di prendere le
decisioni più brutali. Tommaso, il giovane domatore, che cerca di
riuscire a portare a termine la sua impresa.
Ma da conflitto, dal caos che regna
nella loro disfunzionale famiglia, nasce qualcosa di buono. Nasce
un piccolo germoglio nel rapporto tra Travor e Tommaso in grado di
pompare sangue anche al cuore malandato del buon Renato. Cresciuto
nel suo ranch, Brado, Renato diventa arido di sentimenti, che ha
dovuto sopprimere per paura di non essere corrisposto. Dopo la fine
del matrimonio con Barbora Bobulova, che
interpreta ancora una volta il ruolo di moglie di Kim Rossi Stuart nel grande schermo, ha chiuso
il portone di legno del suo ranch, sconfitto. Il declino lento e
inesorabile lo conduce verso una strada a senso unico:
l’autodistruzione. Sarà proprio questa tendenza che darà il via al
film per far riscoprire a padre e figlio gli anni persi e le
occasioni perdute.
Terra e aria
Quando Tommaso ha lasciato il ranch,
Brado, del padre per vivere la sua vita lo ha fatto per cercare sé
stesso, la sua vera identità. Cercando sé stesso ha dovuto, per un
momento, abbandonare le sue radici e la sua terra. Si trasferisce
in città, nella metropoli, dove trova un lavoro nell’edilizia
acrobatica. L’Aria diventa il suo nuovo elemento dove trovare un
nuovo modo di vivere. L’Aria si contrappone alla Terra, al ranch di
Renato. Ancora una volta padre e figlio, terra e aria, si
scontrano. La libertà è il fattore che li accomuna. Renato che vive
nella terra, nel suo letame, nella vita che si è scelto e che non
hai mai rinnegato, libero di poter galoppare contro vento al chiaro
di luna. Tommaso appeso a un filo di una palafitta con il vento,
freddo, che batte sul viso guarda tutti dall’alto della sua
imbracatura. Terra e Aria impareranno a vivere insieme, a domarsi
come due cavalli imbizzarriti.
Nel finale – che riprende il finale
del film Million Dollar Baby – nel sorriso di Renato
c’è tutta la pace interiore, la serenità con cui un padre guarda il
figlio, come se fosse la prima volta. E così, come in
Father & Son, Brado
inquadra uno scambio straziante tra un padre che non capisce il
desiderio di un figlio di allontanarsi e di crearsi una nuova vita,
e il figlio che non può davvero abbandonare le sue radici, la sua
terra.
Sanctuary parla
di potere, di possesso, di controllo, lo fa attraverso il
racconto della relazione tra Rebecca, una dominatrice di
professione, e Hal, suo cliente. Il loro rapporto però potrebbe
essere minato, subire delle modifiche a causa della loro natura,
terribilmente umana, imperfetta e imprevedibile.
A raccontare la storia c’è
Zachary Wigon, al suo secondo lungometraggio, che
abbiamo incontrato in occasione della Festa del Cinema
di Roma 2022, dove ha presentato il suo film. E partiamo dunque
dal titolo:
Sanctuary è “il santuario”, un “luogo in cui ci si
sente al sicuro dalle pressioni esterne – dichiara il regista – E
tutto il film è ambientato in uno spazio interno, circoscritto, per
questo doveva essere un luogo sicuro, anche nel titolo.”
Sanctuary racconta anche di un gioco
di ruolo, che è una pratica molto simile a ciò che fanno gli attori
in scena e al criterio intorno a cui ruota tutta la macchina del
narrare storie al cinema.
“L’idea centrale di
partenza in fase di scrittura era quella di considerare il fatto
che a volte siamo in grado di avere accesso ad una versione di noi
più vera attraverso il gioco rispetto a quanto non accada nella
vita reale. È un concetto che ha sempre trovato molta risonanza in
me – ha spiegato Wigon– Penso a
David Bowie che aveva dichiarato che si sentiva più se stesso
mascherato da Ziggy Stardust rispetto a quando era se stesso nella
vita reale. Queste erano alcune delle considerazioni nella mia
mente mentre lavoravamo alla storia. In merito ai giochi di ruolo e
al rapporto con la recitazione è che non credo sia il mio ruolo
stabilire di cosa parla il film, ma credo che ci siano delle linee
comuni tra il giocare di ruolo e il recitare.”
La genesi del progetto si
deve a una serie di conversazioni che il regista ha avuto con Micah
Bloomberg, lo sceneggiatore. “Ci siamo chiesti sin dall’inizio
chi sarebbero stati Hal e Rebecca, che caratteristiche avrebbero
avuto e come avrebbero reagito a determinate cose. Da questo
confronto è nata la sceneggiatura e la definizione dei personaggi e
solo con lo script tra le mani siamo andati da Christopher Abbott e
Margaret Qualley.”
Sanctuary gioca moltissimo con i toni e con i generi.
Sebbene si ascriva da subito alla categoria del thriller
psicologico-erotico, si rivela presto come un’interessante
commistione di generi, sfociando addirittura nella commedia
romantica.
Questo accade, secondo
Wigon, perché la commedia e il thriller sono due
generi connessi, che si parlano in diversi momenti della storia del
cinema e che lui voleva cucire insieme: “Credo che ci sia un
tessuto comune tra screwball
comedy e thriller psicologico-erotici e credo che la cosa più
interessante per questo film sia stata cavalcare proprio questo
confine. Volevamo fare di Sanctuary una corsa sulle montagne russe,
in modo tale da creare appeal per il pubblico e generare una serie
varia di emozioni.”
Il film si avvale di una messa in
scena molto particolare e distintiva, una sola suite d’albergo, con
più ambienti, con pochissime finestre, sempre tenute chiuse e
pareti dai colori molto saturi. Così racconta le scelte stilistiche
di fotografia e scenografia Wigon:“Quello che
volevo dall’inizio era trovare un posto in cui non ci fossero
troppe finestre. Negli USA è comune per gli alberghi moderni avere
intere pareti di vetrate, ma con tante finestre si perde il senso
di claustrofobia che volevo mantenere per tutta la storia. Quindi
la mancanza di finestre era una caratteristica precisa che
cercavo.
Poi avevo ben presente il fatto
che un film ambientato solo in una stanza d’albergo doveva poter
scivolare tra le parti di questa stanza in maniera organica, perché
mantenere invariata la stessa location avrebbe reso il film noioso.
Ero consapevole quindi che dovevo creare una progressione tra gli
spazi e le stanze in cui i due personaggi agivano. È stata una
scelta deliberata quella di farli spostare costantemente tra le
stanze della suite. Sapevo anche che tutto dovesse essere
intensamente colorato. La suite è lo specchio di una sensibilità
molto intensa, e per rappresentare questo elemento visivamente,
doveva essere tutto molto saturo, e così i colori delle pareti e
della luce sono così intensi.”
Un risultato raggiunto grazie al
contributo decisivo di Ludovica Isidori,
direttrice della fotografia, che è riuscita a far dialogare la luce
del film con le intenzioni artistiche del regista in maniera
splendida, contribuendo a fare di
Sanctuary un piccolo gioiello, che arriverà
prossimamente nelle sale italiane distribuito da I Wonder
Pictures.
Netflix rilascia le prime
immaginidella
quinta stagionedi The
Crown, che debutterà il9 novembrein tutti i Paesi in
cui il servizio è attivo con un nuovo cast guidato daImelda Stauntonnel ruolo dellaRegina Elisabetta
II.
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70202617.ARW
Con l’inizio del nuovo decennio, la Famiglia Reale si trova davanti
alla più grande sfida mai affrontata mentre il pubblico mette in
dubbio apertamente il suo ruolo nella Gran Bretagna degli anni
‘90.
Questo turbolento decennio per la Famiglia Reale è stato ben
documentato e interpretato da giornalisti, biografi e storici. Come
spiega
Elizabeth Debicki,
nel ruolo della
Principessa Diana,
“Questa è la cosa incredibile di interpretare queste persone in
questo momento, perché nel viaggio diThe
Crown,
tra tutte le stagioni, la quinta è il contenuto visivamente più
fedele che abbiamo della Famiglia Reale. Negli anni ‘90 si è
cominciato a filmare tutto, anche con la nascita dei canali di
notizie attivi 24 ore su 24, quindi c’è proprio questa incredibile
quantità di contenuti a cui abbiamo accesso”.
Essendo questo l’ultimo cambio di cast,
Dominic West
(Principe
Carlo)
spiega: “Penso che la gente capisca, essendo il cast cambiato ogni
due stagioni, che questa non è un’imitazione. Questa è l’evocazione
di un personaggio”.
Mentre
Imelda Staunton
(Regina
Elisabetta II)
spera che, come il suo personaggio, abbia fatto il suo dovere nei
confronti del pubblico: “Il bello, e spero di non dimostrare che si
sbagliavano, è che le persone hanno detto: ‘Non vedo l’ora di
vederla interpretare la regina’. Quindi, speriamo solo che funzioni
per loro, perché ormai l’ho fatto. Non posso farci niente
adesso!”.
The
Crown è creata e scritta da
Peter Morgan.
I produttori esecutivi sono
Peter Morgan,
Suzanne Mackie,
Andy Harries,
Stephen Daldry,
Matthew Byam Shaw,
Robert Fox
e
Jessica Hobbs.
Il cast include
Imelda Staunton
(Regina Elisabetta II),
Jonathan Pryce
(Principe Filippo),
Lesley Manville
(Principessa Margaret), Dominic West (Principe
Carlo), Elizabeth Debicki (Principessa
Diana),
Claudia Harrison
(Principessa Anne) e
Olivia Williams
(Camilla Parker Bowles).
Jonny Lee Miller
interpreta John Major,
Salim Daw
interpreta Mohamed Al Fayed e
Khalid Abdalla
interpreta Dodi Fayed.
The Crown 5, la trama
Prossima al 40° anniversario della sua ascesa al trono, la Regina
Elisabetta II (Imelda Staunton) riflette su un regno che ha incluso
nove primi ministri, l’avvento della televisione per le masse e il
tramonto dell’Impero britannico. Ma nuove sfide si delineano
all’orizzonte. Il crollo dell’Unione Sovietica e il trasferimento
della sovranità di Hong Kong segnalano un cambiamento radicale
nell’ordine internazionale e presentano sfide e opportunità alla
Monarchia… ma nuovi problemi emergono non lontano da
casa.
Il Principe Carlo (Dominic West) spinge la madre
ad acconsentire al divorzio con Diana (Elizabeth
Debicki), gettando le basi per una crisi costituzionale
della Monarchia. La vita sempre più separata tra marito e moglie
alimenta numerosi pettegolezzi. Quando lo scrutinio dei media si
intensifica, Diana decide di prendere il controllo della situazione
e infrange le regole familiari pubblicando un libro che minaccia il
sostegno di Carlo da parte dell’opinione pubblica ed espone le
divergenze all’interno del Casato di Windsor.
Le tensioni salgono quando entra in scena
Mohamed Al Fayed
(Salim
Daw)
che, spinto dal desiderio di essere accettato dalla nobiltà,
sfrutta il patrimonio e il potere che si è guadagnato da solo per
ottenere un posto alla tavola reale per lui e per il figlio Dodi
(Khalid
Abdalla).
Nella Milano del 1945, sul finire
della guerra, un losco imprenditore e la sua ragazza formano una
banda di disadattati e furfanti per poter organizzare un elaborato
furto ed impossessarsi di un leggendario tesoro, nascosto da
Mussolini in città.
Noomi Rapace riceverà il Premio Progressive
alla Carriera nel corso della diciassettesima edizione della
Festa del Cinema di Roma. Lo annuncia la
Direttrice Artistica Paola Malanga, in accordo con
Gian Luca Farinelli, Presidente della Fondazione
Cinema per Roma, e Francesca Via, Direttrice
Generale.
La premiazione si terrà oggi,
domenica 16 ottobre alle ore 19.30, presso la Sala Sinopoli
dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone, in occasione
dell’anteprima mondiale della
serie Django, prodotta da Sky e
Cattleya con Atlantique Production e Canal+, diretta da
Francesca Comencini, nella quale Noomi Rapace interpreta il ruolo della potente
e spietata Elizabeth Thurman.
Il riconoscimento sarà consegnato
dalla regista e fumettista iraniana Marjane
Satrapi, presidente della giuria del Concorso Progressive
Cinema.
Ecco il trailer italiano di
My Policeman, diretto da Michael
Grandage, scritto da Ron Nyswaner e
basato sul romanzo di Bethan Roberts. Il film,
prodotto da Greg Berlanti, Sarah Schechter, Robbie Rogers,
Cora Palfrey e Philip Herd vede in veste
di Executive Producer Michael Grandage, Michael Riley
McGrath, Caroline Levy, mentre nel cast ci
sono Harry
Styles,
Emma Corrin, Gina McKee, Linus Roache, David Dawson e
Rupert Everett.
My Policeman, la trama
La bellissima storia di un amore
proibito e del cambiamento delle convenzioni sociali, My
Policeman segue tre ragazzi – il poliziotto Tom (Harry
Styles), l’insegnante Marion (Emma Corrin) e il curatore di un
museo Patrick (David Dawson) – durante un viaggio emozionante nella
Gran Bretagna degli anni ’50. Negli anni ’90, Tom (Linus Roache),
Marion (Gina McKee) e Patrick (Rupert Everett) sono ancora in preda
al desiderio e al rimpianto, ma ora hanno un’ultima possibilità di
riparare i danni del passato. Basato sul romanzo di Bethan Roberts,
il regista Michael Grandage realizza un ritratto visivamente
commovente di tre persone coinvolte nelle mutevoli maree della
storia, della libertà e del perdono.
My Policeman arriverà su Prime Video il 4 novembre.
“Gli organizzatori di questo
evento hanno un’idea ben precisa di come dovrebbe svolgersi la
cosa. Dovremmo starcene qui a guardare spezzoni dei miei film per
poi commentarli. Niente di tutto ciò accadrà”. È un
Russell Crowe euforico quello che si presenta
all’annunciata masterclass a lui dedicata e organizzata da
Alice nella Città, sezione parallela e autonoma
della Festa del Cinema di Roma. L’attore, accolto
da una calorosa ovazione, racconta di essere venuto nella capitale
italiana non solo per presentare il suo nuovo film da regista,
Poker Face, ma anche
per incontrare e parlare con gli studenti di cinema, ed è
letteralmente questo che intende fare nel corso dell’evento.
Microfono alla mano, Crowe scende
dunque dal palco e dà vita ad un incontro che infrange ogni
possibile scaletta e prevedibilità, passeggiando amabilmente tra i
tanti spettatori presenti nell’Auditorium della Conciliazione,
raccontando episodi significativi della propria vita con la sua
solita voce calda, profonda e ben modulata e poi passando
personalmente il microfono ai presenti quando qualcuno di questi
(ma solo se effettivamente studenti di cinema, chiede lui) vuole
porgli una domanda. “Voglio parlare di cinema, parlare di
narrazione, dello stare davanti o dietro la macchina da presa.
– chiarisce Crowe – Non voglio ricevere domande del tipo cosa
ho mangiato a colazione”.
Russell Crowe, dai primi ruoli ai
film da protagonista
“Ho cominciato a recitare che
avevo solo sei anni. – inizia dunque a raccontare l’attore –
Era il 1970. Mia mamma si occupava del catering sui set
cinematografici. Un giorno vado a trovarla sul lavoro e stavano
girando una scena per cui non c’erano bambini a sufficienza. Così
mia madre mi fece recitare e da lì è iniziato un percorso di vita
che porto avanti ancora oggi. Non ho mai frequentato una scuola di
recitazione, tutto quello che so l’ho imparato sul lavoro,
recitando per la televisione e il teatro ma mantenendomi lavorando
come DJ, barman e cameriere”.
“Ero ossessionato dalla
performance. – continua l’attore – Passavo dal palco del
teatro alla console da deejay di un pub all’altro. Dunque, questo
sono io. Questa è la realtà. Non sono venuto fuori da nessuna
fottuta Hollywood o roba del genere. Quando avevo 25 anni, infine,
è arrivato il mio primo ingaggio per un lungometraggio. Diventare
un attore protagonista però non mi ha fermato dal seguire anche la
passione per il teatro e la musica. Le persone tendono a dire che
bisogna concentrarsi su una cosa sola… non ascoltate queste
stronzate. Accettate ciò chi siete davvero. Chi sa di avere una
passione, non deve lasciarla andare.”
Da Il gladiatore a
Noah, i ruoli più iconici di Russell Crowe
Crowe inizia poi a rispondere alle
domande del pubblico, le prime delle quali sono dedicate ai segreti
del mestiere dell’attore. “Il lavoro dell’attore non è
semplice. – racconta Crowe – Personalmente vivo delusioni
su base quotidiana. Ogni volta che recito una scena, poi torno a
casa, ci ripenso e se mi viene in mente un modo migliore in cui
avrei potuto interpretare quella scena, ecco che sono deluso da me
stesso. Accade ogni volta e posso solo conviverci. Ma l’importante
è compiacere il regista, la sua visione, e se ti chiede una cosa tu
devi dargli precisamente quella cosa.”
“Io sono stato fortunato nel
saper dare a Ridley Scott
ciò che egli voleva sul set di Il gladiatore.
Allo stesso tempo non si può essere totalmente senza controllo.
L’attore è il burattinaio di sé stesso, deve sapere come
controllarsi per raggiungere un determinato obiettivo. Ad esempio,
proprio sul set di Il gladiatore Scott mi chiese di tirar fuori una
serie di emozioni particolarmente forti nel momento in cui Massimo
Decimo Meridio vede il corpo di sua moglie morta. Per riuscirci ho
dovuto far affidamento a tutto il mio autocontrollo, un’esperienza
estremamente difficile e dolorosa. A ripresa ultimata ero stremato
e Scott estremamente soddisfatto, solo che poi mi ha chiesto di
ripetere il tutto ancora una volta”.
Foto tratta dal profilo Instagram di Alice nella
Città.
“Per quanto riguarda il ruolo
più complesso che abbia mai dovuto affrontare, – continua poi
l’attore – questo è sicuramente quello di John NashinA BeautifulMind. Dovevamo mostrare i numerosi
tic che il personaggio sviluppa al peggiorare della sua malattia e
così sono arrivato al punto in cui mentre recitavo dovevo
ricordarmi di mostrare tutti e 16 i suoi tic. Da un punto di vista
fisico, invece, certamente Noah è stato un
film molto complesso. Abbiamo girato per 70 giorni e la metà di
questi eravamo sotto la pioggia artificiale, con un freddo estremo
e in più dovevi recitare le tue battute”.
“Prima parlavamo di delusioni,
– conclude poi Crowe – Les
Miserablesè ad esempio un film di cui sono
deluso. Chiariamoci, l’esperienza è stata straordinaria, recitare
in quel cast magnifico e potersi mettere alla prova con il canto.
Il film in sé mi piace molto, ciò che non mi piace è il modo in cui
è stato trattato il mio personaggio. Al montaggio hanno tagliato
molte cose ed è venuto fuori qualcosa che non riconoscevo più come
mio. All’anteprima di New York ho lasciato la sala per questo
motivo, ero troppo deluso”.
Russell Crowe: un attore devoto ai dialoghi
In conclusione dell’incontro, a
Crowe viene chiesto cos’è che lo motiva nello scegliere un ruolo
piuttosto che un altro e l’attore non ha dubbi: i dialoghi. “Io
amo i dialoghi. Mi innamoro delle battute che devo recitare. Non
importa se questo comporta doversi alzare alle quattro del mattino
a patto che io poi possa avere la possibilità di dire le battute di
cui mi sono innamorato. Ciò non vuol dire che il mio personaggio
debba essere necessariamente il protagonista. Posso avere anche
solo due battute in tutto il film, ma quelle battute devono essere
oro.Naturalmente mi interessa anche che la storia sia
buona, ma fondamentalmente sono uno che per un buon dialogo si
venderebbe”.
L’apertura delle porte
di Palazzo Ducale con l’inaugurazione
delle prime mostre –sabato 15 ottobre
alle 17.00 – dà il via al primo atto
di HOPE, l’edizione 2022 di Lucca Comics & Games.
Percorsi artistici totalmente inediti
accoglieranno fino al 1° novembre i
visitatori di ogni età, accompagnandoli alla scoperta di mondi che
toccano tutte le corde dell’immaginario, unite dal filo conduttore
del tema ispiratore di questa edizione, la Speranza.
Quella Speranza che uno dei maestri
assoluti dell’imaginative realism, dell’illustrazione
fantastica – l’artista canadese Ted
Nasmith – ha trasformato in Hope, la Dama
dell’Aurora, simbolo di questa edizione del festival. E
proprio nella loggia dell’Ammannati si svilupperà l’esposizione a
lui dedicata, un percorso che celebra il suo dialogo tra luoghi e
storie del grande fantastico, arricchite dalle potenti influenze
dai paesaggi del luminismo americano e della pittura vittoriana del
diciannovesimo secolo. Ma Hope è anche l’ideale antitesi ai
pregiudizi e ai tabù, che Mirka
Andolfo esprime sin dai suoi primi webcomic per
arrivare poi alla sua affermazione come autrice
con Contronatura, Mercy e Sweet Paprika; così come
la capacità di Chris Riddell, il cui occhio
critico sull’attualità si unisce alla capacità di raccontare
storie alle nuove generazioni. E ancora uno spazio dedicato alle
intuizioni grafiche e narrative della prosa a fumetti con
cui Giacomo Nanni porta avanti la sua
personale, e a volte eccentrica, indagine sulla realtà. Non manca
un prezioso contributo dal Giappone con Atsushi
Ohkubo, in un percorso curato da Alessandro Apreda aka
DocManhattan sul sensei di Soul Eater e Fire Force. Quest’anno
la principale sede espositiva del festival presenta anche
un’assoluta novità: uno dei percorsi sarà infatti dedicato non al
fumetto o al mondo dell’illustrazione per bambini e ragazzi ma alle
opere di un autore di giochi. E il game-designer di cui raccontare
il mondo, la vita, le opere non poteva che essere Alex
Randolph, nell’anno del centesimo anniversario della sua
nascita. Infine, nell’ideale commistione tra linguaggi e forme
espressive che caratterizza Lucca Comics & Games, non poteva
mancare una celebrazione dell’opera che quest’anno sarà al centro
dell’inedito spettacolo di Graphic Novel
Theater Celestia, tratto dallo straordinario lavoro
di Manuele Fior.
Il 28
ottobre sarà inoltre inaugurata una serie di
mostre che abbraccia tutte le anime del festival e che porterà i
visitatori ad esplorare nuovi universi visivi: la Chiesa di San
Cristoforo ospiterà POP SALANI – 160 anni di libri,
cultura e fantasia a cura di Giorgio Bacci (ingresso
gratuito fino al 06/11), mentre il Palazzo delle Esposizioni aprirà
le sue porte al mondo di Manga: Love & Other
Stories, a cura di J-POP Manga e Lucca Comics & Games, e
di Castelli & Friends, a cura di Alex
Dante e Lucca Comics & Games (ingresso con
biglietto del festival). La Chiesa dei Servi, aperta al pubblico,
custodirà le tavole di Corrado Roi: Diabolik, chi
sei? a cura di Mauro Bruni e de Lo Scarabeo; mentre
la Chiesa di San Franceschetto sarà l’ideale location
di Atari 50 – Storia dell’azienda che ha inventato i
videogame a cura di Fabio Viola (ingresso gratuito).
Il sotterraneo del Baluardo San Pietro – anch’esso a ingresso
libero – ci farà esplorare il futuro con il Multiverse
of Metaverses, a cura di Daniele Luchi. Il Padiglione
Carducci, accessibile con il biglietto del festival, accoglierà
invece John Blanche – Within the Woods a
cura di Tiziano Antognozzi, e Wild Boys of Eternia: 40
Litghyears Ago, from Eternia to Lucca Comics & Gamesa
cura di Dimitri Galli Rohl. Nella Casa del Boia ci immergeremo
invece nel mondo di Mario + Rabbids: Sparks of
Hope acura di Ubisoft Milan (ingresso con biglietto
del festival). In una delle aree più amate dal pubblico di Lucca Comics & Games, la Self Area
in Biblioteca Agorà (a ingresso libero), omaggeremo l’amico Andrea
Paggiaro e le sue opere con Anni di Tuono – Dalle
autoproduzioni ai “Giorni di Tuono”, a cura della
Fondazione Tuono Pettinato. Il Real Collegio, tornato Family
Palace, “casa” per eccellenza dei visitatori più giovani, darà
spazio alle opere del Premio di Illustrazione
Editoriale Livio Sossi – Mostra Concorso Lucca Junior
2022, a cura di Sarah Genovese,
a Fumetti dal mondo! – Comics & Graphic Novel per
ragazzi premiati al Bolognaragazzi Comics Award,
a cura di Bologna Children’s Book Fair, e
ad Annual AI 2022 – La mostra dei premiati,
a cura di AI – Associazione Autori di
Immagini. Ulteriori info sono disponibili nel sito del
festival.
Le mostre di Palazzo Ducale
(15 ottobre – 1° novembre)
Ted Nasmith – La Natura del Mito(a cura di
Chiara Codecà)
Autore del poster di Lucca Comics & Games 2022, fra i
massimi esponenti dell’arte fantasy, il canadese Ted Nasmith è
protagonista di una grande mostra il cui piatto forte sono le ormai
classiche illustrazioni dedicate all’universo tolkieniano,
affrontato con una peculiare sensibilità paesaggistica. Inoltre,
illustrazioni realizzate per la saga di George R. R.
Martin Cronache del ghiaccio e del fuoco e altre
innumerevoli meraviglie.
Chris Riddell – Schizzi,
scarabocchi e meraviglie(a cura di Roberto
Irace)
Autore per ragazzi, vignettista politico, illustratore e
straordinario creatore di mondi, sarà ospite a Lucca Comics & Games 2022 in
collaborazione con l’Editrice Il Castoro e sarà allestita una
mostra a Palazzo Ducale che ne celebrerà la prolifica carriera.
Mirka Andolfo – Eroine
di carta(a cura di Mauro Bruni)
Mirka Andolfo è la nuova star del fumetto italiano. Disegnatrice e
autrice, si è imposta in modo folgorante a partire
da Sacro/Profano (2013), caratterizzato da un
erotismo gioioso, sorretto da un tratto morbido e sensuale. È il
segno distintivo del suo stile, che dopo svariate collaborazioni
italiane e internazionali, la riporta alla ribalta col grande
successo di Sweet Paprika.
Atsushi Ohkubo – Anima
di fuoco(a cura di Alessandro Apreda)
Realizzata con la collaborazione di Panini, la mostra illustrerà,
attraverso una ricca selezione di tavole originali delle sue opere
più celebri, l’incredibile lavoro di world building che ha reso
celebre questo mangaka. Dalla caccia alle anime della Death City
di Soul Eater e del suo spin-off Soul
Eater Not!, ai pompieri pirocinetici di Fire
Force.
Alex Randolph, regista
di giochi(a cura di Andrea Angiolino e Tiziano
Antognozzi)
Una celebrazione in grande stile per ricordare il centenario della
nascita di Alex Randolph, con pezzi per la prima volta messi in
mostra in Italia ed illustrazioni inedite in anteprima assoluta in
collaborazione con il Deutsches Spielearchiv Nürnberg, Studio
Tapiro e Studio Giochi.
Giacomo Nanni, un altro
sguardo sul mondo(a cura di Giovanni
Russo)
Giacomo Nanni è uno dei fumettisti italiani più raffinati e
profondi. Con Atto di Dio (2018), premiato anche
ad Angoulême, ha prodotto uno dei migliori libri italiani degli
ultimi anni, una riflessione, laica e religiosa insieme,
sull’universo come portatore di un mistero radicale e sul ruolo
dell’uomo al suo interno. Col successivo Tutto è vero
(2021) approfondisce il suo sguardo esterno su un’umanità confusa e
sbandata, alle prese con le moderne paure del terrorismo e dello
scontro fra civiltà.
Graphic Novel Theater:
fumetti in carne e ossa(a cura di Lucca Comics & Games)
La mostra racconta la breve ma già significativa storia del Graphic
Novel Theater, concludendosi con un’anteprima del nuovo spettacolo,
dedicato a Celestia di Manuele Fior.
Trai titoli più
interessanti della Festa del
Cinema di Roma, fa capolino Sanctuary,
opera seconda di Zachary Wigon. Sono
scrigni silenziosi le pareti degli hotel. Con il loro intonaco più
o meno colorato, si ergono attorno a noi assorbendo ogni respiro,
percependo ogni emozione, facendosi custodi di segreti
inconfessabili, o momenti passeggeri. Tra le mura degli hotel dei
corpi si incontrano, altri si lasciano; le bocche si baciano, o i
cuori si spezzano.
Le mura della stanza di
hotel che accoglie
Rebecca e Hal in Sanctuary sono molto più
che sguardi discreti che osservano il gioco al massacro compiuto
dai due: sono sipari teatrali di un kammerspiel soffocante,
quinte imprigionanti di un palcoscenico dove nulla è come sembra, e
tutto appare per quel che non è. Entro i loro confini diventa quasi
impossibile stabilire il ruolo affidato e svolto dai due
protagonisti, entrambi schiavi di un continuo gioco all’inganno in
cui nessuno ne esce vincitore, ma solo prigioniero. Prigioniero
delle proprie maschere; prigioniero della propria
performance perpetuamente mutabile e in evoluzione.
Prigioniero dell’altro e di se stesso.
Sanctuary, la
trama
Interno: suite di un
albergo di lusso. Qui si incontrano un uomo sulla trentina e una
giovane avvocatessa chiamata per delle verifiche burocratiche. Lui
si chiama Hal Porterfield, erede di una catena di alberghi e
prossimo amministratore delegato di un impero milionario a seguito
della orte del padre. Lei è Rebecca, giovane aggressiva e
misteriosa, che nella vita non svolge il ruolo di avvocatessa,
bensì di dominatrice assunta dallo stesso Hal per testare la
propria tenuta psicologica sul lavoro. In un continuo gioco di
realtà e finzione, sarà difficile per entrambi – soprattutto per
Rebecca – scindere se stessi dal proprio personaggio, cambiando
continuamente i rapporti di forza fra cliente e padrone, dominatore
e dominato. Chi la spunterà?
Non c’è nulla di lineare
in Sanctuary. Nel film di Zachary
Wigon, il rapporto di dominio si stacca della propria
tangibilità fisica per elevarsi a una lotta psicologica dove ogni
pensiero viene ribaltato, ogni parola messa in discussione, per
creare nuovi pensieri, nuove realtà mentali in cui muoversi e
recitare nuove parti. Ne consegue un labirinto senza fine, dai
percorsi intrecciati e complicati, lungo i quali lo spettatore si
ritrova a vagare senza meta. Sottratto di ogni direzioni con cui
orientarsi, le uniche ancore a cui può affidarsi sono corpi di due
giovani che si attraggono e respingono, abbracciano e attaccano. Un
movimento continuo che destabilizza la visione, scaturendo un senso
di nausea per un’incapacità di comprensione di un rapporto
difficile da cogliere nel contesto logico e sentimentale. Rebecca e
Hal sono colti nei loto tentativi reciproci di dominio fisico e
psicologico, mentre tutto attorno crolla, perde le proprie base
razionali, lasciando in bocca un retrogusto di visione
perturbante.
Micce esplosive
È un santuario che di
sacro ha ben poco quello eretto da Wigon: a muoversi silente tra
gli inframezzi dei propri raccordi è adesso un effetto straniante
pronto a riflettersi e influenzare ogni singolo elemento in campo.
E se a dominare questo inafferrabile costrutto visivo è
un’irrequietezza sia del corpo, che della mente, a orchestrare
questa montagna russa perpetuamente in azione, non poteva essere
che una regia ancora più disorientante e mutabile. Da primi piani
affidati a grandangoli che distorcono i volti, tramutandoli in
maschere dell’angoscia, a carrellate improvvise, passando per
panoramiche a 360°, la macchina da presa di Wigon enfatizza ogni
senso di perdita razionale, traducendo visivamente due anime
fragili, incapaci di comprendere il proprio volere affidando alle
fragilità dell’altro un senso di rivalsa e fisico predominio.
Sarà nel momento dei
dialoghi, in quella creazione di nuovi contesti in cui inserirsi
con maschere nuove e sempre uguali, che la macchina da presa si
cristallizza mettendosi in pausa: immobile, lascia che il processo
di creazione e reciproco influenzamento mentale faccia il proprio
corso, ferma nell’attesa spasmodica di una miccia pronta di nuovo a
esplodere, dando vita a un ulteriore gioco al massacro psicologico,
tra recriminazioni, ricatti e bugie.
Un gioco al
massacro
“Dimmi che per te è
importante. Che non puoi viverne senza”. È un ritornello
ridondante, una cantilena ripetuta da entrambi i protagonisti di
Sanctuary, questa, una nenia recitata più per
autoconvincersi che qualcosa per cui vale la pena vivere esista per
davvero, che per pura asserzione. Nel microcosmo alberghiero di Hal
e Rebecca nulla pare valere davvero. Che siano 6 milioni di
dollari, un orologio prezioso, o una videocamera da scovare, la
posta in gioco per questi due personaggi cambia perpetuamente al
mutare del ricatto, sintomo che la vera mancanza per loro è da
ritrovarsi più profondamente nei meandri di anime incomprese e
incapaci di amare, che nella materialità di oggetti da distruggere.
E così, nell’arco di un solo spazio, quelli che si attaccano,
stuzzicano e uniscono, sono i corpi di mille maschere e diverse
personalità.
Una galleria psicotica
racchiusa nella cornice di due fisicità opposte, tra chi vuole
dominare e chi si lascia manipolare. Rebecca e Hal sono lo Yin e lo
Yang di una lotta continua, due pianeti che collidono senza
congiungersi mai. Ciò che rimane da questo conflitto di maschere
che cadono e altre che ritornano, è la perdita dell’umanità a
favore di un istinto animalesco misto a tossica interdipendenza.
Così come non possono fare a meno l’uno del potere fisico (ma anche
economico) dell’altra, Rebecca e Hal ricercano le fragilità altrui,
le sfruttano, per intelaiare una rete succuba di interdipendenza in
cui, tra stanze distrutte, e giochi mentali, tutto viene sconvolto
in una vertigine visiva lasciata scorrere lungo associazioni
mentali, e fotografie rosso fuoco, o blu glaciale.
Una, nessuna, centomila
maschere
In un mondo che tutto
cambia all’esternazione di parole che creano con fare divino, non
poteva esserci interprete migliore di Margaret Qualley per dar vita all’ipnotica, e
imprevedibile, Rebecca. Il volto dell’attrice è pura argilla da
modellare sulla forza di mille espressioni. È una mimica
volutamente caricata, la sua, che risponde in maniera coerente a un
universo cangiante e mai afferrabile come quello di
Sanctuary. Che sia l’imitazione del padre di Hal,
o la declamazione del giuramento alla bandiera americano, la sua
Rebecca è uno, nessuno e centomila sfumature di donna. La
modulazione della voce è, infatti, un ponte privilegiato attraverso
cui lasciar trasparire mille e altre personalità, facendo della
Qualley un’intensa presta-corpo di identità sfuggevoli e pensieri
complessi. Quello messo in campo dalla donna è un rifiuto netto di
mostrarsi statica e fissa nei confini di un determinato carattere;
una volontà che si ripercuote anche nel proprio corpo flessibile e
dinamico, perennemente in movimento come la sua mente in
elucubrazione.
Rebecca è, insomma, uno
tsunami inatteso pronto a ingoiare la terra ferma di un Hal
imprigionato in un’insicurezza che lo rende perfetta vittima del
gioco al dominio della donna, e preda manipolabile bloccata
sull’agire. È solo nel momento di vero terrore, preso dall’angoscia
di mostrarsi nelle forme delle proprie fobie e trasgressioni, che
Hal si tramuta in un fuoco che tutto arde e distrugge: ma le sue
fiamme sono facilmente domate dalle onde di
Rebecca, e così quell’incendio personale si
spegnerà ben presto all’ombra dell’ennesimo ricatto. Quella che
vive tra Hal e Rebecca è pertanto una costruzione psicologica dai
tratti dicotomici non solo ben delineata dallo sceneggiatore Micah
Bloomberg, ma soprattutto restituita in maniera impeccabile dai due
attori che si fanno riflesso speculare di un’altra,
indimenticabile, coppia del genere thriller come Laurence Olivier e
Joan Fontaine nel capolavoro di Alfred Hitchcock,
Rebecca.
Tanto nell’opera
hitchcockiana, che in quella delineata da Bloomberg in
Sanctuary, il potere va a braccetto con
l’ingenuità e la manipolazione, in una danza eterna che tutto
prende e decostruisce, fino all’esasperazione, fino alla nausea,
fino al dominio della mente e il soggiogamento del
corpo.
Dopo Victoria e Abdul, il celebre regista
inglese Stephen Frears torna a dirigere con The Lost
King, storia ispirata alla realtà, rocambolesca e appassionata,
tra commedia e dramma, di una comune signora borghese, Philippa
Langley, e di come sia riuscita a ingaggiare un gruppo di
archeologi e a finanziare gli scavi per cercare la tomba di re
Riccardo III. Il film fa parte della sezione Grand Public della
diciassettesima Festa del Cinema di Roma.
The Lost King, la
trama
Philippa Langley,
Sally
Hawkins, è un’impiegata di mezza età, divorziata dal
marito, Steve
Coogan, e con due figli. Dopo aver assistito a teatro
al Riccardo III shakespeariano, comincia a vedere il re
seduto su una panchina sotto casa sua. È spinta quindi da questa
presenza ad indagare meglio la figura del sovrano tra i più
discussi della storia inglese, da sempre dipinto come deforme,
malvagio e sanguinario, usurpatore del trono britannico. Leggendo e
confrontandosi con i membri della Richard III Society, di cui entra
a far parte, Philippa si convince che Riccardo III non fosse
affatto un sanguinario, e forse neppure gobbo, come lo descrivono
le cronache, e parte alla ricerca della sua tomba.
Il suo corpo, infatti,
non è stato ancora ritrovato. Con incrollabile determinazione
contatta gli enti locali e l’Università di Leicester, dove pensa si
trovi il corpo, affinché finanzino lo scavo. Philippa ha infatti
individuato un parcheggio dove, all’epoca del re, sorgeva la chiesa
di Greyfriars, poi demolita, accreditata da alcuni studiosi come
probabile luogo di sepoltura di Riccardo III. Vista la diffidenza
degli ambienti accademici, che la considerano una pazza visionaria
senza alcuna cognizione scientifica, indice una sottoscrizione
pubblica, grazie alla quale partono i lavori. Il loro esito le darà
ragione?
The Lost King, una
storia vera
Philippa Langley,
la cui vicenda ha ispirato il film, è la fondatrice della sede
scozzese della Richard III Society. Scrittrice e produttrice
con una passione per “le storie che mettono alla prova la nostra
concezione delle verità stabilite” – per usare le parole con le
quali ella si descrive – ha raccontato la storia della ricerca di
Riccardo III in diversi libri. Nel 2015 è stata nominata Membro
dell’Impero Britannico – (MBE) Member of the Most Exellent Order of
the British Empire – dalla Regina Elisabetta II.
Per il suo ritorno dietro
la macchina da presa, Stephen Frears, amato ed eclettico
regista britannico, nato in quella Leicester in cui è ambientato
questo suo nuovo lavoro, sceglie lo stesso team che lo aveva
accompagnato per un altro suo film di successo,
Philomena. Per The Lost King si avvale
infatti della scrittura di Steve Coogan e Jeff Pope.
Sceglie anche qui Steve Coogan come interprete, proprio come era
accaduto allora, e soprattutto racconta ancora di una ricerca sul
filo della storia, protagonista una donna tenace, come lo era la
Philomena interpretata da JudiDench. L’eroina di tutti i giorni di
questa nuova avventura è però esile e minuta. È una sognatrice, ma
caparbia e determinata. Le dà corpo efficacemente Sally
Hawkins.
The Lost King fa
riflettere con ironia ed eleganza
Il nuovo film di
Stephen Frears tocca temi importanti, come la malattia e più
in generale, l’essere differenti, difformi rispetto a una supposta
“normalità”. Elementi che portano spesso, oggi come ai tempi di
Riccardo III, allo stigma e al pregiudizio da parte dell’altro e
della società. È in questo essere differente che la protagonista si
sente affine al re tanto vituperato. È per sé stessa, oltre che per
la memoria storica del personaggio, che desidera riabilitarlo.
Sarebbe per lei una doppia vittoria. Anzi tripla, se si considera
che si tratta di una donna e, come viene sottolineato nel film, le
donne devono lottare assai più degli uomini per farsi valere, in
ambienti spesso eminentemente maschili come quello
universitario.
Non mancano infatti,
neppure stoccate sarcastiche alle istituzioni e agli ambienti
accademici. Ambienti elitari, snob, ormai votati al profitto, più
che alla ricerca, alla formazione e alla divulgazione del sapere.
Frears fa riflettere anche sui meccanismi che fanno la
storia, spesso scritta dai vincitori e crudele coi vinti, fino a
distorcerne, almeno in parte, le caratteristiche. Per il regista la
speranza per il futuro è dunque fuori dai circoli d’élite, dalle
istituzioni e dai consessi d’intellettuali, tra la gente comune,
appassionata e combattiva, come la protagonista; tra le brave
persone, come suo marito; tra i bambini e i ragazzi delle
scuole.
Lo stile di The Lost
King è quello cui il regista britannico ci ha abituato: curato
ed elegante, come le musiche di Alexandre Desplat, che accompagnano la vicenda. Allo
stesso tempo è sornione, divertito ed eccentrico. Il regista
accentua la componente ironica e a volte sarcastica, inserendo
perfino quel velo di surreale che si accorda molto bene allo
spirito britannico. Riesce a integrarlo perfettamente nella
narrazione, nella quale non stona affatto. Rende così il film un
godibile ibrido tra giallo, commedia brillante e dramma, in una
sintesi tra generi, che solo i grandi maestri sanno
operare.