Damien Chazelle ha
reso omaggio al defunto William Friedkin in un commovente discorso al
Festival del cinema di Venezia, dove l’ultimo film di Friedkin,
The Caine Mutiny Court-Trial, è stato presentato
in anteprima fuori concorso tra calorosi applausi.
Friedkin, morto il 7 agosto a Los
Angeles all’età di 87 anni, aveva completato il film, che vede
Kiefer Sutherland nei panni del tenente comandante
Queeg, sotto processo per ammutinamento per aver usurpato il
comando di una nave dopo che le azioni del comandante di diritto
erano state ritenute pericolose per la nave e per il suo
equipaggio.
“Quando ho sentito per la prima
volta il nome Billy Friedkin ero un bambino, e il nome stesso mi ha
riempito di paura”, ha detto Chazelle, che presiede la giuria
di Venezia
80. “Probabilmente avevo in mente L’Esorcista. Non
avevo ancora visto il film, ma avevo visto le lettere scritte con
quel carattere e il suono della parola “Fried-kin” sembrava
suggerirmi i recessi più oscuri e proibiti dell’immaginazione. Il
genere di cose che ispirano incubi per il resto della tua
vita”, ha aggiunto Chazelle.
“Quindi per me William Friedkin
significava paura. Ma oggi penso al suo nome, e penso all’amore.
Penso all’amore per il cinema, all’amore per tutta l’arte e alla
visione di come le arti possano intersecarsi e informarsi a
vicenda. Una visione del cinema non separata, ma indissolubilmente
legata alla musica, alla letteratura, alla pittura. Ovviamente
all’opera”, ha sottolineato Chazelle. “Penso alla
gentilezza e alla generosità che mi ha mostrato quando avevo
iniziato a lavorare come regista”, ha continuato
Damien Chazelle raccontando che quando aveva
appena realizzato il suo film del 2014, Whiplash,
Friedkin lo ha invitato a casa sua.
“E non dimenticherò mai
l’esperienza di scoprire che un uomo responsabile di film che mi
hanno dato un pugno nello stomaco così spietato, come “Sorcerer”,
“French Connection”, “Cruising” e “Killer Joe”, era di persona così
affettuoso, così accogliente, così dolce, umile, amorevole.
Conoscere Billy e trascorrere del tempo con lui e Sherry [Lansing]
è stato uno dei più grandi onori della mia vita” ha continuato
il regista.
“Era impavido in ogni senso
della parola. Nei suoi film si ha la sensazione di un regista e dei
suoi personaggi che si spingono oltre i confini di ciò che è
possibile e alla fine li superano.“
L’ultimo film di William Friedkin della Republic Pictures
è basato sull’opera teatrale vincitrice del Premio Pulitzer di
Hermon Wouk. La storia è stata precedentemente
adattata per lo schermo in un film del 1954 di Edward
Dmytryk con Humphrey Bogart nel ruolo di
Queeg e in un film per la TV del 1988 diretto da Robert
Altman.
The Caine Mutiny
Court-Martial, distribuito da Paramount Global Content
Distribution, uscirà su Paramount+ questo autunno in tutti i
mercati internazionali in cui il servizio di streaming è attivo e
verrà trasmesso su Showtime negli Stati Uniti. Non sarà distribuito
nelle sale.
Ha avuto luogo a Venezia la nuova
edizione del FILMING ITALY BEST MOVIE AWARD, in
cui Tiziana Rocca, Direttore Generale Filming
Italy Award e Vito Sinopoli, Amministratore Unico
Duesse Communication e Presidente onorario del Premio, annunceranno
tutti i premiati di quest’anno. Il FILMING ITALY BEST MOVIE
AWARD conta sulla collaborazione e il supporto della
Biennale di Venezia e del Direttore Artistico
della Mostra internazionale d’arte cinematografica
di VeneziaAlberto Barbera, e gode del
patrocinio della Direzione Generale Cinemae Audiovisivodel MIC, di
ANEC, di ANICA e del
Centro Sperimentale di Cinematografia.
La giuria di qualità è composta da
diversi esponenti tra le eccellenze della cinematografia italiana:
Alberto Barbera, Direttore Artistico della
Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia;
Paolo Del Brocco, AD di Rai Cinema; Chiara
Sbarigia, Presidente di Cinecittà; Guglielmo
Marchetti, Presidente e AD di Notorious Pictures;
Tinny Andreatta, VP delle serie originali italiane
Netflix; Giampaolo Letta, VP e AD di
Medusa; il giornalista Antonello Sarno;
Maria Pia Ammirati, Direttore Rai Fiction;
Luciano Sovena, Presidente della Fondazione Roma
Lazio Film Commission; Nicola Maccanico, AD di
Cinecittà; Roberto Stabile, Responsabile delle
relazioni internazionali di ANICA; Massimiliano
Orfei, AD di Vision Distribution; Marta
Donzelli, Presidente del Centro Sperimentale di
Cinematografia; Mario Lorini, Presidente di ANEC;
Stefano Sardo, Presidente dell’Associazione
100autori; Franco Montini, Presidente del
Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI). Ecco
tutte le foto dei protagonisti che hanno sfilato sul red carpet del
lido:
Si è tenuta nella serata la
premiere del film Originale Netflix
The Killer di David Fincher in concorso a
Venezia
80. Assente il cast per via dello sciopero in corso ad
hollywood
Michael Fassbender,
Tilda Swinton, Charles Parnell, Arliss Howard, Kerry O’Malley,
Sophie Charlotte, Sala Baker.
Dopo un disastroso passo falso, un assassino sfida i propri
committenti, e se stesso, in una caccia all’uomo su scala globale
che giura non essere personale.
In merito al film il regista ha
commentato. The
Killer rappresenta il mio personale tentativo di
conciliare la visione che ho da anni delle storie cinematografiche
con la maniera di raccontarle. Penso da sempre che la frase: “Cosa
ci facevi a Chinatown?… Il meno possibile” sia la più riuscita
evocazione di una retroscena che io abbia mai sentito. Nutrivo
anche una certa curiosità per il genere revenge,
come strumento per creare tensione. Così quando il Sig. Walker ha
deciso di unirsi a noi e ha abbracciato le mie idee/domande sulle
ampie pennellate di senso che lasciano il posto all’invisibile
“espansione del momento”, ho capito che dovevamo inventarci
qualcosa. La risposta tre ore dopo del Sig. Fassbender: “Si,
facciamolo!” ci ha convinto entrambi, e, ovviamente, volevamo tutti
Tilda (Il Sig. Walker ha scritto la storia intorno a lei – ma per
favore non diteglielo, potrebbe diventare insopportabile se
scoprisse che letteralmente tutti pensano questo di lei).
Julio Cesar ha quasi quarant’anni e
vive ancora con sua madre, una donna colombiana dalla personalità
trascinante. I due condividono praticamente tutto: una casetta sul
fiume piena di ricordi, i pochi soldi guadagnati lavorando per uno
spacciatore della zona, la passione per le serate di salsa e
merengue. Un’esistenza ai margini vissuta con amore, al tempo
stesso simbiotica e opprimente, il cui equilibrio precario rischia
di andare in crisi con l’arrivo di Ines, giovane ragazza colombiana
reduce dal suo primo viaggio come “mula” della cocaina. Tra
desiderio e gelosia la situazione precipita rapidamente, al punto
che Julio si troverà a compiere un gesto estremo, in un viaggio
doloroso che lo porterà per la prima volta nella sua terra di
origine.
“Prima la fisica e poi le
donne“: una battuta pronunciata da uno scienziato nel corso
del film Die Theorie Von Allem, presentato in
concorso a
Venezia 80, che strappa una risata al pubblico. Solo
il corso degli eventi del film di Timm Kröger ci
farà capire che questa frase potrebbe sintetizzare il conflitto del
suo protagonista, Johannes, un dottorando in
fisica che sta scrivendo la tesi finale da due anni con non poche
difficoltà e il cui percorso verso la laurea potrebbe venire
ulteriormente messo in crisi da una serie di doppi femminili.
Die Theorie Von Allem, la
trama
1962. Johannes
Leinert, insieme al suo consulente di dottorato, si reca a
un congresso di fisica sulle Alpi svizzere, dove uno scienziato
iraniano dovrebbe rivelare una “teoria rivoluzionaria della
meccanica quantistica”. Ma quando i fisici arrivano all’hotel a
cinque stelle, l’ospite iraniano non si trova da nessuna parte. In
assenza di una nuova teoria da discutere, la comunità dei fisici si
rivolge pazientemente allo sci. Johannes, invece,
rimane in albergo per lavorare alla sua tesi di dottorato, ma
presto si distrae, sviluppando una particolare attrazione per
Karin, una giovane pianista jazz. Qualcosa in lei sembra strano,
sfuggente. Sembra che lei sappia delle cose su di lui, cose che lui
pensava di conoscere soltanto. Quando una mattina uno dei fisici
tedeschi viene trovato morto, due ispettori arrivano sulla scena,
indagando su un caso di omicidio. Mentre nel cielo appaiono
formazioni nuvolose sempre più bizzarre, il pianista scompare senza
lasciare traccia e Johannes si ritrova trascinato
in una sinistra storia di falsi ricordi, incubi reali, amori
impossibili e un oscuro, ruggente mistero nascosto sotto la
montagna.
Una teoria di bianchi e neri
Timm Kröger, che è
stato per anni direttore della fotografia, usa la fotografia come
veicolo principale per la costruzione di un’atmosfera immersiva e
avvolgente, consacrata da un bianco e nero d’impostazione
estremamente classica. Dal punto di vista visivo e d’immaginario,
il film ha un’impronta precisa e sicura, che convince senza
sovrastare la narrazione, almeno in una prima parte.
Come la tesi di
Johannes, incentrata sulla probabilità e un’idea
venutagli in sogno, Die Theorie Von Allem ci
catapulta in un racconto di doppi, punti di vista differenti,
orbite sconosciute, intrecciando la declinazione di sci-fi che un
fortunatissimo prodotto televisivo sempre tedesco, Dark, ha portato in auge, alla
cospirazione e all’impianto da noir classico. Purtroppo, la sua
struttura sfilacciata e lacunosa, tanto quanto la tesi di Johannes
– idea di partenza più che brillante – fatica a tenere alta
l’attenzione dello spettatore, sempre più confuso sul ruolo che i
personaggi giocano nella storia.
Timm Kröger
assicura alla trama una notevole direzione degli attori, che
riescono quasi sempre a rimanere dei punti di riferimento per gli
spettatori, anche quando il tessuto narrativo inizia a vacillare.
Jan Bülow e Olivia Ross, in
particolare, convincono in una dinamica amorosa alla
Vertigo, che ci fa dubitare di ogni
immagine e parole pronunciate da questa famme fatale, una pianista
jazz, che potrebbe saperne molto più di lui di fisica. La loro
storia d’amore sopravvive all’ipertrofia semantica del film, che
sta sempre su un gradino più in alto dello spettatore, sul
cucuzzolo delle montagne svizzere, mentre rimaniamo intrappolati
nelle grotte sotteranee dove spazio e tempo divergono.
Presentato oggi in concorso a
Venezia
80, La bête, il film francese diretto
da Bertrand Bonello con Léa Seydoux e
George MacKay, entrambi assenti. Sul red ha sfilato il
regista e parte del cast.
In merito al film il regista ha
dichiarato: “Per prima cosa, volevo ritrarre una donna e occuparmi
di amore e di melodramma. Dopodiché, inserire il tutto nel cinema
di genere, visto che secondo me le storie d’amore e il cinema di
genere sono una buona combinazione. Ho voluto mescolare l’intimo e
lo spettacolare, classicismo e modernità, il noto e l’ignoto, il
visibile e l’invisibile. Parlare, forse, del più straziante dei
sentimenti, la paura dell’amore. Il film è anche il ritratto di
una donna, che diventa quasi documentario su un’attrice.”
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Bertrand Bonello
Nel film In un futuro prossimo in cui regna suprema
l’intelligenza artificiale, le emozioni umane sono ormai
considerate una minaccia. Per liberarsene, Gabrielle deve
purificare il suo DNA: si immerge quindi in vite precedenti, dove
rincontra Louis, suo grande amore. Ma la donna è vinta dalla
paura, un presagio che la catastrofe è vicina.
Fondato nel 1930 nella Francia
centrale, il ristorante della famiglia Troisgros detiene 3 stelle
Michelin da 55 anni e da quattro generazioni. Frederick
Wiseman racconta questa storia attraverso i membri della
storica brigata di cucina. Michel Troisgros, terza
generazione a capo del ristorante, ha passato la responsabilità
della cucina al figlio César, quarta generazione di chef Troisgros.
Dal mercato per la raccolta delle verdure fresche, all’impianto di
lavorazione del formaggio, al vigneto, all’allevamento di bestiame
biologico, fino all’orto che rifornisce il ristorante, Wiseman ci
accompagna in un viaggio goloso e piacevole nelle cucine dei tre
ristoranti della famiglia. Un’esperienza coinvolgente, che mostra
la grande maestria, l’ingegno, l’immaginazione e il duro lavoro
dello staff del ristorante nel creare, preparare e presentare
piatti di altissima qualità.
Michel Troisgros,
Léo Troisgros e Frederick Wiseman hanno presentato il film Fuori
Concorso a Venezia 80. Un film che ruota intorno al tema della
gastronomia e della cucina unito all’amore per la famiglia. Lo
stesso regista è affascinato da questo processo creativo e della
preparazione: “Penso che la preparazione e la creazione del
cibo siano una forma d’arte. Ogni piatto prima di lasciare la
cucina viene esaminato con cura da Michel e Leo e ho voluto
soffermarmi anche su questi piccoli dettagli come mettere in ordine
gli elementi sul piatto attraverso l’uso delle pinze da
cucina”.
Frederick Wiseman presenta Menus Plaisirs – Les
Troisgros
Anche dalla parte degli attori e
protagonisti di questa storia familiare hanno commentato la
collaborazione con il regista e sono rimasti colpiti dalla sua
dedizione al progetto. “Non conoscevo il cinema di Fred. Il
progetto è iniziato l’anno prima del Covid. È venuto a visitarci al
ristorante e ha incontrato mio figlio e ha amato il piatto che gli
hanno preparato dimostrando una certa attenzione al nostro mondo,
alla nostra eredità e alla nostra storia di famiglia. Ogni
generazione appartiene a questo mondo. Quando ci è venuto a trovare
subito dopo ci ha parlato del progetto. Poi ho recuperato tutti i
suoi film, ho visto Crazy Horse [ride]”., racconta Michel.
Un progetto che ha messo a dura
prova il regista con delle scene particolari e dettagliate sul
lavoro di preparazione dei piatti: “La famiglia mi ha dato il
permesso di girare e introdurmi ovunque, senza nessuna restrizione.
Le parti da girare in cucina sono state le più difficili perché
c’erano sempre molte persone e volevo essere sicuro di dare uno
sguardo accurato al loro lavoro all’interno della cucina. La
famiglia ci ha aiutato ad ottenere i permessi anche per gli ospiti
che venivano serviti durante il servizio. Ho voluto anche
soffermarmi su quello che riguarda la preparazione del piatto
quindi elementi di quotidianità come la spesa al mercato”.
La narrazione fuori dal ristorante è
stata necessaria per raccontare il dietro le quinte della
composizione e preparazione dei piatti e ha sottolineato ancora una
volta la cura e la dedizione al progetto da parte di Frederick
Wiseman: “È stata una parte importante perché fa parte del
nostro quotidiano perché è come se facessero parte della famiglia,
sono più dei compagni di viaggio che dei fornitori, sono la risorsa
che porta avanti il ristorante”.
Entrambe le parti si sono spesa
anima e corpo per la riuscita di Menus Plaisirs e anche per la brigata di
cucina è stato intenso condividere uno spazio così riservato con le
telecamere: “È stata una sfida anche per noi ma ci siamo
abituati. C’erano solo un paio di persone che si muovevano attorno
a noi mentre cucinavamo. Cercava di dare consigli per rendere la
scena sempre più fluida ma allo stesso tempo gli conferisce
rispetto e trasmette la complicità della squadra anche attraverso i
dialoghi. C’è molta intensità in cucina, Fred vuoel dare a vedere
la forza dei gesti nella successione tra le varie tecniche che si
accavallano in cucina, che seguono un certo ritmo” ha detto
Michel.
La storia della famiglia Troisgros
va avanti da moltissime generazioni e come racconta Leo, è una
passione che è cresciuta con il tempo: “La passione si è
trasmessa a noi dai nostri genitori davvero in modo naturale.
Abbiamo sempre visto fare questo all’interno della nostra famiglia,
siamo cresciuto così e questa passione si è ampliata crescendo. I
nostri genitori ci hanno permesso di farde moltissime esperienze
all’interno della haute cuisine e sono tutti molto
interessanti”.
Bertrand Bonello ha
presentato quest’oggi in conferenza stampa il suo nuovo film,
La Bête, melodramma sci-fi da una sceneggiatura
scritta insieme a Guillaume Bréaud e
Benjamin Charbit, liberamente ispirata al racconto
di Henry James del 1903 La bestia nella giungla. Il film è
interpretato da Léa
Seydoux e George MacKay, con Guslagie
Malanda e Dasha Nekrasova nei ruoli
secondari. È stato presentato in anteprima mondiale in concorso
ufficiale alla
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia
2023 e sarà distribuito nelle sale francesi da Ad
Vitam il 28 febbraio 2024.
La trama del film è ambientata in un
futuro prossimo in cui le emozioni sono diventate una minaccia,
Gabrielle decide finalmente di purificare il suo
DNA in una macchina che la immergerà nelle sue vite passate e la
libererà da ogni sentimento forte. Incontra Louis
e sente un forte legame, come se lo avesse sempre conosciuto. La
storia si svolge in tre periodi distinti: 1910, 2014 e 2044.
Lo sci-fi di Bonello, tra amore e paura
La Bête costituisce
la prima incursione del regista francese nel genere
fantascientifico: “Avevo molti desideri per questo film, uno
tra questi era che sarebbe dovuto essere un melodramma. Il libro di
Henry James, che è stato per tantissimo tempo sulla mia scrivania,
mi è sembrato il perfetto punto di partenza, che ho poi combinato
con lo sci-fi, l’horror e altri generi. Ho pensato di dover portare
all’estreme conseguenze i temi dell’amore e della paura, questa è
stata la mia interpretazione e il modo in cui ho “tradito” il
romanzo“. La fantascienza non fa davvero parte della mia
cultura, è la prima volta che mi ci immergo come regista. Ho voluto
trovare una via di mezzo tra i grandi temi dello sci-fi e
l’apocalittico. Il mio film è ambientato nel futuro, ma un futuro
vicinissimo, il nostro domani: è il 2044. Ho voluto eliminare delle
cose del nostro presente: non c’è internet, non ci sono i
cellulare, gli schermi, non ci sono le macchine: ho cercato una
maniera personale di inventare un futuro“.
“La struttura del film è
complessa, come un gioco matematico, ma tutte le sequenze al suo
interno sono molto semplici. Tutte le emozioni proposte sono molto
semplici e basiche, anche quello che si dicono i personaggi, tutto
è molto più semplice rispetto ai miei altri film“. “Ci
sono due tipi di paura, paralizzante e che ti spinge a fare cose.
Ma la paura ci fa sentire vivi, è la parte migliore dell’umanità.
Ci fa voler agire, trovare delle soluzioni. Film sulla paura
dell’amore. Quando c’è amore c’è paura: la paura di perdere, di
qualcosa che finisca“.
La Bête: la minaccia dell’IA e il futuro del cinema
Bertrand Bonello ha anche affrontato il tema
dell’IA, e quanto questa possa essere vista come opportunità o
minaccia al contempo: “Quando ho iniziato a scrivere il
copione, mai mi sarei aspettato che sarebbe stato così attinente
alle attualiti discussioni sull’IA. Durante l’editing, abbiamo
capito pienamente quanto spaventoso fosse quello che avevamo
scritto”. è un mix di entrambe, sappiamo che potrebbe essere
utilissima in alcuni ambiti, come quello medico. Ma è uno
strumento, e gli strumenti diventano minaccia quando sono ormai più
grandi di noi: è tutta una questione di etica e morale“.
La Bête parla di futuro e di presente,
intrecciandoli costantemente. A questo proposito, il regista
francese ha riflettuto sullo stato attuale del cinema e su come
quest’arte cambierà, alla luce dei recenti avvenimenti che hanno
interessato l’industria. “I capolavori della Settima Arte sono
nati da momenti di crisi. Il cinema non morirà mai, il modo di
vedere i film cambierà e non so come ma, se li vorremo vedere, ci
sarà il modo. Ovviamente siamo tutti preoccupati, è sempre più
difficile ottenere i fondi per far partire una produzione.
C’è stato un momento, soprattutto durante il covid, che il pubblico
ha iniziato ad allontanarsi dal cinema e avvicinarsi alle serie. In
questo momento ci sono dei problemi interni all’industria del
cinema, non so cosa succederà, ma non penso che il cinema
morirà“.
Reduce dalla vittoria del Gran
Premio della Giuria alla 76ª Mostra internazionale d’arte cinematografica
di Venezia con L’ufficiale e la
spia, Roman Polanskitorna al Festival,
stavolta fuori concorso, con The
Palace. Il film segna inoltre il suo ritorno al
genere della commedia satirica e dissacrante, da cui
sostanzialmente mancava dal 2011, anno di Carnage.
Questo nuovo lungometraggio, da Polanski scritto insieme a
Jerzy Skolimowski (regista del recente EO) e Ewa
Piaskowska, va dunque a riunire un gruppo di ricchi
viziati all’interno di un unico ambiente, con l’intento di portare
alla luce tutto il loro squallore.
Benvenuti al The Palace
Il racconto si svolge dunque
all’interno del Palace Hotel, uno straordinario castello progettato
all’inizio del 1900 che si trova nel bel mezzo di una valle
svizzera innevata, dove ogni anno convergono da tutto il mondo
ospiti ricchi e viziati, in un’atmosfera gotica e fiabesca. La
festa di Capodanno 2000 li ha ora riuniti tutti in un evento
irripetibile. Al servizio delle loro stravaganti esigenze c’è uno
stuolo di camerieri, facchini, cuochi e receptionist.
Hansueli (Oliver Masucci),
zelante direttore dell’albergo, passa in rassegna lo staff prima
dell’arrivo degli ospiti, ribadendo che, pur essendo l’alba del
nuovo millennio, non sarà la fine del mondo, nonostante le paure
nei confronti del Millennium Bug.
Fortunato Cerlino John Cleese Oliver Masucci in una scena di The
Palace. Foto di M. Abramowska.
Un film dalle buone premesse…
C’era grande attesa per questo nuovo
film di Polanski, capace come pochi di mettere davvero alla berlina
i suoi personaggi e l’umanità tutta. Le premesse di
questo The Palace facevano inoltre immaginare una
nuova cinica rappresentazione di un’alta società ultimamente molto
spesso posta in ridicolo (si veda ad esempio Triangle of Sadness,
con cui certamente The Palace dovrà scontrarsi in un
insensato paragone). Probabilmente nessuno si aspettava però di
trovarsi di fronte ad un film così spiazzante, purtroppo in senso
negativo. Perché The Palace non ha per nulla l’aspetto di
una pungente satira, bensì di un’opera che non sa sfruttare il
proprio potenziale.
Perché va riconosciuto che l’idea
alla base del racconto è del tutto propria del cinema di Polanski,
con questo luogo chiuso che impedisce ogni contatto con l’esterno e
costringendo quanti all’interno a relazionarsi con sé stessi e con
gli altri con cui non vorrebbero avere a che fare. Diversi sono
inoltre i personaggi che sfoggiano da subito un certo fascino e
potenziale comico, basti pensare al ricco Bill Crush di Mickey Rourke o
al direttore dell’albergo Hansueli, per non dimenticare il Tonino
di Fortunato Cerlino o l’Arthur William Dallas III
di John Cleese, protagonista probabilmente del
segmento narrativo più divertente.
Ciò che poi va riconosciuto a
Polanski è la capacità di tenere in equilibrio questa grande
varietà di protagonisti, passando dall’uno all’altro con grande
disinvoltura ed eleganza. Polanski si aggira quasi con fare
documentaristico tra i corridoi e gli spazi del Palace Hotel,
indagando quanto avviene ai suoi ospiti. Assistiamo così ad una
serie di microepisodi dai quali è intenzione del regista far
emergere tutta una serie di sfumature sull’umanità alla fine del
millennio, che tramontando sembra portare la notte anche su
un’intera generazione, le sue paure e i suoi vizi.
Milan Peschel in una scena di The Palace. Foto di M.
Abramowska.
… che non vengono però mantenute
Che Polanski si sia divertito a
realizzare The Palace si percepisce ed è sempre bello
vedere un regista che, anche a 90 anni da poco compiuti, sa
infondere una tale passione nel proprio lavoro. Qualcosa deve
essere andato storto in fase di produzione, tuttavia, poiché il
film inizia, si svolge e finisce senza che vi sia stato un arco
evolutivo particolarmente significativo, senza che si sia proposta
una reale critica nei confronti di quanto vediamo. Certo, Polanski
non è sguaiato come lo è RubenÖstlund, regista appunto di
Triangle of Sadness, e dunque il suo messaggio può
presentarsi in modo più tacito. Ma in questo caso, tuttavia, questo
manca proprio di arrivare a destinazione.
Più che una satira nei confronti di
questa classe sociale, del film si potranno ricordare una serie di
gag piuttosto grottesche, che stanno già portando a definire
The Palace come “il cinepanettone di Polanski”.
Se fare tale accostamento risulta davvero facile, più difficile è
capire cosa possa essere accaduto ad un regista sempre così attento
a ciò che avviene sul proprio set. Ciò che è certo, è che The
Palace manca nel far ridere, manca nel riuscire a dire
qualcosa di nuovo sull’argomento trattato e manca di dotarsi di una
messa in scena che si possa dire memorabile. Il risultato è dunque
un film molto sottotono, che si spera possa venire rapidamente
messo in ombra dall’arrivo di un nuovo lungometraggio del Polanski
che tutti conosciamo e amiamo.
Il nuovo film di David
Fincher, The Killer, è tra i titoli più
attesi della
Mostra del Cinema di Venezia 2023. Il regista di
Fight Club e Zodiac ha raccontato quest’oggi in conferenza stampa
il suo nuovo progetto, dalla scelta di Michael Fassbender come “protagonista
perfetto”, alla sinergia tra ogni reparto per creare il ritratto
perfetto di un killer metodico, apparentemente ineccepibile, che
non lascia spazio all’empatia ma di cui, paradossalmente attraverso
pochissime parole, scopriremo tanto.
The Killer è un
film d’azione psicologico neo noir americano diretto da David
Fincher da una sceneggiatura di Andrew Kevin
Walker, basato sull’omonima serie di graphic novel
francese scritta da Alexis “Matz” Nolent e
illustrata da Luc Jacamon. Il film è interpretato
da Michael Fassbender nel ruolo dell’assassino protagonista, che
viene coinvolto in una caccia all’uomo internazionale dopo un colpo
andato male. Arliss Howard, Charles
Parnell, Kerry O’Malley, Sala
Baker, Sophie Charlotte e Tilda
Swinton appaiono in ruoli secondari. Sarà distribuito in
sale limitate il 27 ottobre 2023, prima di approdare su Netflix il 10 novembre 2023.
The Killer: il codice dell’assassino
David Fincher ha
svelato cosa lo ha spinto a creare una versione tanto peculiare di
un serial killer: “Ho usato tante altre volte il voice over nei
film: mi piace come strumento narrativo ma, in questo caso, ho
aggiunto un tassello ulteriore. Mi sono chiesto se quello che ci
racconta il personaggio è effettivamente vero. Tramite il
voiceover, il killer crea in un qualche modo un suo codice, si
impone di non allontanarsene mai, eppure sarà costretto a
improvvisare nel corso del film. Quando c’è il voice over,
le scene sono molto più rigorose, quando questo manca, cambia lo
stile e la fotografia. C’è una scissione tra il suo mantra e il comportamento che
deve aggiustare in corso d’opera“.
Michael Fassbender, tra imperturbabilità ed eleganza
Michael Fassbender, interprete duttile, capace
di straordinarie azioni fisiche mantenedo sempre compostezza ed
eleganza, torna con un ruolo da protagonista in The
Killer: “Michael ha un set di skills incredibili, il
nostro interprete doveva essere in grado di muoversi dentro uno
spazio piccolissimo ma raccontandoci tanto, e Michael è il tipo di
attore che riesce a tirare fuori tutte le sfumature necessarie in
ogni sequenza“. “Non avevo bisogno di qualcuno che facesse
paura anche a livello estetico, ma che sembrasse rigoroso. Non
capiamo che quello che ripete ogni giorno è un mantra finchè non
arriviamo al secondo omicidio. Pian piano, il mantra viene
modificato, interrotto da qualcuno che arriva nella stanza ad
esempio. Michael è riuscito a inglobare la totalità dei significati
che il killer rappresenta“.
Il sound editing di The Killer
La musica occupa una parte
fondamentale nella routine del killer e nella diegesi: “Il mio
approccio è stato molto diverso rispetto a Fight Club, soprattutto
per quanto riguarda la colonna sonora, il sound editing. Questa
volta volevamo sfruttare la lente dell’intimità per entrare nel
mondo del killer. Non volevo nemmeno che si sentissero i suoi
vocalizzi“. “Gli Smiths sono stati un’aggiunta della
post-produzione. Adoravo l’idea che potessimo usare la musica per
incanalare le sue ansie o aiutarlo a meditare. La musica è la
nostra finestra sulla sua personalità“.
Fincher ha inoltre sottolineato come il lavoro di
sound design di The Killer sia stato completamente
innovativo rispetto alle sue altre produzioni: “Volevo dare
un’idea quasi documentartista. In un montaggio normale, non si
avvertono quasi i tagli, le immagini sono fluide. Qui, abbiamo
voluto sfidare questa estetica rendendo molto più netto l’editing,
in modo da aumentare il senso di ansia e disagio“.
Alla domanda se il codice del killer
e quello del regista coincidano, Fincher ha
risposto: “In un certo senso sì. Hai in entrambi i casi una
posta in gioco molto alta, tecnologie avanzate. Così come il killer
è maniacale, volevo concepire qualcosa che, nella sua semplicità,
fosse mentalmente estenuante per lo spettatore. Tutto dipende da
come scegli di raccontare un punto di vista e fare immergere lo
spettatore nella vicenda“.
Oggi in concorso a Venezia
80 è il giorno anche di nu altro pezzo da novanta del
cinema mondiale, Roman Polanski che presenta il
suo ultimo film The
Palace, assente per ovvie ragioni il regista ma
presente il cast della pellicola, una produzione
Italia/Francia.
Parlando di The Palace il regista
ha commentato “Per quasi mezzo secolo ho frequentato in
Svizzera il Gstaad Palace, dove soggiorna un’élite estremamente
ricca e poliglotta, attorno alla quale si muove il proletariato
dell’hotel. Questi due mondi sono, a loro modo, esilaranti, a volte
persino grotteschi. Tutto li separa, a partire dalle loro opinioni
politiche. Li unisce solo la figura del direttore dell’albergo, che
si prende cura di tutti e cerca di accontentare tutti, a volte in
verità dovendo sopportare sia i clienti sia il personale. Con
abilità diplomatica, trova una via d’uscita dalle situazioni più
improbabili.L’idea di fare un film su questo mondo
esotico mi è venuta immediatamente. Doveva essere una commedia, un
po’ brusca e sarcastica, severa nei confronti dei personaggi del
film, ma non priva di un tocco di indulgenza e simpatia.”
Si è tenuta la premiere del film
originale Netflix
in concorso a Venezia
80Maestro di e con Bradley Cooper, prodotto da Martin
Scorsese e
Steven Spielberg. Nel cast anche
Carey Mulligan,
Bradley Cooper,
Matt Bomer,
Maya Hawke, Sarah Silverman, Josh Hamilton, Scott Ellis, Gideon
Glick, Sam Nivola, Alexa Swinton e Miriam Shor. Purtroppo
per i fan e per il Festival nessuno dei protagonisti era presente
sul tappeto rosso per via dello sciopero del sindacato degli attori
e degli sceneggiatori che giustamente manifestano per giusto
compenso.
Lo stesso
Bradley Cooper e il cast non sono arrivati a Venezia per unirsi
alla protesta. Prima del red carpet il direttore del festival
Alberto Barbera e i membri della giuria hanno partecipato ad
un Flash Mob in solidarietà con il popolo iraniano dopo la condanna
di Saeed Roustaee durante un tappeto rosso per il film
“Maestro”.
Il direttore del festival
Alberto Barbera e il membro della giuria Jane Campion partecipano
ad un Flash Mob in solidarietà con il popolo iraniano dopo la
condanna di Saeed Roustaee
Il direttore del festival
Alberto Barbera e il membro della giuria Jane Campion partecipano
ad un Flash Mob in solidarietà con il popolo iraniano dopo la
condanna di Saeed Roustaee
Il direttore del festival
Alberto Barbera e il membro della giuria Jane Campion partecipano
ad un Flash Mob in solidarietà con il popolo iraniano dopo la
condanna di Saeed Roustaee
Il film è un tributo agli
estasianti alti e angoscianti bassi che accompagnano una vita alla
ricerca di amore, famiglia e arte. È interpretato dalla due volte
candidata agli Oscar
Carey Mulligan (Una donna promettente), nei panni
dell’acclamata attrice, artista e attivista Felicia Montealegre
Cohn Bernstein, e dal nove volte candidato agli Oscar Bradley Cooper, nel ruolo del leggendario
musicista, direttore d’orchestra, compositore, insegnante e autore
Leonard Bernstein. A partire dal duetto tra Cooper e Josh Singer
(Il caso Spotlight, The Post), coresponsabili della
sceneggiatura, per arrivare all’ensemble di acclamati produttori e
al coro di artigiani che ha creato un’armonia visiva, Maestro è un
entusiasmante sinfonia di gruppo allineata alla visione di Cooper,
conduttore sia davanti sia dietro la cinepresa.
In merito al film il regista ha
dichiarato “Quando ero piccolo in casa ascoltavamo spesso
l’opera e la musica classica. Ho passato molte ore a condurre
un’orchestra immaginaria con le capacità limitate di un bambino di
otto anni. In particolare, ascoltavamo spesso un disco di Leonard
Bernstein. Perciò la fiaccola che mi avrebbe mostrato la via per
realizzare Maestro era già accesa molti anni prima che mi capitasse
il progetto tra le mani. Dopo aver completato un anno di ricerche
su Lenny e sulla famiglia, e aver digerito tutte le informazioni,
ho capito che l’aspetto più interessante e toccante per me era il
matrimonio tra Lenny e Felicia. Era un amore non convenzionale e
sincero, che trovavo estremamente intrigante. Ed era questa la
storia che ho voluto raccontare. Sarò per sempre riconoscente a
Jamie, Nina e Alex per avermi aperto le porte della loro famiglia e
dei loro cuori. È stata una delle più grandi gioie della mia
carriera”. MAESTRO in cinema selezionati a dicembre e su
Netflix dal 20 dicembre.
E’ stato attribuito il secondo
Leoni d’Oroalla carriera
all’attore Tony Leung Chiu-wai alla
80. Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica della Biennale di
Venezia.
Tony Leung
Chiu-wai – che ha interpretato tre film Leoni d’Oro a
Venezia, Città dolente (1989)
di Hou
Hsiao-hsien, Cyclo (1995) di
Tran Anh Hung e Lust,
Caution (2007) di Ang Lee – nell’accettare
la proposta ha dichiarato: “Sono colpito e onorato dalla notizia
della Biennale di Venezia. Condivido idealmente questo premio con
tutti i cineasti con cui ho lavorato. Questo riconoscimento è anche
un omaggio a tutti loro”.
Manuel ha sedici anni e cerca di
godersi la vita come può, mentre si prende cura dell’anziano
padre. Vittima di un ricatto, va a una festa per scattare alcune
foto a un misterioso individuo ma, sentendosi raggirato, decide di
scappare, ritrovandosi invischiato in questioni ben oltre la sua
portata. Infatti i ricattatori che lo inseguono si rivelano essere
estremamente pericolosi e determinati a eliminare quello che
ritengono uno scomodo testimone e il ragazzo dovrà chiedere
protezione a due ex-criminali, vecchie conoscenze del padre.
“Dopo le esperienze all’estero,
finalmente sono tornato a raccontare la mia città. Roma è
cambiata e anch’io. L’ho osservata con occhi diversi percorrendo le
sue strade con un altro passo. Un adagio. Questo è il racconto del
declino inesorabile, struggente, di tre vecchie leggende della Roma
criminale alla ricerca di una redenzione impossibile in un mondo
ancora più cinico, caotico e feroce di quello che avevano
governato negli anni d’oro. Un mondo che schiaccia relazioni
familiari, amichevoli e fraterne senza lasciare altri legami tra
gli uomini al di fuori del denaro. Una città governata dal caos,
dalla corruzione, dal cinismo e asfissiata dal caldo torrido,
devastata dagli incendi e dal buio dei blackout… Ma c’è uno
spiraglio di luce. La nuova generazione“. Stefano
Sollima
Nello squallido dominio del ventre
criminale di Miami, un sicario esperto si lancia all’inseguimento
implacabile del suo prossimo obiettivo. Girato interamente con
lenti termiche, AGGRO DR1FT naviga in un
mondo contorto dove la violenza e la follia regnano sovrane. Le
tensioni si sciolgono, portando a un viaggio psichedelico che
confonde i confini tra predatore e preda. Se l’obiettivo di
Harmony Korine era lasciare il segno in questa
Venezia 80 allora il risultato è assicurato. Tra i Fuori Concorso
di questa Mostra del Cinema, il film del regista
di Spring Breakers torna al Lido. Un film
che racconta in maniera cruda uno spaccato di realtà americana e lo
fa in una modalità visiva disturbante.
AGGRO DR1FT, la trama
È chiara nella pellicola di Korine
l’intenzione di non tracciare una linea retta per AGGRO
DR1FT il che deve essere stata una vera e prossima
sfida. Se a questo aggiungiamo gli effetti visivi del film appare
ancora più chiaro che il film è un’esperienza, quasi come se fosse
un videogioco. Lo stesso regista ha specificato che questa storia
andava raccontata in modo sensoriale – grazie all’uso delle lenti
termiche – concimando immagini e suoni per creare un’esperienza a
360°. Le immagini vanno odi pari passo con i rumori e con i suoi
che la colonna sonora riesce a calibrare così come vengono
calibrati i colori della lente distorta. La musica ha un ruolo
preponderante e rende l’atmosfera ancora più disturbante. Le voci
dei protagonisti sono distorte e questo aspetto descrive il mondo
criminale che viene rappresentato nella pellicola.
Nel film la trama è semplice e allo
stesso tempo lo spettatore è impossibilitato a empatizzare con i
personaggi è solo, per l’appunto, lo spettatore esterno della
vicenda. E, infatti, quello che più si apprezza del film è la resa
delle immagini che lo stesso regista chiama narrazione liquida e
come tale assume la forma del contenitore che la contiene. È
mutevole così come lo sono le immagini che si alternano a momenti
di banalità delle stesse quando vogliono rappresentare ancora di
più la realtà.
Tra visione ed esperienza
Dove inizia però la visione e dove
parte l’esperienza questa è la lettura chiave di AGGRO
DR1FT. Korine fa di tutto per abbandonare i classici
dettami della psicologia, delle emozioni semplicemente si è
prefissato di creare una visione a tutto tondo delle tecniche
cinematografiche, esplorarle e giocare con esse. Non mancano i
riferimenti più moderni al nuovo cinema digitale ai visori VR. In
aiuto al regista per la gestione delle immagini il direttore della
fotografia, Arnaud Potier, che ha sperimentato con le immagini
termiche creando scene ipnotiche e fluide, che lasciando i
personaggi nudi, come se fossero sotto una radiografia. Sicuramente
un film dove Korine ha azzardato e si è lasciato
spingere oltre la macchina da presa sperimentando un nuovo tipo di
immagini.
Una visione che ha portato sul
grande schermo immagini oniriche e reali giocando molto su questo
contrasto tra finzione e realtà. Come se la realtà descritta, quel
ventre criminale di Miami nascondesse molto di più: dei mostri, dei
demoni che controllano gli uomini. Così la lotta tra le parti
diventa non solo reale ma anche fittizia quando compaiono sullo
schermo le proiezioni mitiche. Anche l’ambientazione di Miami non è
del tutto casuale e si mescola alla parte narrativa del film.
Miami ha un posto speciale nel cuore del regista –
è la città dove vive – ed ha contribuito alla realizzazione del
racconto. È una città in continuo cambiamento, la sua storia è
fatta di reinvenzione.
La Ruota del Tempo è la serie
tratta dalla lunga saga di libri scritti da Robert Jordan agli
inizi degli anni 90. Il ciclo dei romanzi vanta una media di
ottocento pagine per volume per un totale di quattordici pezzi, gli
ultimi tre dei quali scritti da Brandon Sanderson a causa della
morte di Jordan. Un ricchissimo universo descritto in ogni minimo
dettaglio a partire dalle origini della creazione del mondo,
aspetto caratteristico del genere fantasy.
Adattata per una prima
stagione di otto puntate uscite due anni fa su Prime Video,
La Ruota del Tempo aveva già visto altre volte la
possibilità di una trasposizione filmica della storia, tanto che il
suo stesso autore aveva venduto i diritti nel 2004 alla Red Eagle
Entertainment, la quale ha poi aderito all’attuale progetto avviato
da Prime nel 2018. Scritta da Rafe Judkins, che ne
è anche produttore esecutivo, esce sulla piattaforma con la stessa
formula che era stata prevista per la prima stagione: dal 1°
settembre sono disponibili le prime tre puntate su un totale di
otto, e le seguenti lo saranno ogni venerdì, una per volta, fino al
6 ottobre. E secondo quanto annunciato l’anno scorso al San Diego
Comic-Con, è già in lavorazione la terza stagione, che avrà come
riferimento il quarto capitolo della saga di Jordan intitolato
L’ascesa dell’Ombra.
La Ruota del Tempo, seconda
stagione, la trama
La Ruota del Tempo è
quella che agli inizi della nascita della vita è stata creata per
tessere le esistenze degli uomini e le epoche storiche che si
susseguono. A permetterne il movimento continuo è l’Unico Potere,
la forza magica che viene incanalata dalle donne (e solo da loro),
in particolare quelle appartenenti alla casta delle Aes Sedai, che
da millenni sono addette alla difesa, alla protezione della vita,
alla formazione di nuove allieve della loro organizzazione e,
soprattutto, alla scoperta di chi sia il Drago Rinato, cioè l’unico
che sia in grado di fermare il Tenebroso, l’oscura creatura che
vuole la distruzione di tutto.
Durante tutta la prima
stagione Moiraine (RosamundPike) e il suo fedele custode Lan
(Daniel Henney) avevano condotto il gruppo di
giovani composto da Rand (Josha Stradowski),
Egwene (Madeleine Madden), Perrin (Marcus
Rutherford), Mat (oggi interpretato da Dónal
Finn, prima da Barney Harris) e Nynaeve
(Zoë Robins) in un insidioso viaggio verso la
Torre Bianca per scoprire tra chi di loro si celasse, appunto,
l’incarnazione del Drago.
The Seanchan Empire, Loial played by Hammed Animashaun, The Dark
One played by Fares Fares
Se nello svolgimento
della prima parte della trasposizione de La Ruota del Tempo
emergeva un po’ d’ingenuità nella riproduzione del mondo fantasy
con tutti i suoi codici e presupposti impliciti, forse in questo
secondo ciclo di episodi la profondità verso la quale
inevitabilmente la storia si dirige, avvantaggia per una maggiore
credibilità del contesto ricreato da Rafe Judkins.
Adesso la fragilità umana
di Moiraine dà una nuova prospettiva da cui guardare tutti i
rapporti tra i personaggi, anche perché il suo è uno dei ruoli
principali su cui si regge la serie (tra l’altro, RosamundPike è anche produttrice). L’intreccio
diventa così più coinvolgente, specialmente perché l’aspetto magico
e il discorso da cui nasce sono estremamente interessanti.
Quell’Unico Potere che
muove la Ruota del Tempo era un tempo dono anche degli uomini ma, a
causa di un attacco del Tenebroso, è stato contaminato dal germe
della follia, rischio che tutt’ora sussiste, soprattutto per quanto
riguarda il Drago Rinato: potrà salvare il mondo o agevolarne la
devastazione. Ed è una tematica curiosa con la quale confrontarsi,
sicuramente non nuova, anzi.
In ogni caso,
l’esordio di questa seconda stagione pare
interessante, sempre considerando che l’impatto maggiore è
soprattutto dato dalla tensione narrativa e dalla curiosità che
genera nello spettatore e dall’affascinante messa in scena.
Nel film Gli anni più belliMicaela
Ramazzotti interpreta Gemma, una donna che ad un certo
punto del racconto si confessa e ammette di star attraversando
innumerevoli tempeste, ma che nonostante questo è alla ricerca
della propria felicità e che prima o poi è certa che la troverà.
Sembra quasi nascere da qui la storia di Desirè, la protagonista
del primo film da regista della Ramazzotti che si intitola, non a
caso, Felicità. Presentato nella sezione
Orizzonti Extra della Mostra del Cinema di
Venezia, il film è un’opera prima che colpisce sia per
l’attenzione della debuttante regista ai dettagli, sia per
l’argomento che sceglie di raccontare.
La Ramazzotti, anche protagonista
del film, sceglie sì – saggiamente – di rimanere vicina a contesti
che cinematograficamente conosce bene, dalle periferie romane a
personaggi calamite di problemi, ma anche di affrontare tematiche
dal forte impatto in quanto particolarmente urgenti nell’attuale
società italiana. Relazioni tossiche, inadeguatezza ad essere
genitori e, soprattutto, disagio e depressione giovanile. Il suo
Felicità è dunque ricco di contenuti che potremmo definire
tosti da affrontare e digerire, ma che la Ramazzotti sa stemperare
con una leggerezza e una comicità amara che ha appreso dalle sue
tante collaborazioni.
Felicità, tra genitori oppressivi e figli
smarriti
In Felicità si racconta la storia di una
famiglia “storta”, di genitori egoisti e
manipolatori (Max Tortora e Anna
Galiena), un mostro a due teste che divora ogni speranza
di libertà dei due figli. Desirè (la stessa
Ramazzotti), acconciatrice per set cinematografici, si rivela
allora la sola che può salvare suo fratello
Claudio (Matteo Olivetti), frustrato
dall’incapacità di trovarsi un lavoro e smarcarsi dall’ombra dei
due genitori. Per lui, ma anche per sé stessa, Desirè si troverà
allora a lottare contro tutto e tutti, anche contro l’oppressivo
compagno Bruno (Sergio Rubini),
in nome dell’unico amore che conosce, per inseguire un po’ di
felicità.
La prima volta di Micaela
Le opere prime, si sà, sono
pericolose. Bisogna avere qualcosa da dire, bisogna sapere come
dirlo altrimenti si rischia di non offrire nulla al proprio
pubblico. La Ramazzotti sembra essere stata consapevole di tali
rischi, evitati grazie al suo decidere di raccontare una storia in
parte ispirata a qualcosa di autentico, come da lei dichiarato.
Qualcosa che conosce, che sa indagare e rappresentare. Ci si
potrebbe lamentare che di storie su famiglie problematiche se ne
vedono tante nel cinema, ma l’ambizione con Felicità non è
necessariamente quella di raccontare una storia originale,
l’importante è che sia autentica.
Questa autenticità la regista la
trova grazie ad una serie di dettagli che ci raccontano i
personaggi meglio di tante parole. Basta un’inquadratura di Desirè
che fruga nella borsa del fratello, trovandovi pasticche e un
gratta e vinci usato, per raccontarci ciò che sullo schermo non
viene mostrato. Un “dietro le quinte” che apre dunque le porte
dell’immaginazione dello spettatore, arricchendo così il racconto.
Allo stesso tempo, la Ramazzotti limita i virtuosismi che si
potrebbe essere tentati di utilizzare, specialmente alla prima
esperienza come regista, confezionando un film contenuto,
focalizzato sui personaggi e le loro vicende.
Scritto dalla Ramazzotti insieme a
Isabella Cecchi e Alessandra
Guidi, Felicità non è esente da alcune ingenuità
tipiche delle opere prime, come la rappresentazione di alcune
situazioni o la risoluzione di alcune linee narrative. Lo stesso
finale, ad esempio, avrebbe probabilmente meritato una maggiore
attenzione in fase di scrittura, in quanto così com’è potrebbe
risultare troppo brusco nel suo svolgersi, smorzando le emozioni
che sì sono fin lì suscitate. Ma davanti a tali difetti si può
chiudere un occhio, considerando che si ha con Felicità
avuto il coraggio di portare sul grande schermo una serie di
tematiche che raramente trovano spazio, nel cinema con nei
dibattiti quotidiani.
Parlare di disagio giovanile è un
conto, addentrarsi nel bosco oscuro della depressione un altro
ancora. La Ramazzotti non si fa però spaventare e sceglie di andare
a raccontare ciò che non si può vedere, quella malattia della mente
tanto sottovalutata quanto pericolosa. Sono dunque capaci di
catturare l’attenzione le scene dove si prende di petto tale
argomento, che il giovane Matteo Olivetti prende
in modo convincente sulle proprie spalle. Il suo volto diventa la
lavagna su cui la regista va a lavorare, costruendo per Claudio un
netto abisso tra mondo interiore ed esteriore.
C’è dunque molta attenzione nei
confronti di un tema così delicato, così come ce ne è nel
raccontare di quanto i genitori o in generale gli appartenenti ad
una generazione differente, sottovalutino il problema. In questo
deserto delle emozioni, il rapporto tra Desirè e Claudio è allora
un punto di calore particolarmente forte. Dal loro rapporto si
sprigionano una serie di sensazioni, sentimenti e preoccupazioni
che arrivano anche allo spettatore, rendendolo partecipe del loro
legame. Insomma, la Ramazzotti si contiene da un punto di vista
formale per lavorare sui contenuti, rendendo così Felicità
un’opera prima decisamente notevole.
Dopo la parentesi statunitense,
durante la quale ha realizzato i film Soldato e Senza rimorso, il regista
Stefano Sollima torna in Italia per
concludere una sua trilogia spirituale sulla criminalità romana. Lo
fa con Adagio, presentato in concorso
alla Mostra del Cinema di Venezia, proponendo una
storia che ha per protagonista Manuel, un ragazzo di sedici anni
che si ritrova suo malgrado invischiato in questioni ben oltre la
sua portata. Inseguito da alcuni ricattatori, che si rivelano
essere estremamente pericolosi e determinati a eliminare quello che
ritengono uno scomodo testimone, i ragazzo dovrà chiedere
protezione a due ex-criminali, vecchie conoscenze del padre.
Quello in Adagio è un clima
apocalittico, che sembra annunciare la fine di un certo mondo e dei
suoi personaggi ma anche l’arrivo di una nuova generazione.
“Alcuni elementi drammaturgici, come gli incendi o i blackout,
hanno una funzione tutt’altro che distopica all’interno del
film. – spiega Sollima aprendo la conferenza stampa – In
realtà è parte della città e di come io la vivo. Volevo tornare a
raccontare Roma, trasfigurandola certo, ma con situazioni proprie
della sua realtà. Adagio, insomma, è un mio modo di vederla e di
annotare i suoi cambiamenti nel tempo”.
Adagio, tra lavoro sul corpo e ricerca di
redenzione
Nel film ritroviamo un cast composto
da alcuni dei più grandi interpreti del cinema italiano: Piefrancesco
Favino, Toni Servillo,
Valerio
Mastandrea, Adriano
Giannini e Francesco Di
Leva. A raccontare per primo della sua esperienza sul
set è stato Toni Servillo, il quale ha raccontato
che questo “è il mio primo film con Sollima. Sono rimasto
ammaliato dalla sceneggiatura e poi dal lavoro sul set. Daytona, il
mio personaggio, recita nella recita, quindi è particolarmente
affascinante per un attore. Abbiamo a che fare con personaggi
criminali che hanno vissuto entro certe regole e che intendono
rispettarle fino alla fine, consapevoli di sbattare così contro un
destino inevitabile”.
“È una storia di uomini che
fanno i conti con sé stessi e quella libertà che si immagina
abbiano avuto cercano di mantenerla fino all’ultimo, rilanciando
sui giovani“, conclude Servillo. La parola passa poi a
Piefrancesco Favino, che descrive ulteriormente il
film e i suoi protagonisti affermando che “lavorare per Stefano
vuol dire occupare lo spazio con il corpo in modo diverso dal
solito. C’è sempre un senso di invenzione, per cui anche se ci sono
elementi storici precisi era possibile aggiungere qualcosa in più.
Per questi personaggio io ho sempre pensato a quei cani che quando
stanno per morire cercano la solitudine. Poi però può capitare che
arrivi la chiamata ad una guerra antica che risveglia l’adrenalina,
la voglia di vivere”.
“Stefano è un regista punk, nei
suoi film non c’è redenzione. Non sono storie di bene o male, ma
storie di uomini che c’hanno delle cose da fare. I personaggi sono
falene impazzite che ruotano attorno alla propria ossessione. Il
messaggio però è che per fortuna le colpe dei padri non sempre si
tramando ai figli“, conclude Favino, lasciando la parola a
Valerio Mastandrea che riguardo il suo
coinvolgimento afferma “quando Stefano mi ha fatto leggere la
sceneggiatura ho pensato ‘che bella storia di vecchi, mi piacerebbe
vederla al cinema’, non avevo capito che mi stava offrendo un
ruolo”. Sollima spiega allora che “Adagio era un
soggettodi poche pagine con tre vecchie leggende della
Roma criminale. Alla fine però volevo lavorare con persone che amo
e stimo, quindi abbiamo rivisto un po’ l’età dei
personaggi”.
Adriano Giannini
torna invece sul discorso del corpo nello spazio e spiega che
“tutti noi attori abbiamo fatto un lavoro sul corpo, perché il
tipo di linguaggio cinematografico scelto ci obbligavano a creare
delle grandezze, delle deformità fisiche per entrare meglio in
quell’immagine che Stefano aveva in mente. Da attore non sempre hai
la percezione di poter lavorare così”. Nel film recita anche
il giovanissimo Gianmarco Franchini, nel ruolo di
Manuel. L’attore ha ricordato l’esperienza affermando che “per
me è stato come essere un bambino al luna park. Sono un fan di
Stefano e ho potuto recitare con alcuni dei migliori attori oggi in
Italia. E Stefano teneva molto alla mia opinione, voleva sapere
cosa ne pensavo, cosa potevo aggiungere. È stato un lavoro in
sinergia“.
Adagio chiude la trilogia su Roma di Sollima
Come riportato in apertura,
Adagio conclude la trilogia di Sollima che ha come
argomento centrale la criminalità romana. Dopo ACAB – All Cops Are
Bastards e Suburra, con Adagio si
va dunque a rappresentare la decadenza di quel mondo e l’estinzione
dei suoi rappresentanti. “Questo genere che tratto, il crime,
continuerà a piacermi. Adagio è sì una chiusura della trilogia su
Roma vista e traslata in chiave criminale. Ma questo non vuol dire
che sicuramente cambierò genere di racconto con il mio prossimo
progetto. Magari farò altri film di questo tipo, anche se non
necessariamente a Roma“. In attesa di scoprire cosa riserva il
futuro per Sollima, Adagio uscirà in sala il 14
dicembre, distribuito da Vision
Distribution.
È stato presentato Fuori concorso
allaMostra del Cinema di
Venezia il film The Palace, il nuovo
lungometraggio del regista premio Oscar Roman Polanski ambientato al
Palace Hotel, uno straordinario castello progettato all’inizio del
1900 che si trova nel bel mezzo di una valle svizzera innevata,
dove ogni anno convergono da tutto il mondo ospiti ricchi e
viziati, in un’atmosfera gotica e fiabesca. La festa di Capodanno
2000 li ha riuniti tutti in un evento irripetibile. Al servizio
delle loro stravaganti esigenze c’è uno stuolo di camerieri,
facchini, cuochi e receptionist. Hansueli, zelante direttore
dell’albergo, passa in rassegna lo staff prima dell’arrivo degli
ospiti, ribadendo che, pur essendo l’alba del nuovo millennio, non
sarà la fine del mondo.
In effetti quella che si prepara è
davvero una guerra combattuta a colpi di stravaganze ed
eccentricità degli ospiti dell’hotel. Le varie storie danno vita a
una commedia assurda, nera e provocatoria. È la fine del 1999: non
solo l’epilogo di un secolo, ma la fine di un intero e controverso
millennio, e nell’aria aleggia il Millennium Bug. Polanski torna
dunque ad uno dei suoi filoni prediletti, quello della satira,
ponendo alla berlina l’umanità e le direzioni da essa intrapresa.
Polanski non è però potuto essere a Venezia per presentare il film,
lasciando dunque tale onore al suo cast di attori, composto da
Luca
Barbareschi, Fortunato Cerlino,
Fanny Ardant, Mickey Rourke,
Oliver Masucci e Milan
Peschel.
L’esperienza di produrre Roman Polanski
“Questo è un film per molto
importante, come lo sono stati gli altri realizzati con Polanski.
– esordisce Barbareschi in conferenza stampa – Èun film di attori, corale, in cui Roman ha voluto dar vita ad
un affresco straordinario di cosa è diventato questo mondo
oggi”. Barbareschi, oltre ad essere tra i protagonisti del
film, ne è anche produttore e proprio di questa esperienza ha
voluto parlare, affermando che “Lavorare con Roman è
meraviglioso, perché produttivamente ha sempre ragione. Produrre un
suo film quindi non è facile ma siamo felici di averlo fatto per
questo che è ben più che una commedia. Un’opera speciale, che dopo
L’ufficiale e la spia propone
una storia molto divertente, quasi balzacchiana”.
“Polanski ha compiuto 90 anni
quest’anno, ma ha un’energia impressionante. Spero di fare presto
un altro film insieme. Penso inoltre che il direttore artistico
della Mostra del Cinema sia stato molto coraggioso ad invitarci,
perché è giusto che un evento come questo punti a rappresentare
ogni sfumature del cinema e dei suoi linguaggi. E penso che non
possa e non debba esserciun giudizio morale
sull’arte.Ancora non mi spiego perché L’ufficiale e la
spia non sia stato distribuito nei paesi anglosassoni, ma poi è
anche così che si scatenano le guerre, negando all’arte di
circolare e toccare il cuore e la mente delle
persone”.
Recitare per Polanski in The Palace
Barbareschi passa poi a parlare del
personaggio da lui interpretato, un anziano porno attore di nome
Bongo. “È un personaggio emblematico di questo secolo, dove il
nuovo Dio è il selfie, ovvero l’egocentrismo. Bongo è un
egoriferito, pensa solo al proprio bagaglio di vita. Ma la cosa
divertente di una pornostar è che invecchiando lo riconoscono solo
i vecchi e quindi si deve confrontare con questo declino. È quindi
anche una metafora di un mondo sessualizzato, dove tutto è
pornografia”. Nel film recita anche l’attrice francese
Fanny Ardant, che ha racconto di aver ritrovato
con The Palace“la gioia di lavorare con un uomo
appassionato, che ricerca l’assoluto in ogni particolare”.
Barbareschi non è stato però l’unico
italiano a recitare nel film, dove possiamo ritrovare anche
Fortunato Cerlino, nel ruolo di Tonino,
receptionist dell’albergo. “È statoun grande
privilegio aver lavorato con un simile maestro.– ha
dichiarato l’attore – Mi piace associare questo film ad
una commedia dell’arte. Ogni personaggio porta sostanzialmente una
maschera e così nel corso del racconto ci ritroviamo davanti agli
occhi qualcosa di molto buffo ma anche profondamente tragico.
Perché come diceva Cechov, quando sei davanti a qualcosa di
estremamente tragico allora non puoi che ridere”.
La parola passa poi a Oliver
Masucci, interprete del diretto del The Palace:
“volevo lavorare con Roman e cercavo di farlo da tempo.
Inizialmente per il personaggio che interpreto in The Palace aveva
pensato a Christoph Waltz, il quale però non ha potuto partecipare.
Così sono arrivato io e lavorare con Roman è stato come trovarsi in
teatro, dove puoi provare più volte le scene, trovare il giusto
punto di vista.” Anche Milan Peschel si
unisce alle lodi nei confronti di Polanski, affermando di aver
trovato in lui un regista aperto all’improvvisazione e capace di
comunicare molto con poco.
Al via le riprese del film
Leopardi &Co una
co-produzione Camaleo/Eagle Pictures – il film diretto da
Federica Biondi vede il debutto in un film
italiano del Premio Oscar Whoopi
Goldberg. Nel cast Jeremy Irvine (War
Horse), Denise Tantucci,
Paolo Calabresi e Paolo Camilli. La produzione ha
avuto il nulla osta dal SAG per poter iniziare le riprese.
Leopardi & Co. è
una commedia romantica, girata interamente a Recanati, in cui
l’amore fra i due giovani protagonisti, David e Silvia, sboccia e
cresce nella cittadina marchigiana, ruotando attorno al mito senza
tempo di Giacomo Leopardi. Il film, che ha ottenuto dal SAG il
nulla osta per iniziare le riprese, segna il debutto in un film
italiano di Whoopi Goldberg, una delle 18
personalità al mondo che possono vantare di aver raggiunto lo
status di EGOT (vincitrice di Emmy, Golden Globe,
Oscar e Tony Award).
Diretto dalla talentuosa
regista marchigiana Federica Biondi (La
Ballata dei Gusci Infranti), il film è interpretato anche da
Jeremy Irvine (Mamma Mia! Ci risiamo, War
Horse) Denise Tantucci( HotSpot – Amore
Senza Rete, Tre Piani), Paolo Calabresi
(Trilogia Smetto Quando Voglio, Boris), e Paolo
Camilli(The White Lotus).
Il film scritto da Mauro Graiani da
un’idea originale di Roberto Cipullo e Nicola
Barnaba, è una co-produzione CAMALEO e EAGLE PICTURES.
Gabria Cipullo, Ceo di Camaleo, ha commentato: “Per noi
si tratta di una nuova ed affascinante sfida: grazie alla fiducia
che ci ha dato Eagle siamo riusciti a portare a Recanati un cast
stellare al servizio di una storia che siamo sicuri emozionerà il
pubblico di tutto il mondo”.
Andrea Goretti, Amministratore
Delegato di Eagle Pictures, ha commentato: “Quando
Roberto Cipullo ci ha proposto questa storia non abbiamo avuto
esitazioni. La conferma definitiva sulla bontà del progetto è poi
arrivata quando attori di questo livello hanno scelto di prenderne
parte”.
La trama di Leopardi & Co
David (Jeremy Irvine) è un giovane
attore americano che sogna un ruolo in grado di consacrarlo come
una vera star mondiale. Ma David è talmente superficiale che
nemmeno legge i copioni che gli arrivano finché la sua agente
Mildred (Whoopi Goldberg) lo costringe ad accettare il ruolo di
protagonista in “Giacomo in Love” film diretto dal mitico regista
italiano Ruggero Mitri (Paolo Calabresi). David, convinto sia la
storia di Casanova, arriva sul set a Recanati totalmente
impreparato per cui viene affidato a Silvia (Denise Tantucci) una
coach del luogo col compito di spiegare all’americano chi era il
Sommo. Tra i due è odio a prima vista…
È stata rivelata una
nuovissima clip di The Nun
2,il prossimo sequel horror dellaNew Line Cinema, che anticipa un’altra sequenza spaventosa.
The Nun
2 dovrebbe arrivare nelle sale l’8
settembre.Il video è ambientato in un collegio
cattolico, dove un gruppo di ragazzi fa uno scherzo a una delle
loro compagne di scuola chiudendola in una stanza
decrepita. Lo spaventoso scherzo si trasforma in un vero e
proprio incubo, quando
Valak appare all’improvviso dietro la ragazza ignara.Guarda la clip di The Nun
2:
New Line Cinema
presenta il thriller horror The Nun 2,
il secondo capitolo della saga di “The Nun“,
l’opera di maggior successo dell’universo “The
Conjuring“, che ha incassato più di 2 miliardi di dollari. 1956
– Francia. Un prete viene assassinato. Un male si sta diffondendo.
Il sequel del film campione d’incassi segue le vicende di Suor
Irene, quando viene a trovarsi nuovamente faccia a faccia con
Valak, la suora demoniaca.
Taissa Farmiga (“The Nun”, “The Gilded Age”) torna nel ruolo di Suor
Irene, affiancata da Jonas Bloquet (“Tirailleurs”, “The Nun”),
Storm Reid (“The Last of Us”, “The Suicide Squad”), Anna Popplewell (“Fairytale”,
la trilogia de “Le cronache di Narnia”) Bonnie Aarons (al suo
ritorno in “The Nun”) e da un cast di star internazionali. Michael
Chaves (“The Conjuring: The Devil Made Me Do It”) dirige da una
sceneggiatura di Ian Goldberg & Richard Naing (“Eli”, “The Autopsy
of Jane Doe”) e Akela Cooper (“M3GAN”, “Malignant”). Da una storia
di Akela Cooper, basata sui personaggi creati da James Wan & Gary
Dauberman. Il film è prodotto dalla Safran Company di Peter Safran
e dalla Atomic Monster di James Wan che danno seguito alle passate
collaborazioni nei precedenti film della saga “Conjuring”.
Produttori esecutivi di “The Nun II” sono, Richard Brener, Dave
Neustadter, Victoria Palmeri, Gary Dauberman, Michael Clear, Judson
Scott e Michael Polaire.
Nel team creativo che ha affiancato
il regista Michael Chaves troviamo il direttore della fotografia
Tristan Nyby (“The Conjuring: The Devil Made Me Do It”, “The Dark
and the Wicked”), lo scenografo Stéphane Cressend (“Les Vedettes”,
“The French Dispatch”), il montatore Gregory Plotkin ( “Scream”
2022 e “Get Out”), la produttrice degli effetti visivi Sophie A.
Leclerc (“Finch”, “Lucy”), la costumista Agnès Béziers (“Oxygen”,
“The Breitner Commando”), e il compositore Marco Beltrami (
“Scream” del 2022 e ”Venom: Let There Be Carnage”) autore della
colonna sonora.
L’universo “The Conjuring”
rappresenta la saga horror di maggior successo nella storia al box
office con un incasso complessivo globale di 2 miliardi di dollari.
A livello mondiale, quattro dei titoli di “The Conjuring” hanno
incassato ciascuno oltre 300 milioni di dollari nel mondo (“The
Nun” $366 million; “The Conjuring 2” $322 million; “The Conjuring”
$320 million; “Annabelle: Creation” $307 million), e ogni titolo
della saga ha incassato non meno di 200 milioni di dollari. “The
Nun” è al vertice di questa classifica, con i suoi oltre 366
milioni di dollari nel mondo. New Line Cinema presenta, una
produzione Atomic Monster / Safran Company, “The Nun II” che sarà
nelle sale italiane a settembre distribuito da Warner Bros.
Pictures.
Nella sua lunga carriera,
Tony Leung Chiu-wai ha recitato in tre film che
hanno vinto il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia, e
oggi riceve finalmente il suo Leone d’Oro alla carriera,
che, come dice lui stesso, non deve dividere con nessuno, questa
volta.
L’attore e cantante di
Hong Kong è una delle star asiatiche di maggior successo e
riconosciute a livello internazionale. Tra i suoi film più
importanti a livello mondiale ricordiamo il capolavoro di
Wong Kar-wai del 2000, In the Mood for Love, per il quale ha vinto il
premio come miglior attore a Cannes. Le sue altre collaborazioni
con Wong includono Chungking Express,
Happy Together e The
Grandmaster.
Leung ha anche recitato in
Hero, film candidato all’Oscar di Zhang
Yimou, e nei successi al botteghino Hard
Boiled di John Woo e Infernal
Affairs di Andrew Lau e
AlanMak. Quest’ultimo film, in particolare, è
stata l’ispirazione originale per The Departed, con cui Martin
Scorsese ha vinto un Oscar.
“Finalmente posso averlo per me,
non devo condividerlo con nessuno” ha detto oggi in conferenza
stampa Tony Leung, parlando del riconoscimento
alla carriera al Festival di Venezia, dove è stato ospite
diverse volte con i suoi film (i tre vincitori del Leone d’Oro in
cui ha recitato sono A City of Sadness di
Hsiao-Hsien Hou, Cyclo di Tran Anh-hung e
Lust, Caution di Ang Lee).
L’attore ha ripercorso la sua
carriera, raccontando di come la recitazione lo abbia aiutato a
superare la sua timidezza. Attraverso questo mezzo espressivo,
Leung “ha trovato il modo di esprimersi di fronte ad altre
persone senza essere timido perché non sanno che sono io, pensano
che sto interpretando un personaggio”.
Alla domanda sulle sue
collaborazioni con Wong Kar-wai, Tony
Leung ha osservato: “È così diverso rispetto agli
altri registi. Non abbiamo mai una sceneggiatura completa quando si
lavora con lui, quindi non so cosa preparare prima delle riprese.
Ricevo la sceneggiatura solo quel giorno: è molto
sperimentale”. A volte, ha spiegato, una scena viene girata
otto volte in vari costumi e ambientazioni, “È il motivo per
cui i film di Wong Kar-wai a volte richiedono alcuni
anni…”.
Proprio in merito a In The Mood For Love, forse la sua
collaborazione più importante con Wong Kar-wai,
Leung commenta la citazione di quel film in Everything
Everywhere All At Once: “Ho visto il film su un volo, non
ricordo dove. È stato interessante, una specie di tributo ad alcuni
film degli anni ’80 e ’90. È stato un film molto interessante, un
film molto speciale”. Per quello che riguarda il suo percorso in
carriera e i suoi obbiettivi da attore, Leung ha affermato di non
aver mai seguito un percorso professionale specifico: “Nella
mia carriera di attore non pianifico mai cosa voglio fare dopo,
perché penso che il destino unisca le persone. Quando succede
qualcosa, succede. Non calcolo mai se voglio fare film o no… uso il
cuore”.
Di recente il suo cuore si è posato
su The Goldfinger di Felix Chong,
un film poliziesco d’azione ambientato negli anni ’80 basato su
eventi reali che uscirà nelle sale di Hong Kong il 30 dicembre.
Leung lo ha definito una sorta di American Hustle
che incontra The Wolf of Wall Street. Nel
film, Leung avrà “finalmente” la possibilità di interpretare un
cattivo. Inoltre, lo farà al fianco di Andy Lau
che in Infernal Affairs era il cattivo. “Per me è molto
impegnativo interpretare il cattivo, e questa volta Andy interpreta
il buono. Vent’anni dopo Infernal Affairs, ci scambiamo i
ruoli”.
Nel corso della serata, Tony Leung
sarà il protagonista della cerimonia di consegna del Leone d’Oro
alla carriera nella Sala Grande.
Personaggi di vario genere e sfumatura, narrazioni complesse,
intrecci avvincenti: sono questi gli ingredienti principali grazie
ai quali il MCU è diventato il
franchise dei fumetti più redditizio, acclamato e amato a livello
mondiale. L’avere tanto materiale a disposizione da poter sfruttare
ha portato anche, ed inevitabilmente, ad una serie di plot twist
inaspettati, nati e cresciuti soprattutto grazie alla grande
quantità di eroi e villain presenti. Molti di questi colpi di scena
derivano in particolare dai tradimenti: se però la
maggior parte possono dirsi telefonati grazie all’andamento della
storia, ce ne sono alcuni invece del tutto imprevedibili e
scioccanti. Arrivati quando il pubblico proprio non se li
aspettava. Scopriamo perciò quali sono i dieci tradimenti
dei film Marvel più inaspettati e
strazianti.
Il tradimento di Nebula
L’introduzione del personaggio di
Nebula nel MCU – sorella di
Gamora e figlia adottiva di
Thanos – è stata fatta mostrando al pubblico una certa rivalità
fra le due aliene. Salvo poi lentamente risanare e al tempo stesso
solidificare il loro rapporto. Quando perciò
Nebula diventa un Avengers, tutto ci si sarebbe aspettato
tranne che tradisse i suoi compagni in Avengers:
Endgame, in prima istanza perché ha una vendetta personale
contro il folle padre, con il quale in realtà la vediamo alleata.
Nonostante questo, è anche giusto dire che il tradimento di Nebula
non è poi così scandaloso come altri, in quanto il film lo
inserisce utilizzando la sua versione alternativa. Una mossa tutto
sommato intelligente.
Il tradimento di Yon-Rogg
Uno dei tradimenti forse considerati fra i più scioccanti è quello
di Yon-Rogg, presente nel film Captain
Marvel. La pellicola ce lo presenta come mentore Kree di
Carol Danvers, affetta da amnesia cosmica, e il suo personaggio
sembra avere tutte le carte in regola per essere, oltre che un
collega, un vero e sincero amico. Andando avanti con la narrazione,
però, la sua vera identià salta fuori: si scopre infatti che le
intenzioni dei Kree sono tutt’altro che nobili e che Yon-Rogg ha
manipolato Carol Danvers per tutto il tempo. Pur potendo essere
l’evento telefenato, l’interpretazione avvincente di
Jude Law è riuscita a ingannare tutti, tanto che quando il
tradimento avviene lo fa essere inaspettato.
Il tradimento di Black Widow
Un altro tradimento
importante del MCU, inflitto da un
Avengers all’altro, è quello che ha come protagonista
Black Widow, che nell’universo cinematografico della Marvel è presentata come una delle
spie più importanti. In Captain America: Civil War, l’eroina si schiera con
Iron Man per gli Accordi di Sokovia, andando di conseguenza
contro il suo amico di vecchia data Steve Rogers. Nel momento in
cui però lo cattura, Black Widow ha un improvviso ripensamento, che la
porta a tradire Tony Stark, lasciando che Rogers vada via. Questo,
alla fine, conduce ad una sorprendente svolta finale.
Il tradimento di Kamran
Passiamo dai film alle serie del MCU, e arriviamo a
Ms. Marvel, show che ha debuttato nel 2022 sulla
piattaforma
Disney+, e che ha introdotto nell’universo Kamala Khan. Oltre
lei, il pubblico fa anche la conoscenza dei Clandestini, un gruppo
di potenti esseri provenienti dalla Dimensione Noor. Fra di essi
c’è Kamran, figlio adolescente della leader dei Clandestini Najma,
che li aiuta a manipolare la protagonista affinché esegua i loro
ordini. Ad un certo punto, però, assistiamo ad un plot twist
abbastanza inaspettato: Kamran, infatti, decide di aiutare Kamala
nel tentativo di eludere il Dipartimento di Controllo dei Danni e
in questo modo tradisce i suoi simili. La scelta del personaggio
porta alla morte della madre e dei suoi compagni di squadra, ed
oltre ad essere un momento imprevedibile, segna anche un cambio di
rotta e di lealtà da parte del character molto risonante.
Il tradimento di Arnim Zola
Torniamo ai film del MCU e precisamente a
Captain America: Il primo vendicatore, la cui storia
introduce Arnim Zola, scienziato dell’HYDRA
e stretto collaboratore del Teschio Rosso durante la Seconda Guerra
Mondiale. Sin da subito è chiara la grande fedeltà del personaggio
nei confronti dell’HYDRA, salvo poi venire catturato dall’esercito
americano. Quando Steve Rogers/Capitan America si risveglia nel
presente, questi scopre che Zola ha in realtà disertato lo SHIELD e
ha lavorato con l’organizzazione per molti anni. Il suo tradimento,
perciò, risulta inaspettato solo fino a quando ill film non rivela
che è sempre stato un agente doppiogiochista.
Il tradimento di Nick Fury
Il
personaggio di
Nick Fury, sin dal momento in cui è stato introdotto nel
MCU, si è sempre rivelato
fra quelli più buoni. Uno dei momenti che va a dimostrazione di
quanto detto si può ricercare in Capitan
Marvel, quando Fury promette alla popolazione degli Skrull
di trovare per loro una nuova casa nello spazio, in cui poter
vivere. Una promessa che però in Secret
Invasion, show che ha recentemente debuttato su
Disney+, scopriamo non essere stata mantenuta. La serie rivela
che
Fury, oltre a non essere stato corretto con gli Skrull, ne ha
anche sposato uno. Il suo tradimento risulta essere dunque ancor
più grave, in quanto rinnega la sua promessa dopo aver iniziato una
relazione proprio con uno di loro.
Il tradimento di Capitan America
Uno dei personaggi più amati del MCU è Steve Rogers, alias
Capitan America. Un supereroe forte, tenace, risoluto, che nel
corso della sua storia ha dovuto affrontare diverse situazioni
scomode e difficili, oltre che prendere decisioni cruciali. Una
delle più inaspettate è il tradimento di Rogers nei confronti di
Iron Man. L’evento
è inserito all’interno di Captain America: Civil War, quandoTony Stark viene a
sapere che Bucky Barnes, ossia il
Soldato d’Inverno, è responsabile della morte dei suoi
genitori, poiché li ha uccisi per volere dell’HYDRA.
Quando questo avviene, Capitan America si trova in estrema
difficoltà, in quanto è riuscito a salvare da poco l’amico dal
lavaggio del cervello. Rogers in quel momento non ha scelta: si
schiera dalla sua parte, ammettendo a Stark di essere sempre stato
a conoscenza degli omicidi. Quella rivelazione risulta inaspettata
data la natura onesta dell’ereo, e rennde il tradimento ancora più
profondo.
Il tradimento di Xialing
Nel 2021 il MCU decide di introdurre
un altro personaggio, Shang-Chi, esperto di arti marziali, con un
nuovo film: Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli. Oltre lui,
viene introdotto anche un nuovo villain, Mandarino, antagonista
della storia, il quale si scopre essere suo padre Wenwu. Accanto a
Shang-Chi combatte però la sorella Xialing, la quale, in seguito
alla morte del padre, promette al fratello di sciogliere
l’organizzazione dei Dieci Anelli. La scena post-credits del film
mostra Xialing assumere invece il controllo dei Dieci Anelli,
tradendo in questo modo Shang-Chi e trasformandosi di conseguenza
in un futuro cattivo del Marvel Cinematic
Universe. Il tradimento anche qui risulta decisamente
inaspettato, poiché avviene quasi subito dopo la promessa fatta da
lei a Shang-Chi, e lascia persino intendere che i due diventeranno
nemici.
Il combattimento di Ikaris contro gli Eterni
Parliamo ora di Eternals,
film del MCU che introduce gli
Eterni, creature immortali e dotate di superpoteri provenienti dal
pianeta Olimpia. Nel racconto diretto da Chloé Zao, molto della
storia originale viene modificato, e questo porta ad assistere a
diversi inaspettati colpi di scena nella pellicola. Quello più
impattante e scioccante ha come protagonista Ikaris, il quale verso
metà della trama si scopre aver ucciso il leader degli Eterni,
Ajak. Non solo: Ikaris sta anche lavorando contro i suoi compagni
per permettere la distruzione della Terra. Nei fumetti, l’eroe non
è così cattivo come invece appare in Eternals, e soprattutto non diventa mai l’antagonista
principale della narrazione.
L’uccisione di Gamora
Ma
se proprio dobbiamo classificare i tradimenti peggiori del
MCU, quello più difficile
da digerire – e soprattutto inaspettato – riguarda
Thanos. L’uccisione di Gamora da parte del Titano pazzo è la
più terrificante, e per cui si aggiudica il primo posto. Avengers:
Infinity War aveva dato modo al suo pubblico di fargli
conoscere meglio Thanos, mostrandogli anche tutto il processo che
lo aveva condotto ad adottare la piccola aliena verde. Lo
spettatore assiste perciò alla costruzione del loro rapporto, in
cui si evince l’affetto profondo che il Titano nutre per lei. È
solo dopo questo momento che Avengers: Inifity War fa scoprire a Thanos di dover
sacrificare la persona che più ama, dunque Gamora, per poter
recuperare la Gemma dell’Infinito. La decisione del Titano – pur a
malincuore – di uccidere la figlia e preferire il potere lo rende
un tradimento, oltre che inaspettato, straziante.
Michele Bravi, nel
cast di Finalmente
l’Alba di Saverio Costanzo, ha
raccontato la sua esperienza nel film in Concorso alla Mostra
d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia edizione numero
80. Finalmente
l’Alba è il viaggio lungo una notte della giovane
Mimosa che, nella Cinecittà degli anni Cinquanta, diventa la
protagonista di ore per lei memorabili. Una notte che da ragazza la
trasformerà in donna.
Inizialmente
volevo scrivere un film sull’omicidio della giovanissima Wilma
Montesi, avvenuto nell’aprile del 1953, che rappresentò per
l’Italia il primo caso di assassinio mediatico. La stampa speculò
sulla vicenda, che coinvolgeva personalità della politica e dello
spettacolo, e nel pubblico nacque un’ossessione che presto diventò
indifferenza. La vittima scomparve dalle cronache per fare posto
alla passerella dei suoi possibili carnefici. Poi, come accade
spesso scrivendo, l’idea iniziale è cambiata e piuttosto che far
morire un’innocente ne ho cercato il riscatto. Mi piace infatti
pensare che Finalmente l’alba sia un film sul riscatto dei
semplici, degli ingenui, di chi è ancora capace di guardare il
mondo con stupore. La protagonista Mimosa è un foglio bianco, su
cui ognuno dei personaggi in cui s’imbatte scrive la sua storia,
senza paura di essere giudicato. Mimosa è una ragazza semplice,
una giovanissima comparsa di Cinecittà che nella Roma degli anni
Cinquanta accetta l’invito mondano di un gruppo di attori americani
e con loro trascorre una notte infinita. Ne uscirà diversa,
all’alba, scoprendo che il coraggio non serve a ripagare le
aspettative degli altri, ma a scoprire chi siamo
Grande amico della Mostra di
Venezia, Harmony Korine arriva al Lido mascherato e
sereno, a
presentare Fuori Concorso il suo nuovo film Aggro
Dr1ft, quello che sembra l’inizio di un nuovo capitolo
nella sua filmografia, sempre molto concreta e legata al reale e ai
personaggi.
In merito a questo nuovo lavoro, un
tuffo nella sperimentazione, Korine spiega: “Non ero
soddisfatto nel fare o guardare i film tradizionali, e ho
cominciato a pensare che ci fosse qualcosa oltre la loro
realizzazione. Volevo sperimentare l’idea di cosa venisse per me
dopo che un film è finito, per me è stata una specie di esperienza
sensoriale, una vibrazione, l’essere dentro un
gioco.”
E proprio i videogiochi sono stati
la sua principale ispirazione per la realizzazione del film, in
particolare gli open world, come
Legend of Zelda. “L’ingegneria del giochi mette in campo
una vera e propria creazione di un mondo, oggi, molto più che un
film, l’estetica di un gioco per me è una delle forme espressive
più interessanti in circolazione.”
Ma più che cinema sperimentale,
quello di Harmony Korine è un gioco, un tentativo
di riconnettersi con l’arte del cinema: “Non volevamo
realizzare un esperimento tecnico, ma volevo divertirmi con il
medium. Non c’era più senso di divertimento e di gioco nel processo
della realizzazione dei film, e quindi ho voluto tornare a quello
che mi faceva divertire, un tentativo di innamorarmi di nuovo del
processo.”
Per farlo, Harmony Korine ha utilizzato una serie di
strumenti precisi, come le termocamere, che gli hanno consentito un
modo diverso di girare, utilizzando anche un vocabolario differente
e specifico. “È stato divertente anche solo provare cose nuove.
Provare un misto di tecnologia e creatività, spingere la tecnica
per vedere creativamente dove si poteva arrivare. Stiamo lavorando
adesso una dream box, che permette di creare immagini solo
pensandole. È questo il tipo di cose che mi piace fare, è un
continuo esperimento.”
Evento Speciale alle
Giornate degli Autori, “L’Expérience ZOLA”
di Gianluca Matarrese, con Anne
Barbot e Benoît
Dallongeville è una produzione Bellota
Films e Stemal Entertainment,
prodotto da Dominique
Barneaud e Donatella Palermo,
distribuito
da Luce Cinecittà.
«Con “L’Expérience Zola” Gianluca
Matarrese torna al Lido di Venezia portandoci in un altrove
linguistico e letterario con un film che passa senza soluzione di
continuità dalla finzione al documentario, dalla vita alla
lettaratura e al teatro», dichiara
Gaia FurrerDirettrice artistica
delle Giornate degli Autori.
Anne è una regista teatrale. Si è
separata dal marito e sta cambiando casa. È spenta, senza desideri.
Conosce Ben, vicino di casa servizievole e attore senza scritture.
Lui la guarda con occhi appassionati, lei non vuole mai più
legarsi a un uomo. Ma quando decide di mettere in
scena L’assommoir di Zola, è a lui che propone il
ruolo di Coupeau, riservandosi quello di Gervaise. Man mano che la
storia si sviluppa, il confine tra la vita reale e la
rappresentazione teatrale si riduce sempre di più. Tra letture e
prove, tra ricerca e studio, la realtà sfuma nella finzione e
i due sembrano ripercorrere esattamente tutti i passaggi della
storia di Coupeau e Gervaise, fino alla rovina.
«Anne Barbot e io ci siamo
formati insieme alla École Internationale de Théâtre Jacques Lecoq
– racconta
il regista–
Entrambi mettiamo in discussione la nozione di prospettiva e la
porosità tra realtà e finzione. Insieme abbiamo sperimentato la
creazione di ponti tra due linguaggi: quello del teatro e quello
dell’audiovisivo. L’adattamento teatrale di L’Assommoir di
Emile Zola da parte di Anne è sembrato un ottimo soggetto per
l’esperienza che avevamo in mente».
Nato e cresciuto a Torino,
Gianluca Matarrese si è trasferito a Parigi,
all’età di 22 anni, dove ha completato gli studi di cinema e
teatro. Nel 2008 ha iniziato la sua carriera in televisione come
autore di programmi di entertainment e fiction. Negli ultimi cinque
anni ha realizzato otto film documentari che hanno girato numerosi
festival internazionali (Settimana della Critica, IDFA,
Thessaloniki, CPH, Hot Docs, DMZ, Torino Film Festival, Vision du
Réel, Festival dei Popoli), sostenuto regolarmente da broadcaster
come France Télévisions e Arté.
Dopo il successo al box office,
arriva su Sky l’attesissimo nuovo capitolo della
saga di Shrek di Dreamworks Animation, con protagonista l’impavido
felino spadaccino,
Il gatto con gli Stivali 2: L’ultimo desiderio,
in prima tv lunedì 4 settembre alle 21.15 su Sky Cinema Uno
(e alle 21.45 anche su Sky Cinema Shrek), in streaming su NOW e
disponibile on demand.
Candidato come miglior film animato
ai BAFTA Awards del 2023 e agli Oscar 2023 come miglior film
d’animazione, vede alla regia Joel Crawford e un
cast di doppiatori superstar come Antonio
Banderas, Salma Hayek Pinault,
Olivia Colman, Harvey Guillén, Samson Kayo, Anthony Mendez,
Wagner Moura, John Mulaney, Florence Pugh, Da’ Vine Joy Randolph e
Ray Winstone, che, nella versione originale, prestano le
loro voci ai divertenti personaggi di questa avventura. Il film è
tratto da una storia di Tommy Swerdlow e
Tom Wheelere la sceneggiatura è di Paul
Fisher e Tommy Swerdlow.
La trama di l gatto con
gli Stivali 2: L’ultimo desiderio
Per la prima volta dopo più di
dieci anni, DreamWorks Animation presenta un nuovo capitolo dalle
favole di Shrek in cui l’audace fuorilegge Gatto con gli Stivali
scopre che la sua passione per il pericolo e la sua noncuranza per
la prudenza prendono il sopravvento. Sebbene abbia perso il conto
lungo la strada, il Gatto ha bruciato otto delle sue nove vite. Per
riaverle, dovrà intraprendere la più grande impresa di sempre.
Il candidato agli Oscar
Antonio Banderas ritorna per dar voce al famigerato
Gatto con gli Stivali, impegnato nel compiere un viaggio epico
nella Foresta Nera alla ricerca della mitica Stella dei Desideri e
nel tentativo di riappropriarsi delle vite perdute. Ma con una sola
vita a disposizione, il Gatto sarà costretto a chiedere aiuto alla
sua ex partner e nemesi: l’affascinante Kitty “Zampe di Velluto”
(la candidata all’Oscar® Salma Hayek Pinault).
Nella loro impresa, il Gatto e
Kitty saranno aiutati – contro ogni buon senso – da uno
sgangherato, loquace e gioioso cane randagio di nome Perro (Harvey
Guillén). Insieme, il nostro trio di eroi dovrà mantenersi un passo
avanti rispetto a Riccioli d’Oro (la candidata all’Oscar Florence
Pugh) e alla Famiglia del Crimine dei Tre Orsi: Mamma orso (la
vincitrice dell’Oscar®Olivia Colman), Papà orso (Ray Winstone) e
Piccolo orso (Samson Kayo), “Grande” Jack Horner (il vincitore agli
Emmy John Mulaney) e il grosso e malvagio cacciatore di taglie, il
Grande Lupo cattivo (Wagner Moura), che ha preso di mira il Gatto.
Il film può contare anche su un cast stellare di comici che include
il medico del Gatto con gli Stivali (il candidato all’Emmy Anthony
Mendez) e Mama Luna (il candidato al Tony Award Da’ Vine Joy
Randolph).
in occasione della prima visione
IL GATTO CON GLI STIVALI 2 – L’ULTIMO DESIDERIOda lunedì 4 a venerdì 8 settembre Sky Cinema Collection
(canale 303) si trasforma in SKY CINEMA SHREK, con tutti i
film del franchise dedicato al simpatico orco verde e il primo
capitolo IL GATTO CON GLI STIVALI. Tutti i film saranno
disponibili anche in streaming su NOW e on
demand.
La saga si apre nel 2001 con il
primo memorabile SHREK, capolavoro che ha
rivoluzionato il mondo delle favole e che ha vinto l’Oscar per il
miglior film d’animazione. Racconta la storia di un orco verde,
scorbutico ma dal cuore buono, che deve liberare la principessa
Fiona, segregata in un castello, che gli farà battere il cuore. Il
divertimento continua con il secondo capitolo campione d’incassi,
SHREK 2. Questa volta Shrek e Fiona devono
affrontare le ire dei genitori di lei, poco propensi ad accettare
un “mostro” come genero. In SHREK TERZO nel regno
di Molto Molto Lontano è morto il re e bisogna trovare il cugino di
Fiona, Arthur, erede del trono per linea di successione. L’orco
verde, insieme agli amici Ciuchino e Gatto con gli Stivali, parte
alla sua ricerca, ma una sorpresa li attende. Il quarto e ultimo
capitolo della saga d’animazione, SHREK E VISSERO FELICI E
CONTENTI, vede Shrek alle prese con i problemi di un padre
di famiglia e una forte nostalgia dei vecchi tempi. Complice la
trappola che gli tende il nano Tremotino, l’orco finirà per vivere
un’altra avventura indimenticabile. Non manca infine IL
GATTO CON GLI STIVAL, primo capitolo della rocambolesca
animazione che vede protagonista il personaggio reso famoso dalla
saga di Shrek. In questa divertente avventura l’amicizia fra il
beffardo Gatto con gli Stivali e Humpty Dumpty si rompe in seguito
a una rapina finita male, ma il destino li riunisce sulla strada
verso la famigerata Oca dalle uova d’oro.
Finalmente l’alba è il viaggio
lungo una notte della giovane Mimosa che, nella Cinecittà degli
anni Cinquanta, diventa la protagonista di ore per lei memorabili.
Una notte che da ragazza la trasformerà in donna.
Inizialmente volevo scrivere un film sull’omicidio della
giovanissima Wilma Montesi, avvenuto nell’aprile del 1953, che
rappresentò per l’Italia il primo caso di assassinio mediatico. La
stampa speculò sulla vicenda, che coinvolgeva personalità della
politica e dello spettacolo, e nel pubblico nacque un’ossessione
che presto diventò indifferenza. La vittima scomparve dalle
cronache per fare posto alla passerella dei suoi possibili
carnefici. Poi, come accade spesso scrivendo, l’idea iniziale è
cambiata e piuttosto che far morire un’innocente ne ho cercato il
riscatto. Mi piace infatti pensare che Finalmente l’alba sia un
film sul riscatto dei semplici, degli ingenui, di chi è ancora
capace di guardare il mondo con stupore. La protagonista Mimosa è
un foglio bianco, su cui ognuno dei personaggi in cui s’imbatte
scrive la sua storia, senza paura di essere giudicato. Mimosa è
una ragazza semplice, una giovanissima comparsa di Cinecittà che
nella Roma degli anni Cinquanta accetta l’invito mondano di un
gruppo di attori americani e con loro trascorre una notte infinita.
Ne uscirà diversa, all’alba, scoprendo che il coraggio non serve a
ripagare le aspettative degli altri, ma a scoprire chi siamo.
L’attrice Micaela Ramazzotti
arriva al lido per presentare in Orizzonti Extra
Felicità, il suo debutto alla regia che la vede
anche protagonista al fianco di Max Tortora, Anna Galiena,
Matteo Olivetti e
Sergio Rubini. Ecco tutte le foto:
Questa è la storia di una famiglia storta,
di genitori egoisti e manipolatori, un mostro a due teste che
divora ogni speranza di libertà dei propri figli. Desirè è la
sola che può salvare suo fratello Claudio e continuerà a lottare
contro tutto e tutti in nome dell’unico amore che conosce, per
inseguire un po’ di felicità.
Felicità è la mia opera prima
e sono così orgogliosa e onorata che proprio la Mostra del Cinema
di Venezia sia il primo festival ad accoglierla e a volerle bene.
La storia, che è in parte ispirata a qualcosa di autentico, parla
di una famiglia patologica, di un percorso psichiatrico, di una
relazione squilibrata, di mediocrità educativa e sociale e di come
lo spirito dell’Italia di questi anni si rifletta sulle persone
meno attrezzate. C’è voluta da parte mia un po’ di faccia tosta a
interpretare Desirè, perché non è certo il ritratto edificante
di una donna virtuosa, anzi è decisamente imperfetta, ingenua, un
po’ bugiarda e anche patetica.
Si è tenuto nella serata il red
carpet di Poor
Things, il nuovo film dell’acclamato regista greco
Yorgos Lanthimos che però era solo a presentare il
film, dato che il cast è in sciopero a Hollywood e dunque no può
promuovere la pellicola. Assenti
Emma Stone,
Mark Ruffalo, William Dafoe. Presenti molti volti
italiani.
La storia incredibile della fantastica
trasformazione di Bella Baxter, una giovane donna riportata in vita
dal dottor Godwin Baxter, scienziato brillante e poco ortodosso.
Bella vive sotto la protezione di Baxter ma è desiderosa di
imparare. Attratta dalla mondanità che le manca, fugge con Duncan
Wedderburn, un avvocato scaltro e dissoluto, in una travolgente
avventura che si svolge su più continenti. Libera dai pregiudizi
del suo tempo, Bella cresce salda nel suo proposito di battersi per
l’uguaglianza e l’emancipazione.