Ancora una volta, i
fratelli Dardenne portano a Cannes i ritratti dei
loro giovani protagonisti, quei ragazzi e ragazze che hanno sempre
scelto come centro delle loro storie, ai quali consacravano il loro
sguardo, la loro ormai celebre macchina a mano a seguire i loro
movimenti, e con Le jeune Ahmed continuano a
portare avanti questa tradizione nel loro cinema.
La differenza di questo Le
jeune Ahmed rispetto alla loro produzione precedente e
costituita dal fatto che questa volta i registi si spostano dal
proletariato bianco, ai margini della società, e si concentrano su
una questione sociale più specifica, la radicalizzazione delle
famiglie di origine araba nel Vecchio Continente, quel fenomeno
sociale che si identifica nel terrorismo islamico di origine
europea. La questione è stata centrale nella cronaca recente del
centro Europa, in particolare nel Belgio dei registi, tuttavia,
staccandosi dalle loro tematiche più consuete.
Ne Le jeune Ahmed,
il giovane Ahmed viene da una famiglia laica, in cui la madre beve
vino e la sorella veste come le pare, una famiglia europea
ordinaria, e pure lui sembra essere completamente adeguato ai
costumi europei. Il suo incontro con un imam però comincia a
cambiare il suo comportamento e il suo modo di vedere la realtà che
lo circonda. A partire dal cambiamento del suo atteggiamento nei
confronti della sua maestra, che le è sempre stata molto vicina a
causa dei suoi problemi di dislessia, cominciamo a capire che la
dottrina islamica radicale sta entrando nel modo di vedere la
realtà di Ahmed: la maestra è una donna, e lui non la può toccare,
secondo quanto dice il Corano, nemmeno tenerle la mano. L’imam
inculca nel ragazzo le credenze più radicali dell’islamismo, fino a
portare alla luce la storia di un cugino martire.
In un ambiente estraneo, i due
registi sembrano però smarriti in Le jeune Ahmed,
non riescono ad entrare in empatia con il protagonista, che è un
ragazzino sempre con il broncio che adotta una visione estrema
della religione. Lo ritraggono senza trasporto, mancando la
profondità del personaggio e lasciandolo in balia di un cliché
abusato. Di fronte alla necessità di non potere o riuscire a
raccontare con tenerezza il loro protagonista, i registi finiscono
per semplificare l’argomento banalizzando le sue scelte di
vita.
Considerato un regista schivo e
riservato, Terrence Malick è noto per il suo
assenteismo ogni volta che si tratta di presentare un proprio film
a un festival. Per questo la sorpresa è stata grande quando, a
Cannes 2019, in occasione della proiezione serale
del suo nuovo film in concorso A Hidden Life, il
regista texano è stato avvistato in sala accanto ai suoi attori, a
ricevere l’applauso commosso del pubblico che aveva appena
assistito alla proiezione.
🔴 Alerte! Terrence Malick était dans la
salle à la fin de la séance officielle de son nouveau film A Hidden
Life. Je suis bouleversée. La preuve en image.
#Cannes2019pic.twitter.com/6mRDAoqoyH
La storia di A Hidden
Life è quella vera di Franz Jägerstätter, un contadino
austriaco che visse nel borgo di Sankt Radegund: fervente
cattolico, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si rifiutò di
arruolarsi, definendosi obbiettore di coscienza.
John Wick
3 apre in testa al box office italiano, seguito da
Pokemon Detective Pikachu e
Dolor Y Gloria. Complice il maltempo
diffuso in tutta la penisola, il weekend che si è appena concluso è
stato piuttosto ricco al box office italiano nonostante il
periodo.
John Wick 3 apre in testa al
botteghino con 1,3 milioni incassati in 458 sale a disposizione,
registrando un’ottima media per sala pari a 3300 euro. Pokemon Detective Pikachu debutta in
seconda posizione incassando 1,3 milioni in quasi 600 copie, mentre
il terzo gradino del podio è occupato da Dolor Y Gloria, appena presentato al
Festival di Cannes, che esordisce con 1,1 milioni incassati in tre
giorni in 434 sale, davvero un ottimo risultato per la nuova
pellicola di Pedro Almodovar. Quarto posto per la new entry
Attenti a quelle due che incassa 866.000
euro.
Avengers: Endgame scende in quinta
posizione con altri 647.000 euro con cui arriva alla bellezza di
29,2 milioni totali. Seguono due pellicole in calo, ossia Ted Bundy – Fascino criminale
(390.000 euro) e Pet Sematary (283.000 euro), giunti
rispettivamente a 1,1 milioni totali e 1 milione globale. Stanlio e Ollio supera il tetto dei 2
milioni complessivi con altri 193.000 euro, mentre Red
Joan raccoglie altri 137.000 euro per un totale di
431.000 euro. Chiude la top10 Unfriended: Dark
Web, che debutta con soli 122.000 euro in 126 sale
disponibili.
“Non è facile vedere qualcosa
che non è mai esistito prima.” Daenerys (Emilia
Clarke) è sincera, quando dice a Jon quello che pensa,
forse per giustificare se stessa della distruzione che ha appena
seminato su Approdo del Re. Il penultimo episodio di
Game of Thrones, quello del plot twist e della
distruzione della Capitale, aveva dato indizi incontrovertibili su
dove si sarebbe diretto il finale di stagione, e come dice l’ultima
Targaryen, era davvero difficile vedere, immaginare, pensare
qualcosa di mai esistito prima, non solo una visione di regno, di
dominio e di compimento del proprio destino, ma anche un epilogo
che potesse essere all’altezza di quanto fatto negli ultimi 10
anni, da un punto di vista produttivo e drammaturgico. Ebbene
D&D hanno fatto del loro meglio e hanno seguito l’unico
parametro che, contro i gusti personali e i pareri dei fan, può
reggere: il finale di Game of Thrones (Game of Thrones
8×06) è giusto.
Che cosa si intende? Siamo tutti
consapevoli, di fronte alle poche e intense scene che costituiscono
l’episodio finale, dal titolo Il trono di spade,
che la serie HBO ha visto il trionfo della visione di un
personaggio in particolare, ovvero Tyrion Lannister
(Peter
Dinklage). Vero e proprio artefice del destino di
Westeros, il folletto è riuscito a fare ammenda per i propri
errori, è riuscito a sopravvivere in un mondo che lo voleva morto
dal suo primo vagito, ha sofferto e perso ogni cosa, e adesso è
pronto alla sua estrema, ultima decisione, ora che ha abbracciato
il bene del popolo come unico vero sovrano da servire.
Tyrion si conferma la chiave della
storia, personaggio giusto al di là dell’onore, dell’amore, della
legge. Colui che riconosce il valore del futuro solo attraverso il
ricordo e il monito del passato e che quindi vede in Bran
lo Spezzato il sovrano perfetto per ricostruire un mondo
dove tutti possano sentirsi al sicuro, protetti dal potere,
sensazione che dovrebbe essere un po’ più conosciuta anche nella
contemporaneità.
E che uno Stark sieda sul trono,
non più quello di spade ma quello figurato dei Sette… ops, Sei
Regni, è la conferma che la famiglia di Grande Inverno ha sempre
fatto la differenza. Non a caso sono gli eredi di Ned Stark
(Sean
Bean) che prendono in consegna le sorti del continente
occidentale, dal Sud fino al Nord, con Sansa giusta (di nuovo)
Regina del Nord, e oltre la Barriera, dove
Jon Snow (Kit
Harington), che non ha mai abbracciato la sua natura
legittima, torna a vestire il nero, ad abbracciare Spettro e a fare
da “scudo ai domini degli uomini”.
Ancora una volta, Jon è rimasto
fedele a se stesso ed ha scelto l’onore al di sopra dell’amore, ha
scelto quello che era giusto e difficile fare, come quando ha
lasciato Ygritte, o come quando ha salvato la vita dei Bruti. Ha
deciso di uccidere (di lasciar morire) per la seconda volta nella
sua movimentata giovane vita, il suo amore, in favore di un bene
più grande. Come un vero leader, come un vero Stark.
E se il gene Stark ha attecchito
bene nell’unico che non era effettivamente figlio di Ned, più
originali sono stati percorsi intrapresi dagli altri eredi del
protettore del Nord. L’incoronazione di Bran è sicuramente
l’elemento di maggiore sorpresa sia per il pubblico che per i
personaggi stessi, la proposta di Tyrion giunge inaspettata ma allo
stesso tempo ragionevole e plausibile, e nel loro sostegno all’idea
dell’ultimo dei Lannister, ogni personaggio sopravvissuto rivela la
sua giusta natura: Edmure Tully si conferma inetto, Robin Arryn
irrilevante, Ser Davos modesto e onesto, Sam Tarly buono ma troppo
moderno nelle sue idee e nella sua proposta democratica, Sansa
(Sophie
Turner) orgogliosa e combattiva, una vera Regina,
l’unica sopravvissuta, Arya (Maisie
Williams) fiera e indipendente, un’avventuriera pronta
ad arrivare dove nessuno si è mai spinto.
Nessuna scelta è stata scontata,
nessuna giustizia cieca è stata applicata: Brienne
(Gwendoline
Christie), la (non più) Vergine di Tarth, assume il
ruolo di comandante delle cappe dorate, e della guardia reale,
porge il suo ultimo omaggio all’amato Jaime (Nikolaj
Coster-Waldau), abbandonando una volta per tutte la
(brutta) parentesi esplicitamente romantica della loro story line,
realizzando il suo sogno di essere cavaliere; il tagliagole Bronn
arriva ad ottenere il suo castello, Alto Giardino; Sam Tarly
diventa Gran Maestro della Cittadella e rimane al servizio di Re
Bran. Ogni personaggio trova la sua giusta collocazione, in quello
che diventerà il futuro ordine del mondo, un ordine che non sarà
più basato sul diritto ereditario, ma sulla volontà del gruppo, una
sorta di oligarchia illuminata, non più disponibile al dispotismo
familiare ma ancora troppo poco aperta da accogliere una
democrazia.
Sembra adesso sovvertita la massima
di Cersei che recita “al gioco del trono si vince o si muore”,
perché tra il vincere, come hanno fatto gli Stark, alla fine, e il
morire, come ha fatto invece Daenerys, tra le braccia e per mano
del suo amato, Tyrion, Davos, Brienne, persino Bronn e a modo suo
Sansa, hanno inserito una terza via, quella professata da Varys per
tutta la sua vita: servire il popolo. Così come i protagonisti
dello show hanno imparato a servire il popolo prima che se stessi,
così David Benioff e D.B. Weiss hanno servito la
storia, quella che ha connesso per oltre dieci anni gli spettatori
di tutto il mondo, quella che non mancherà di destare scontenti,
critiche, delusioni e, nuovo trend dell’internet, petizioni.
Ma la storia è quella che ci ha
appassionati tutti, la storia e le storie sono quelle che ci
rendono umani, la motivazione che ha spinto George R.R.
Martin per primo a mettere mano alle sue Cronache
del Ghiaccio e del Fuoco, quelle che ci uniscono e quelle
che ci fanno ricordare, anche quando non ci siamo più. Al valore di
tutte le storie, di tutti i personaggi, da Verme Grigio che salpa
per Nath per rendere omaggio alla promessa fatta alla sua amata, a
Sansa che bellissima e fiera si erge a Regina del Nord,
conquistando la ricompensa che ha così a lungo ricercato, sembra
essere dedicata questa straordinaria avventura della HBO. Chi è
stato testimone di questa vicenda dovrebbe essere grato per il
regalo e pronto a custodirlo e tramandarlo, perché è questo che si
fa, con una buona storia.
Presentato all’interno della
sezione Un Certain Regard, durante il Festival di Cannes 2019,
Chambre 212 è il nuovo film del regista francese
Christophe
Honoré. Celebre anche per il suo lavoro in teatro,
Honoré da vita ad una storia che rispetta le unità di tempo e
luogo, caratterizzando così il film con una chiara impostazione
teatrale. Si dimostra abile nel fondere i due linguaggi, ma alcune
libertà di sceneggiatura portano il film a vivere con forti
contraddizioni al suo interno.
La storia è quella di Maria
(Chiara
Mastroianni), il cui marito scopre intenta in ripetuti
tradimenti coniugali. Dopo un duro litigio, Maria decide di
lasciare il loro appartamento e prendere una stanza, la 212,
nell’albergo situato proprio dall’altra parte della strada. La
finestra della stanza affaccia proprio su quelle dell’appartamento
dove il marito è rimasto. Mentre Maria passa la notte ad
osservarlo, si ritroverà coinvolta in un via vai di presenze del
passato, la quale la aiuteranno a prendere una decisione in merito
al suo matrimonio.
È sempre affascinante osservare
come un regista decida di risolvere le autoimposte limitazioni
spaziali e temporali. In questo caso Honoré dà prova di grande
abilità nell’immaginare una messa in scena attraente, fatta di
continui incroci tra passato e presente, tra movimenti di macchina
che consentono di avere un quadro completo di quanto accade e con
la giusta attenzione riservata ai personaggi e al loro spazio.
All’interno di questa confezione si
ritrova la storia di una crisi di coppia, argomento trattato
innumerevoli volte e che qui riesce a trovare una propria
originalità attraverso alcuni brillanti scambi di battute. Questi
risultano più riusciti dal momento in cui Honoré sceglie di non
prendere le parti di uno dei due coniugi ma cercando di consegnare
un ritratto intimo di entrambi, con il loro passato, i loro amori e
i loro sbagli.
Ciò che tuttavia spezza l’atmosfera
del film è una sceneggiatura che sconfina oltre i limiti consentiti
del racconto fantastico. Accade infatti che la protagonista riceva
la visita di alcuni “fantasmi” del suo passato, e il problema sorge
nel momento in cui questi entrano in contatto anche con altri
personaggi oltre a lei, cosa che tuttavia non dovrebbe essere
possibile, dato il punto di vista proposto inizialmente. La
situazione sembra così sfuggire di mano, perpetrando una realtà che
tuttavia non trova giustificazione narrativa, né da parte della
protagonista né da parte di Honoré stesso.
Chambre
212 è una commedia che diverte, certo, ma che si
prende eccessive libertà, rischiando così di far dubitare della sua
natura. Sconfinare oltre le regole prestabilite, senza che questo
sia stato giustificato, porta ad un disincanto che tende a rompere
il patto tra l’autore e lo spettatore. Fortunatamente Honoré sa
rifarsi con soluzioni visive attraenti, e se affrontato senza
troppe pretese il film riesce generare momenti di spensierato
divertimento.
Con un budget di 150 milioni di
dollari – il più alto tra quelli delle opere in vendita al Festival
2019 – il film racconta di un gruppo di eroi che cercheranno di
impedire lo schianto della luna sulla TerraLucisano
Media Group S.p.A. (AIM: LMG), società quotata su Aim a
capo del noto gruppo attivo nel settore audiovisivo, annuncia di
avere acquisito i diritti per l’Italia di
“Moonfall”, kolossal fantascientifico diretto da
Roland Emmerich, regista tedesco noto per aver
firmato blockbuster di successo in tutto il mondo come
“Independence Day”, “Stargate”,
“Godzilla”, “The Day After
Tomorrow” e “2012”.
Moonfall è un progetto da
150 milioni di dollari – il budget più alto tra i
film in vendita al mercato del Festival di Cannes 2019 – e si
muoverà sulla scia di “Independence Day” e “2012”, come ha
dichiarato lo stesso regista, rivelando che il film racconterà la
missione impossibile di un manipolo di eroi chiamati a salvare
l’umanità quando la luna uscendo dalla propria orbita minaccerà di
distruggere la terra. Una nuova spettacolare epopea
fantascientifica speziata di umorismo e arguzia che, come ha
sottolineato Emmerich, nasce dal fascino che la Luna – “l’oggetto
più strano che esista” – esercita su di lui.
Il film sarà prodotto dalla
Centropolis Entertainment di Roland ed Ute
Emmerich, i cui film ad oggi hanno incassato più di 4 miliardi di
dollari nel mondo, ed è stato scritto e sviluppato dallo stesso
Emmerich con Harald Kloser (“2012,” “White House
Down,” “Independence Day: Resurgence”) e da Spenser
Cohen.
“L’acquisizione di ‘Moonfall’
rappresenta un ulteriore passo verso la crescita delle attività di
distribuzione del Gruppo, a cui avevamo dato un impulso importante
già lo scorso anno, qui a Cannes, rilevando i diritti di ‘Midway’,
un altro kolossal firmato da Roland Emmerich in uscita nei prossimi
mesi, da cui ci aspettiamo grandi soddisfazioni”, ha
commentato Federica Lucisano, Amministratore
Delegato di Lucisano Media Group.
Quentin Tarantino
è tra gli ospiti più attesi della 72° edizione del Festival di
Cannes e, in attesa di martedì 21 maggio, quando presenterà
C’era una volta a Hollywood, il regista ha
fatto una cosa che sempre più spesso di fa in occasione dell’arrivo
e della presentazione di film molto attesi: ha chiesto di non fare
spoiler.
Su Twitter, Tarantino
ha condiviso un breve testo in cui dice: “Amo il cinema. Amate
il cinema. Si tratta di un viaggio per scoprire una storia per la
prima volta.
Sono eccitato di essere a
Cannes per condividere C’era una volta a Hollywood con il pubblico
del festival. Il cast e la crew hanno lavorato così duramente per
creare qualcosa di originale, e io chiedo solo che tutti evitino di
rivelarne i dettagli per permettere a chi vedrà il film dopo di
godere dell’esperienza allo stesso modo.
Grazie, Quentin
Tarantino.”
Le prime immagini del
film hanno suggerito che Tarantino e la sua troupe – tra cui la
costumista Arianne Phillips
(Kingsman) e la scenografa Barbara
Ling (Ho cercato il tuo nome) – stiano
davvero cercando di ricreare il “look and feel” del 1969.
La storia si svolge a Los Angeles nel 1969, al
culmine di quella che viene chiamata “hippy” Hollywood. I due
protagonisti sono Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), ex star di una
serie televisiva western, e lo stunt di lunga data Cliff Booth
(Brad Pitt). Entrambi stanno lottando per farcela in una Hollywood
che non riconoscono più. Ma Rick ha un vicino di casa molto
famoso…Sharon Tate.
Nel cast di C’era una volta
a… Hollywood anche Damian Lewis,
Dakota Fanning, Nicholas Hammond,Emile Hirsch, Luke Perry,
Clifton Collins Jr., Keith
Jefferson, Timothy Olyphant, Tim Roth, Kurt
Russell e Michael Madsen. Rumer
Willis, Dreama Walker, Costa Ronin, Margaret
Qualley, Madisen Beaty e Victoria
Pedretti. Infine Damon Herriman sarà
Charles Manson.
Il film sarà anche
l’ultima apparizione cinematografica di Luke
Perry, morto lo scorso 4 marzo. L’uscita nelle sale di
C’era una volta
a… Hollywood è fissata al 9
agosto 2019.
Annunciate all’Italian Pavilion,
nel corso del Festival di Cannes, le prime novità della nona
edizione di Ciné – Giornate di Cinema, la manifestazione estiva
dell’industria cinematografica nazionale, promossa e sostenuta da
ANICA, in collaborazione con ANEC
ed ANEM, prodotta ed organizzata da Cineventi, che
avrà luogo a Riccione dal 2 al 5 Luglio.
Alla presentazione sono intervenuti
Francesco Rutelli, Presidente Anica, Luigi
Lonigro, Presidente Anica sez. distributori,
Francesca Cima, Presidente Anica sez. produttori,
Mario Lorini, Presidente Anec, Piera
Detassis, Direttore Artistico dell’Accademia del Cinema
italiano – Premi David di Donatello, Fabio
Abagnato, responsabile Emilia Romagna Film Commission,
Remigio Truocchio, general manager di Ciné, per
raccontare le prime anticipazioni e i principali appuntamenti della
prossima edizione.
A dare il via alle convention, martedì 2 Luglio, sarà
Warner Bros seguita da I Wonder
Pictures, che, in questa prima giornata, presenterà anche
la brillante commedia, successo al botteghino francese,
Chi l’ha scritto? Il mistero Henri Pick
con Fabrice Luchini e Camille Cottin. 01
Distribution aprirà con la sua convention la giornata di
mercoledì 3, seguita nella mattina dalle presentazioni di
Koch Media e Vision Distribution
e nel pomeriggio dalla convention di Medusa,
Notorious e Videa. Nella stessa giornata
01 Distribution presenterà anche l’anteprima della
commedia romantica, Non succede…ma se
succede, diretta da Jonathan Levine con
protagonisti Seth Rogen e Charlize Theron. Giovedì 4 Luglio sarà
invece il turno di The Walt Disney Company Italia,
Eagle Pictures, Adler, Universal Pictures, Lucky Red, M2
Pictures. Chiuderanno i lavori, venerdì 5 luglio,
Bim e 20th Century Fox.
Un programma che si preannuncia già molto intenso, con anche le
presentazioni delle line up di Altre Storie, Distribuzione
Indipendente eWanted e le numerose
anteprime, tra cui The
Rider, film scelto da Wanted per la
riapertura della stagione, premiato a Cannes e miglior film per la
National Society of Film Critics 2019.
Presentazioni non solo di titoli e listini, ma anche di nuove
tecnologie, come quelle che verranno proposte da
Cinemeccanica – per l’ottavo anno Technical
Partner di Ciné – sia in sala che nell’ambito del Trade
Show, l’area espositiva – già sold out – allestita al
terzo piano del Palacongressi di Riccione per oltre 450 metri
quadri, per garantire a tutto il pubblico giornate di profittevoli
incontri e relazioni commerciali. Spazio anche
all’aggiornamento professionale con il convegno,
promosso dalle associazioni di categoria a cura di Box
Office e con gli ANICALAB, appuntamenti
di confronto su temi della produzione, della distribuzione e
dell’esercizio.
Rinnovate inoltre importanti collaborazioni con storici partner
come l’Emilia-Romagna Film Commission, con cui
verrà realizzato, il 2 luglio in apertura della manifestazione, un
momento professionale, durante il quale le case di
produzione, sostenute dal fondo regionale per l’audiovisivo,
potranno presentare i propri lungometraggi tramite un teaser e
una breve presentazione. A seguire un focus sulla indagine in
corso, che vede la collaborazione di AGIS Emilia-Romagna e
Osservatorio dello Spettacolo della Regione
Emilia-Romagna, finalizzata a scoprire e valorizzare il
mondo degli esercenti, tra difficoltà e buone pratiche.
A Riccione per Ciné anche le telecamere di Sky Cinema che
seguiranno le convention e gli eventi con interviste ai
protagonisti e rubriche di approfondimento che andranno in onda in
prima serata all’interno del programma100X100Cinema dedicato al
mondo del cinema, in onda tutti i giorni alle 21.00 su Sky Cinema
Uno e Sky Cinema Due.
Non mancheranno, inoltre, una serie di eventi offerti al
pubblico riccionese, nell’ambito dei progetti di
CinéMax e CinéCamp (il programma
di eventi dedicato alla generazione under 16, realizzato in
collaborazione con il Festival di Giffoni), grazie anche
all’allestimento dell’Arena in Piazzale Ceccarini,
in collaborazione con Cineproject, che ospiterà una rassegna
cinematografica a cielo aperto e da quest’anno anche
Cine@donna, tre serata di cinema al femminile
ideate in collaborazione con Giometti Cinema.
Anche il Dipartimento Educativo di Cinecittà si
Mostra si trasferisce al Cinécamp di Riccione con due
laboratori didattici dedicati al cinema, ai suoi retroscena e a
Cinecittà. Per il gruppo 10-13 anni The make
believe: un’attività per comprendere i trucchi della
finzione cinematografica e alcuni effetti speciali. I partecipanti
potranno diventare protagonisti di inediti scenari, sperimentando
il matte painting. Mentre per i ragazzi dai 14 ai 16 anni
One Minute Shoot: un laboratorio per conoscere e
sperimentare le principali caratteristiche del linguaggio
cinematografico attraverso la storia del cinema, nel quale ideare e
realizzare brevi “video cinematografici” ispirati ai celebri film
di “un minuto Lumière” e alle fantasmagorie di Georges Méliès.
Sempre riservato ai partecipanti di CinéCamp, tutti i segreti del
doppiaggio nel laboratorio Quella voce la conosco! – come
trasformare un film dalla lingua originale all’italiano a
cura di D-Hub studios e Backlight Digital.
A Riccione per Ciné anche le dirette radiofoniche di RAI
Radio2, che in occasione della manifestazione trasferirà
in riva al mare un palinsesto di programmi: il buongiorno sarà
assicurato da Caterpillar AM, tutte le
mattine in diretta da una spiaggia di Riccione dalle 5 alle 7:30,
in conduzione Marco Ardemagni e Filippo
Solibello; collegamenti quotidiani saranno inoltre
previsti dalla terrazza del Palazzo dei Congressi dalle 12 alle
13:30 con Max Cervelli con il programma Non è un paese
per giovani. Ciné si riconferma così, alla sua nona
edizione, un evento ambizioso, professionale e in continua
crescita, punto di riferimento imprescindibile per l’industria
cinematografica.
Gli obiettivi di mercato e di sostegno del cinema sono
rafforzati e raggiunti anche grazie al contributo e sostegno delle
associazioni di categoria Anica, Anec, Anem, del
MIBAC, del Comune di Riccione,
del Palazzo dei Congressi, della Regione
Emila Romagna, di Istituto Luce
Cinecittà, del partner tecnico
Cinemeccanica, dei Main Sponsor Lino
Sonego e Marlù, dei media partner
Sky Cinema, Radio 2, Ciak, Coming Soon, Box Office, Best
Movie, Cinecittà News, Otto e Mezzo, NetAddiction, MoviePlayer,
Primissima Trade, Giornale dello Spettacolo, Appuntamento al
cinema, Prima Fila Magazine, degli sponsor tecnici
LedVision, MultiVision, Tipografia Gamberini, Giometti Cinema,
Aibes, Fomal, Fun Food, degli espositori 2019: ABA di Cassin
M.&C. s.n.c., Backlight Digital srl, Cine Project srl,
Cinearredo Italia, Cinema Next (gruppo Ymagis), Cinemeccanica spa,
Crea Informatica srl, Digima srl, Ehome Italia Service srl, Ezcaray
International, Food Products International srl, Forbo Resilienti
srl, Italian Food Quality, IFQ srl, Lino Sonego & C. srl, Macropix
srl , Mafera Digital srl, Modulsnap srl, Officine srl, OK One srl,
Eclair / Open Sky Cinema (gruppo Ymagis), Prevost srl, Telespazio
spa
Come dichiarato da Kevin Feige
durante la promozione di Ant-Man and The Wasp, il Regno
Quantico diventerà un fattore importante per il
futuro del Marvel Cinematic Universe,
e il ruolo svolto in Avengers:
Endgame con i viaggi nel tempo conferma l’incredibile
potenziale di questa dimensione alternativa.
Ma in che modo potrebbe influenzare la Fase 4? Ecco qualche
teoria:
1Vedremo Kang il
Conquistatore?
Abbiamo già parlato dei viaggi nel tempo, uno
degli snodi cardine di Avengers: Endgame, ma cosa
succederebbe se attraverso questi salti temporali venisse
introdotto un classico villain Marvel come Kang Il
Conquistatore?
Tra
i nemici più impressionanti dei Vendicatori, Kang può viaggiare nel
futuro, dove ha creato la sua base e da cui mira a conquistare
tutto il tempo e lo spazio. E se il Regno Quantico fosse la
versione del MCU del Limbo, e la città misteriosa intravista in
Ant-Man e il Wasp corrispondesse alla sua dimora?
Come Thanos, Kang è uno dei personaggi più
potenti in circolazione, ed è possibile che i Marvel Studios
puntino a renderlo l’antagonista dominante della Fase 4. Staremo a
vedere…
Più del sacrificio di Vedova Nera su
Vormir o del gesto definitivo di Iron Man alla fine del film, forse
l’immagine di Avengers:
Endgame che rimarrà impressa per sempre nella mente
degli spettatori è il momento in cui Captain America pronuncia a
gran voce “Vendicatori uniti” stringendo
tra le mani il Mjolnir e radunando dietro di sé tutti gli eroi del
MCU.
La scena è inserita all’interno di
un lungo terzo atto dove assistiamo all’epica battaglia contro
Thanos e il suo esercito: sopravvissuti e resuscitati, vecchie
conoscenze dell’universo condiviso e personaggi più recenti si
uniscono in una delle immagini più spettacolari e suggestive finora
offerte dai Marvel Studios, e a parlarne nel dettaglio è stato
Matt Aitken, supervisore della Weta Digital (la
società che si occupa degli effetti visivi del film), in
un’intervista con Comicbook.
Dunque com’è nato l’Avengers assemble e quali sono state le
difficoltà tecniche?
“L’inquadratura è stata
fantastica da realizzare e tutti quelli che ci hanno lavorato si
sono superati. C’erano tutti i personaggi, e i registi avevano
portato sul set tutti quegli attori in un giorno…ne avete avuto un
assaggio grazie ai video trapelati online dopo la fine dell’embargo
[…]
[…]L’unico che abbiamo
aggiunto più tardi è stato Iron Man in CGI, perché a quel punto
della battaglia si sarebbe trovato da un’altra parte, e ovviamente
avevamo altri personaggi da ricostruire in digitale come Hulk,
Groot, Miek e Iron Patriot. Gli attori però erano tutti lì quel
giorno, quindi è stata una giornata incredibile sul set.“
Qui sotto trovate un piccolo “assaggio” della scena.
Dopo gli eventi devastanti di
Avengers: Infinity War (2018), l’universo è in rovina a causa degli
sforzi del Titano Pazzo, Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti
in vita dopo lo schiocco, i Vendicatori dovranno riunirsi ancora
una volta per annullare le azioni del villain e ripristinare
l’ordine nell’universo una volta per tutte, indipendentemente dalle
conseguenze che potrebbero esserci.
Viaggi nel tempo e timeline
alternate hanno scombussolato l’ordine cronologico che avevate in
mente durante la visione di tutti i capitoli del MCU? Nessun problema,
perché quella che trovate qui sotto è la linea temporale definitiva
dell’universo cinematografico iniziato undici anni fa con
Iron Man e culminato con Avengers:
Endgame.
Il viaggio può iniziare…
1Avengers: Endgame
Avengers: Endgame è un film del 2019
diretto da Anthony e Joe Russo.
Basato sul gruppo di supereroi dei Vendicatori
di Marvel Comics, il film è il seguito di Avengers:
Infinity War (2018) e costituisce il ventiduesimo
film del Marvel Cinematic Universe. È prodotto dai Marvel Studios
ed è distribuito da Walt Disney Studios Motion Pictures. La
sceneggiatura del film è stata scritta da Christopher
Markus e Stephen McFeely, e la pellicola comprende un cast
corale che include molti degli attori comparsi nei precedenti film
del MCU.
Il
film era stato annunciato nell’ottobre 2014 con il titolo di
Avengers: Infinity War – Part 2.
Nell’aprile 2015 è stata annunciata la partecipazione dei fratelli
Russo alla regia, mentre nel mese di maggio è stato reso pubblico
che Markus e McFeely avrebbero lavorato alla sceneggiatura. Nel
luglio 2016, la Marvel ha cancellato il titolo precedente,
riferendosi al progetto semplicemente come un «film senza titolo
sui Vendicatori». Il titolo definitivo del film, Avengers: Endgame, è stato reso noto
il 7 dicembre 2018 con la pubblicazione del primo
trailer.
Il
film ha ottenuto un grande successo di critica e pubblico,
stabilendo numerosi record al botteghino, diventando il maggior
incasso nella storia del cinema, e venendo candidato a svariati
premi cinematografici, tra i quali l’Oscar ai migliori effetti
speciali.
Tra i nomi più amati e apprezzati
dal pubblico dei cinecomic Marvel, l’attore era a Roma qualche
giorno fa per partecipare ad una convention e rispondere alle
domande dei fan sul suo percorso cinematografico con la Marvel e
l’evoluzione di Bucky sul grande schermo, ma ha anche rivelato
quale personaggio della concorrenza vorrebbe interpretare.
“Vorrei provare e entrare nei
panni dell’Enigmista. È una figura interessante. Non so come
andrebbero le cose…forse sarebbe molto difficile, perché non puoi
semplicemente essere folle. Dovresti essere più dark di
così…“
Curioso come qualche mese fa anche
James McAvoy, che ha già un trascorso con i
cinefumetti e ha interpretato il Professor X nella saga degli
X-Men, abbia confessato che amerebbe vestire il costume
dell’Enigmista, noto antagonista dell’universo DC portato sullo
schermo da Batman Forever di Joel
Schumacher grazie alla performance di Jim
Carrey e di recente nella serie Gotham
interpretato da Corey Michael Smith (e interesse
sentimentale di Pinguino).
Ovviamente il “ritorno” del villain
non rientra nei programmi attuali della Warner Bros. per quanto
riguarda la nuova linea editoriale dell’universo condiviso, ma
nulla esclude che possa ripresentarsi in qualche cameo, magari
iniziando con The
Batman di Matt Reeves ora in fase di
sviluppo. In tal caso ci sarebbero già due possibili candidati…
Dopo gli eventi devastanti di
Avengers: Infinity War (2018), l’universo è in rovina a causa degli
sforzi del Titano Pazzo, Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti
in vita dopo lo schiocco, i Vendicatori dovranno riunirsi ancora
una volta per annullare le azioni del villain e ripristinare
l’ordine nell’universo una volta per tutte, indipendentemente dalle
conseguenze che potrebbero esserci.
Nick Fury, Maria Hill, gli
Avengers, zia May e Ned sono davvero gli unici a conoscere
l’identità segreta di Peter Parker? Forse un altro personaggio sa
che sotto la maschera dell’Uomo Ragno si nasconde un adolescente, e
a confermarlo arriva questa nuova clip trapelata online e tratta da
Spider-Man: Far
From Home, il sequel in uscita a luglio che chiuderà
definitivamente la Fase 3 del MCU.
Nel video scopriamo infatti che
anche MJ, interpretata da Zendaya, è al corrente
del “piccolo” segreto di Peter, come già anticipato dal secondo
trailer ufficiale diffuso qualche settimana fa.
Questo significa che la ragazza è
in pericolo? Varie foto scattate sul set ci hanno mostrato l’eroe
soccorrere il suo interesse amoroso, dunque è possibile che sia lei
la preda degli Elementali (o di
Mysterio, presunto alleato di Spidey)?
Nel film ritroveremo Peter Parker
cinque anni dopo la Decimazione e a poche settimane dalla battaglia
contro Thanos. Insieme a lui, in questa nuova avventura a spasso
per l’Europa, ci saranno anche i compagni di scuola, Nick Fury e il
suo braccio destro Maria Hill e un misterioso alleato venuto da
un’altra realtà simile alla nostra, Quentin Beck aka Mysterio.
Diretto ancora una volta da
Jon Watts,
Spider-Man: Far From Homeè
arrivato nelle nostre sale il 10 luglio. Confermati nel cast del
film il protagonista Tom
Holland nei panni di Peter Parker, Marisa
Tomeiin quelli di zia May e Zendayain
quelli di Michelle,Samuel
L. Jacksonin quelli di Nick Fury
e Cobie
Smuldersin quelli di Maria Hill.
Jake
Gyllenhaal interpreterà invece Quentin
Beck, aka Mysterio, uno degli antagonisti
più noti dei fumetti su Spidey.
Di seguito la sinossi ufficiale:
In seguito agli eventi di
Avengers: Endgame, Spider-Man deve rafforzarsi per affrontare
nuove minacce in un mondo che non è più quello di prima. ‘Il nostro
amichevole Spider-Man di quartiere’ decide di partire per una
vacanza in Europa con i suoi migliori amici Ned, MJ e con il resto
del gruppo. I propositi di Peter di non indossare i panni del
supereroe per alcune settimane vengono meno quando decide, a
malincuore, di aiutare Nick Fury a svelare il mistero degli
attacchi di creature elementali che stanno creando scompiglio in
tutto il continente.
Per quanto riguarda le novità del
sequel, la tuta di metallo di Peter dovrebbe essere una
versione rimodellata di quella di Iron
Spider. vista in Avengers: Infinity
War. Questa nuova tuta, prevede anche una nuova maschera,
con degli occhiali al posto delle orbite bianche, come da
tradizione, questo perché è ovvio che il personaggio abbia bisogno
di una nuova maschera dopo che la sua precedente è andata distrutta
su Titano, durante il confronto con Thanos e prima della sua
disintegrazione.
Diversi anni fa, quando la carriera
di Elizabeth Olsen doveva ancora decollare e la
HBO stava iniziando i lavori su quella che sarebbe diventata la
serie più importante e popolare dell’ultimo decennio, l’interprete
di Scarlet Witch nel MCU (e di innumerevoli e acclamati
film indipendenti) è stata ad un passo dall’ottenere un ruolo in
Game of
Thrones, precisamente quello di Daenerys
Targaryen, per il quale fu poi scelta Emilia
Clarke.
A rivelarlo è proprio la Olsen in
una recente intervista con Vulture, raccontando tutto il processo
di casting e qualche aneddoto riguardante quel “terribile provino”
sostenuto con i produttori dello show:
“Quando ho iniziato a lavorare,
facevo audizioni per qualsiasi cosa, perché mi piaceva, e ne ho
fatta una anche per il personaggio di Khaleesi. Quasi dimenticavo…è
stato il provino più imbarazzante della mia carriera“.
La star del Marvel Cinematic
Universe ha aggiunto che l’audizione prevedeva “un
monologo tratto dalla fine della prima stagione, dopo che Daenerys
brucia insieme alle uova di drago. Avrei dovuto recitare questo
discorso davanti a migliaia di persone sull’essere la loro regina.
All’epoca nessuno sapeva se l’ accento richiesto fosse britannico o
meno, quindi recitai in entrambi i modi. È stato
terribile!“.
Come tutti la Olsen è ora una grande
fan di Game of Thrones, “e ci sto così dentro che tutto quello
a cui riesco a pensare è Kit Harington“, ha detto
nell’intervista. “Mi ha fatto il lavaggio del
cervello!“.
Dopo gli eventi devastanti di
Avengers: Infinity War (2018), l’universo è in rovina a causa degli
sforzi del Titano Pazzo, Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti
in vita dopo lo schiocco, i Vendicatori dovranno riunirsi ancora
una volta per annullare le azioni del villain e ripristinare
l’ordine nell’universo una volta per tutte, indipendentemente dalle
conseguenze che potrebbero esserci.
Strategie di marketing certosine e
un’attenzione quasi maniacale nei mesi precedenti all’uscita di
Avengers:
Endgame non hanno impedito ad alcuni membri di cast di
rivelare, inavvertitamente, qualche anticipazione sul film. Dai
continui spoiler di Mark Ruffalo, che nel 2017
riuscì a trasmettere in diretta video l’inizio di Thor:
Ragnarok, a Gwyneth Paltrow con le sue
foto pubblicate online, la lista dei “colpevoli” è davvero
lunga…
Mark
Ruffalo e Karen
Gillan hanno entrambi rivelato in anticipo che Hulk e
Nebula avrebbero condiviso le scene in Avengers:
Endgame, e che i due si sarebbero fatti “nuovi amici”
durante il corso del film.
Nell’ottobre 2017, l’attore si lasciò scappare
che Hulk avrebbe intrapreso un viaggio con Rocket Raccoon, cosa
realmente accaduta quando i due si recano a Tønsberg, in Norvegia,
sede della Nuova Asgard, per recuperare Thor.
Per
quanto riguarda lo spoiler della Gillan, anche l’attrice disse che
Nebula avrebbe avuto “un nuovo migliore amico con un sviluppo
brillante, inaspettato e semplicemente ottimo“. Aggettivi che
si ricollegano facilmente a Tony Stark, l’eroe con il quale si
ritrova alla deriva nello spazio all’inizio del film, o a War
Machine, con cui viaggia su Morag per prendere la gemma del
potere.
Quello che da Naissance des
pieuvres, primo lungometraggio della regista
francese Céline
Sciamma, conduce fino a Ritratto della giovane
in fiamme (Portrait of Lady on
Fire) il suo ultimo film in concorso al Festival di Cannes 2019,
è un percorso di maturazione invidiabile. C’è una crescita
significativa nel linguaggio e nelle capacità registiche, che da un
tenero racconto di formazione adolescenziale si manifestano ora in
un elegante film in costume dove non manca la componente emotiva,
che come un fuoco si accende lentamente per poi bruciare
ardentemente.
In Ritratto della giovane
in fiamme siamo nel 1770, e protagonista del film è
Marianne (Noémie Merlant), giovane pittrice su
commissione che viene chiamata a realizzare il ritratto di
matrimonio di Héloise (Adèle Haenel).
Quest’ultima è tuttavia riluttante all’idea di farsi ritrarre,
nonché di sposarsi. Per riuscire nel proprio compito, Marianne
dovrà riuscire ad entrare nelle sue grazie, scoprendo sempre più di
lei, osservandola attentamente, per poi riportare segretamente il
tutto su tela.
È un debutto importante questo per
la Sciamma, che le permette di dimostrare le sue capacità applicate
ad una storia di ampio respiro, che richiede cura per i dettagli e
inventiva nel trasporre quanto scritto in fase di sceneggiatura. Il
pericolo di realizzare il classico film in costume è dietro
l’angolo, ma la regista sa arricchire il contesto con messaggi
attuali sul ruolo della donna, dell’artista e dell’artista donna.
Temi oggi più attuali che mai, e che non vengono qui trattati con
fare moralistico. L’elemento che probabilmente più di tutti
caratterizza il film è quello della misura. Si ritrova sobrietà sia
nel comunicare determinati argomenti, come quelli succitati, sia
nel comunicare determinate immagini.
Perché quella di Ritratto
della giovane in fiammeè
prima di tutto una storia d’amore, dove non manca il desiderio, la
morbosità, il sesso, ma il tutto è ripreso con un’eleganza
perfettamente coerente con il tono generale del film. La crescita
delle due bravissime protagoniste procede di pari passo con la
realizzazione del dipinto, che più di una volta sarà l’elemento di
base per alcune delle più belle inquadrature e composizioni del
film. Anche questo è un racconto di formazione, certo, spostato in
un contesto lontano e che riesce nonostante ciò a trasudare
contemporaneità. Le emozioni sembrano così essere forze immutabili,
che ci sono sempre state e che accomunano tanto noi quanto gli
amanti di secoli fa.
E per rendere ancor più senza tempo
la sua storia, la Sciamma attinge a piene mani dal mito di Orfeo ed
Euridice, tra i più belli e allo stesso tempo più tragici che ci
siano stati tramandati. Un mito di amore e paura, che si ripresenta
ricontestualizzato all’interno del film attraverso un crescendo
emotivo che conduce sino al silenzioso ma straziante finale. La
regista bilancia così formalismo e cuore, realizzando quello che è
certamente il suo lavoro più maturo ed emotivamente graffiante.
In relazione al box office USA,
Avengers: Endgame ha battuto ogni record. Con
un’apertura gigantesca di circa $ 350 milioni, le aspettative per
le sue prestazioni nei fine settimana seguenti erano alte, e con il
raggiungimento dei due miliardi di incasso nelle prime due
settimane è stato subito immediato, per i fan ma anche per i
Marvel Studios provare a
raggiungere la vetta del box office worldwide di tutti i tempi,
ovvero Avatar.
Le stime di Box Office Pro del
sabato mostrano che gli attuali 748 milioni di dollari
dell’epica conclusione della saga Marvel Studios supereranno
i $ 760 milioni di incasso USA di Avatar, guadagnando oltre $ 12
milioni per la giornata. Questo rende il film il secondo più alto
incasso nazionale della storia, dietro solo Star
Wars: Il Risveglio della Forza, apparentemente
irraggiungibile $ 937 milioni, ma che per quello che riguarda
l’incasso in tutto il mondo è stato abbondantemente superato.
Riuscirà il film a racimolare gli
ultimi 200 milioni di dollari, in tutto il mondo, di cui ha bisogno
per superare il film di James Cameron al box office worldwide di
tutti i tempi? Le possibilità per Marvel Studios sono buone.
Il leggendario attore francese, Alain Delon, è
il destinatario della Palma d’Oro alla carriera per Cannes
2019, il riconoscimento per una vita dedicata al cinema
assegnato a una delle più grandi icone del cinema di tutti i
tempi.
Esponente della sesta generazione
di registi cinesi, Diao
Yinan debutta per la prima volta nel concorso
ufficiale del Festival di
Cannes 2019 con il film The Wild Goose
Lake. Già vincitore nel 2014 dell’Orso d’Oro al
Festival di Berlino con Fuochi
d’artificio in pieno giorno, il regista ritrova
qui tutti i temi a lui più cari, racchiusi all’interno di un
torbido noir che svela un talento maturato, sempre più capace di
arricchire il racconto di invenzioni registiche degne di un
autore.
Il film ha inizio in una fredda
notte di pioggia. Zhou Zenong (Hu Ge) è un
gangster in fuga dopo aver ucciso un poliziotto. Sulla sua testa
grava una taglia che fa gola a molti, e che lo costringe ad una
fuga disperata. È proprio durante questa che incontra Liu Aiai
(Gwei Lun Mei), una prostituta che sbucata dal
nulla si propone di aiutarlo. A lei Zenong confida la sua storia,
ripercorrendo una scia di sangue e violenza.
Ancora un noir dunque per Diao
Yinan, ma stavolta l’ispirazione sembra provenire in buona parte
dal cinema europeo, tra Michelangelo Antonioni e Jean-Luc Godard, e
dal cinema di Wong Kar-Wai. Un noir che dunque si macchia di più
origini, che fonde al suo interno le varie nature a formare un
prodotto che garantisce intrattenimento e malinconiche riflessioni
sull’essere umano, la solitudine, la sua crisi.
Yinan ci fornisce da subito tutti
gli elementi, tra un protagonista dalla dubbia moralità ad una
femme fatale quanto mai criptica, dall’oscurità alla luce, dalla
luce che produce ombre deformate a improvvise esplosioni di
violenza. È una cura formale che si è andata raffinando con gli
anni quella del regista cinese, che sfoggia in questo caso un gusto
per la composizione dell’inquadratura da puro cinema d’autore. Lo
aiutano in questo gli sporchi e logori ambienti in cui si svolge la
narrazione, le abbaglianti luci al neon che sembrano donare ai
personaggi ogni volta nuove sfumature e nuove possibili
interpretazioni delle loro pulsioni.
Alla cura per il dettaglio si
affianca poi la consolidata abilità di Yinan di dar vita a grandi
scene d’azione, coreografate con cura e riprese dalle prospettive
meno consone. Il pericolo appare così essere sempre dietro
l’angolo, e ben presto si diviene preda dell’intricato numero di
personaggi, sempre più impenetrabili, sempre più impossibili da
conoscere e a cui sempre meno è possibile affidare la propria
fiducia.
Yinan non abbandona dunque il
genere a lui caro, attraverso il quale gli è invece possibile
ritrarre una contemporaneità sempre più cupa, individualista, dove
per sopravvivere si deve considerare chiunque un nemico. Con
The Wild Goose Lake il regista aggiunge
un nuovo affascinante capitolo al suo discorso, confezionando un
noir elegante e d’impatto, capace di intrattenere e non in una
maniera convenzionale.
A otto anni dalla Palma d’Oro a
Cannes con The Tree of
Life, Terrence Malick torna in
concorso sulla croisette con A Hidden Life. Gli
anni che separano il film con Brad
Pitt da questo nuovo progetto del regista di Austen
sono stati i peggiori della sua produzione, anche se i più fertili.
Tuttavia, di fronte a questa nuova prova, si ha la sensazione che
Malick sia tornato alle sue suggestioni originali, realizzando
un’altra delle sue opere d’arte.
La storia di A Hidden
Life è quella vera di Franz Jägerstätter, un contadino
austriaco che visse nel borgo di Sankt Radegund: fervente
cattolico, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si rifiutò di
arruolarsi, definendosi obbiettore di coscienza.
Malick racconta il legame carnale
che l’uomo ha con la sua terra, che coltiva, smuove, cura per
provvedere alla sua famiglia; a questo legame che sembra
indissolubile fa da appendice e naturale continuazione la
forte passione che lega Franz a sua moglie, che con lui lavora la
terra e nutre la famiglia. Con una regia che coniuga la classicità
della forma cinematografica con intuizioni e invenzioni che ne
confermano il ruolo rivoluzionario, Malick realizza un ritratto
emozionante, profondo delle contraddizioni di un piccolo villaggio,
della decisione difficile ma conscia del protagonista, dell’amore
fortissimo, puro, cristallino di questa donna, ennesimo incredibile
ritratto femminile, che si dà completamente al suo uomo, mostrando
devozione e comprensione.
A Hidden Life, il film
Con A Hidden Life,
il regista torna alle sue migliori suggestioni, sia formali che
visive. Riesce a piazzare la macchina da presa in posizioni mai
tentate prima, rende canone ciò che lui stesso inventa, dà vita e
luminosità alle immagini, sfruttando la luce naturale e conferendo
ad ogni ambiente una personalità propria. A questa caratteristica
classica per il suo cinema, Malick aggiunge delle fortissime
suggestioni pittoriche, che vanno dai Mangiatori di Patate di
Van Gogh alle luci e le fiamme di De La
Tour, elementi che contribuiscono a donare al film la
bellezza formale per la quale il regista è diventato celebre.
Non solo, a queste caratteristiche
ben note del suo stile, il regista si rivela anche abile
costruttore di suspance, legando l’immanenza degli eventi a suoni o
personaggi particolari, simboli di una svolta narrativa attesa e
temuta. In questo film, Malick ritrova un racconto meno rarefatto,
più classico, un elemento che permette di entrare in connessione
con i protagonisti e con il loro dramma, ma evolve anche la sua
poetica sul contrasto tra natura e cultura, dove, in questo caso,
la seconda si fa spettatrice, mentre la prima è rappresentata dalla
fede, dalla scelta di rimanere coerenti con il proprio credo,
qualunque sia il costo.
A Hidden Life
propone anche un ulteriore sviluppo della figura femminile, un
percorso di umanizzazione che dall’anestetizzata Holly de
La Rabbia Giovane, procede verso l’alto fino alla
Madre/Grazia di
The Tree of Life. Con Franziska, Malick
propone una mater dolorosa (et operosa), un
ricongiungimento con la Terra, con la materia che si fa portatrice
di vita e di concretezza, anche di fronte alla decisione
ineluttabile che la storia imponeva.
Torna il voice over che
entra dentro le menti e i cuori dei personaggi, il grandangolo
a deformare i primi piani e ad avvicinarli allo spettatore, la
durata importante, fondamentale al regista per affondare il suo
stiletto appuntato nel cuore della storia. Torna anche la
dimensione della guerra, sempre la Seconda Mondiale che aveva così
magistralmente rappresentato in La Sottile Linea
Rossa. Ma a differenza del capolavoro del 1998, così come
è obbiettore il suo protagonista, anche il regista rinuncia in
questa occasione alla violenza ostentata; non sentiamo un solo
colpo di pistola, non vediamo una goccia di sangue. In compenso
l’orrore della guerra non è più quella “nel cuore della natura” di
cui parlava il Soldato Witt, ma è un’esperienza tutta umana alla
quale si può decidere, come Franz, di non partecipare, rimanendo
fedeli a se stessi.
In A Hidden Life,
Terrence Malick sembra suggerirci che il Bene, nel
mondo, cresce con i gesti privati, piccoli, nascosti, come la vita
che vorrebbero condurre i protagonisti del film, come la vita che
conduce lui stesso.
Stand By Me è uno di quei
film che ha rivoluzionato il mondo del cinema, diventando simbolo
della gioventù di allora, come per quella di adesso, e del cinema
degli anni ’80 in senso più generale.
Questo film, intitolato anche
Stand By Me – Ricordo di un’estate, è diventato un vero e
proprio cult, un punto di riferimenento per i prodotti audiovisivi
odierni. Adattamento cinematografico del racconto Il Corpo
di Stephen King, questo film rimarrà sempre
nell’immaginario collettivo.
Ecco, allora, dieci cose da
sapere su Stand By Me.
Stand By Me film
1. Per Stephen King questo
film è stato il miglior adattamento dei suoi libri. I
lavori di Stephen King sono spesso stati soggetti ad
adattamenti cinematografici e anche Stand By Me lo è in
quanto è stato tratto dal racconto Il corpo, appartenente
alla raccolta Stagioni diverse. Sembra che dopo una
proiezione privata del film, alla presenza anche del regista
Rob Reiner, King non si mise a parlare e uscì
dalla sala a fine film. Al suo ritorno, disse al regista che questo
era il miglior adattamento dei suoi racconti che avesse mai
visto.
2. Di questo film venne
cambiato il titolo. Il racconto sul quale il film di basa
è intitolato Il Corpo e, inizialmente, il film si sarebbe
dovuto chiamare così. In seguito, la Columbia Pictures decise di
ribattezzarlo Stand By Me perché pensava che Il
Corpo potesse essere un titolo fuorviante.
3. Sono stati usati dei
teleobiettivi appositi per la scena del treno. In
Stand By Me, la scena in cui Gordie e Vern stanno correndo
verso la macchina da presa con il treno alle spalle è stata
realizzata con i due attori all’estremità opposta rispetto al
treno. Infatti, la crew del film usò un teleobiettivo con delle
lenti che riuscissero comprimere l’immagine in maniera tale che il
treno sembrasse alle spalle dei ragazzi
Stand By Me frasi
4. Un film con frasi
diventate cult. Non sono molti i film che riescono a
rimanere nell’immaginario collettivo per diversi anni grazie anche
a delle frasi particolarmente incisive. Eppure, Stand By
Me è uno di questi. Ecco alcuni esempi:
Non ho mai più avuto amici come
quelli che avevo a 12 anni. Gesù, ma chi li ha? (Gordie
adulto)
Non avevo ancora 13 anni la prima
volta che vidi un essere umano morto. Fu nell’estate del 1959,
molto tempo fa. Ma solo misurando il tempo in termini di anni.
(Gordie adulto)
È come se Dio ti avesse dato
qualcosa. Tutte quelle storie che ti vengono in mente… Dio ha
detto: “questa è roba tua, cerca di non sprecarla.” Ma i ragazzini
sprecano tutto, se non c’è qualcuno che li tiene d’occhio. E se i
tuoi vecchi sono troppo incasinati per farlo, dovrei farlo io,
forse! (Chris)
Un giorno tu diventerai un grande
scrittore, Gordie. Potrai anche scrivere di noi, se sarai a corto
di idee. (Chris)
Ragazzi, vi va di vedere un
cadavere? (Vern)
Io ci scommetto che se con te mi
metto ci rimetto! (Teddy, Chris, Vern)
Stand By Me streaming
5. Il film è disponibile su
diverse piattaforme streaming. Chi volesse vedere Stan
By Me – Ricordo di un’estate per la prima volta o volesse
rivederlo, è possibile farlo grazie alla sua presenza su diverse
piattaforme in streaming digitale, come Rakuten Tv, Chili e
iTunes.
Stand By Me canzone
6. La canzone di Ben E.
King ha avuto una nuova vita. Il successo del film ha
suscitato un rinnovato interesse per la canzone Stand By
Me presente nella colonna sonora e ispirando il titolo
definitivo del film. La versione di Ben E. King fu
originariamente pubblicata nel 1961 e poi venne ri-pubblicata in
seguito all’uscita del film. Questa nuova pubblicazione fece
arrivare la canzone al numero 9 della Top Ten dell’autunno
1986.
7. Michael Jackson voleva
fare una cover di Stand By Me. Nella colonna sonora del
film, la canzone Stand By Me è forse la più famosa,
realizzata da Ben E. King. Pare che Michael
Jackson volesse realizzare una cover della canzone per il
film e che Ron Reiner, pur restando in dubbio, preferì utilizzare
la canzone della sua versione originale.
Stand By Me cast
8. Corey Feldman ha provato
tanti diversi tipi di risata. Per realizzare una risata
vera, che sembrasse somigliare a quella descritta nella storia di
King, Corey Feldman e il regista Rob Reiner si
misero a provare ben 30 tipi di risate diversi, prima di decidere
quale potesse essere quella ottimale per il personaggio di Teddy
Duchamp.
9. River Phoenix aveva
ottenuto un altro ruolo. Quando venne preso dopo il
provino per far parte del film, River Phoenix venne scelto per il ruolo di
Gordie Lachance. Fu il regista Rob Reiner ad intervenire, pensando
che sarebbe stato meglio se avesse interpretato il personaggio di
Chris Chambers.
10. Il ruolo di Gordie
Lachance era uno dei più gettonati. Sebbene il ruolo di
Gordie sia andato a Will Wheaton, erano diversi
gli attori considerati per interpretare il personaggio. Tra questi,
vi erano i famosi
Sean Astin,
Stephen Dorff e Ethan Hawke.
Il sale della terra è uno
di quei film che ha dato nuova linfa al genere documentario,
raccontando il punto di vista di uno dei fotografi più rinomati,
Sebastião Salgado.
Win Wenders, che
ha scoperto questo fotografo per caso, è rimasto immediatamente
affascinato dal suo talento, riuscendo, con questo film, a
raccontare la storia della sua vita e la comunicazione messa in
atto dal suo lavoro.
Ecco, allora, dieci cose da
sapere sul film documentario Il sale della terra.
Il sale della terra film
1. Il regista ha raccontato
il punto di vista del fotografo. Con Il sale della
terra, Wim Wenders ha voluto
raccontare come viene data vita ad una vocazione, portando alla
luce l’umanità e la curiosità del mondo in un trotto intorno al
mondo, come un dialogo riconoscente alla visione risoluta del
fotografo.
2. Il montaggio è stato
difficile. Sia Wim Wenders che Juliano
Salgado (co-regista) hanno descritto il processo di
montaggio come estremamente difficile e dispendioso in termini di
tempo. C’erano false partenze e vicoli ciechi e i due hanno
combattuto per mesi con quello che il regista tedesco chiamava
“problemi dell’ego” su quello che sarebbe stato utilizzato o meno,
prima di stabilire un metodo e di avere un risultato che li
soddisfacesse.
Il sale della terra streaming
3. Il documentario è
dispobile in streaming digitale. Chi volesse vedere o
rivedere questo
documentario di Wim Wenders, è possibile farlo grazie alla sua
presenza sulle piattaforme digitali legali come Rakuten Tv e
Chili.
Il sale della terra trailer
4. Un trailer per
emozionarsi. Se non è chiaro di cosa parli il film Il
sale della terra, è possibile visionare per prima cosa il
trailer, rendendosi conto che se già esso riesce ad emozionare, non
si può non guardare subito il documentario per intero.
Il sale della terra Salgado
5. Salgado ha spiegato la
foto del gorilla. Per quanto riguarda la fotografia che
ritrae un gorilla con si mette un dito in bocca, Sebastião
Salgado ha dichiarato nel film che l’animale riconosce la
propria immagine per la prima volta dopo aver visto il suo riflesso
nella lente. Tuttavia, diversi studi hanno smentito questo fatto,
dimostrando che i gorilla non riescono a riconoscere il proprio
riflesso.
6. Wim Wenders ha
conosciuto l’arte di Salgado per caso. Il regista tedesco,
verso la fine degli anni ’80, stava camminando lungo La Brea Avenue
a Los Angeles quando, con la coda dell’occhio scorse alcune
fotografie nella finestra di una galleria. Entrò incuriosito e
conobbe il nome dell’artista, un fotografo brasiliano, tale
Sebastião Salgado, uscendo dalla galleria, dopo qualche ora, con
delle stampe in mano.
7. Wenders ha incontrato
Salgado a Parigi, nel suo studio. Dopo molti anni dalla
scoperta, il regista tedesco ha incontrato il fotografo solo nel
2009. Dal loro incontro è nato il progetto Il sale della
terra, con Salgado che ha portato il regista a concepire e ad
imparare dagli angoli più remoti del mondo, realizzando il film con
il figlio del signor Salgado, Juliano Ribeiro.
Il sale della terra
significato
8. Il titolo del film ha un
riferimento biblico. Il sale della terra, film
del regista Wim Wenders, si riferisce ad un passaggio biblico,
specialmente a Matteo 5:13: “Sei il sale della
terra. Ma se il sale perde la sua salinità, come può essere reso di
nuovo salato? Non è più buono a nulla, tranne che ad essere buttato
fuori e calpestato”.
9. Il titolo si riferisce
ad un fotografo. Salgado è un termine portoghese
utilizzato per definire una cosa salata. Se si aggiunge il sale a
qualcosa, questo diventa salgado. Ciò può essere interpretato, in
maniera più ampia, come un contributo che il fotografo Sebastião
Salgado ha dato al pianeta Terra o, in maniera più letterale, come
il cambiamento che lui e la sua famiglia hanno apportato alla loro
terra, riportando la foresta pluviale nativa all’Istituto della
Terra (The Earth Insitute).
10. Il riferimento è alle
persone di grande valore. Al di là della connotazioni
religiose, Il sale della terra è una frase che rappresenta la
positività. Infatti, le persone che vengono così descritte sono
quello che vengono considerate di grande valore e di grande
affidabilità.
Ai tempi di Solo Dio
Perdona, Nicolas Winding Refn
aveva promesso che il suo stile e il suo linguaggio cinematografico
e narrativo sarebbero sempre più evoluti nella direzione di
un’estetica abbagliante, come appunto quella riscontrabile nel
succitato film presentato in concorso a Cannes
nel 2013. Promessa fatta, promessa mantenuta. Dopo aver turbato
ulteriormente con The Neon Demon,
Refn ha proseguito la sua ricerca spostandosi sulla serialità,
realizzando così la sua prima serie intitolata Too Old
To Die Young, di cui gli episodi 4 e 5 sono stati
presentati fuori concorso al Festival di Cannes 2019.
La serie, che sarà distribuita su Amazon Prime Video dal 14 giugno, sembra
promettere un concentrato di tutte le cifre stilistiche del regia
danese, tra avvincente intrattenimento e disincantata
contemplazione sulla società odierna.
Too Old To Die Young, la serie tv Prime Original
Protagonista assoluto è Miles
Teller, il quale interpreta un detective dalla doppia
vita: di giorno garante della legge, di notte spietato assassino.
Martin, questo il nome del protagonista, soffre di una crisi
esistenziale, la quale lo conduce sempre più all’interno di un
inferno fatto di omicidi, violenza e sangue. Questa cupa odissea lo
porterà a scontrarsi con strani e temibili personaggi.
Sono particolarmente diversi l’uno
dall’altro i due episodi presentati in anteprima. Dove uno sembra
vivere della rarefazione di Solo Dio
Perdona, l’altro sfoggia invece un dinamismo alla
Drive. Dove uno
sembra avere i toni disillusi e le atmosfere decadenti di un film
sulla crisi della società e dei suoi abitanti, l’altro è invece un
adrenalinico noir tra feroci inseguimenti e personaggi dalla
perversa natura. Difficile dunque immaginare come possa realmente
essere la serie firmata da Refn, quali delle due strade percorrerà,
e a quali conclusioni arriverà.
Ciò che è certo, è che il regista
sembra aver dato sfogo a tutte le sue ossessioni, che all’interno
di un prodotto della durata complessiva di 13 ore potrebbero aver
trovato la giusta collocazione. Potrà certamente infastidire l’uso
che Refn fa della messa in scena, totalmente prevalente rispetto
all’elemento narrativo. Questo appare infatti un pretesto per
mettere in relazione alcune immagini chiave, e l’intrattenimento è
dato in primo luogo da una ricerca e una cura per l’aspetto visivo
che sbalordisce nuovamente. Refn è sempre più un esteta, e le sue
opere vivono di colori forti, dal giallo al verde, dal rosso al
viola. Colori che sono diretta esternalizzazione delle pulsioni dei
personaggi.
Il mondo che sembra aver costruito
stavolta ha un sapore già conosciuto, eppure difficilmente si
riesce a staccare gli occhi dallo schermo. Refn sa come ottenere
l’attenzione, come riprenderla qualora la si avesse persa. Lo
dimostra con continui cambi di tono, continue accelerazioni di
ritmo che costringono lo spettatore a vivere sulla propria pelle il
metaforico viaggio verso l’inferno che il protagonista ha
intrapreso. Miles
Teller incarna qui il nuovo volto senza
espressioni né emozioni del cinema dell’autore danese. Pur privato
di ciò, l’attore riesce comunque a calamitare su di sé
l’attenzione, imponendosi come una figura tanto attraente quanto
provocante.
Refn è dunque tornato, ed è pronto
a far discutere nuovamente, proponendo un prodotto che certamente
porrà a dura prova lo spettatore, marcando sempre di più la
divisione tra chi lo ama e chi lo odia. Con Too Old To
Die Young conferma di sapere perfettamente come
provocare e intrattenere, come sorprendere, scioccare e anche
divertire. Se la serie vivrà bilanciando al suo interno la
differente natura dei due episodi proposti, avrà certamente la
possibilità di affermarsi come un nuovo punto cruciale nella
filmografia del suo autore.
Interpretata da Miles Teller, la serie
ha per protagonista un detective dalla doppia vita: di giorno
garante della legge, di notte spietato assassino. Martin, questo il
nome del protagonista, soffre di una crisi esistenziale, la quale
lo conduce sempre più all’interno di un inferno fatto di omicidi,
violenza e sangue. Questa cupa odissea lo porterà a scontrarsi con
strani e temibili personaggi.
Arrivato in conferenza stampa,
insieme a Miles Teller, Refn viene chiamato a raccontare da dove
nasca l’idea di questa serie dal titolo così suggestivo. “Tutto
nasce in un auto, a Los Angeles. Stavo lavorando a The Neon
Demon a quel tempo. Era il periodo in cui Netflix si
affermava sempre più come realtà grazie ai suoi contenuti. Tutti
intorno a me sembravano volersi spostare in televisione. Io non la
guardo molto in realtà, ma ero incuriosito dalle possibilità del
mezzo. Era come accettare ed esplorare un modo totalmente nuovo di
comunicare.”
“Contemporaneamente ho iniziato
ad avere il desiderio di lavorare su qualcosa che avesse come
tematiche la religione e la morte, – continua il regista –
e il titolo Too Old To Die Young venne
spontaneo. Chiamai Ed Brubaker, il co-creatore della serie, e gli
esposi la storia, chiarendo che desideravo sviluppare una linea
narrativa particolarmente lunga.”
“Quando inizi a lavorare ad una
storia hai un’idea, un’intenzione, ma poi qualcosa di veramente
strano accade durante il processo di scrittura. – prosegue
Refn – Quando abbiamo iniziato a scrivere la serie era il
periodo delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Io mi
sentivo come un alieno, e mi sentivo influenzato da tutto quello
che stava accadendo. Stavo sperimentando l’evoluzione di un Paese,
e tutto ciò è finito inevitabilmente all’interno della serie, che
parla a suo modo del collasso della società. E volevo indirizzarla
in particolare ai giovani, che sono il futuro. Loro qui sono visti
come una speranza, mentre gli uomini come un decadente
fallimento.
La parola passa poi a Miles
Teller, al quale viene chiesto di raccontare il rapporto
lavorativo con Refn e il lavoro svolto su di un personaggio tanto
impegnativo. “Quando fui contattato per il progetto lessi solo
la sceneggiatura del primo episodio. Ero attratto, pur non avendo
idea di come sarebbe evoluta la cosa. Ma desideravo lavorare con
Nicolas, che adoro, e lui mi ha garantito che avremmo girato le
scene in ordine cronologico. Questo mi ha portato ad affrontare la
sfida di tenere con me un personaggio per un periodo di tempo
veramente lungo, ed è stato affascinante poterne scoprire sempre
nuove sfumature e poter apprendere sempre di più sull’arte del
filmmaking da Nicolas.”
Refn torna poi a parlare sulla
natura del progetto e sul particolare stile che a partire dal film
Drive ha raffinato sempre di più.
“Questa non è una serie tv, è un film. Un film di 13 ore. E
all’interno volevo che tutto dipendesse da due elementi: l’immagine
e il silenzio. La prima è fondamentale per me, credo sia l’elemento
più comunicativo che abbiamo. Il silenzio invece è un arma usata
per rivelare, il più delle volte qualcosa di cui abbiamo paura. Il
silenzio può dar vita a situazioni poco confortevoli, e questo era
proprio ciò che desideravo esplorare.”
Nicolas Winding Refn è anche
proprietario di un proprio servizio streaming attraverso il quale
mette a disposizione degli utenti alcuni film classici o quelli che
più hanno influenzato la sua carriera. “Qualche anno fa ebbi
l’idea di creare la mia propria forma di piattaforma
streaming. – racconta Refn in proposito – Volevo dar
vita ad una fondazione che si occupasse di preservare la cultura
cinematografica, e volevo che fosse gratis. È nato come un
esperimento, ma con il tempo la cosa è cresciuta ed è veramente
interessante vedere le forme che sta assumendo.
Concludendo la
conferenza stampa, al regista viene chiesto se abbia inserito, come
suo solito, una scena cardine anche in questo nuovo progetto.
“In ogni mio film c’è una scena madre che racchiude il cuore
del prodotto. C’è anche qui, certo. È nell’episodio 9 ma non vi
dirò qual è. Dovrete scoprirlo da soli.”
In occasione della presentazione a
Cannes 2019 di Dolor y Gloria,
ecco la nostra intervista alla co-protagonista del nuovo film di
Pedro Almodovar, Penelope
Cruz.
[brid video=”414507″ player=”15690″ title=”Penelope Cruz Dolor y
Gloria Cannes 2019″]
Dolor y Gloria
racconta una serie di ricongiungimenti di Salvador Mallo, un
regista cinematografico oramai sul viale del tramonto. Alcuni sono
fisici, altri ricordati: la sua infanzia negli anni ‘60 quando
emigrò con i suoi genitori a Paterna, un comune situato nella
provincia di Valencia, in cerca di fortuna; il primo
desiderio; il suo primo amore da adulto nella Madrid degli anni
‘80; il dolore della rottura di questo amore quando era ancora vivo
e palpitante; la scrittura come unica terapia per dimenticare
l’indimenticabile; la precoce scoperta del cinema ed il senso del
vuoto, l’incommensurabile vuoto causato dall’impossibilità di
continuare a girare film. “Dolor y Gloria” parla della creazione
artistica, della difficoltà di separarla dalla propria vita e dalle
passioni che le danno significato e speranza. Nel recupero del suo
passato, Salvador sente l’urgente necessità di narrarlo, e in quel
bisogno, trova anche la sua salvezza.
Uno dei momenti più emozionanti di
Avengers: Endgame è stato quello che ha visto
protagoniste tutte le eroine schierate contro Thanos, a proteggere
Captain Marvel che custodiva il
Guanto dell’Infinito completo di Gemme. La scena ha infiammato i
cuori degli spettatori anche se non sappiamo con certezza se
rivedremo le eroine tutte insieme in un film sulla
A-Force.
Adesso, forse a irrobustire le voci
che vorrebbero che tale film fosse già in produzione, l’account ufficiale dei Marvel Studios
pubblica una foto di squadra dal backstage di
Endgame in cui compaiono tutte le eroine Marvel,
eccetto, ovviamente, Vedova Nera.
Dopo gli eventi devastanti di
Avengers: Infinity War (2018), l’universo è in rovina a causa degli
sforzi del Titano Pazzo, Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti
in vita dopo lo schiocco, i Vendicatori dovranno riunirsi ancora
una volta per annullare le azioni del villain e ripristinare
l’ordine nell’universo una volta per tutte, indipendentemente dalle
conseguenze che potrebbero esserci.
Il grande colpo di scena di
Avengers: Endgame che ha visto Captain
America impugnare il Mjolnir ha scatenato la gioia dei fan
e ha concretizzato un sospetto che avevamo avuto già in Age
of Ultron, ovvero che Steve Rogers è
degno del potere del Martello di Thor.
Di seguito potete ammirare le foto
di una statua che raffigura proprio Cap con il mano la potente arma
e il suo scudo, un oggetto dettagliato e prezioso.
Dopo gli eventi devastanti di
Avengers: Infinity War (2018), l’universo è in rovina a causa degli
sforzi del Titano Pazzo, Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti
in vita dopo lo schiocco, i Vendicatori dovranno riunirsi ancora
una volta per annullare le azioni del villain e ripristinare
l’ordine nell’universo una volta per tutte, indipendentemente dalle
conseguenze che potrebbero esserci.
All’interno del Festival di Cannes 2019,
arriva in concorso alla Quinzaine des
Réalisateurs il regista giapponese Takashi Miike con il suo
nuovo film dal titolo First Love.
All’interno di questo è possibile ritrovare tutti i principali
stilemi del regista, dalla violenza esagerata all’umorismo nero,
dall’amore alla natura ambigua dei personaggi. Con il suo nuovo
lungometraggio Miike si conferma uno dei registi più controversi e
affascinanti dell’odierno panorama cinematografico.
Ambientato nell’arco di una notte a
Tokio, il film segue la storia di Leo, un giovane boxer solitario,
e di Monica, giovane ragazza costretta a prostituirsi per debiti.
Mentre tra i due sboccia l’amore, si ritroveranno anche a doversi
difendere da pericolosi personaggi della malavita, i quali li
cercano per motivi a loro ignoti. In un tripudio si sangue,
comicità e sentimento, i due ragazzi dovranno riuscire a
sopravvivere alla notte per consolidare il loro rapporto.
Le premesse della trama non vengono
disilluse, in un film che si dimostra dinamico sin dall’inizio.
Miike ci presenta da subito, ognuno nel suo contesto i vari
personaggi. Molti di questi non si conoscono minimamente, e sembra
impensabile che possano presto o tardi ritrovarsi a combattere gli
uni contro gli altri per la vita e la morte. Se all’inizio si può
quindi rimanere frastornati dalla presenza di molteplici linee
narrative da seguire, ben presto si ci si ritroverà sempre più
catapultati nel vivo della storia.
Appare sempre più chiaro che Miike
desidera raccontare una storia che esce dai binari del realistico,
quasi una favola, chiedendo un po’ di partecipazione e fiducia allo
spettatore per condurlo all’interno di un incubo notturno dove
tutto è possibile. Incubo per i protagonisti, poiché per lo
spettatore il film è invece una gioia per gli occhi.
Particolarmente violento, ai limiti dello splatter, il regista
unisce a quest’elemento quello della comicità. Ogni scena brutale
presenta allo stesso tempo situazioni per cui è impossibile non
provare divertimento, con trovate particolarmente brillanti.
All’interno di questo delirio
visivo, non manca ciò che il titolo promette, ovvero l’amore. I due
protagonisti, moderni Romeo e Giulietta, si ritrovano coinvolti in
qualcosa di più grande di loro. La loro presenza aggiunge
sentimento a quanto avviene intorno a loro, e anche i più cattivi
infine sembrano costretti a piegarsi alla forza del loro amore.
Il solito Miike dunque, che com’è
giusto che sia non si allontana dai temi a lui cari, ma li
riformula per realizzare un film dinamico, particolarmente
coinvolgente e divertente. Sua intenzione era infatti quella di dar
maggior rilevanza all’aspetto comico, che nel film è ben dosato e
costruito. Se anche tutto sembra crescere fino all’inverosimile,
ciò non risulta un disturbo. Ormai assuefatti dalla storia si è
pronti a seguire il regista in ogni strada intrapresa, e
First Love si rivela l’ennesimo
interessante progetto di uno dei maestri della cinematografia
orientale.
In occasione della presentazione a
Cannes 2019 di Dolor y Gloria,
ecco la nostra intervista al protagonista del nuovo film di
Pedro Almodovar, Antonio
Banderas.
[brid video=”414503″ player=”15690″ title=”Antonio Banderas
Dolor y Gloria Cannes 2019″]
Dolor y Gloria
racconta una serie di ricongiungimenti di Salvador Mallo, un
regista cinematografico oramai sul viale del tramonto. Alcuni sono
fisici, altri ricordati: la sua infanzia negli anni ‘60 quando
emigrò con i suoi genitori a Paterna, un comune situato nella
provincia di Valencia, in cerca di fortuna; il primo
desiderio; il suo primo amore da adulto nella Madrid degli anni
‘80; il dolore della rottura di questo amore quando era ancora vivo
e palpitante; la scrittura come unica terapia per dimenticare
l’indimenticabile; la precoce scoperta del cinema ed il senso del
vuoto, l’incommensurabile vuoto causato dall’impossibilità di
continuare a girare film. “Dolor y Gloria” parla della creazione
artistica, della difficoltà di separarla dalla propria vita e dalle
passioni che le danno significato e speranza. Nel recupero del suo
passato, Salvador sente l’urgente necessità di narrarlo, e in quel
bisogno, trova anche la sua salvezza.
Ci sono film che dimostrano di
meritare la partecipazione al concorso ufficiale di un festival
prestigioso come quello di Cannes. Little
Joe, di Jessica Hausner,
tuttavia non è tra quelli. Presentato al Festival di Cannes 2019,
il nuovo lungometraggio della regista austriaca rivela una storia
debole, penalizzata in particolare da scelte di regia che
disturbano anziché attrarre.
Il film ha per protagonista Alice
(Emily
Beecham), una madre single e particolarmente devota al
suo lavoro di sperimentatrice di nuove specie di piante. La sua
ultima ricerca riguarda un particolare tipo di fiore, chiamato
Little Joe, che, oltre ad attrarre per la sua bellezza, è in grado
grazie al suo profumo di rendere felice chi si trova nelle
vicinanze. Con l’avvicinarsi del lancio sul mercato di questo però,
strane cose iniziano ad accadere e Alice comincia a nutrire
sospetti su Little Joe, il quale potrebbe non essere innocuo come
sembrerebbe.
Sulla carta il film aveva il
potenziale per rivelarsi buon thriller sci-fi. La trama infatti
consente numerose strade percorribili, ma al momento della
realizzazione del film evidentemente sono state prese quelle
errate. Benché le premesse fossero interessanti, la sceneggiatura
acquista ben presto un tono di innaturalità che porta al
manifestarsi di diversi buchi di sceneggiatura e, in particolare,
la mancanza di un vero e proprio sviluppo del conflitto.
Nel momento in cui la protagonista
inizia a nutrire sospetti sulla sua creazione, nulla di veramente
significativo accade perché lo spettatore possa essere sempre più
coinvolto. I sospetti continuano, fino a concretizzarsi ma
risolvendosi in un nulla di fatto. Si aspetta così qualcosa che è
destinato a non arrivare, e il fatto che le domande poste
rimarranno senza risposta diventa chiaro ben prima del finale. Ciò
che sembra mancare più di tutto è poi la minaccia che le piante del
film portano con sé. Impariamo a conoscerle ma, benché la loro
natura appaia pericolosa, si rimane all’oscuro di quale realmente
sia il pericolo che si corre. Chi vi entra in contatto subisce
effettivamente un cambiamento, ma che non porta a sviluppi né
intelligenti né inquietanti.
La regista e sceneggiatrice sembra
più che altro interessata a generare un atmosfera di tensione che
possa supportare la storia. All’inizio il suo intento sembra
riuscire, ma nel momento in cui lo spettatore comprende che ben
poco accadrà di nuovo, la tensione viene presto a sgretolarsi
lasciando il posto ad un senso di noia e irritazione. Certamente
non aiutano i costanti movimenti di macchina, i più dei quali
risultano ingiustificati. Se l’intento era quello di generare una
tensione nello spettatore, come detto prima, questa viene ben
presto a scemare. Altro elemento particolarmente fastidioso è una
colonna sonora eccessivamente presente, particolarmente ricca di
suoni e rumori. Questa è marcatamente posta sia nei momenti
più cruciali che in quelli meno adatti, finendo per ottenere
l’effetto opposto a quello desiderato.
Non è chiaro quale fosse l’intento
della Hausner con Little Joe, ma la
sensazione generale è di un’occasione sprecata. Un’idea che poteva
racchiudere un potenziale ma che, come il fiore protagonista del
film, sembra emanare solo una pallida parte di ciò che poteva
essere.