Il Marvel Cinematic Universe
registra un nuovo cambiamento nella sua timeline a causa dello
sciopero di attori e sceneggiatori in corso a Hollywood. Marvel
Studios ha riprogrammato infatti diversi show Disney+. Tra questi c’è la
seconda stagione di What If…?, la prima serie
animata MCU, che sarebbe dovuta uscire all’inizio del 2023, e
adesso arriverà alla fine dell’anno, per ragioni non
specificate.
Per quanto riguarda Echo,
spin-off di Hawkeye, con
Alaqua Cox come prima Nativa Americana protagonista di una serie
Marvel, la serie è stata spostata dal 29 novembre a gennaio 2024.
Sarà comunque previsto che tutti gli episodi usciranno insieme.
X-Men ’97, l’atteso aggiornamento
della serie d’animazione dedicata agli X-Men degli anni ’90, è
stata spostata dall’autunno 2023 all’inizio del 2024. E infine, lo
spin-off di Wandavision,
Agatha, con Kathryn Hahn nei
panni della strega Agatha Harkness, uscirà nell’autunno del 2024.
La serie, le cui riprese si sono concluse prima dello sciopero
degli attori, era stata annunciata con il titolo di Agatha:
House of Harkness, poi a luglio 2022, la Marvel ha
cambiato il titolo in Agatha: Coven of Chaos. Ora
il titolo definitivo sembra essere Agatha: Darkhold Diaries.
La prossima serie Marvel su Disney+ sarà comunque Loki 2, in arrivo
il 6 ottobre, con Tom Hiddleston che riprende il ruolo ultra
decennale del Dio dell’Inganno. Altre serie, come Daredevil:
Born Again e Wonder
Man, subiranno purtroppo altri ritardi.
La serie live-action di
One
Piece di Netflix (qui
la
recensione) modifica diversi elementi rispetto alla storia
originale, pur rimanendo fedele al manga di Eiichiro
Oda. La prima stagione di One
Piece è composta da otto episodi e copre i primi 95
capitoli del manga. Considerando il numero di personaggi e luoghi
raccontati dal manga fin dall’inizio, ci si aspettavano cambiamenti
rispetto al materiale originale. Fortunatamente, la maggior parte
delle modifiche apportate alla serie live-action di
One
Piece ha a che fare con il ritmo piuttosto che
con cambiamenti sostanziali di personaggi o circostanze.
Eiichiro Oda era
direttamente coinvolto nello show e avvisava i produttori ogni
volta che qualcosa non andava bene. La prima stagione di
One
Piece ha mostrato molto rispetto per il materiale
originale e dei riferimenti profondi e mirati nella ricreazione
accurata di scene iconiche. Tuttavia, sono state apportate molte
modifiche alla storia, a partire da personaggi scomparsi fino a
nuovi ambienti. Ecco i cambiamenti più importanti apportati dalla
prima stagione di One
Piece al manga.
Garp ha condotto l’esecuzione di
Gold Roger
Alcuni dei più grandi
cambiamenti di One
Piece per il live-action hanno a che fare con il
personaggio di Garp, la cui prima apparizione nel manga è avvenuta
nel capitolo 92. Nello show live-action, Garp è colui che guida
l’esecuzione di Gold Roger. Questa scena viene rievocata anche nel
finale della prima stagione, quando Garp, guardando Luffy che ride,
ricorda la risata beffarda e divertita di Gold Roger nel momento
dell’esecuzione.
Volti familiari vengono rivelati
subito durante l’esecuzione di Gold Roger
Numerosi personaggi
importanti di One
Piece erano presenti all’esecuzione di Gold Roger,
inclusi Shanks, Mihawk e Smoker. Anche se questo è esattamente ciò
che accade nel manga, questi personaggi non vengono mostrati la
prima volta che si racconta dell’esecuzione di Gold Roger.
One
Piece rivisita la morte di Roger molte volte, ma
la serie live-action ha preferito mostrare subito questi personaggi
importanti.
Shanks è più vecchio durante il
flashback dell’esecuzione
L’esecuzione di Gold Roger
è avvenuta 22 anni prima degli eventi principali di
One
Piece. Sebbene One
Piece di Netflix mantenga la stessa sequenza temporale, Shanks
è significativamente più vecchio nel flashback dell’esecuzione
rispetto alla sua controparte manga/anime. Pertanto, lo Shanks di
oggi è più vecchio nell’anime che nel manga.
Shanks dice che andrà alla ricerca
del One Piece
Nel manga, Shanks dice a
Luffy che la sua squadra è al Windmill Village da troppo tempo.
Shanks saluta Luffy ma non dice esattamente dove sta andando con la
sua ciurma. Nel live-action, Shanks dice espressamente che anche
loro stanno inseguendo il One
Piece.
Luffy non viene risucchiato in un
vortice
L’attuale introduzione di
Luffy nello show di One
Piece è molto simile a come avviene nel manga, ma con
alcune differenze. Invece di affrontare un mostro marino locale e
poi essere risucchiato in un vortice, Luffy decide di entrare in un
barile dopo che la sua barca ha iniziato ad affondare. Il risultato
è lo stesso: Luffy viene ripescata dall’equipaggio di Alvida.
Vediamo Zoro che affronta Mr. 7
del Byzantine Works
L’introduzione di Zoro in
One
Piece di Netflix è molto diversa dal materiale
originale. Invece di incontrare il “demone cacciatore di pirati” a
Shells Town, Zoro viene presentato al pubblico davanti alla tomba
di Kuina. Inoltre, Zoro combatte contro Mr. 7 dopo che il membro
dei Byzantine Works ha cercato di reclutarlo. Sebbene questo
combattimento avviene anche nella storia originale, se ne fa
riferimento solo molto più tardi e non è mostrato all’inizio di
One
Piece.
Nami viene presentata a Shells
Town
Nel manga, Nami si unisce
alla storia solo nel capitolo 8, dopo la conclusione dell’arco
narrativo di Shells Town. In One
Piece di Netflix, Nami viene introdotta pochi
minuti dopo l’episodio 1 e partecipa all’arco narrativo di Shells
Town. Questo cambiamento è stato mutuato dall’anime, che vede Nami
coinvolta negli eventi di Shells Town, proprio come accade nel live
action.
La “lotta” tra Luffy e Koby non
avviene
Koby ha un ruolo più
importante in questa parte della storia nel live-action rispetto al
manga. Anche se Koby il fatto che si unisce ai Marines a Shells
Town corrisponde a quanto accade nel materiale originale, lo
“scontro” tra lui e Luffy non avviene. Invece, Koby rimane con i
Marines e viene successivamente interrogato da Garp.
La mappa della Rotta Maggiore è
stata rubata ai Marines (non a Buggy)
La mappa della Rotta
Maggiore è stata utilizzata come McGuffin nella prima stagione di
One
Piece, dal momento che ci sono diversi personaggi che
la cercano. Tuttavia, invece di diventare un punto della trama
durante l’arco narrativo di Orange Town dove i protagonisti
incontrano Buggy, la mappa della Rotta Maggiore è stata introdotta
nell’episodio 1. Luffy e Nami rubano la mappa ai Marines, anche se
poi Buggy viene introdotto come uno dei contendenti in cerca della
mappa.
Nami è subito una brava
combattente
Il live-action di
One
Piece offre a Nami molte più scene di
combattimento in questa parte della storia rispetto al manga o
all’anime. Il bastone distintivo di Nami debutta nell’episodio 1,
durante il quale Nami si unisce a Luffy e Zoro nella lotta contro
Morgan Mano d’ascia. Nami ha anche alcune scene di combattimento
interessanti nel segmento in cui compare Buggy.
Garp viene presentato (e insegue
Luffy) molto prima
Oltre ad apparire nel
flashback dell’esecuzione di Gold Rogers, Garp gioca un ruolo
significativo in One Piece stagione 1. Garp è
stato una sorta di antagonista generale per la ciurma di Cappello
di Paglia. Quello che si rivela essere il nonno di Luffy ha
inseguito i protagonisti da Shells Town al Villaggio Coco, cosa che
non accade affatto nel manga. Inoltre, il fatto che Garp facesse da
mentore a Koby e Helmeppo è stato spostato di livello superiore ed
è avvenuto in concomitanza con le avventure di Luffy nel Mare
Orientale.
Luffy è più intelligente di quanto
dovrebbe essere
Luffy di Iñaki
Godoy mette in scena molto bene sia l’aspetto del Luffy
originale sia il suo buon cuore. Inoltre, il live-action di
One
Piece riesce anche a catturare l’umorismo di
Luffy. Detto questo, il protagonista è più intelligente
nell’adattamento Netflix che nel manga. Mentre il Luffy di Godoy è
sempre spontaneo e ingenuo, il personaggio sembra più maturo e
sveglio rispetto al Luffy del manga.
Luffy e Koby si riuniscono due
volte nella prima stagione di One Piece
Luffy e Koby si riuniscono
due volte dopo che il pirata del Cappello di Paglia lascia Shells
Town nel live action. Koby ha incontrato Luffy a Syrup Village e
poi nel finale di One
Piece al Villaggio Coco. Tuttavia, nel manga, Luffy e
Koby si vedono solo più di 400 capitoli dopo. Koby ha avuto un
ruolo molto più importante in questa versione della storia rispetto
al manga.
Il circo di Buggy e gli abitanti
incatenati non provengono dal manga
Buggy il Clown ruba la
scena nella prima stagione di One
Piece, ma l’episodio incentrato su di lui era molto
diverso dall’arco narrativo di Orange Town del manga. Nella serie
live-action, Buggy gestisce un circo, la cui folla è formata da
abitanti del villaggio incatenati. Sebbene Buggy e i suoi pirati
distruggano un villaggio durante la loro introduzione, nel manga
non c’è traccia del circo o dei prigionieri incatenati.
Lo scontro tra Buggy e Luffy è
completamente diverso
Lo scontro tra Buggy e i
pirati di Cappello di Paglia di Luffy è molto diverso dal materiale
originale. Tutto accade all’interno del circo di Buggy piuttosto
che nelle strade di Orange Town. Buggy non cattura Luffy, Zoro e
Nami tutti insieme nel manga; inoltre non tortura Luffy allungando
il suo corpo. Lo scontro di Zoro con Cabaji non avviene nel
live-action e personaggi come il sindaco e il cane appaiono solo
come brevi riferimenti.
Zoro ha ucciso il fratello di
Cabaji
One
Piece di Netflix ha aggiunto un
elemento personale alla rivalità tra Zoro e Cabaji. Secondo il capo
della ciurma di Baggy, Zoro ha ucciso suo fratello. Questo non è
una informazione che deriva dal manga. Curiosamente, nonostante
abbia creato una storia personale tra Zoro e Cabaji, la serie non
mostra quello scontro. Invece, Zoro liquida rapidamente Cabaji con
pochi colpi dopo essersi sciolto.
I pirati di Usopp non
compaiono
Il retroscena di Usopp e la
sua introduzione in One
Piece di Netflix
sono molto fedeli al materiale originale. In effetti, gli episodi
di Syrup Village sono tra i migliori della prima stagione. Detto
questo, un cambiamento significativo rispetto al manga è stato che
Ninjin, Tamanegi e Piiman – i “pirati Usopp” – non appaiono.
Nemmeno i compagni di Usopp sono menzionati né si fa riferimento a
loro in forma di Easter Eggs.
Appaiono solo due dei Pirati del
Gatto Nero di Kuro
Il piano e la motivazione
di Kuro nella prima stagione di One
Piece corrispondono a quelli del manga. Tuttavia, il
climax dello scontro tra la ciurma di Cappello di Paglia e il
capitano dei Pirati del Gatto Nero è leggermente diverso. Invece di
affrontare tutto l’equipaggio di Kuro per salvare Kaya, Luffy e i
suoi amici combattono solo contro Buchi e Sham.
Jango non appare
Anche se il piano di Kuro
di uccidere Kaya prima di impossessarsi delle ricchezze della sua
famiglia è rimasto lo stesso in One
Piece di Netflix,
il modo in cui sarebbe dovuto accadere è diverso. Nel manga, Kuro
dei Mille Piani arruola Jango, un ipnotizzatore, per ipnotizzare
Kaya. Nel live-action, Kuro, fingendosi il maggiordomo Klahadore,
manipola semplicemente Kaya facendogli affidare a lui l’azienda di
famiglia.
Il bacio di Usopp e Kaya
La dinamica tra Usopp e
Kaya in One
Piece di Netflix è vicina al materiale originale, con
il primo che rallegra la seconda con il racconto delle sue
mirabolanti (e inventate) avventure. Tuttavia, c’è una differenza
sostanziale rispetto al manga. Usopp e Kaya si baciano
nell’episodio 4, cosa che non accade nel manga e conferma che,
nella serie live action, la loro relazione è romantica.
Kuro uccide Merry
Kuro attacca Merry dopo che
quest’ultimo scopre la vera identità del primo sia nel manga che
nella serie live-action. Tuttavia, Merry muore nell’episodio 4 di
One Piece di Neflix, mentre nel manga sopravvive. Nello show, la
morte di Merry è ciò che porta Luffy a chiamare la loro nuova nave
“Going Merry”.
Johnny e Yosaku non appaiono
Johnny e Yosaku, gli amici
cacciatori di taglie di Zoro, non compaiono in One Piece di
Netflix. Originariamente introdotti prima dell’arco narrativo di
Baratie, Johnny e Yosaku rimangono vicino ai pirati di Cappelli di
Paglia fino al segmento di Arlong Park. L’assenza di Johnny e
Yosaku nello show live-action può essere stata una delusione, ma la
prima stagione di One Piece ha preferito concentrarsi
esclusivamente sull’originale ciurma di Cappello di Paglia.
Arlong sostituisce Don Krieg al
Baratie
Don Krieg è presente nella
prima stagione di One
Piece di Netflix, ma in un ruolo molto più piccolo
rispetto al manga. Mihawk incontra i pirati di Don Krieg e provoca
loro gravi perdite, proprio come nell’originale. Tuttavia, nello
show, Mihawk uccide Don Krieg prima ancora che Luffy arrivi al
Baratie. Invece di affrontare Krieg al ristorante, Luffy combatte
Arlong in quello che è stato uno dei più grandi cambiamenti
rispetto al manga. La sostituzione di Krieg con Arlong ha
semplificato la storia e ha reso Arlong una presenza più
ingombrante anche prima degli episodi di Arlong Park.
Arlong cattura Buggy
Arlong cattura Buggy
nell’episodio 3 di One
Piece e porta la testa del clown con sé fino al
Baratie. Lì, viene rivelato che Baggy ha messo una delle sue
orecchie nel cappello di Luffy, motivo per cui Arlong sapeva dove
trovare il Cappelli di Paglia. Niente di tutto questo accade nel
manga. Nella storia originale, Luffy dà un pugno alla testa di
Buggy allontanandola dal corpo del clown. Buggy recupera solo
alcune parti del suo corpo e poi intraprende un divertente viaggio
prima di incontrare Alvida.
L’Isola degli Animali Rari non
appare
L’Isola degli Animali Rari,
una famosa località di One
Piece nella regione del Mare Orientale, non appare
nella prima stagione di One Piece. L’Isola degli Animali Rari
appare due volte nel materiale originale durante questa parte della
storia, poco prima che la ciurma di Cappelli di Paglia vada via dal
Baratie e quando Buggy intraprende un’avventura in solitaria mentre
gli manca la maggior parte del corpo. Di conseguenza, Gaimon non è
presente nello show Netflix.
Nojiko e Genzo non sapevano
dell’accordo di Nami con Arlong
Il segreto di Nami e il
motivo per cui lavorava per Arlong sono rimasti inalterati in One
Piece di Netflix. Tuttavia, nella serie live-action, né Nojiko né
Genzo sono a conoscenza dell’accordo di Nami con Arlong. Entrambi
credono che Nami abbia scelto di lavorare per la persona che ha
ucciso Bell-mère. Nojiko scopre la verità solo nell’episodio 7 di
One Piece, poco prima che i soldi di Nami vengano rubati. Nel
manga, Nojiko e il resto del villaggio scoprono molto presto che
Nami ha scelto di lavorare con Arlong solo per liberare il
villaggio.
Nel 1755, lo
squattrinato capitano Ludvig Kahlen parte alla conquista delle
aspre e desolate lande danesi con un obiettivo apparentemente
impossibile: costruire una colonia in nome del Re. In cambio,
riceverà per sé un titolo reale disperatamente desiderato. Ma
l’unico sovrano della zona, lo spietato Frederik de Schinkel, ha la
presuntuosa certezza che questa terra gli appartenga. Quando De
Schinkel viene a sapere che la cameriera Ann Barbara e il marito
servitore sono fuggiti per rifugiarsi da Kahlen, il privilegiato e
perfido sovrano giura vendetta, facendo tutto ciò che è in suo
potere per scoraggiare il capitano. Kahlen non si lascerà
intimidire e ingaggerà una battaglia impari, rischiando non solo
la sua vita, ma anche quella della famiglia di emarginati che si è
venuta a formare intorno a lui.
Il commento del regista
Quando qualche anno fa ho vissuto
l’esperienza assolutamente straordinaria di diventare padre, ho
iniziato a vedere i miei film precedenti, compresi i ricordi della
loro realizzazione, sotto una nuova luce. Per quanto ne rimanga
orgoglioso (almeno della maggior parte!), quelle opere riflettono
la visione di un uomo con un unico scopo: la dedizione entusiasta
nei confronti della creazione di storie e di arte… ma non molto
altro. Bastarden è nato da questa presa di
coscienza esistenziale ed è a oggi, di gran lunga, il mio film
più personale. Con l’aiuto del brillante romanzo di Ida Jessen, io
e Anders Thomas Jensen volevamo raccontare una storia epica e
grandiosa su come le nostre ambizioni e i nostri desideri siano
destinati a fallire se rappresentano la sola cosa che abbiamo. La
vita è un caos; dolorosa e sgradevole, bella e straordinaria, e
spesso non la possiamo controllare. Come dice il proverbio: “Noi
facciamo piani e Dio se la ride”.
Un dramma storico dalla forte
intensità, Bastarden – The Promised Land arriva a Venezia 80. Un film fortemente voluto dal
Arcel, anche un progetto intimo per lui che porta al Lido e che
ottiene i suoi primi consensi. Come racconta il regista la
paternità ha avuto un ruolo chiave nella sua realizzazione.
“È una cosa banale da dire ma
avere un figlio ti cambia la vita e non immagini quanto. Quando ho
letto il romanzo stavo diventando padre e leggerlo mi ha fatto
scoprire questa storia di ambizione che contrasta con la famiglia.
Prima ragionavo sempre in termini di ambizione, ma ora mi rendo
conto che la famiglia è il mio nuovo obiettivo. Ecco perché è un
film così personale per me”.
Il film presenta anche molte scene
violente e crude. Il regista e lo sceneggiatore hanno spiegato che
per queste parti è stata fatta una ricerca su fatti realmente
esistiti: “È realmente esistito un tale Schinkel, ma di lui
abbiamo solo una citazione tramandata nel tempo e a partire da
quella abbiamo costruito il personaggio che vedete nel film”,
racconta Jensen.
Nonostante sia ambientato nel 1755
il film presenta alcuni elementi contemporanei e moderni che non
sono assolutamente frutto dell’epoca passata anzi come dice Arcel
si tratta di temi universali “il come bilanci e controlli la
tua vita o come la lasci in balia del caos. Per me emotivamente
questo risuona ancora oggi nel nostro contemporaneo”. Alla
conferenza stampa, presenti anche gli attori che hanno raccontato
il loro personaggio. Sono tutti diversi ed emotivamente a
pezzi.
“Sono stata affascinata dal
personaggio ma c’è un momento in cui ho capito di dover dare tutto
al regista per poter davvero trovare la strada e il carattere di
Ann Barbara. Mi sono arresa al personaggio ed è stato un viaggio
stupendo”, ha detto Amanda Collin. “È
interessante interpretare un uomo così focalizzato su un unico
obiettivo. L’ho trovato complesso e per questo stimolante. Ogni
giorno era una nuova sfida”, racconta Mikkelsen che già aveva
collaborato con Arcel per Royal Affair: “Non abbiamo lavorato più
insieme per circa 10 anni, quindi prima ci siamo rincontrati per
capire come lavorare di nuovo insieme e abbiamo concordato di
immergerci il più possibile nella storia. Sarò sincero, speravo che
(Arcel) non facesse passare così tanto per una nuova collaborazione
insieme (ride)”, conclude l’attore
Bastarden – The Promised
Land è un film di genere che ha avuto tante ispirazioni:
“Penso sia ovvio vedendo questo film che io sia un film dei
grandi film epici, sin da quando ero bambino. I film di David Lean
ad esempio. Nel tempo ci ho sempre ripensato e l’obiettivo è stato
quello di ambire a realizzare qualcosa di simile. Non considero
Bastarden un Western, anche se naturalmente ci sono elementi di
quel genere, ma c’è anche tutta una descrizione delle corti danesi
di quel tempo”.
Un auto con gomma a terra nel pieno
della notte che impedisce ai suoi tre passeggeri di continuare i
festeggiamenti; un cavalcavia da cui poter osservare il mondo
sottostante o sputare sulle auto che passano; una campagna deserta
dove poter vivere senza orari o regole. Queste sono solo alcune
delle situazioni che Alain Parroni
concepisce per Una sterminata domenica,
il suo esordio alla regia di un lungometraggio, presentato nella
sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di
Venezia. Immagini caotiche e frenetiche, estratti di
una vita frenetica quale è quella dei tre giovai protagonisti, qui
rappresentanti di una generazione allo sbando.
Una catena ininterrotta di
situazioni, paradossi e caratteri si alternano dunque fra loro in
una costruzione narrativa vicina a un anticonvenzionale romanzo di
formazione che ha per protagonisti Alex
(Enrico Bassetti), Brenda
(Federica Valentini) e Kevin
(Zackari Delmas), tre adolescenti che ronzano tra
la campagna del litorale e la città eterna, tentando di resistere
a proprio modo all’inesorabile avanzare del tempo e del caldo.
Mentre Kevin ricopre ogni superficie di graffiti, Brenda si scopre
incinta di Alex, che ha appena compiuto diciannove anni e si vede
ora proiettato nel mondo dei grandi. Nel corso dell’estate, tutti e
tre dovranno dunque imparare a crescere e trovare il proprio posto
nel mondo.
Un sincero racconto
generazionale
Raccontare le nuove generazioni, che
sia con un film o una serie TV, è un compito assai arduo, che
richiede di cogliere con onestà un panorama di voci, storie e
caratteri quanto mai ampio, frammentato, liquido e complesso.
Richiede di comprendere il disagio giovanile provato dagli attuali
adolescenti e di contestualizzarlo nello spaventoso scenario del
mondo odierno. Quello che Parroni si proponeva dunque di
raggiungere con Una sterminata domenica era un obiettivo
ambizioso e rischioso, che viene però complessivamente raggiunto
grazie alla spontaneità che riesce ad infondere nelle sue scene e a
ricavare dai suoi interpreti.
Parroni, Giulio
Pennacchi e Beatrice Puccilli, autori
della sceneggiatura, scelgono infatti di non strutturare un solido
e preciso percorso narrativo bensì di proporre una sequenza – non
casuale – di avventure, quasi piccoli eventi autonomi dai quale
emerge tutto il senso e gli obiettivi del film. Nascono così
situazioni particolarmente divertenti, dove i tre protagonisti,
diversissimi tra loro per carattere e ideali, si pongono in aperto
contrasto con contesti ai quali giurano di non arrendersi mai.
Altresì, prendono vita momenti molto drammatici, che insieme ai
primi offrono uno spettro completo del bene e del male di una
generazione in cerca di punti di riferimento.
Ancor più di tale costruzione, è
però il lavoro sul linguaggio ad essere uno degli aspetti più
convincenti del film. Ascoltiamo i tre ragazzi parlare proprio come
parlano i loro coetanei nella realtà, con modi di dire,
espressioni, intonazioni e impacciamenti tipici del parlare
quotidiano, contribuendo così a quella ricerca di spontaneità di
cui si è già accennato. A tal proposito, straordinari sono i tre
giovani interpreti, che riescono a farsi carico del senso di realtà
ricercato dal regista e riproporlo con le proprie interpretazioni.
Peccato che tale incanto si spezzi nel momento in cui si mettono in
bocca ai personaggi parole che, pur servendo a ribadire le
tematiche del film, risultano poco vere, costruite.
Un’opera prima imperfetta ma con
tanto cuore
Per esprimere attraverso le vicende
di Alex, Brenda e Kevin uno stato d’animo di abbandono e
smarrimento, Parroni punta però sapientemente non solo
sull’anarchica sceneggiatura ma anche e soprattutto, come accennato
in apertura, sulla forza comunicativa delle immagini e in
particolare dei luoghi e degli ambienti prescelti. Campagne
desolate e palazzi popolari malridotti sono quantomai eloquenti,
nonché palcoscenico perfetto per raccontare di questi giovani che
sembrano sospesi nel tempo di un’apparentemente interminabile
estate – o domenica, come suggerisce il titolo. Ovviamente si
riscontrano in Una sterminata domenica, ed è anche normale
che sia così, tutta una serie di ingenuità tipiche delle opere
prime.
Talvolta sembra che il regista non
sia sicuro di quanto fino a quel momento compiuto, avvertendo
l’esigenza di inserire una serie di momenti che ribadiscono
didascalicamente quanto già proposto, allungando così un film che
soffre probabilmente di una durata “eccessiva” per tale racconto e
l’approccio scelto per esso (il film dura 113 minuti). Si tratta
però di aspetti su cui si può soprassedere, considerando le tante
altre intuizioni che Parroni propone con questo suo esordio e che
lo rendono un nome da tenere d’occhio per il futuro. Con Una
sterminata domenica egli si dimostra infatti capace di
raccontare i giovani con sincerità e tanto cuore, una capacità
decisamente non comune.
Dopo la straordinaria prova
attoriale di Nitram
(2021), per cui si è aggiudicato la Palma d’oro come miglior
interpretazione maschile al Festival di Cannes
2021, l’eclettico Caleb Landry Jones si
mette nuovamente nei panni di un personaggio complesso ed
estremamente sfaccettato in Dogman di Luc
Besson, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di
Venezia 2023. Cuore da eroe e mente da villain, il suo
Douglas – soprannominato Doug,
evidente richiamo fonetico al titolo e alla trama del film – è il
vero punto di luce di un film soprendentemente valido,
probabilmente l’opera del regista francese che meglio riuscirà a
imporsi come mainstream.
Dogman: la storia di Douglas, da
God a Dog
Dogman racconta la
storia di Douglas, auto-soprannominatosi
Doug: è una sorta di origin-story molto
equillibrata nel suo arco. Dall’infanzia passata letteralmente
chiuso in una gabbia, vittima di figure maschili dispotiche nella
casa, arrivando al presente narrativo in cui Doug si trova in
prigione e viene interrogato da una psichiatra, Besson ci
accompagna alla scoperta di un personaggio molto sfaccettato, che
“ruba” da tanti villain o anti-eroi moderni, fra cui il
Joker di Heath Ledger e l’Elijah Price di
Samuel L. Jackson, quanto da icone drag e dive
del cinema passato. Una figura fluida nell’animo e nei modi,
nonostante i gravi problemi fisici, apparentemente imprendibile,
almeno fino a quando non avrà come interlocutrice un’altra persona
che conosce il dolore e che varrà la pena proteggere.
Douglas ha passato
una vita a psicoanalizzarsi, dunque, non sorprende che il suo
dialogo con la psichiatra sia più da intendere come un racconto che
una confessione. Il racconto di una vita su cui hanno gravato le
disattenzioni altrui, la scarsa considerazione, l’incapacità di
relazionarsi con altri esseri umani. Besson mette
in chiaro fin da subito le condizioni in cui vive
Douglas, mischiando senza soluzione di continuità
l’asprezza e la decadenza del pertugio attiguo al canile dove abita
e, contemporaneamente, non dimenticandosi mai di far risaltare dei
dettagli di arredamento significativi per Doug: il letto a
baldacchino, la sua postazione make-up, i libri di cucine. Non a
caso, dirà che le prime cose che ha imparato dalla vita gli sono
state insegnate dalle riviste americane per il pubblico
femminile.
Un giorno questo dolore ti sarà
utile
Il vivere chiuso in una gabbia, tra
la sporcizia animale, la melma e le sbarre che precludono un mondo,
ha forgiato l’intera esistenza di Doug, il suo
modus operandi come artista dell’animalità umana. La famiglia
canina di cui si è circondato, che tanto dà e nulla toglie,
funziona come un’estensione del protagonista. Lavorando in maniera
serrata sul ritmo, sul montaggio e sulla scrittura, Luc
Besson incanala la vitalità di Doug in ogni sequenza che
coinvolge anche i suoi “figli“, quelli che si è scelto in
epoca infantile anche per contrastare la violenza con cui il padre
trattava queste creature. Tra Doug e i suoi cani vi è, inoltre, una
terza figura: un Dio a cui Doug si affida, che ha sempre cercato, e
da cui, come nel rapporto coi suoi cani, non ha mai preteso niente
se non la sua volontà. In tanti modi – e anche in un fotogramma
significativo – i lessemi God e Dog si fondono, a sottolineare la
simbiosi tra forza ultraterrena e terrestre, carnale, che il film
di Besson indaga.
Seppur derivativo nella scrittura,
come abbiamo già sottolineato, Dogman è
un’aggiunta spumeggiante al concorso ufficiale della Mostra
del Cinema di Venezia 2023, l’operazione recente meglio
prodotta di Luc Besson, dopo una serie di film
ritenuti insuccessi. Caleb Landry Jones conferma
la sua natura da performance mimetico e presta la sua energia a un
regista che avevamo bisogno di vedere così a fuoco.
Wes Anderson segna la sua doppietta
quest’anno e dopo il Festival di Cannes 2023 sbarca al Lido di
Venezia per Venezia 80. Il suo mediometraggio di quaranta
minuti, che sarà distribuito da Netflix in tutto il mondo dal 27 settembre 2023 è
intitolato The Wonderful Story of Henry Sugar e ancora una
volta, così come nelle precedenti pellicole il regista americano
punta su attori già visti: Ralph Fiennes, Benedict Cumberbatch, Dev Patel, Ben Kingsley, Richard Ayoade. Si tratta di un adattamento al
romanzo omonimo di Roal Dahl che Anderson ha messo in cantiere
oltre vent’anni fa. Un’opera originale che grazie alla scenografia
e all’uso dei colori per cui Wes Anderson è già famoso prende vita come uno
spettacolo teatrale.
The Wonderful Story of Henry
Sugar, la trama
Un’amata storia di Roald Dahl su un
uomo benestante che scopre un guru in grado di vedere senza usare
gli occhi e decide di imparare l’arte per imbrogliare nel gioco
d’azzardo. Henry – interpretato da Benedict Cumberbatch – è un giocatore
d’azzardo che non ha mai lavorato un giorno in vita sua, prevede le
opportunità finanziarie che questo potere potrebbe garantirgli. Per
tre anni studia il metodo di meditazione e alla fine ottiene la
capacità di vedere attraverso le carte da gioco e persino di
prevedere il futuro. Henry porta il suo nuovo talento in un casinò
e vede l’avidità di coloro che lo circondano dopo aver vinto una
grossa somma di denaro. La sua “redenzione” sarà continuare a
bluffare nei casinò di tutto il mondo per aprire orfanotrofi e
aiutare i più bisognosi. Una storia abbastanza semplice resa
particolare dallo stile del regista.
L’omaggio di Anderson a Dahl è in
realtà un inno alla sua infanzia. Cresciuto con i libri dello
scrittore, il regista di Grand
Budapest Hotel ha ricercato informazioni per
oltre un decennio affinché la messa in scena del film risultasse
così fedele alla storia originale. Ralph Fiennes interpreta Dahl,
nella sua cabina dello scrittore a Gipsy House ed è tra le voci
narranti del film. The Wonderful Story of Henry Sugar ha
la peculiarità di avere molte voci narranti perché il racconto
continua a cambiare prospettiva. Questa caratteristica trova poi la
sostanza nella recitazione degli attori come Dev Patel quando
interpreta il medico che deve visitare il personaggio di Ben Kingsley. Lo stile dei vari protagonisti è
incalzante e va veloce, così come mediometraggio. Le molte voci
narranti fanno da effetto matrioska alla narrazione che si scopre
pian piano.
Il cinema di Wes Anderson
È uno dei suoi film più artistici
perché oltre all’uso dei colori c’è anche un utilizzo della
scenografia che diventa quasi un gioco di prestigio, ti cattura. A
differenza del suo film precedente presentato a Cannes 2023,
Asteroid City, con The Wonderful Story of
Henry Sugar tornano le scenografie dioramiche di Rushmore e Le
avventure acquatiche di Steve Zizou. Più che un mediometraggio
sembra un’opera teatrale fatta di lunghissimi monologhi dove
Anderson lascia carta bianca ai suoi interpreti. Per chi ama il
buon e vecchio cinema alla Wes Anderson, diventato ormai un marchio
di fabbrica – e forse per questo troppo inflazionato – The
Wonderful Story of Henry Sugar avrà il morale risollevato dopo
un Asteroid City criticato nonostante sia uno dei suoi
film più personali.
Megalopolis,
il tanto atteso progetto di Francis Ford Coppola,
è l’ultimo film ad ottenere un accordo ad interim con SAG-AFTRA. La
produzione del film è terminata all’inizio di quest’anno, quindi
non si sa a cosa servirà l’accordo, ma con la stagione dei festival
in accelerazione potrebbe ottenerne uno per essere venduto in uno
dei mercati, o potenzialmente per essere proiettato a un festival,
e in tal caso sarebbe necessario un accordo a fini
pubblicitari.
Il film è apparso sugli
aggiornamenti quotidiani di SAG-AFTRA della sua lista di accordi
provvisori. Secondo la corporazione, il film ha ottenuto l’accordo
mercoledì scorso. Le domande per gli accordi provvisori SAG-AFTRA
sono state rese disponibili il primo giorno dello sciopero degli
attori, il 14 luglio, e la gilda ha immediatamente ricevuto
“centinaia di domande… risponderemo a tutte”, ha
dichiarato il direttore esecutivo nazionale e capo negoziatore di
SAG-AFTRA. Duncan Crabtree-Ireland ha detto
all’epoca che i progetti non possono avere “alcuna impronta AMPTP
su di loro” se sperano di ottenere un accordo.
Da allora il processo è stato
perfezionato per includere accordi di casting e successivamente ha
modificato la sua politica di richiesta per escludere qualsiasi
progetto girato negli Stati Uniti coperto dalla WGA. Questa mossa è
stata operata in solidarietà con lo sciopero simultaneo degli
sceneggiatori che è giunto al suo 122esimo giorno.
Di cosa parla Megalopolis?
L’idea di Megalopolis è stata
ispirata dalla seconda Congiura di Catilina. Tuttavia, il film sarà
caratterizzato da un’ambientazione futuristica e sarà incentrato su
un ambizioso architetto che cova l’idea innovativa di ricostruire
New York City in un’utopia all’indomani di un disastro naturale che
ha rovinato le infrastrutture della città. Il pubblico può
aspettarsi immagini straordinarie poiché si dice che il film sia
girato utilizzando una tecnologia rivoluzionaria che impiega nuove
tecniche simili a quelle utilizzate per The
Mandalorian.
Coppolla, che scrive e dirige il
film, ha riunito un emozionante cast costellato di star per quello
che potrebbe essere il suo canto del cigno. Oltre
a Adam
Driver, nel cast compaiono anche
Forest Whitaker,
Nathalie Emmanuel, Jon Voight,
Laurence Fishburne, Aubrey Plaza, Talia Shire,
Shia LaBeouf, Jason Schwartzman, Grace Vanderwaal, Kathryn
Hunter e James Remar.
Con un mediometraggio a sorpresa,
Wes Anderson ha partecipato a Venezia 80, dopo
aver portato a Cannes 2023 il suo Asteroid City.
Una iperattività che il regista di Huston racconta con grande
serenità, dal momento che se il film cannense è stato un progetto
che ha avuto un classico decorso, dall’idea alla realizzazione,
The Wonderful Story of Henry Sugar,
dal racconto di Roald Dahl, è un progetto che il
regista aveva nel cassetto da oltre vent’anni.
“Ho incontrato la famiglia Dahl
venti anni fa, quando volevo realizzare Fantastic Mr.
Fox. Ho incontrato la vedova di Dahl quando ero sul set di
I Tenenbaum, forse era il 2000. Sono cresciuto
amando i suoi libri e Henry Sugar era uno dei miei preferiti, ma
non riuscivo a vedere un modo per poterlo adattare, e così loro lo
hanno tenuto da parte per me, mettendo da parte i diritti di
sfruttamento. E poi un giorno ho capito che la chiave poteva essere
quella di basarsi sul linguaggio di dhal e quindi realizzare un
adattamento basato proprio sul linguaggio e sugli attori.”
Come tutti i film diretti da
Anderson, il cast è all-stars, guidato da
Benedict Cumberbatch nel ruolo da protagonista, e con
Ralph Fiennes,
Dev Patel,
Ben Kingsley, Rupert Friend e Richard
Ayoade. Sulle motivazioni che lo hanno spinto a realizzare
un mediometraggio e non un film da 90 minuti, Wes Anderson è stato
molto chiaro, spiegando che la storia aveva quel tipo di lunghezza
e quindi andava raccontata con quel ritmo:
“Volevo adattare proprio questa
storia. Per molti film si comincia da zero, per esempio adesso sto
lavorando con Roman Coppola a un’idea originale, e in partenza non
avevamo nulla. Ma quando adatti una cosa che già esiste, ce l’hai
già davanti agli occhi, e quindi volevo trovare la forma più
efficiente per raccontarla. Più che un film, Henry Sugar è stato
una presentazione teatrale, l’abbiamo realizzato in due settimane
circa.”
“Io non so quanta gente ha
voglia di andare al cinema per un film che dura solo 40 minuti, ma
a me piace andare al cinema e a cena, e così le due cose si possono
combinare!” Ha concluso scherzando.
The Wonderful Story of Henry Sugar fa parte
della selezione ufficiale Fuori Concorso della Mostra
Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia,
edizione 80, che si svolge al Lido dal 30 agosto al 9
settembre.
L’80ª edizione della Mostra
del Cinema di Venezia presenta fuori
concorso due serie quest’anno e la prima a mostrarsi è
D’Argent et de Sang, diretta dal regista
Xavier Giannoli (regista di
Illusioni perdute) e basata
sull’omonimo libro di Fabrice Arfi, liberamente
ispirato all’incredibile storia della truffa della carbon
tax avvenuta tra il 2008 e il 2009. Un’opera che affronta
dunque un argomento scottante, forse meno noto – quantomeno agli
estranei al settore – rispetto ad altre note truffe di questo tipo,
ma certamente meritevole di essere raccontata, specialmente se da
una serie ben congeniata come questa.
D’Argent et de Sang, la trama della serie
Protagonista della serie è
l’ispettore doganale Simon Weynachter (Vincent
Lindon), che parte per rintracciare Jérôme
Attias (Niels Schneider) e Alain
Fitoussi (Ramzy Bedia), artefici di una
delle più grandi società truffe finanziarie di tutti i tempi.
Miliardi vanno infatti in fumo nel nuovo mercato delle “quote di
carbonio”, inventato per combattere l’inquinamento. Un gruppo di
furfanti da quattro soldi di Belleville si unisce dunque a un
trader altolocato per mettere in atto un raggiro epocale. Questo
succede quando il “capitalismo da casinò” si scontra frontalmente
con la politica, quando si scatenano passioni umane che vanno ben
oltre la semplice cupidigia.
La finanza per tutti
Oggigiorno è più facile manipolare
il mercato azionario che rubare una banca, spiega l’ispettore
interpretato da Lindon nei primi minuti del primo episodio. Una
premessa che permette di inserirsi più facilmente nel contesto in
cui si svolge il racconto, il quale pur essendo frutto di finzione,
prende spunto dagli eventi realmente verificatisi e resi possibili
dalla precaria situazione finanziaria causata dal crollo di Lehman
Brothers nel 2008. Non bisogna però lasciarsi spaventare
dall’argomento, perché pur non puntando ad una spettacolarità fatta
di ritmi esagitati o grossi colpi di scena, D’Argent et de
Sang sa come catturare l’attenzione dello spettatore.
Si parla molto, è vero, e spesso di
questioni economiche che potrebbero non essere così accessibili,
trovando però il modo di rendere chiaro ciò che occorre sapere sin
da subito. Giannoli e il suo co-sceneggiatore Jean-Baptiste
Delafon puntano infatti ad una semplificazione che non
banalizzi l’argomento ma lo renda allo stesso tempo comprensibile
sin da subito. Anzi, dagli episodi visti in anteprima la serie
sembra riuscire a garantirsi una propria identità, evitando di
raccontare la finanza in modo pedante ma anzi estetizzandola. Una
scelta che potrebbe non piacere a tutti, ma di certo non dovrebbe
scontentare gli interessati all’argomento.
La molteplicità di punti di vista,
inoltre, permette di avere una panoramica ampia sul racconto, così
da riuscire ad orientarsi nella progressione degli eventi. Ancora
una volta però è bene ribadire che il regista sceglie di non
puntare sugli aspetti più action o thriller a cui
una storia come questa potrebbe prestarsi, puntando piuttosto sulla
forza di ciò che emerge dai personaggi nel loro rapporto con quanto
avviene loro. D’Argent et de Sang è sì una serie su una
frode epocale, ma prima di ciò è il ritratto di come l’essere umano
si rapporti e trasformi con l’ambito finanziario, ormai alla base
del mondo.
Una serie guidata dai personaggi
Grazie all’ingresso facilitato di
cui si è parlato, lo spettatore può dunque farsi conquistare da
personaggi non solo ben scritti ma anche meravigliosamente
caratterizzati dai loro interpreti. Su Lindon c’erano pochi dubbi,
interprete francese tra i migliori in attività, capace di conferire
un certo peso tragico ma anche una forza emotiva non indifferente
al suo personaggio, un uomo che cerca di smascherare il male mentre
cerca di tenere insieme la propria vita privata. Ruba però in più
occasioni la scena Ramzy Bedia, che con il suo
Fitoussi dà vita ad un personaggio sopra le righe, capace di
risultare simpatico anche quando compie le proprie truffe.
Niels Schneider, invece,
particolare, porta in scena una personalità inquietante nella sua
imprevedibilità, che sempre più si svela come rappresentante di
quelle menti criminali attive in questo ambito, che possono
rivelarsi più pericolose del previsto. Sono dunque i personaggi,
ben più che l’argomento, a rivelarsi la forza della serie.
Personaggi profondamente umani, avidi, ingannevoli, pieni di vizi e
virtù. Tutte caratteristiche che sembrano emergere con maggior
forza quanto poste davanti alla tentazione del denaro e al pericolo
del sangue.
Arriverà il 10 novembre al cinema
The Marvels,
il film del MCU che vede tornare protagonista
Brie
Larson al fianco di Teyonah
Parris e Iman Vellani per un
team-up inedito tutto al femminile.
The Marvels, la trama
Nel film Marvel StudiosThe
Marvels, Carol Danvers alias Captain
Marvel deve farsi
carico del peso di un universo destabilizzato. Quando i suoi
compiti la portano in un wormhole anomalo collegato a un
rivoluzionario Kree, i suoi poteri si intrecciano con quelli della
sua super fan di Jersey City Kamala Khan, alias Ms. Marvel, e con quelli
della nipote di Carol, il capitano Monica Rambeau, diventata ora
un’astronauta S.A.B.E.R.. Insieme, questo improbabile trio deve
fare squadra e imparare a lavorare in sinergia per salvare
l’universo come “The Marvels”.
Tutto ciò che sappiamo su The Marvels
The
Marvels, il sequel del cinecomic Captain Marvel con
protagonista il premio Oscar Brie
Larson che ha incassato 1 miliardo di dollari al
box office mondiale, sarà sceneggiato da Megan McDonnell,
sceneggiatrice dell’acclamata serie WandaVision.
Sfortunatamente, Anna
Boden e Ryan Fleck, registi del
primo film, non torneranno dietro la macchina da presa: il sequel,
infatti, sarà diretto da Nia DaCosta, regista
di Candyman.
Nel cast ci saranno
anche Iman Vellani(Ms.
Marvel, che vedremo
anche nell’omonima serie tv in arrivo su Disney+)
e Teyonah Parris (Monica Rambeau, già
apparsa in WandaVision). L’attrice Zawe
Ashton, invece, interpreterà il villain principale, del
quale però non è ancora stata rivelata l’identità. Il film, salvo
modifiche, arriverà in sala il 10 novembre
2023.
Sembra che
Bradley Cooper debba ringraziare l’intercessione
di Steven Spielberg se è riuscito a dirigere il
suo secondo film, Maestro,
che verrà presentato al Festival di Venezia in questo momento in
svolgimento al Lido. Dopo il suo debutto alla regia, A Star is
Born, apparso sugli schermi nel 2018 e sempre presentato a Venezia,
Cooper torna alla regia cinque anni dopo con il suo nuovo film,
Maestro. Il film esplorerà la vita, l’amore e la
carriera del leggendario compositore Leonard
Bernstein, che Cooper interpreta nel film insieme a un
cast di supporto composto da
Carey Mulligan, Maya Hawke e
Matt Bomer.
Secondo la produttrice
Kristie Macosko Krieger (via Deadline), il regista
Steven Spielberg ha contribuito a spingere Cooper
a dirigere Maestro.
Spielberg avrebbe dovuto dirigere il film con Cooper come
protagonista, ma mentre si concentrava invece sulla regia di
West Side Story, Cooper gli suggerì di essere in
grado di “mettersi in gioco”. Cooper ha poi incontrato Spielberg
nel 2018 per mostrargli gli inizi di A Star is
Born. Fu allora che Spielberg pronunciò una frase critica
per esortare Cooper a dirigere il film su Bernstein: “Stai
dirigendo questo film, devi dirigere Maestro”.
“Beh, ha invitato me, Josh e
Steven a guardarlo molto prima che uscisse il film, e circa 20
minuti dopo l’inizio del film Steven si è insinuato e ha detto “Hai
diretto questo film, devi dirigere Maestro.” Quindi a quel punto
siamo nel 2018. I diritti sul progetto stavano scadendo e Bradley
dovette convincere la famiglia Bernstein che era la persona giusta
per intraprendere il progetto. E così è andato dalla famiglia. Ha
ottenuto i diritti. Ora sta dirigendo e producendo, e si rendono
conto che gestirà questo film con estrema cura e dettaglio. È
andato davvero dalla famiglia e si è venduto e poi ha avuto tutto
quello di cui aveva bisogno, ora faremo questo film, e Bradley non
voleva fare un film biografico.”
Maestro
racconta la complessa storia d’amore di Leonard Bernstein e Felicia
Montealegre Cohn Bernstein (Carey
Mulligan), una storia che dura da oltre 30 anni. Forse
meglio conosciuto per la colonna sonora di West Side
Story di Broadway e del classico film di Marlon
BrandoFronte del Porto, Bernstein ha
sposato l’attrice nel 1951 e ha avuto tre figli con lei, con la
coppia che si è divisa tra New York e il Connecticut. A complicare
la dinamica tra i due sono state le relazioni che ha avuto nel
corso degli anni, sia con uomini che con donne, anche se condotte
con la consenziente consapevolezza di Felicia. I due sono stati
separati a un certo punto per un periodo di un anno, anche se alla
fine sono rimasti insieme fino alla morte di Felicia nel 1978.
Bradley Cooper ha scritto la sceneggiatura di Maestro
con il premio Oscar per Il caso SpotlightJosh Singer, ed è anche affiancato nell’ensemble
da Matt Bomer, Maya Hawke, Sarah Silverman, Josh Hamilton,
Scott Ellis, Gideon Glick, Sam Nivola, Alexa Swinton e
Miriam Shor.
Il DC
Universe potrebbe essere pronto ad aggiungere un
grande nome di Hollywood, dal momento che l’attore in questione ha
confessato di aver avuto conversazioni con James Gunn su una futura
collaborazione. Mentre gli scioperi della Writers Guild of
America e del SAG-AFTRA sono ancora in
vigore, il nuovo universo DC è in arrivo ai DC Studios, e diversi
progetti hanno fatto alcuni passi nei loro processi di sviluppo.
Superman:
Legacy, ad esempio, ha trovato il suo protagonista in
David Corenswet che interpreterà nel ruolo del prossimo Uomo
d’Acciaio, con molti altri supereroi che si uniranno al film.
Anche se ci sono altri personaggi da
scegliere per il capitolo 1, “Gods
and Monsters“, molti fan sono curiosi di sapere quale attore
sarà il prossimo ad iscriversi al DC Universe di Gunn. Data la
presenza di diverse liste di casting di fan che suggeriscono vari
attori per determinati supereroi o cattivi, il mondo sta prestando
molta attenzione ad ogni mossa dei DC Studios.
Sebbene nulla sia stato scolpito
nella pietra, sembra che James Gunn abbia
incontrato un grande attore che potrebbe unirsi all’Universo DC. Al
Comic-Con Panama (via @Swshriv)
Giancarlo Esposito ha risposto a un fan quando
gli è stato chiesto se ci fosse qualche possibilità che appaia in
un film del DC Universe. Si è così scoperto che Esposito ha
chiacchierato con i DC Studios, come ha detto: “Stavo parlando
con James Gunn della possibilità di essere in un film, quindi chi
lo sa? Potrebbe succedere presto.” Fino a questo momento,
però, né i DC Studios, né James Gunn hanno confermato o smentito la
dichiarazione.
Il protagonista di Ferrari,
Adam Driver, rivela che non gli è stato
permesso di guidare una Ferrari durante le riprese del film di
Michael Mann. Dopo una pausa di otto anni dal
cinema, Mann torna alla regia con un film biografico
sull’imprenditore italiano. Oltre a Driver, nel cast di Ferrari
figurano
Shailene Woodley, Sarah Gadon,
Penélope Cruz,
Patrick Dempsey e Jack O’Connell.
Nonostante abbia interpretato Enzo
Ferrari, Adam Driver afferma che non gli era permesso
guidare vere Ferrari mentre era sul set. Secondo Collider, al
co-protagonista di Driver, Dempsey, che ha una patente di guida,
era consentito mettersi al volante, ma Driver era tenuto lontano
dalle auto sportive classiche. L’attore ha citato “motivi
assicurativi” per cui gli è stato negato la guida della
Ferrari.
“Non mi avrebbero lasciato guidare
le auto per motivi assicurativi. Non si fidano di me con piccoli
pezzi di equipaggiamento. Grandi pezzi di attrezzatura come i
panini me li lasciavano maneggiare.”
Adam Driver ha partecipato alla presentazione
del film alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della
Biennale di Venezia edizione numero 80, occasione in cui ha fatto
sentire la sua voce in merito allo sciopero degli attori e alla
mancata volontà dei grandi
streamer di andare incontro ai bisogno e alle rivendicazioni di
categoria.
Nel cast il
candidato all’Oscar® Adam Driver nel ruolo di Enzo Ferrari e
il Premio Oscar®
Penélope Cruzin quello della
moglie Laura, oltre a
Shailene Woodleyche interpreta
Lina Lardi,
Patrick Dempseye Jack
O’Connell che indossano le tute dei piloti Piero Taruffi e
Peter Collins, Sarah Gadon nel ruolo di Linda
Christian e Gabriel Leone in quello del
carismatico Fon De Portago.
Scritto da
Troy Kennedy Martin (The Italian Job) e
dallo stesso Mann, il film è basato sul romanzo di
Brock Yates “Enzo Ferrari: The Man and The
Machine” ed è stato girato in Italia.
Dopo l’enorme successo dei libri e
dei film di Hunger Games, Suzanne
Collins ha scritto un romanzo prequel su Coriolanus Snow
durante la decima edizione dei Giochi molto prima che diventasse
Presidente Snow di Panem. Oltre a Snow e ad altri personaggi di
Capitol City, il romanzo si concentra su Lucy Gray Baird, il
tributo donna del Distretto 12, interpretata da Rachel Zegler nell’adattamento cinematografico
che uscirà questo autunno.
I protagonisti sono l’inglese emergente Tom Blyth e Rachel Zegler di West Side
Story e Hunter Schafer della serie
Euphoria. Nei ruoli comprimari
Viola Davis, Peter Dinklage e Jason
Schwartzman.
La trama di Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del
serpente
Anni prima di diventare il tirannico
presidente di Panem, il diciottenne Coriolanus Snow è l’ultima
speranza per il buon nome della sua casata in declino:
un’orgogliosa famiglia caduta in disgrazia nel dopoguerra di
Capitol City. Con l’avvicinarsi della decima edizione degli Hunger
Games, il giovane Snow teme per la sua reputazione poiché nominato
mentore di Lucy Grey Baird, la ragazza tributo del miserabile
Distretto 12. Ma quando Lucy Grey magnetizza l’intera nazione di
Panem cantando con aria di sfida alla cerimonia della mietitura,
Snow comprende che potrebbe ribaltare la situazione a suo favore.
Unendo i loro istinti per lo spettacolo e l’astuzia politica, Snow
e Lucy mireranno alla sopravvivenza dando vita a una corsa contro
il tempo che decreterà chi è l’usignolo e chi il serpente.
L’acclamato regista francese Luc Besson insieme
al cast ha sfilato sul red carpet per presentare in concorso a
Venezia 80 DogMan,
il suo ultimo film che vede protagonista Caleb Landry Jones.
L’ispirazione per questo film è scaturita, in parte, da un
articolo che ho letto su una famiglia francese che ha rinchiuso il
proprio figlio in una gabbia quando aveva cinque anni. Questa
storia mi ha fatto interrogare sull’impatto che un’esperienza del
genere può avere su una persona a livello psicologico. Come riesce
una persona a sopravvivere e a gestire la propria sofferenza?
Con Dogman ho voluto esplorare questa
tematica.
La sofferenza è uno stato che accomuna tutti noi e il solo
antidoto per contrastarla è l’amore. La società non ti aiuterà,
ma l’amore può aiutare a guarire. È l’amore della comunità di
cani che Dogman ha fondato a fungere da guaritore e da
catalizzatore. Dogman non sarebbe il film che è
senza Caleb Landry Jones. Questo complesso personaggio aveva
bisogno di qualcuno che potesse incarnarne le sfide, la tristezza,
il desiderio, la forza, la complessità.
Le persone guardano i film per cogliere una sorta di verità dalla
storia, anche se sanno che si tratta di finzione. Volevo essere il
più onesto possibile nella realizzazione del film. Voglio che
proviate dei sentimenti nei confronti del protagonista, di ciò che
fa, delle azioni che compie come reazione alla sofferenza che ha
patito. Vorrete fare il tifo per lui.
Spero che il pubblico possa elaborare nella propria mente ciò che
Dogman ha subito, il dolore che è davvero difficile da ingoiare.
Ha sofferto più di quanto la maggior parte delle persone potrà
mai soffrire, eppure possiede ancora una dignità.
Molto tempo
prima di girare Ferrari,
ho avuto l’opportunità di camminare nelle stanze della casa di
Enzo, vedere i suoi diari, conoscere le sue abitudini,
meravigliarmi della carta da parati nella camera da letto in cui
Laura ha trascorso gli ultimi anni della sua vita, fare delle
domande al loro medico, incontrare la nipote di Lina, capire il suo
modo di fare e la sua modernità, sedermi sulla poltrona da
barbiere di Enzo, camminare sui marciapiedi del suo quartiere e
abitarci, esplorare le luccicanti parti meccaniche di un motore
Lampredi V12 e le sculture dei modelli da corsa degli anni
Cinquanta e, cosa più importante, interagire con il figlio di
Enzo, Piero, da cui ho imparato e assorbito così tanto. Ho cercato
di far rivivere le passioni e il fascino di Enzo, la sua arguzia
pungente, la devastante perdita del figlio, le sfuriate teatrali,
il bisogno di un rifugio emotivo, la tragedia, la monumentale
scommessa su una singola gara e la lotta per la sopravvivenza:
tutti elementi che sono entrati in collisione in quattro mesi del
1957.
Nel film
È l’estate del 1957. Dietro lo spettacolo della Formula 1, l’ex
pilota Enzo Ferrari è in crisi. Il fallimento incombe sull’azienda
che lui e sua moglie Laura hanno costruito da zero dieci anni
prima. Il loro matrimonio si incrina con la perdita del loro unico
figlio Dino. Ferrari lotta per riconoscerne un altro, avuto con
Lina Lardi. Nel frattempo la passione dei suoi piloti per la
vittoria li spinge al limite quando si lanciano nella pericolosa
corsa che attraversa tutta l’Italia: la Mille Miglia.
Un’ombra si staglia ancora oggi sul
Cile, anche a decenni di distanza dal suo momento di maggior
nitidezza. È l’ombra di Augusto Pinochet, il noto
generale che l’11 settembre del 1973 prese il potere con un golpe,
dando vita ad un regime dittatoriale tra i più crudeli della
storia. Difficile dimenticare quella triste e nera pagina di
storia, durata fino al 1990 e mai realmente voltata. Un horror a
tutti gli effetti, ed è proprio così che in ElConde il regista Pablo Larraín sceglie
di raccontare Pinochet, come un vampiro centenario che continua a
succhiare il sangue cileno anche a distanza dalla propria caduta
politica.
Questo suo nuovo film, presentato in
concorso all’80ª Mostra Internazionale
d’Arte Cinematografica della Biennale di
Venezia, è dunque un ritorno a quello che è stato
l’argomento che ha reso celebre Larraín e il suo cinema, ovvero la
dittatura di Pinochet. Da prima affrontata attraverso i suoi
effetti sul popolo cileno con Tony Manero e Post
Mortem e in seguito nel racconto del referendum che ha portato
alla sua caduta in No – I giorni
dell’arcobaleno. Una trilogia dove Pinochet non viene
dunque mai affrontato di petto e che proprio per via di questa
presenza-assenza risulta ancor più spaventoso. Con El
Conde, è però giunto il momento di affrontarlo
direttamente.
El Conde, tra satira e rilettura storica
El Conde è una commedia
dark che ipotizza un universo parallelo ispirato alla storia
recente del Cile. Il film ritrae Augusto Pinochet,
un simbolo del fascismo mondiale, nei panni di un vampiro che vive
nascosto in una villa in rovina nella fredda estremità meridionale
del continente: nutre il suo desiderio di malvagità al fine di
perpetuare la propria esistenza. Dopo duecentocinquanta anni di
vita, Pinochet decide però di smettere di bere sangue e di
abbandonare il privilegio della vita eterna, non potendo più
sopportare che il mondo lo ricordi come un ladro. Con sua sorpresa,
però, troverà una nuova ispirazione per continuare a vivere una
nuova vita di passioni attraverso una relazione inaspettata.
Pinochet il vampiro
Pinochet non era mai stato
rappresentato al cinema, un tabù a lungo preservato che gli ha
permesso di acquisire ancor di più un’aura controversa,
considerando anche il suo essere morto nel 2006 senza aver mai
scontato neanche un giorno di carcere per i suoi crimini o le sue
frodi. Larraín, mostrandolo ora per la prima volta, punta non solo
a rivelare la sua vera natura – quella di vampiro – ma anche a
scalfire questa sua immagine rimasta ad oggi quasi inviolata o,
peggio ancora, dimenticata. Ci viene così presentato questo anziano
debilitato, isolato e apparentemente innocuo. Caratteristiche dalle
quali però non bisogna lasciarsi ingannare, perché oltre a tutto
ciò egli è prima di tutto un vampiro.
Una natura qui usata sì in senso
letterale ma, ovviamente, più forte nel suo senso metaforico. Non
bisogna infatti aspettarsi un film di vampiri come si è abituati a
pensarli, per quanto non manchino spargimenti di sangue e
mutilazioni. El Conde è prima di tutto un’opera
satirica – unico modo per non scivolare nell’empatia, come affermato dal regista – che
deride Pinochet in ogni modo possibile, a partire dal suo essere
più preoccupato di venire ricordato come un ladro che non come un
assassino. Si costruisce così un racconto che scena dopo scena va
ad attaccare il dittatore, ma anche la sua famiglia, da ogni punto
di vista possibile.
Il film più politico di Larraín
Larraín, insieme a Guillermo
Calderón, scrive dunque una “origin story” per
Pinochet, facendolo divenire l’emblema del male che ciclicamente
ritorna e proponendo dunque un monito nei confronti di tale
rischio. Per arrivare a far emergere tale avvertimento, egli ci
introduce al racconto con una voce narrante – che all’inizio
può far storcere il naso, ma che trova poi spiegazione una volta
giunti al finale – dalla quale si viene accompagnati lungo la
casa-museo di Pinochet alla scoperta di questa personalità tanto
controversa. A dargli volto troviamo l’attore
JaimeVadell, che si fa carico di
questo pesante ruolo riuscendo a renderlo sia tragico che buffo,
portando così a compimento l’intento del regista.
Certo, rispetto alla trilogia
poc’anzi citata, El Conde risulta un film dal minor
impatto emotivo (per quanto via sia una costruzione estetica di
grandissima eleganza), e forse con qualche libertà artistica di
troppo, ma di certo dimostra che Larraín ha ancora da dire a
riguardo, proponendo una propria personale interpretazione che, già
dalla sua premessa, si può definire irresistibile. Da un punto di
vista politico, invece, il film è tanto esplicito quanto feroce e
in ciò trova la sua forza. Forse il suo finale potrebbe apparire
estraneo alle caratteristiche ad oggi note del cinema del regista,
ma forse è così che andrebbe inquadrato El Conde, come un
punto d’arrivo che potrebbe dar vita ad una nuova fase nella
carriera del regista, per la quale si possono avere grandi
aspettative.
Dal 31 agosto, su Netflix,
la ciurma di Cappello di Paglia salpa per la sua
prima avventura in live
action. One Piece arriva in piattaforma, e,
con la benedizione del Maestro Eiichirō Oda, sarà
difficile per i diffidenti fan della saga originale (manga e anime)
storcere il naso di fronte a quanto realizzato dallo streamer.
One Piece: cosa racconta la serie Netflix?
Adattamento fedele della storia di
Oda, One Piece racconta le avventure di
Monkey D. Luffy, che per realizzare il suo sogno
di diventare Re dei Pirati e trovare il tesoro di Gol D. Roger
vuole mettere insieme una ciurma e salpare per la Rotta Maggiore.
Lungo il suo cammino incontra molti personaggi pittoreschi, pirati
Clown, cuochi con una gamba di legno, tenaci ufficiali della
Marina, dolci fanciulle dall’animo nobile. Soprattutto, Luffy
incontra dei sognatori smarriti che si uniranno a lui:
Nami, una ladra con una profonda conoscenza dei
mari e un oscuro segreto; Zoro, un cacciatore di
taglie di pirati, incredibile spadaccino; Usopp,
orfano e bugiardo cronico, con una mira infallibile;
Sanji, aspirante chef stellato e con un debole per
le belle ragazze. Insieme formeranno una ciurma affiatata e
imbattibile, anche se all’inizio riluttante, pronta a mettersi in
mare per la Rotta Maggiore a caccia di avventure e storie da
raccontare.
Uno sguardo puro e determinato
Se il mondo dei pirati è
notoriamente popolato di tagliatore, tesori da trovare e navi da
arrembare, quello di One Piece, attraverso lo
sguardo puro e fanciullesco del determinato Luffy, che ricorda
tanto quello del piccolo Goku di Dragon Ball,
diventa un mondo colorato, dove ciò che conta è la lealtà verso il
proprio sogno, l’essere fedeli a se stessi, l’amore per la propria
ciurma, che poi diventa anche famiglia di elezione, e per lo
spirito di avventura. E proprio per questo Luffy è un tipo strano e
non perché si allunga a dismisura essendo fatto di gomma (ha
ingerito il frutto Gom Gom!), quella può essere considerata quasi
normalità in un mondo di personaggi bizzarri e pittoreschi!
Nell’universo sopra le righe,
folle, grottesco e
comico di One Piece, Luffy è
l’eccezione per la sua convinzione che un pirata è colui che si
dedica alla propria ricerca in nome dell’amore per avventura.
One Piece ha il cuore grande di Luffy, lo stesso
cuore e lo stesso spirito scanzonato che hanno fatto della serie
originale un successo planetario che ancora va avanti nelle pagine
dei manga.
Dopo qualche incidente di percorso
(leggi Cowboy Bebop), questa volta Netflix
è riuscita a trovare la chiave giusta per adattare un manga/anime
di grande successo in live action. La scelta più saggia si è
rivelata anche quella più ovvia: non fare grossi cambiamenti, né di
trama né di look, ma abbracciare l’assurdo e l’eccesso, realizzando
totalmente tutto ciò che rendeva ostica all’immaginazione una
versione live action di One Piece, considerata una
serie impossibile da adattare dal vivo. A questo successo
contribuisce anche un cast che è perfettamente in grado di portare
sullo schermo le migliori (e peggiori) qualità dei protagonisti.
Iñaki Godoy (Monkey D. Luffy),
Mackenyu (Roronoa Zoro), Emily
Rudd (Nami), Jacob Romero Gibson (Usopp)
e Taz Skylar (Sanji) sembrano nati per
interpretare la ciurma di Cappello di Paglia, e
restituiscono con convinzione ed entusiasmo ogni espressione,
caratteristica, vezzo degli originali, risultando vincenti
soprattutto nei dialoghi, sempre brillanti con un ottimo ritmo, e
nelle scene d’azione, molto divertenti da guardare, che ricalcano
alla perfezione i singoli stili di combattimento, tanto diversi
quanto distintivi.
Si semplifica senza tradire
Il risultato è cartoonesco,
eccessivo, buffo ma anche fresco, divertente, sorprendente, tutto
ciò che i fan volevano ma che non osavano sperare. In più, la serie
creata da Matt Owens e Steven
Maeda per Netflix
è un prodotto capace di soddisfare sia chi conosce bene il mondo di
One Piece, sia chi non ha mai avuto accesso al
materiale originale. L’unico prezzo da pagare al dio
dell’algoritmo, che pretende produzioni adatte al più vasto
pubblico possibile, è la leggera semplificazione delle trame, forse
un appiattimento della profondità presente nella serie manga ma che
comunque è presente e evidente dello show Netflix.
One Piece si rivolge a un pubblico giovane, capace
di apprezzare l’umorismo demenziale, la purezza e l’entusiasmo di
Luffy, ma anche in grado di elaborare le scene cruente, che certo
non mancano, ma soprattutto aperto ad accogliere anche i momenti di
profondità che si manifestano nel corso del racconto, a mano a mano
che questi cinque personaggi sgangherati, con le loro oscurità e le
loro luci, diventano una famiglia, un gruppo coeso che condivide un
sogno.
Gli adattamenti sono sempre
pratiche rischiose, perché richiedono scelte, tagli, prese di
posizione anche contrastanti rispetto al materiale originale; nel
caso di One Piece la fedeltà si è rivelata la
scelta migliore, una fedeltà che ricorda quella di Luffy al suo
sogno e alla sua ciurma, ma anche quella dei fan verso il
franchise, pronto a crescere e a espandersi.
La storia della
truffa del secolo avvenuta nel 2009. Miliardi vanno in cenere nel
mercato delle nuove “quote di emissione di carbonio”, inventate per
combattere l’inquinamento. Un gruppo di furfanti da quattro soldi
di Belleville si unisce a un trader altolocato per mettere in atto
un raggiro epocale. Questo succede quando il “capitalismo da
casinò” si scontra frontalmente con la politica, quando si
scatenano passioni umane che vanno ben oltre la semplice
cupidigia.
“Volevo mettere
insieme il genere thriller con uno studio della morale, un’indagine
ambientale e un viaggio spirituale. Un affresco che include varie
classi sociali, dagli strati elevati ai furfanti da quattro soldi,
da Wall Street ai casinò di Manila. Tra i pezzi di questo puzzle
scorre un’energia affascinante. Decadenza e gioco d’azzardo sono
ottimi materiali filmici, ma volevo proiettare un’ombra su di essi:
un investigatore ossessivo alla ricerca della verità. La macchina
da presa si muove tra la fascinazione estetica del male e
l’interesse a lottare per la società. Volevo ritrarre lo stato del
mondo e le sue contraddizioni, evitando la complicità voyeuristica
o la semplificazione morale.“
Il film di Yorgos
LanthimosPovere
Creature! arriverà il 25 gennaio 2024 nelle
sale italiane, distribuito da The Walt Disney Company
Italia. Il film sarà presentato domani in anteprima
mondiale in concorso all’80ª Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica di Venezia.
Dal regista Yorgos Lanthimos e
dalla produttrice Emma Stone arriva l’incredibile storia e la
fantastica evoluzione di Bella Baxter (Stone), una giovane donna
riportata in vita dal brillante e poco ortodosso scienziato Dr.
Godwin Baxter (Willem Dafoe). Sotto la protezione di Baxter, Bella
è desiderosa di imparare. Affamata della mondanità che le manca,
Bella fugge con Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), un abile e
dissoluto avvocato, in una travolgente avventura attraverso i
continenti. Libera dai pregiudizi del suo tempo, Bella è sempre più
decisa nel suo proposito di difendere l’uguaglianza e
l’emancipazione.
Searchlight Pictures in
associazione con Film4 e TSG Entertainment, una produzione Element
Pictures, presenta Povere
Creature!, diretto dal candidato all’Academy
Award® Yorgos Lanthimos (La favorita, The
Lobster). Con una sceneggiatura scritta dal candidato
all’Academy Award® Tony McNamara
(La favorita), basata sul romanzo di Alasdair Gray, il
film è prodotto dal candidato all’Oscar® Ed Guiney p.g.a. (La
favorita, Room), Andrew Lowe p.g.a. (The Eternal
Daughter, The Souvenir: Part II), Yorgos Lanthimos
p.g.a. ed Emma Stone p.g.a.
La vincitrice dell’Academy Award®
Emma Stone, (La favorita, La La
Land), è protagonista insieme al candidato all’Academy Award®
Willem Dafoe (The Lighthouse, The French
Dispatch), al candidato all’Academy Award®
Mark Ruffalo (Il caso Spotlight,
Foxcatcher – Una storia americana), al vincitore del
Golden Globe® Ramy Youssef (Ramy, Mr. Robot),
Christopher Abbott (Black Bear, Possessor), il
vincitore del Primetime Emmy® Award Jerrod Carmichael (The
Carmichael Show), Hanna Schygulla (Ai confini del
paradiso), Kathryn Hunter (Macbeth) e la candidata al
Primetime Emmy® Award
Margaret Qualley (C’era una volta a…
Hollywood, Maid).
Il direttore della fotografia è il
candidato all’Oscar® Robbie Ryan, BSC, ISC (La favorita,
C’mon C’mon), gli scenografi sono James Price
(Judy) e Shona Heath, con i costumi di Holly Waddington
(Lady Macbeth, War Horse), e le acconciature e il
trucco prostetico della candidata all’Oscar® Nadia Stacey (La
favorita, Crudelia). La colonna sonora originale è
composta da Jerskin Fendrix, il montatore è il candidato all’Oscar®
Yorgos Mavropsaridis, ACE (La favorita, The
Lobster) e la set decorator è Zsuzsa Mihalek (La
talpa).
Prime Video dopo il teaser ha rilasciato il
trailer di The
Continental l’annunciata serie prequel di
John Wick. Il video di un minuto ha anche
rivelato anche la data di uscita per lo spettacolo. La serie in tre
parti inizierà a settembre 2023, anche se non sono state fissate
date esatte. Il contributo introduce anche un sottotitolo che
recita ” Dal mondo di John Wick “. Dai
un’occhiata al teaser trailer di The
Continental:
The
Continental vedrà Colin Woodell nei
panni del giovane Winston, l’esordiente Ayomide
Adegun nei panni del giovane Charon, Mel Gibson nei panni di Cormac, Hubert
Point-Du Jour nei panni di Miles, Jessica
Allain nei panni di Lou, Mishel Prada nei
panni di KD, Nhung Kate nei panni di Yen,
Ben Robson nei panni di Frankie, Peter
Greene come zio Charlie, Jeremy Bobb come
Mayhew, Ray McKinnon come Jenkins, Adam
Shapiro come Lemmy, Mark Musashi come
Hansel, Marina Mazepa come Gretel e Katie
McGrath come The Adjudicator.
“Ambientato 40 anni prima degli
eventi dei film, l’imminente spin-off prequel è incentrato su un
giovane di nome Winston, che un giorno diventerà il personaggio
interpretato da Ian McShane nei film di
Wick“, si legge
nella sinossi . “Nel
prequel ambientato sullo sfondo della New York degli anni ’70, i
fan troveranno un giovane Winston nei panni di un albergatore
emergente che, insieme ad altri, crea un rifugio per tipi
sgradevoli“.
The
Continental è stato introdotto nella prima film
dei film di John Wick come rifugio sicuro per gli
assassini ed è stato un luogo centrale nel franchise. Ogni puntata
della serie di eventi dovrebbe durare 90 minuti e sarà presentata
in anteprima nel corso di tre serate consecutive.
The
Continental è stato annunciato per la prima volta
nel 2017 dai creatori del franchise Chad Stahelski e Derek
Kolstad. I produttori esecutivi sono Greg Coolidge,
Kirk Ward e Shawn Simmons, che servono come
showrunner, così come Albert Hughes, che dirige
anche “Parte 1” e “Parte 3”, mentre Charlotte
Brandstrom dirige “Parte 2”. Altri produttori
esecutivi includono Basil Iwanyk ed Erica Lee della Thunder
Road Pictures, Stahelski, Kolstad, David Leitch, Paul Wernick,
Rhett Reese e Marshall Persinger.
Dopo
la prima clip, ecco una nuova clip del film in questi giorni al
cinema Jeanne du Barry – La Favorita del Re,
diretto da
Maïwenn con un inedito Johnny Depp. Al cinema dal 30 Agosto
distribuito da Notorious Pictures. Dopo aver aperto fuori concorso
il 76° Festival di Cannes, arriva anche in Italia
Jeanne
du Barry – La Favorita del Re, diretto da
Maïwenn (attrice e regista pluricandidata ai
Premi César e vincitrice del premio della giuria al
Festival di Cannes con la sua terza opera da regista,
Polisse).
Un’intensa storia d’amore e di
passione alla corte di Versailles che racconta la vita, l’ascesa e
la caduta di Jeanne – interpretata dalla stessa
Maïwenn – amante di Sua Maestà Luigi XV, che ha il volto di un
inedito Johnny Depp. A completare il cast, le star
Benjamin Lavernhe (The French Dispatch),
Melvil Poupaud (Brother and Sister),
Pierre Richard (Ti presento i tuoi),
Pascal Greggory (L’ultima ora) e
India Hair (La Ligne – La linea
invisibile). Il film sarà distribuito nelle nostre sale da
Notorious Pictures a partire dal 30
agosto.
La trama
Jeanne Vaubernier, una giovane
donna della classe operaia affamata di cultura e piacere, usa la
sua intelligenza e il suo fascino per salire uno dopo l’altro i
gradini della scala sociale. Diventa la favorita del re Luigi XV
che, ignaro del suo status di cortigiana, riacquista attraverso di
lei il suo appetito per la vita. I due si innamorano perdutamente e
contro ogni decoro ed etichetta, Jeanne si trasferisce a
Versailles, dove il suo arrivo scandalizza la corte…
C’è un preciso momento in
L’ordine del tempo, il nuovo film di
Liliana Cavani presentato
Fuori Concorso all’80ª Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica della Biennale diVenezia, che ci dice
tutto ciò che occorre sapere sul film: i protagonisti, fino a quel
momento angosciati dall’ipoteticamente imminente fine del mondo, si
riuniscono per danzare tutti insieme in cerchio sulle note di
Dance Me to the End of Love di Leonard
Cohen. Tutti, tranne la domestica peruviana, relegata
sullo sfondo ad osservare quel felice gruppetto senza che a lei sia
concesso di potersi scrollare di dosso, anche solo per un attimo,
le proprie preoccupazioni.
Il ritorno dietro la macchina da
presa, a vent’anni dall’ultimo film, della Cavani è dunque sin
dalle primissime battute un’opera che vorrebbe aspirare a proporre
riflessioni sulla vita e l’esistenza, ma si concentra piuttosto sul
difficilmente sopportabile punto di vista dei suoi personaggi snob.
Un peccato, considerando che la base di partenza per tale
lungometraggio è stato l’affascinante saggio omonimo scritto dal
fisico Carlo Rovelli, dove si approfondisce la
natura del tempo e della sua percezione umana. Naturalmente la
Cavani, co-sceneggiatrice insieme a Paolo Costella
e allo stesso Rovelli, è costretta a costruire intorno a tali
concetti un racconto originale, ed è qui che iniziano i problemi.
Ma andiamo con ordine.
La trama di L’ordine del tempo
Al centro della vicenda vi sono un
gruppo di amici di vecchia data – tra i quali ritroviamo come
interpreti Alessandro
Gassmann, Edoardo
Leo,Claudia
Gerinie KseniyaRappoport – che, come ogni anno, si
ritrova in una lussuosa villa privata sul mare di Sabaudia per
festeggiare un compleanno. La scoperta che un enorme meteorite
viaggia a gran velocità verso la terra, con forti probabilità di
colpirla e portare all’estinzione la specie umana, trasforma però
irrimediabilmente quel giorno di festa in uno di angoscia e paura.
Da quel momento, il tempo che separa il gruppo dalla possibile fine
del mondo sembrerà scorrere diversamente, veloce ed eterno,
durante una notte d’estate che, apparentemente, cambierà le loro
vite.
La cecità di una classe sociale
La scena precedentemente descritta
conferma dunque quanto fino a quel momento si è temuto e quanto
successivamente non verrà che confermato più e più volte fino allo
sfinimento: i protagonisti di questo film sono personaggi che
vorrebbero apparire quali variegati rappresentanti di un’umanità a
tutti comprensibile, ma invece si svelano essere personalità
egocentriche, sostanzialmente incapaci di gettare le proprie
maschere anche nel momento in cui sarebbe opportuno farlo. Tutti i
loro buoni propositi di venire a patti con passati tradimenti,
amori persi, traumi mai risolti risultano tentativi mal riusciti di
dimostrarsi compassionevoli.
Ma come possono esserlo quando
l’unica ad avere un reale motivo nel temere la fine del mondo, la
domestica peruviana, viene continuamente ignorata? Madre di un
figlio che ha dovuto lasciare in Perù per venire in Italia, così da
potergli inviare soldi, è lei l’unica a preoccuparsi di ciò che
conta davvero: il futuro, del suo bambino come quello della vita, e
la sua potenziale assenza. L’ordine del tempo diventa
dunque sostanzialmente – e involontariamente – il racconto di una
classe sociale incurante dei bisogni altrui, troppo occupata a
rimuginare sui propri problemi, che naturalmente visti in un’ottica
più ampia non si rivelano affatto così importanti.
Personaggi problematici per un film problematico
Difficile dunque empatizzare con
questi personaggi così poco umani, tanto per quello che dicono
quanto per quello che pensano e compiono. Personaggi che sarebbero
potuti essere ottimo materiale per un film satirico sulla loro
classe d’appartenenza, smascherando tutta la loro ipocrisia nel
momento in cui posti a confronto con l’ipotetica fine delle loro
esistenze. “Sfortunatamente” non c’è mai questo tipo di intento nei
loro confronti, il che non vuol dire che la regista avrebbe fatto
meglio ad inserire tale sfumatura, ma che così come sono scritti e
posti in scena tali personaggi risultano facilmente odiosi.
È chiaro che l’intento era piuttosto
quello di riflettere sulle dinamiche relazionali, ma nel farlo
vengono utilizzati degli argomenti che nella loro banalità
impediscono di andare davvero al cuore di tale tematica. È davvero
tutta qui l’essenza dell’essere umano, tra una confessione di
tradimento e un pedante discorso sulla tragedia greca? Forse è
questo l’aspetto più spaventoso del film, molto più dell’ipotetica
apocalisse che anzi non si riesce a prendere sul serio neanche per
un momento. Ma pur volendo discostarsi da questo tipo di lettura,
L’ordine del tempo risulta essere problematico sotto più
punti di vista.
Il più evidente tra tutti è la
scrittura, tra situazioni inverosimili (chi inviterebbe mai un
amico lì dove c’è anche la sua ex con il nuovo compagno, tanto per
dirne una) e dialoghi non solo presuntuosi ma anche eccessivamente
didascalici, che già solo a sentirli pronunciare risulta evidente
l’abisso tra di essi e il modo in cui si parla realmente nella vita
di tutti i giorni. Certo, Alessandro Gassmann ed
Edoardo Leo ce la mettono tutta per dar
credibilità a tali battute, ma tra queste, scene che si potrebbero
definire “vicoli ciechi” e la generale superficialità nella
costruzione del racconto e della sua messa in scena, L’ordine
del tempo porta piuttosto a sperare che la fine sia davvero
imminente.
Il MCU
è un mondo ricco, variegato e affascinante, pieno di supereroi
tenaci, folli villain e storie maestose. Ma sappiamo bene che non è
solo questo a renderlo un franchise di grande successo. Una delle
capacità, e quindi dei meriti, del Marvel Cinematic
Universe – che lo ha reso sin da subito irresistibile
– è l’inserire all’interno delle sue narrazioni particolarità
interessanti, come per esempio la presenza di alcune
sostanze a noi sconosciute, ma che vengono
trattate dai personaggi come se si conformassero alle normali leggi
della fisica. Che inevitabilmente ci incuriosiscono.
Molto spesso si è sentito parlare,
ad esempio, del vibranio. Un materiale che da come viene raccontato
potrebbe davvero esistere nel mondo reale ma che poi, approfondendo
un po’ meglio le sue caratteristiche, si scopre essere inspiegabile
e strano. In fondo, lo stesso Stan Lee disse di aver costruito
questo universo attorno a termini che semplicemente suonavano bene,
non che erano supportati dalla scienza. Ma quali
sono?
Vibranio
Fra le tante sostanze presenti nel
MCU, il
vibranio è quello più usato dai personaggi Marvel,
oltre a essere inserito all’interno di più film. Intanto, diciamo
subito che il vibranio è un raro minerale metallico con proprietà
di manipolazione dell’energia. Nonostante fosse una sostanza
estratta su diversi pianeti, ad un certo punto tutte le miniere si
sono esaurite, e il vibranio è rimasto solo sulla Terra e la Torfa.
Ed è sulla prima che, in teoria, esistono cinque tipi differenti
del minerale, e due di questi sono quello wakandiano e quello
antartico. Se si analizza il concetto che sta alla sua base, esso
può essere scientificamente valido: esistono diversi elementi rari,
come il rutenio e l’osmio, che si trovano spesso nei meteoriti.
Esiste anche un metallo, il tecnezio, che è più introvabile, e non
è presente naturalmente sulla Terra. È plausibile, in tal caso, che
una nazione come il Wakanda possa aver costruito la sua ricchezza
attorno a una fornitura limitata di un metallo così raro.
Il problema però arriva quando si
prendono in esame le sue proprietà. Oltre ad assorbire le onde
sonore o le vibrazioni, il vibranio riesce anche a reindirizzare
l’energia cinetica; alcuni metalli, realmente esistenti, hanno
davvero proprietà simili di insonorizzazione e trasferimento di
energia, ma i film del MCU
confondono molto spesso sulle sue “specialità”. Un
esempio lo abbiamo con lo scudo di Capitan America, fatto di
vibranio: i proiettili sparati contro la sua armatura dovrebbero in
teoria rimbalzare, ma quando l’Agente Carter cerca di dimostrarne
la resistenza, lo scudo li appiattisce. Anche l’eccesso di
radiazioni è un altro grosso punto interrogativo del minerale. Da
quanto si apprende, il meteorite arrivato a Wakanda dentro il quale
era contenuto il vibranio, ha infuso il suolo e la vegetazione,
portando alla crescita dell’Erba a Foglia di Cuore. Ma è qui che
arriva il problema: se il vibranio “causa” radiazioni benefiche in
grado di alterare piante e minerali, come è possibile che non abbia
lo stesso effetto su persone e animali che si nutrono di quelle
piante? È, praticamente, impossibile, considerando che è grazie a
quella specifica erba che le Pantere Nere ricevono i loro
poteri.
Uru
Un’altra sostanza particolarmente
nota è l’Uru, un metallo mistico che nei fumetti
Marvel è presente nel mantello di
Thor, Mjölnir. Nei film appartenenti al MCU,
il mantello non possiede questo nome, ma la descrizione del Dio del
tuono in Thor: Ragnarok, quando dice che è stato “fatto con
questo metallo speciale proveniente dal cuore di una stella
morente”, ci fa capire che si riferisce al Mjölnir, poiché combacia
con la sua rappresentazione nei fumetti. L’Uru ha le sembianze di
una pietra, ed è altamente resistente ai danni. Su di esso è anche
detto che si rafforzi quando subisce un incantesimo particolare,
grazie alla sua capacità di assorbire la magia come una spugna.
Questo fa sì che possa imbrigliare e reindirizzare altre energie,
come il fulmine che Thor incanala.
L’elemento di Tony Stark
In
Iron Man 2, Tony Stark realizza un nuovo
elemento per creare un altro reattore ad arco che non sia
tossico come il palladio. Di questo elemento non è mai spiegato
niente, seppur Stark lo abbia brevettato dandogli il nome
“badassium”. L’unica cosa appresa è che questa
specie di metallo ha insolite proprietà di assorbimento
dell’energia, tanto che in The AvengersIron Man riesce ad
assorbire i fulmini di Thor, bloccando il potere della Gemma della
Mente. Pur essendo la creazione di un elemento teoricamente
semplice, nell’atto concreto richiede molta energia, tanto che il
risultato ottenuto non potrà mai, se non in rari casi, essere
stabile per lungo tempo. Inoltre, i nuovi elementi hanno la
tendenza ad essere radioattivi, indi per cui è quasi impossibile
che Stark abbia creato qualcosa di non radioattivo e più sicuro del
palladio.
Particelle Pym
Altra “materia di studio” sono poi
le Particelle Pym, un raro gruppo di particelle
subatomiche scoperte e isolate dal Dott. Henry Pym, le quali hanno
la capacità di alterare le dimensioni e la massa di oggetti o
esseri viventi. È, in realtà, una sorta di violazione della legge
fisica del cubo quadrato, secondo la quale tutto ciò che diventa 10
volte più grande copre una superficie 100 volte maggiore e pesa
1000 volte di più. Queste particelle, però, ne superano il
problema, poiché ad un certo punto riescono a spostare la massa in
eccesso nel regno quantico subatomico. Nella realtà, tale processo
non sarebbe mai possibile con la fisica che conosciamo noi.
Le Gemme dell’Infinito
La causa scatenante che in Avengers:
Infinity War e Avengers:
Endgame ha portato alla morte di alcuni degli Avenger più
amati sono le Gemme dell’Infinito, le quali
riescono ad arrivare nelle mani del folle
Thanos facendogli distruggere interi universi. Delle Gemme,
però, il MCU ha una conoscenza abbastanza
limitata, indi per cui dobbiamo risalire ai fumetti, secondo i
quali esse sono creazioni dei Celestiali, esseri cosmici che hanno
creato il MCU e diversi altri universi. Il potere delle Gemme è
davvero enorme, come si è potuto vedere, ma ciò che non si sa è che
può essere esercitato solo in base ai capricci dei suoi creatori.
In questo modo, capiamo che
Thanos, come tutti gli altri Avenger e supereroi, sono solo una
profezia. Ma tornando ai film del Marvel Universe, la storia delle
Gemme dell’Infinito è abbastanza insensata. Queste pietre sono più
mistiche che scientifiche, ma nelle pellicole sembra che debbano
per forza essere conformi alle leggi naturali della scienza, in
particolare quelle dello Spazio e del Tempo. Inoltre, la
distruzione delle Gemme, nonostante il loro potere, non sembra
avere avuto alcun effetto sul MCU. Ma il vero
punto interrogativo è un altro: le Gemme sono davvero senzienti?
Sembrerebbe di no, se si considera che in Avengers: Infinity War, quella dell’Anima si attiva e
rivela solo dopo il sacrificio di Gamora. Ma in fondo… chi lo
sa.
Raggi gamma
Chiunque si stia ancora chiedendo in
che modo Bruce Banner sia diventato Hulk, o meglio cosa abbia
scatenato la sua trasformazione, la risposta è solo una:
l’esposizione ai raggi gamma. Nella nostra realtà,
i raggi gamma sono la lunghezza d’onda più corta delle onde
elettromagnetiche rilasciate dai materiali radioattivi , e sono
anche le più letali, in quanto causano danni intensi ai tessuti e
al DNA. Nel MCU questo problema non è stato
proprio affrontanto, con Banner che spiega a sua cugina Jennifer
Walters (She-Hulk per intenderci), che entrambi hanno “una rara
combinazione di fattori genetici che ci permettono di sintetizzare
le radiazioni gamma in qualcos’altro”. Pur potendo essere alcuni
più resistenti alle radiazioni, nessuno può davvero alterare
completamente l’energia radioattiva nel corpo.
Il siero DNA Harvest
Un’altra sostanza inspiegabile è
inserita all’interno di Secret
Invasion, nuovo show targato Marvel uscito di recente su
Disney+. Parliamo del siero del DNA
Harvest, introdotto per giustificare la ribellione dello
Skrull Gravik, portandolo a formare un esercito intenzionato a
conquistare la Terra. In questa occasione, viene rivelato che
Nick Fury ha raccolto nel tempo DNA di vari eroi e villain,
distillandoli in un unico siero, chiamato per l’appunto Harvest, il
quale può essere usato da uno Skrull per acquisire poteri di
diversi personaggi del MCU. Nonostante ciò, non è
ben chiaro come funzioni il siero: pur volendo far passare l’idea
che G’iah e Gravik possano accedere a un elenco di tutti gli esseri
il cui DNA è finito nel liquido, non c’è modo di sapere come
funzionerebbero i loro poteri. È difficile, poi, pensare che Nick
Fury possa immagazzinare tutte queste informazioni genetiche in un
unico siero, tra l’altro conservato a temperatura ambiente.
Fluido cerebrale
Concludiamo il nostro viaggio nelle
sostanze strane del MCU con il fluido
cerebrale dei Celestiali attraverso il quale, riferendoci
ai fumetti, si ottengono i superpoteri. Nel passaggio al Marvel
Cinematic Universe non si sa se questa cosa valga anche per i film:
come vediamo chiaramente nella trilogia de Guardiani della
Galassia, il cranio di un celestiale decapitato è stato
trasformato in quella che conosciamo come Knowhere, città nella
quale vivono i Guardiani e sede di una prosperosa attività
mineraria. Si dice che Knowhere raccolga le ossa, il tessuto
cerebrale e il fluido spinale dei Celestiali morti, ma non è chiaro
a cosa questi in realtà servano. Altra cosa che non ha spiegazione,
e lascia fra l’altro perplessi, è il fatto che i Celestiali,
considerata l’importanta nell’Universo Marvel del fluido,
consentano che uno di loro venga profanato in questo modo.
Un Cosmopolitan e le chiacchiere fra
amiche che rendono la vita migliore. Sono sempre stati questi i due
tratti caratteristici di Sex & The City. Il marchio di fabbrica che ha distinto
la serie anni Novanta da altri show televisivi. Gli stessi tratti
che abbiamo ritrovato in And Just Like That, in
particolare nel finale della
seconda stagione del revival, in cui Carrie consuma il suo
cocktail baciata dal sole greco insieme a Seema, mentre una borsa
Yves Saint Laurent giace sulla sabbia.
Che fosse la nostalgia della serie
cult ad aver spinto Darren Star (suo creatore) a
farci tuffare di nuovo nelle vite di Carrie, Miranda e Charlotte è
un dato di fatto. Che continuasse a voler essere quasi sua copia
carbone è, invece, qualcosa di inaspettato. Con una prima stagione
avvincente, And Just Like That, a distanza di tredici anni
dal secondo film, ha riaperto le porte sulla quotidianità delle tre
amiche (un tempo erano quattro), per mostrarci quanto fossero
cambiate ed evolute e quanto lo show volesse impegnarsi ad
affrontare tematiche più idonee all’età delle protagoniste
maturate. Se quindi alla prima season era stato riconosciuto il
merito di essere un revival degno, la seconda ha registrato
un cambio di rotta, volendo chiaramente tornare ai
fasti della serie madre. Ma questa, a guardarlo oggi,
funziona ancora?
Quando andrà avanti Carrie?
Nella prima puntata di Sex &
The City, andata in onda sulla HBO nel
1998, un pubblico che stava per entrare nel nuovo millennio fa la
conoscenza di Carrie Bradshaw, una giornalista vivace e romantica
che ha una rubrica sul sesso. Parlare apertamente dell’argomento e
mostrarlo senza filtri è in realtà ciò che ha reso poi lo show così
famoso e apprezzato. Carrie, affascinata dalla moda e dalla vita
frenetica di New York, ci viene presentata come una giovane donna
dai grandi sogni, che – come ribadirà lei stessa nel primo film
della serie – è arrivata nella Grande Mela per cercare il vero
amore.
Mentre scopre e prova, quasi come
fossero cibi diversi, varie tipologie di uomini, insieme alle sue
amiche del cuore, Carrie capisce qual è l’uomo che vuole al suo
fianco, seppur nel corso delle stagioni la persona che desidera
davvero, ossia Mr. Big, non ne rispecchi
esattamente le caratteristiche. È così che la donna comincia ad
avere alte aspettative sugli uomini che frequenta, nella speranza
di poter coronare il suo sogno, che si trasforma quasi in una
missione. Al tempo stesso questo la porta a essere continuamente
illusa e indecisa, piena di preoccupazioni e dubbi e spesso anche
avventata. Un comportamento giustificato dalla sua età e dal suo
essere, in fondo, un’eterna fanciulla a volte anche capricciosa.
Nella prima stagione di And Just Like That, dopo averla
vista mettere in ordine i tasselli della sua vita con i due film
del 2008 e 2010, abbiamo una Carrie leggermente
diversa, più adulta, consapevole di chi è diventata.
È la morte di Big,
e il successivo lutto, a dimostrarcelo: lei sa di
non poter più tornare indietro e riavvolgere il nastro, e l’unico
modo per superare quella sua condizione è guardare verso il futuro,
continuando a crescere, pur essendo rimasta di nuovo sola. La
Carrie matura, che si sente finalmente bene nella sua età e in
quella quotidianità un po’ ordinaria ma stabile, è però spazzata
via nella seconda stagione del revival, innescata dal ritorno di
fiamma con Aidan. Dopo essersi visti ad Abu Dhabi nell’ultimo film,
e aver capito, in seguito al bacio con lui, che è Mr. Big l’amore
della sua vita, in And Just Like That 2 Carrie sembra fare
ancora una volta un passo indietro. O meglio, dieci balzi nel
passato, quando nella stagione quattro crede sia Aidan il partner
giusto con il quale sistemarsi in pianta stabile, vendendo
addirittura il suo appartamento per costruirci insieme un
futuro.
Ma sappiamo molto bene quanto Carrie
si sia pentita allora della decisione, mandando a monte il
matrimonio con Aidan nel giro di poco tempo a causa del suo
sentirsi in gabbia. E soprattutto quanto le sia costato mettere in
vendita la sua bella casetta a Manhattan. Il risultato è che, come
accadde in Sex & The City, la scelta ripetuta in And
Just Like That 2 la porta a rimanere esattamente dove
è sempre stata: in bilico fra l’andare avanti ed essere
felice e il rimanere immobile, in una relazione che non sa dove
attraccherà. Un limbo che non ha mai fine. Soltanto che adesso,
l’aggravante, è che deve aspettare 5 anni per per poter stare
tranquilla.
Big o Aidan?
Ed è in realtà proprio a far
inceppare gli ingranaggi di Carrie in And Just Like That
2. Sin dalle prime immagini, il pubblico che si era legato al
giovane designer di mobili, ha immaginato come potesse essere
l’incontro con la donna dopo l’episodio nelle terre d’Oriente.
Abbiamo conosciuto Aidan nella terza stagione e sembrava essere
perfetto per lei: un uomo strutturato, fatto e finito, con le idee
e gli obiettivi chiari.
Era l’amore che Carrie cercava per
le strade di New York, fra i vicoli, nei bar chic, nelle feste da
sballo, nelle sfilate di alta moda. Salvo poi capire che Aidan non
era – ancora – quello che voleva. Non era pronta ad affrontare un
matrimonio, a impegnarsi sul serio, a fare quel passo avanti che le
avrebbe cambiato la vita. Un comportamento infantile, che ha sempre
caratterizzato la protagonista e che nella fine del rapporto con
lui ha trovato conferma. Cosa voleva davvero Carrie? Solo
Big. Solo il suo John. Ed è questa la consapevolezza a cui
è arrivata nel secondo film, dopo il bacio improvviso con Aidan e
il ritorno a casa da suo marito. Aidan non poteva essere quello
adatto, perché Carrie aveva bisogno di quell’ “amore ridicolo,
scomodo, che consuma, che non può vivere senza l’altro”, come disse
a Petrovsky nel finale della sesta stagione a Parigi, prima di
buttarsi fra le braccia di Big e trovare il suo per sempre. Invece
Aidan era, semplicemente, grigio.
Nonostante Mr. Big sia stato nel
corso delle stagioni sempre indeciso, inaffidabile e a volte
vigliacco, non ha mai voluto davvero cambiarla, a differenza di
Aidan, e ha sempre acceso in lei quella passione che cercava, e che
si conformava bene al carattere sognatore, spensierato e a volte
bambinesco di Carrie. Con lui decide di sposarsi, accetta
l’etichetta di moglie, trovando con lui le regole per vivere un
matrimonio felice e giusto, cosa che con Aidan era stato
impossibile fare (lui la mise davanti ad un ultimatum nella quarta
stagione: o mi sposi o ti lascio).
In And Just Like That 2 è
strano perciò sentire Carrie chiedere a Miranda se Big sia stato un
errore, quando tutti sanno, lei compresa, quanto non fosse così,
soprattutto perché l’uomo è stato l’unico a permetterle di essere
se stessa, soprattutto di essere libera. E se John fosse ancora
vivo, a Carrie questo dubbio non sarebbe mai affiorato, e un
ennesimo ritorno di Aidan non le avrebbe fatto prendere una nuova
casa a Gramercy Park per lui e i suoi figli, come invece avviene
nella season del revival. A livello narrativo, la re-introduzione
del personaggio è stata molto frettolosa, non aderisce bene alla
nuova realtà di Carrie e risulta persino monotona, non apportando
alcun cambiamento o miglioramento significativo né alla
protagonista né al suo modo di intendere i rapporti. Non la fa
crescere ancora, come si sperava di vedere. Non la fa evolvere.
Quello a cui perciò si assiste è un ripetere gli errori fatti in
Sex & The City, constatazione confermata dalla
richiesta di lui di aspettare che il figlio Wyatt finisca la
pubertà per poter stare insieme. Non ci sono soluzioni o
compromessi per lui. Ci sono solo le sue decisioni prese senza un
autentico confronto di coppia. Aidan non è il vero amore di Carrie.
È che Carrie, ancora una volta, si sta accontentando.
Samantha, il cuore pulsante dello
show
E ora arriviamo al cuore pulsante di
Sex & The City: Samantha Jones. Il
cameo di Kim Cattrall in And Just Like That 2, da quando
la stessa attrice lo annunciò sui suoi canali social, è stato il
momento più atteso e desiderato da tutti i sostenitori della serie.
Il personaggio di Cattrall è stato Sex & The City, una
ventata d’aria fresca e nuova che ha dato allo show ciò di cui
aveva davvero bisogno per differenziarsi ed essere risonante:
l’irriverenza. Pur essendo Carrie la protagonista, Samantha è
sempre riuscita a sovrastarla e in più di un’occasione oscurarla.
Era lei il personaggio sovversivo, portatrice di un pensiero
femminista, per non dire che fosse proprio una trasposizione su
schermo del movimento. Jones, da quando è apparsa nella prima
puntata, ha dichiarato subito la sua indole.
In una serie improntata sulla
libertà dell’essere donne, sull’annullare i tabù legati al sesso e
le sue declinazioni, Samantha è stata capace con le sue battute
ironiche, la sua franchezza e il suo savoir fair, di dare un senso
all’intera narrazione e ai suoi intenti. Molto più delle sue
amiche, le quali hanno sempre rappresentato varianti più deboli del
femminismo. Samantha si è battuta sin da subito per l’indipendenza
che merita di avere una donna, anche nel rapporto con un uomo,
tanto che lei stessa più di una volta sottolinea l’importanza di
dominare sotto le lenzuola. Anche quando si innamora – parliamo
sempre della serie – non si lascia sopraffare dal compagno, ma anzi
ad un certo punto, proprio perché crede in se stessa e non vuole
soccombere, lo lascerà con queste iconiche parole: “io ti amo, ma
amo più me stessa.”
Il personaggio portato in scena da
Kim Cattrall è stato da stimolo per tante donne
all’epoca, ed assume ancora più valore nella nostra era
contemporanea, nella quale siamo continuamente tartassati dal
politically correct e dal dare più valore all’apparenza piuttosto
che alla sostanza, oltre ad essere in un momento storico in cui la
donna fa ancora fatica (seppur di meno rispetto a prima) a trovare
il suo posto nel mondo e ad affermarsi. Samantha Jones è stata
fonte di ispirazione, icona, paladina del body positive, devota
alla verità, anche quella più volgare, e mai spaventata
nell’esprimere il suo pensiero, scomodo o meno che fosse. Mai
costretta in una gabbia. Mai etichettata, a meno che non fosse lei
stessa a volerlo, e spesso era per gioco.
Per tutte queste ragioni, l’avere
avuto anche solo 75 secondi all’interno di And Just Like That
2, pagati fra l’altro a Cattrall un milione di dollari – ha
permesso alla serie di poter, anche solo per poco, tornare ad avere
quell’armonia tipica dello show, in cui l’amicizia e l’humor sono
la vera colonna portante. L’entusiasmo del pubblico nel rivedere la
sua beniamina è servito a dare una scossa agli ultimi episodi
sottotono, e seppur Samantha non sia ufficialmente tornata sulla
giostra, la sua breve presenza è stata capace di imprimersi anche
là dove non ci fosse. Inoltre, ha fatto sì che il personaggio
avesse una sua meritata conclusione narrativa, che poi conclusione
in realtà non è stata: mostrarci che Samantha esiste ancora
nell’universo di And Just Like That e che sia ancora in
buoni rapporti con le sue amiche, ma in particolare con Carrie, è
stato il miglior modo per omaggiarla e dare a noi
spettatori la conferma che sta bene. È presente. E lo sarà
sempre.
Conclusioni
Sulla base di quanto detto, And
Just Like That 2 sembra non trovare una propria forma come
accaduto con la prima season, e perciò tenta di modellarsi seguendo
la stessa traccia della serie madre. Non considerando, però, che i
tempi sono cambiati e che oggi le tematiche trattate negli anni
Novanta sono affrontate tutti i giorni, esplorate in lungo e in
largo nella maggior parte dei prodotti audiovisivi. Per cui, ciò
che dovrebbe essere essenziale, e che speriamo di trovare nella
terza stagione già annunciata, è una scrittura che, pur ancorandosi
all’ossatura narrativa di Sex & The City, trovi una propria strada per parlare e
raccontarsi a un pubblico diverso, evoluto, tanto quanto lo sono –
o dovrebbero esserlo – le sue protagoniste.
Intanto, è un bene che la stagione
abbia lasciato una porta aperta su quella che potrebbe
essere, eventualmente, una presa di consapevolezza
definitiva di Carrie riguardo il suo futuro. Dopo aver
deciso di affittare il suo appartamentino floreale alla vicina di
casa, la giornalista sceglie, nelle ultime battute, di non tornare
sui suoi passi nonostante il periodo di pausa con Aidan, ma prova a
guardare avanti e rimanere ferma nella sua ultima decisione di aver
comprato una nuova casa. Soprattutto, fronteggia la sua ennessima
situazione critica davanti ad un Cosmopolitan, per ricordare al suo
pubblico che tutto si può affrontare davanti a un buon
cocktail.
Sarà il compositore francese
Alexandre Desplat a tenere la laudatio di
Wes Anderson alla cerimonia di consegna del premio
Cartier Glory to the Filmmaker dell’80. Mostra Internazionale
d’Arte Cinematografica, venerdì 1 settembre nella Sala Grande del
Palazzo del Cinema (Lido di Venezia) alle ore 14.30, prima della
proiezione Fuori Concorso di The Wonderful Story of Henry Sugar
(Usa, 40′), per il quale ha composto le musiche.
Alexandre Desplat
ha scritto le colonne sonore dei film di Wes
Anderson da Fantastic Mr. Fox (2009)
fino ad Asteroid City (2023). Per
Grand Budapest Hotel (2014) ha vinto l’Oscar alla
migliore colonna sonora nel 2015. Ha vinto il suo secondo Oscar nel
2018 per le musiche de La forma dell’acqua di
Guillermo del Toro, film Leone d’oro nel 2017.
Alexandre Desplat è stato Presidente
della giuria internazionale del concorso di Venezia nel 2014.
In occasione della conferenza stampa
di Ferrari al
Festival del cinema di Venezia, dove il film è stato presentato in
Concorso, Adam Driver ha denunciato Amazon e Netflix per essersi rifiutati di soddisfare le
richieste di SAG-AFTRA protese a stipulare accordi ad interim per
permettere agli attori, presenti nei loro film, di partecipare alla
promozione degli stessi nel corso dello sciopero di sindacato.
Senza mezzi termini, Adam Driver chiama in causa le grandi case di
produzione / streamer per puntare il dito contro la loro mancanza
di volontà di trovare accordi ad interim con gli attori (Driver si
fa portavoce del SAG, ovviamente), cosa che invece fanno le
produzioni più piccole, come la Neon, che produce il film di
Michael Mann.
“Sono molto felice di essere qui
per supportare questo film, e la programmazione ridotta che avevamo
per girarlo e gli sforzi di tutti gli incredibili attori che ci
hanno lavorato e della troupe. Ma sono anche molto orgoglioso di
essere qui per rappresentare visivamente un film che non fa parte
dell’AMPTP e per promuovere la direttiva sulla leadership del SAG
che è una tattica efficace ovvero, gli accordi ad internim”, ha
affermato Driver.
“L’altro obiettivo è ovviamente
quello di mostrare come una società di distribuzione più piccola
come Neon e STX International può soddisfare le richieste di SAG –
si tratta di pre-negoziazioni – ma un grande aziende come Netflix o
Amazon non lo fa. E ogni volta che i rappresentanti del SAG sono
andati a sostenere un film che ha rispettato i termini dell’accordo
provvisorio, diventa ancora più ovvio che queste persone sono
disposte a sostenere le persone con cui collaborano, e gli altri
no.”
Il cast di Ferrariprotagonisti sono
Adam Driver nei panni di Enzo Ferrari con
Penélope Cruz nei panni di Laura Ferrari. Nel
cast anche
Shailene Woodley, Gabriel Leone, Sarah Gadon, Jack O’Connell,
Patrick Dempsey, Michelle Savoia, Erik Haugen, Andrea
Dolente e Giuseppe Bonifati.
In Concorso, trai
grandi nomi che presenteranno i loro film a Venezia
80, c’è anche Michael Mann, regista
iconico del cinema mondiale, che porta al Lido la sua versione
della vita di un’altra icona dell’imprenditoria italiana:
Enzo Ferrari.
Interpretato da Adam Driver, il fondatore della scuderia più
amata del mondo è il protagonista di un melodramma operistico, una
storia che nelle sua estremità trova la via verso l’universale.
“Quando incontri una personalità
così forte come quella di Enzo Ferrari, più vai a
fondo, più la storia diventa universale, e ho trovato che i suoi
fortissimi contrasti interni, fossero in qualche modo un rimando a
com’è la vita nella realtà.” Ha detto Michael
Mann, per spiegare come mai ha scelto di raccontare
proprio la storia dell’imprenditore italiano.
Il film non è un biopic classico, ma
si concentra su un anno particolare della vita di Ferrari, il 1957,
momento molto delicato e particolare per la sua vita. Nelle parole
di Mann, ecco perché si è scelto di ambientare il film in quel
momento storico: “Nel 1957 molti dei conflitti che
serpeggiavano nella sua vita sono entrati in rotta di collisione:
la compagnia in bancarotta, aveva appena perso suo figlio Dino, il
suo matrimonio con Laura stava cadendo a pezzi. Ha dovuto
affrontare diversi tipi di lutto. E queste ferite hanno comunque un
che di universale. Succede in tutte le nostre vite: lutto, perdita,
amore, passione, ambizione. Sono sentimenti universali e sono stati
compressi tutti nella vita di Enzo Ferrari, in una maniera
melodrammatica, operistica quasi.”
Un lavoro da antropologo, nelle
parole di Michael Mann, che il regista ha portato
avanti immergendosi nello spazio circoscritto di Modena,
ripercorrendo ogni giorno, nella quotidianità, le tappe dello
stesso Ferrari, andando persino dallo stesso barbiere. “Il
ritratto è quello di un uomo che viveva verso il futuro, a
differenza di sua moglie che era giustamente imprigionata nel
lutto. Enzo era costantemente proiettato verso quello che sarebbe
successo, quando gli si chiedeva quale fosse l’automobile più bella
che avesse mai costruito, lui rispondeva sempre ‘la prossima’. E
l’opposizione trai due caratteri era un altro elemento di grande
interesse.”
Ricordiamo che Ferrari
ha ricevuto l’ok da SAG-AFTRA con un accordo provvisorio che
permette al cast del film di promuovere la pellicola durante lo
sciopero, e infatti Adam Driver e
Patrick Dempsey erano presenti a Venezia. Il film è
infatti prodotto da Neon e poiché si tratta di uno
studio indipendente non affiliato all’AMPTP, non
ha avuto problemi a ricevere deroghe da
SAG-AFTRA.
La produzione ha
strappato un accordo ad interim per la promozione del film, che
consentirà al cast di promuovere il film durante la sua prima al
Festival del cinema di Venezia, al New York
Film Festival e in qualsiasi altro evento in cui il film
verrà proiettato.
Sanguigno eppure chirurgico,
Pablo Larrain, come il suo cinema, riesce sempre a
scuotere ed emozionare. Prova a farlo anche a Venezia
80, con il suo El Conde, presentato
in Concorso, una satira sulla vita di Pinochet, reso vampiro
immortale dalla sua impunità, come ha avuto modo di spiegare lo
stesso regista nel corso della conferenza stampa di presentazione
del film al Lido.
“Volevo trovare il miglior modo
per rappresentare l’uomo Pinochet. Non era mai stato rappresentato
prima al cinema o in tv, quindi il cercare l’approccio giusto ci ha
condotti al genere, la combinazione tra una farsa e una
satira, con elementi che derivano dalla leggenda, dalla
logica e del personaggio del Conte, il Vampiro. E credo fosse
l’unico modo per raccontarlo. Se non si percorre la via della
satira, potrebbe essere facile scivolare verso una forma di
empatia, e questo non era accettabile.” Spiega Pablo
Larrian ad una platea attenta.
“Tutte le scelte sono state
guidate dalla consapevolezza che Pinochet non ha mai affrontato la
giustizia e questo gli ha permesso di vivere e morire in libertà, e
anche molto ricco. Quella impunità lo ha reso in qualche
modo eterno, per questo lo abbiamo rappresentato come un
vampiro.”
Le scelte estetiche di El Conde sono, come sempre nella filmografia
del regista cileno, molto definite e in molti modi aiutano la
narrazione, sostenendo la tesi che nel film porta avanti Pablo
Larrain: “Il film si svolge in una grande casa isolata,
all’estremità del Cile, in Patagonia. Pensavamo che il bianco e
nero facilitasse la prospettiva teatrale e che potesse essere
considerato più lontano e fantasioso, rispetto a dei colori
realistici. Il lavoro con Edward
Lachman, il nostro direttore della fotografia, è stato rilevante,
non solo per l’aspetto estetico, naturalmente molto bello, ma anche
perché sentivo, mentre giravamo, che avendo lui come DOP, le nostre
immagini sarebbero sembrate universali. Avere uno straniero, un non
cileno, che ci ha aiutato a tenere insieme la storia, probabilmente
ha contribuito molto a rendere il film universale, anche se questo
lo deciderà il pubblico. Ma con il suo anche il lavoro di
scenografia, costumi e trucco hanno reso questo film
unico.”
Il film si avvale della
distribuzione di Netflix,
sostegno che Pablo Larrain ha elogiato in
conferenza, non dandolo per scontato: “Penso sia bellissimo che
Netflix abbia supportato un film come questo, non
solo un film coraggioso e insolito, ma che dà voce alla
cinematografia cilena che, attraverso lo streamer, può parlare al
mondo intero. Non lo avrei mai dato per scontato, soprattutto in un
mondo che cambia così velocemente.”