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Il Capo dei Capi, serie tv: trama, cast e dove vederla in streaming

Il Capo dei Capi

La storia italiana, soprattutto quella contemporanea, è una delle più ricche e antiche al mondo. È quindi quasi scontato che registi e autori attingano dal nostro passato per la realizzazione di nuovi prodotti televisivi. Negli ultimi anni, infatti, sempre più di frequente il palinsesto televisivo si riempie di film e/o serie tv ispirate a fatti di cronaca relativi agli anni della cosiddetta Prima Repubblica. Quest’espressione per lopiù giornalistica, si riferisce al periodo di storia politica italiana che va dal 1948 al 1994. In questo contesto storico, politico e sociale si inserisce la serie Il Capo dei Capi, diretta da Enzo Monteleone e Alexis Sweet, e con Claudio Gioè e Daniele Liotti.

Andata in onda nel 2007, la serie prodotta dalla Taodue – divisa in sei puntate da circa un’ora e mezza ciascuna -, è ispirata all’omonimo libro dei giornalisti Giuseppe D’Avanzo e Attilio Bolzoni. Il Capo dei Capi racconta la storia dell’ormai noto boss malavitoso Salvatore Riina, detto Totò Riina.

Nato e cresciuto nella Sicilia più rurale e dimenticata, Riina era un semplice contadino, rosso e poco istruito ma per nulla ingenuo. Ossessionato dai soldi ma soprattutto dal potere, Totò inizia la sua scalata facendosi strada verso la vetta un delitto alla volta. Divenuto in breve tempo uno dei personaggi più temuti di Corleone, Riina comincia a reclutare il suo piccolo esercito per poter sferrare il suo attacco finale allo Stato.

Il Capo dei Capi cast trama: tra realtà e finzione

Negli anni ottanta la Sicilia e in particolare la città di Palermo era sotto assedio. La mafia controllava ogni cosa, dalle amministrazioni locali all’illecito traffico di stupefacenti e i clan si contendevano le piazze dello spaccio. In particolare la fazione dei Corleonesi, guidata da Totò Riina era in lotta per il controllo sul territorio con una seconda fazione della quale faceva parte anche il famoso boss Tommaso Buscetta.

In quel periodo a Palermo vennero commessi circa 600 omicidi da entrambi i clan, situazione che spinse le istituzioni a creare una vera e propria commissione antimafia. Tra i giudici e i magistrati nominati c’erano anche Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Le indagini del pool antimafia portano all’arresto di 460 persone e all’inizio del Maxiprocesso di Palermo (1986), ovvero il più grande e lungo processo della storia.

Mentre i pesci piccoli delle due fazioni di Cosa Nostra finivano in carcere a vita, i boss della malavita siciliana continuavano a prosperare. Grazie ad attentati e omicidi, negli anni novanta Riina è a capo di Cosa Nostra e comanda indisturbato su Palermo e gran parte della Sicilia. Le sue attività illecite continuano fino al 1992, anno in cui la mafia decide di uccidere i due magistrati Falcone e Borsellino.

Il primo a cadere è Falcone, il 23 maggio del 1992, vittima di un’esplosione sull’autostrada A29, evento che viene tutt’oggi ricordato come la Strage di Capaci. Qualche mese più tardi, il 19 luglio del 1992, tocca a Borsellino ucciso invece nell’attentato terroristico di stampo mafioso ricordato come la Strage di Via D’Amelio.

Il Capo dei Capi cast

Dal 1982 fino a quel momento, Totò Riina era rimasto nell’ombra al comando di Cosa Nostra, usando i suoi scagnozzi per compiere i suoi atroci delitti. Il potere e la latitanza lo facevano sentire invincibile, quasi intoccabile. Con l’uccisione di Falcone e Borsellino, tuttavia, le autorità fecere di tutto pur di smascherare e catturare il terribile boss della malavita siciliana. Dopo quasi venticinque anni di latitanza, grazie a una soffiata di un pentito mafioso, il 15 gennaio del 1993 i Carabinieri arrestano Riina. Il boss era rimasto nascosto fino a quel momento in una casa segreta al centro di Palermo.

Il Capo dei Capi, parte proprio dall’arresto di Totò Riina e ripercorre a ritroso tutta la sua vita. Finito ormai dietro le sbarre, Riina (Claudio Gioè) riceve in carcere la visita di un uomo, Biagio Schirò (Daniele Liotti), un suo vecchio amico d’infanzia. Grazie a questa visita inaspettata, Riina comincia a ricordare il suo passato, dall’adolescenza fino alla militanza in Cosa Nostra.

Rimasto orfano di padre nel 1943, a soli tredici anni Totò comincia a prendersi cura della famiglia. Ben presto però si rende conto che lavorare nei campi non basta per vivere una vita dignitosa. E’ così che, insieme agli amici Bernardo Provenzano (Salvatore Lazzaro), Calogero Bagarella (Marco Leonardi) e Biagio Schirò (Daniele Liotti), comincia a lavorare come ‘picciotto’ per un boss locale. In quel preciso istante comincia la sua ascesa nella malavita organizzata.

In ogni puntata la serie copre un arco temporale di una quindicina d’anni, raccontandoci degli episodi più importanti della sua vita. Scopriamo quali sono i suoi più fedeli collaboratori, i suoi nemici e tutti i crimini compiuti nel nome di Cosa Nostra. La storia finisce così com’era iniziata, in carcere, con il boss finalmente dietro le sbarre.

Il Capo dei Capi film: L’ultimo dei Corleonesi

Girata tra Ragusa e Catania, la serie Il Capo dei Capi ha avuto un successo incredibile, riproponendo in chiave moderna un pezzo importante della storia politica italiana della Prima Repubblica. Tuttavia, la serie non è la prima ad aver trattato temi di interesse storico-politico come quello della nascita e della caduta del boss Totò Riina.

Nel 2007, infatti, anche la RAI produce un film dal titolo L’ultimo dei Corleonesi, che racconta dello stesso periodo storico dal punto di vista di un vecchio amico di Riina, Bernardo Provenzano.

Il film comincia a Palermo, nel 1992 con la Strage di Capaci e il successivo arresto di Bernardo Provenzano (David Coco). Nel momento in cui il boss viene arrestato, il film con un flashback, ci riporta indietro nel tempo, nella Corleone nel 1948. A quei tempi, Provenzano, insieme all’amico Totò Riina (Marcello Mazzarella), viene arruolato dal killer Luciano Liggio (Stefano Dionisi), ai comandi del boss Michele Navarra (Emilio Bonucci). I ragazzi cominciano quindi a seguire Liggio nelle sue missioni, partecipando a omicidi ed esecuzioni, entrando nelle grazie del boss del paese.

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Gli anni passano e Liggio, Riina e Provenzano ormai sono diventati inseparabili, membri a vita del clan dei Corleonesi di Cosa Nostra. Quando nel 1974 Liggio viene arrestato per omicidio e molti altri capi d’accusa, Riina e Provenzano diventa i soli e unici capi del clan, scatenando una guerra contro la fazione rivale.

Per anni la coppia di amici governa indisturbata su Palermo e su tutta la Sicilia. A seguito delle uccisioni di Falcone e Borsellino però, le autorità stringono Cosa Nostra in una morsa e nel 1993 anche Riina finisce dietro le sbarre. Rimasto solo a governare la mafia siciliana, Provenzano si dà alla macchia e sparisce dai radar della polizia. Solo nei primi anni duemila, seguendo le tracce lasciate dai vari tirapiedi del boss, i servizi segreti italiani rintracciano Provenzano.  Il film, diretto da Alberto Negrin, si chiuse così, con la fine di questo gigantesco flashback e con la cattura del pericoloso killer malavitoso, Bernardo Provenzano.

Dove vedere Il Capo dei Capi in streaming

La famosa miniserie Il Capo dei Capi, prodotta della Taodue e diretta da Enzo Monteleone e Alexis Sweet, è disponibile in streaming in abbonamento su Infinity Tv.

Fonte: Wiki

 
 

Mi chiamo Francesco Totti: la recensione del documentario di Alex Infascelli #RFF15

Mi chiamo Francesco Totti film

Interrogato sull’identità dell’ottavo re di Roma, il tifoso dell’omonima squadra di calcio darà probabilmente sempre la stessa risposta: Francesco Totti. Come nota egli stesso nel corso del documentario a lui dedicato, la gente non è abituata a vederlo come un semplice uomo o calciatore, bensì come un vero e proprio monumento. Sembrerebbe dunque esserci poco da aggiungere ad una personalità tanto celebre e celebrata. Eppure, con Mi chiamo Francesco Totti si dà vita a tutt’altro che un semplice e scontato documentario celebrativo. Basato sull’autobiografia “Un capitano”, il film diretto da Alex Infascelli ripercorre sì la vita e la carriera del calciatore, ma lo fa adottando una chiave di lettura particolarmente affascinante. Ne emerge una toccante riflessione sulla popolarità, sul rispetto delle proprie radici e, soprattutto, sul tempo che passa.

Presentato alla 15ª edizione della Festa del Cinema di Roma, il film, prodotto da The Apartment e Wildside, sarà in sala come evento speciale solo dal 19 al 21 ottobre. Al suo interno si potrà ritrovare dunque un lungo e appassionante excursus sulla vita di Totti. Dai primi palleggi da bambino sino al debutto nella Roma, dallo scudetto vinto sino al mondiale del 2006. Toccando tando la carriera sportiva quanto la vita privata, il documentario giunge infine a raccontare il sofferto ritiro avvenuto nel 2018. Insieme agli spettatori, Totti ripercorre così tutta la sua vita, come se la vedesse proiettata su uno schermo. Le immagini e le emozioni scorrono dando forma ad un racconto intimo, in prima persona, dello sportivo e dell’uomo.

Mi chiamo Francesco Totti: anche se il tempo passa…

È fin troppo comune realizzare un documentario su di una specifica personalità raccogliendo interviste di persone ad essa legate. È ben più coraggioso, e originale, affidare invece l’intera narrazione al diretto interessato. In Mi chiamo Francesco Totti, infatti, l’unica voce udibile è proprio quella del calciatore. Con semplicità, umiltà e umorismo, egli conduce il pubblico nel racconto della sua vita, come fosse un lungo monologo interiore. Si parte dalla notte precedente alla sua ultima partita, per poi compiere un lungo salto all’indietro, tornando sino alle origini di Totti come bambino e calciatore. Tale riavvolgimento del nastro permette di rendere sin da subito chiaro il cuore del film: il passare del tempo.

Totti gioca con lo spettatore, commenta le immagini, le ferma, le rimanda indietro per poterle riguardare e riscoprire. In questo suo desiderio di voler fermare il tempo, non potendo credere a quanto ne sia già passato, egli diventa estremamente umano, universale. Nel corso del racconto si trova ad affermare che al momento di iniziare una partita “svestiva i panni di Francesco e indossava quelli di Totti”. Ma qui egli non si trova sul campo da gioco, e può così compiere l’azione contraria. Lascia da parte Totti per mettere in mostra Francesco, rivelandone paure e speranze. Se da una parte ciò permette di avere l’ennesima conferma della sua bontà d’animo e della sua umiltà, valori mai corrotti dal successo, dall’altra mostra di lui aspetti inediti, e particolarmente affascinanti.

Si scopre così una personalità più complessa di quello che si potrebbe immaginare, eppure allo stesso tempo in cui molti possono ritrovarsi. Infascelli evidenzia infatti come la storia di Totti sia anche quella di un’intero popolo. Costruendo una vera e propria epica intorno al calciatore, permette a chiunque di ritrovarsi dentro di lui, rendendo chiara l’importanza della sua figura. Egli è sì un monumento, ma anche un’eccezione, un unicum forse irripetibile. Il documentario è estremamente chiaro nel trasmettere ciò, con una sequenza di eventi più o meno noti ma su cui c’è ancora molto altro da poter dire. E il fatto che a dirlo sia lo stesso Totti è nettamente un valore aggiunto all’intero progetto.

Mi chiamo Francesco Totti recensione

Mi chiamo Francesco Totti: la recensione

L’intero documentario è costruito sul calciatore, si adatta alla sua personalità esaltandola. Questo è un’altra palla ai suoi piedi, con la quale dimostra la maestria di sempre. Tra il ricordo del suo mito Giannini al rapporto con i vari coach susseguitisi nel tempo, dalla relazione con Ilary Blasi fino al periodo dell’infortunio, Totti si destreggia nel racconto giungendo fino alla rete, dove fa goal nel momento in cui lo spettatore è posto davanti alle immagini del suo ritiro. È lì che tutto acquista senso, che tutto quell’aver ripercorso la sua vita e la sua carriera arriva al culmine. Con la voce narrante di Totti è possibile divertirsi, sorprendersi ed esaltarsi, e giungendo al finale si rimane sovrastati dalle emozioni, dalla commozione per quel ritiro che ora si avverte un po’ anche come proprio.

È questo un momento che ha segnato il mondo sportivo e non solo. Consapevoli della grandezza del personaggio, regista e produttori lavorano per rendere il documentario fruibile anche da chi di calcio non si è mai particolarmente interessato. La sincerità con cui il racconto orale accompagna quello delle immagini risulta infatti estremamente comprensibile a livello generale, perché Mi chiamo Francesco Totti non è un film sul calcio o su un calciatore, bensì su di un uomo. Un uomo con tutti i pregi e i difetti del caso, ma dotato di una passione non comune, a cui ha sempre dato tutto sé stesso fino alla fine.

 

 
 

The Mandalorian 2: nuovo promo inedito

The Mandalorian 2

Disney+ ha diffuso un nuovo promo inedito nel quale possiamo vedere scene inedite di The Mandalorian 2, l’attesissima seconda stagione di The Mandalorian.

Iscriviti a Disney+ e inizia a guardare The Mandalorian e altre produzioni originali

The Mandalorian 2

The Mandalorian 2 è la seconda stagione della serie tv The Mandalorian  live action basata sull’universo di Star Wars prodotta dalla LucasFilm per la piattaforma streaming Disney+.

Ambientata nell’universo di Guerre stellari dopo le vicende de Il ritorno dello Jedi e prima di Star Wars: Il risveglio della Forza, racconta le avventure di un pistolero mandaloriano oltre i confini della Nuova Repubblica. Dopo la caduta dell’Impero, nella galassia si è diffusa l’illegalità. Un guerriero solitario vaga per i lontani confini dello spazio, guadagnandosi da vivere come cacciatore di taglie. Ambientata dopo la caduta dell’Impero e prima della comparsa del Primo Ordine, The Mandalorian racconta le difficoltà di un pistolero solitario che opera nell’orlo esterno della galassia, lontano dall’autorità della Nuova Repubblica. La serie ha come protagonista Pedro Pascal nei panni del Mandaloriano.

La serie è prodotta e scritta da Jon Favreau (già produttore de Il Re Leone e delle saghe di Avengers e Iron Man). Nel cast anche Gina Carano (DeadpoolFast and Furious); Carl Weathers (Apollo Creed nella saga di Rocky), Nick Nolte (Cape FearIl Principe delle maree), Emily Swallow (SupernaturalLe regole del delitto perfetto), Taika Waititi (premio Oscar 2019 per JoJo Rabbit), Giancarlo Esposito (Fa’ la cosa giustaBreaking Bad) e Omid Abtahi (24HomelandStar Wars: The Clone Wars).

The Mandalorian, prodotta in esclusiva per Disney+ da Lucasfilm, è la prima serie live-action di Star Wars e, nei suoi 8 episodi, racconta vicende ambientate dopo la caduta dell’Impero, quando nella galassia si è diffusa l’illegalità. Protagonista è un guerriero solitario che vaga per i lontani confini dello spazio, guadagnandosi da vivere come cacciatore di taglie. A interpretarlo Pedro Pascal (Game of ThronesNarcos).

 
 

House of Anubis, serie tv: trama, cast e dove vederla in streaming

House of Anubis

Da sempre la maggior parte dei contenuti della televisione per ragazzi è affidata alle due emittenti statunitensi più importanti, ovvero Disney Channel e Nickelodeon. Tutti i cartoni animati e le serie tv per teenagers di successo, sono prodotte negli States e poi rilasciate negli altri paesi. Molti di questi contenuti a distribuzione globale fanno poi strage di ascolti in tutto il mondo. Oggi vi parliamo di una delle serie tv per ragazzi più amate, dal titolo House of Anubis.

Basata sull’originale belga-olandese, Het Huis Anubis, la versione anglo-americana targata Nickelodeon, creata da Hans Bourlon e Gert Verhulst, è andata in onda per ben 3 stagioni e 145 episodi, dal 2011 al 2013. Trasmessa su TeenNick – canale affiliato a Nickelodeon -, House of Anubis è una serie teen drama thriller, ambientata in un collegio britannico e che ha come protagonista una ragazza americana.

House of Anubis trama

La giovane amaericana Nina Martin (Nathalia Ramos) viene mandata dalla sua famiglia a studiare all’estero in un famoso collegio britannico. Ma nel momento in cui Nina mette piede in Casa Anubi, una delle residenze della scuola, cominciano ad accadere cose strane e misteriose. All’arrivo di Nina, infatti, un’altra studentessa, Joy Mercer (Klariza Clayton), scompare nel nulla. Nonostante si tratti solo di una spiacevole coincidenza, Nina viene accusata della scomparsa di Joy dalla migliore amica di quest’ultima, Patricia Williamson (Jade Ramsey), che comincia a indagare sulla faccenda.

In Casa Anubi risiedono nove ragazzi e ragazze, controllati a vista dal guardiano Victor Rodenmaar Jr (Francis Magee), figlio del custode. Nina, ovviamente, dopo le accuse di Patricia, non viene accolta a braccia aperte dagli altri membri della casa e passa la sua prima notte da sola in soffitta. Qui Nina fa un’incredibile scoperta.

Nella soffitta trova le registrazioni del diario segreto di una ragazza, vissuta in casa molti anni prima e che Nina riconosce all’istante. Il diario è di Sarah Frobisher-Smythe (Rita Davies), una delle fondatrici della scuola che Nina ha incontrato durante il tour della struttura. Nelle registrazioni si parla di un segreto che riguarda la storia della casa, un mistero di cui nessuno è a conoscenza.

Nina è molto colpita dalla scoperta del diario e sopratutto che quest’ultimo appartenga proprio a Sarah. Durante il loro primo incontro, infatti, Sarah aveva regalato a Nina una collana con un grazioso ciondolo a forma di Occhio di Horus che la ragazza aveva accettato volentieri. Ebbene, quello che a Nina sembrava solo un innocuo regalo, si rivela essere in realtà uno strumento molto potente. La collana dell’Occhio di Horus è dotata infatti di misteriosi poteri magici che aiuteranno Nina nelle sue indagini volte a scoprire il segreto della Casa di Anubi.

House of Anubis cast

Nonstante le difficoltà iniziali, Nina comincia a indagare sul misterioso collegio aiutata da due nuovi amici, Fabian Rutter (Brad Kavanagh) e Amber Millington (Ana Mulvoy Ten) la sua compagna di stanza. Insieme i tre ragazzi formano un gruppo investigativo chiamato Sibuna (ovvero Anubis al contrario), che più tardi si estenderà ad altri membri della casa.

La prima a unirsi alla squadra è Patricia che, una volta appreso dell’innocenza di Nina, si offre volontaria. In questo modo la ragazza spera di scoprire cos’è successo alla sua amica Joy. A seguire, anche Alfie Lewis (Alex Sawyer), il buffone della scuola, e Jerome Clarke (Eugene Simon), si uniscono al team.

Le indagini continuano e il Sibuna scopre dell’esistenza di un puzzle, i cui tasselli portano a un’importante rivelazione. Sparsi all’interno di Casa Anubi ci sono sette pezzi del puzzle che i ragazzi dovranno trovare e mettere insieme per poter accedere alla Coppa di Ankh. In egiziano antico, l’ankh è un simbolo sacro che rappresenta la vita. E’ probabile quindi che la coppa in questione nasconda il segreto della vita eterna.

Ma per accedere all’elisir di lunga vita, i ragazzi non solo devono trovare i sette pezzi mancanti del puzzle ma individuare anche la prescelta, ovvero l’unica in grado di assemblarli e attivare i poteri dell’ankh. Ma individuare la persona giusta non è poi così semplice. Secondo la leggenda, infatti, la prescelta deve in qualche modo essere collegata al numero ‘sette’. Dopo quindi una serie di tentativi, i ragazzi capiscono che la prescelta è proprio Nina, nata il 7 luglio alle 7 del mattino.

La squadra dovrà quindi lottare per poter riattivare la coppa di Ankh e arrivare all’elisir di lunga vita prima dei loro nemici. Ci sono infatti società segrete che tramano nell’ombra contro il Sibuna e la sua prescelta…

House of Anubis 4: cancellazione a sorpresa

Grazie alla sua buona dose di mistero e melodramma adolescenziale, la serie House of Anubis ha avuto un successo incredibile sia nel Regno Unito che nel resto del mondo. La serie – la prima di Nickelodeon girata fuori dagli States – è andata in onda per tre stagioni senza registrare mai cali di ascolto. Pur essendo, infatti, un prodotto per teenagers, House of Anubis ha introdotto un bel po’ di novità in casa Nickelodeon, che hanno fatto la fortuna della serie e del network.

House of Anubis è stata forse la prima serie di Nickelodeon ad abbracciare il format della telenovela. Questo si traduce in puntate più numerose ma meno lunghe (la durata varia dagli 11 ai 20 minuti) e in un cast assai più ricco. La serie infatti è forse quella con il maggior numero di attori e personaggi della storia del network. Questa caratteristica, che per alcuni potrebbe risultare quasi un handicap, è in effetti uno dei motivi principali del successo della serie.

Per gli autori, decidere di seguire le storie dei vari personaggi e intrecciarle alla storyline principale è molto complicato perché si rischia di appesantire la struttura narrativa della serie. Tuttavia, la presenza di così tanti personaggi stuzzica l’attenzione degli spettatori che sono meno invogliati quindi a cambiare canale.

Nonostante l’interesse continuo del pubblico alle vicende degli eroi di House of Anubis, al termine della terza stagione, nel 2013 il network di Nickelodeon ha deciso di cancellare la serie.

House of Anubis film: Anubis – La Pietra di Ra

La notizia della cancellazione della serie arriva come un fulmine a ciel sereno per i fan di House of Anubis che sui social richiedono a gran voce una nuova stagione. La serie infatti era terminata con un grosso cliffhanger, senza di fatto dare ai telespettatori un finale degno di questo nome. Per questo motivo Nickelodeon, non intenzionato a riesumare la serie ormai chiusa in un cassetto, ha deciso di accontentare i fan di House of Anubis con un film conclusivo, abbandonando l’idea di una quarta stagione.

Nel 2013, quindi, Nickelodeon manda in onda il capitolo finale della saga di House of Anubis, tradotto nel film per la tv Anubis – La Pietra di Ra.

In questo film i ragazzi del collegio sono vicini al diploma e il preside, per festeggiare l’avvenimento, organizza una gita al museo, l’ultima per il loro corso. Al rientro a Casa Anubi, i ragazzi trovano ad aspettarli le matricole che prenderanno il loro posto dopo il diploma. I nuovi studenti sono Cassie Tate (Roxy Fitzgerald), Erin Blakewood (Kae Alexander), Dexter Lloyd (Jake Davis) e Sophia Danae (Claudia Jessie), tutti molto emozionati di poter visitare la struttura.

Durante la gita al museo egizio, Sophia, Dexter ed Eddie, si intrufolano in una sala misteriosa non aperta al pubblico dove è esposto un rarissimo artefatto. Si tratta di una meravigliosa pietra preziosa a forma di piramide chiamata Pietra di Ra, custode di un antico segreto e dotata di straordinari poteri. Più tardi la pietra però scompare misteriosamente e viene ritrovata dai ragazzi sul fondo della borsa di Eddie.

Sequestrata dal malvagio preside Mr Sweet, la pietra comincerà a prigionare i suoi poteri e a chiamare a sé i seguaci del dio Ra, gettando la scuola nel caos e mettendo in pericolo la vita dei ragazzi.

House of Anubis streaming

La serie House of Anubis purtroppo in Italia non è ancora disponibile per lo streaming gratuito. Tuttavia potete trovare le prime due stagioni della serie in abbonamento su Sky. Inoltre, essendo House of Anubis parte del catalogo internazionale di Amazon Prime Video, è possibile che in un prossimo futuro la serie possa essere disponibile per lo streaming anche nel nostro paese.

Fonte: Wiki, IMDB, ScreenRant

 
 

Beyhadh, serie tv: cast, trama e dove vederla in streaming

Beyhadh serie tv

Per anni Europa e America hanno fatto il bello e il cattivo tempo in campo televisivo. La maggior parte dei contenuti disponibili agli utenti in tv e sulle piattaforme streaming, fino a qualche tempo fa, escludeva automaticamente alcuni paesi. Per fortuna oggi non è più così. I prodotti disponibili sono maggiormente diversificati e gli utenti possono accedere a film e serie tv innovative come lo spy crime israeliano Teheran, oppure come la serie romance thriller indiana Beyhadh.

Creata da Prateek R Sharma per Sony TV, Beyhadh è andata in onda dal 2016 al 2020, con un intervallo tra le due stagioni di ben due anni. La serie infatti a oggi conta un totale di 2 stagioni e 273 episodi al suo attivo. A causa della Pandemia di Coronavirus, la produzione della terza stagione si è interrotta a marzo del 2020.

Beyhadh cast e trama

La serie Beyhadh ha come protagonista la bella Maya Mehrotra (Jennifer Winget), proprietaria di una rivista di moda con un passato doloroso alle spalle. La sua infazia, infatti, è stata rovinata dal padre, Ashwin Mehrotra (Rajesh Khattar), un uomo cattivo e violento. Nonostante Maya sia diventata una donna di successo, adulta e con la testa sulle spalle, vive sempre in un clima di ansia e terrore a causa della presenza del padre.

Con Maya lavorano l’avvocatessa Saanjh Mathur (Aneri Vajani), sua migliore amica, e il fotografo Arjun Sharma (Kushal Tandon), un uomo molto allegro e dal carattere solare. ‘Costretti’ a lavorare sempre a stretto contatto, tra loro si forma una sorta di involontario triangolo amoroso. Saanih è infatti innamorata di Arjum che invece la considera solo come la sua migliore amica. Come se non bastasse, Arjum sviluppa una particolare simpatia per Maya, il suo capo, con la quale condivide un’esperienza alquanto traumatica.

Per caso, infatti, Arjun salva Maya dagli attacchi di suo padre, ancora fin troppo presente nella vita della ragazza. Grazie al suo intervento provvidenziale, Maya riesce a scampare al suo carnefice e comincia una frequentazione con il suo giovane e bel fotografo. Tra i due le cose comincano a farsi serie e Maya finalmente racconta a Arjun la triste storia della sua infanzia.

Nonostante i continui ostacoli della vita, Maya e Arjun finiscono con l’innamorarsi e il ragazzo decide di organizzare per la sua bella una proposta di matrimonio indimenticabile. I due quindi partono per le Mauritius, dove Arjun finalmente chiede la mano di Maya. La notizia del loro matrimonio, accolta da tutti con grande entusiasmo, distrugge Saanjh, ancora innamorata di Arjun.

[SPOILER ALERT]

Mentre i due promessi sposi preparano le nozze, Maya è infastidita dalla costante presenza di Saanjh e intima a Arjun di interrompere ogni contatto con la ragazza. Ma quello che Maya non sa è che dietro l’insistenza di Saanjh c’è lo zampino di suo padre, deciso a fargliela pagare e a distruggere le sue chance per una vita felice.

Ashwin quindi le tenta tutte per aizzare Saanjh contro Maya ma sua figlia scopre il suo malvagio piano e decide di farla finita una volta e per tutte. La sposina si reca a casa del padre per parlargli a muso duro ma la loro discussione degenera e Maya finisce con l’uccidere suo padre. Sconvolta dall’accaduto, la ragazza tenta di coprire le sue tracce e di nascondere la sua colpevolezza. Nonostante tutto, Maya sposa Arjun e corona il suo sogno d’amore.

Nel frattempo, le indagini per la morte di Ashwin continuano e la madre di Maya, Jhanvi (Kavita Ghai), scopre che è stata proprio la figlia a uccidere suo marito. Di ritorno dal viaggio di nozze con Arjun, Maya ha un confronto assai acceso con la madre che le confessa di aver scoperto il suo segreto. Arrabbiata e spaventata, Maya spinge la madre dal balcone e la donna entra in coma. La ragazza riesce nuovamente a nascondere le prove del delitto e, per allontanare ancora di più i sospetti su di lei, finge di aver avuto un aborto.

Maya incolpa Saanjh di aver perso il suo bambino, a causa del dolore per l’incidente di sua madre e i continui attacchi della sua rivale. Così facendo Arjun si allontana definitivamente da Saanjh che si trasferisce a Londra.

Beyhadh 2 cast e trama

Tre anni più tardi, Maya e Arjun sono ancora sposati ma le cose per loro non vanno affatto bene. Lui è ormai completamente isolato dal resto del mondo ed è sempre più consapevole del delicato stato mentale della moglie. Non sapendo più come gestire i suoi attacchi di follia, Arjun prova a lasciare Maya chiedendo il divorzio ma senza riuscirci.

[SPOILER ALERT]

Nel frattempo Saanjh torna in India con il suo nuovo fidanzato Samay Ahuja (Piyush Sahdev), una vecchia conoscenza di Maya. Si scoprirà più tardi che Samay è stato l’amante di Maya, della quale era ossessionato. Ma nonostante questa scoperta, le vite di tutti vanno avanti. Saanjh e Samay cominciano a programmare le nozze, e Maya e Arjun si preparando all’arrivo del loro primo figlio.

Tuttavia c’è qualcuno che trama nell’ombra. Ayaan (Sumit Bhardwaj), fratello di Arjun, sembra aver scoperto i segreti di Maya ed è deciso a smascherarla. Ma la furia omicida di Maya non si ferma e la ragazza tenta di uccidere Ayaan investendolo con la macchina. Suo cognato non muore ma resta gravemente ferito. Anche Jhanvi, ancora in coma, riceve la visita di sua figlia, che tenta nuovamente di ucciderla ma senza riuscirci.

La storia si interrompe e con un salto temporale ci porta a sei mesi dopo gli ultimi avvenimenti. Maya sceglie volontariamente di farsi ricoverare in un ospedale psichiatrico per farsi curare. Nel frattempo però Vandana (Swati Shah), la matrigna di Arjun, convince il figliastro ad abbandonare la moglie, troppo instabile e pericolosa. Durante un acceso confronto tra Arjun, Vandana e Maya, quest’ultima cade dalle scale, perdendo purtroppo il suo bambino non ancora nato.

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Il trauma per la perdita di suo figlio, scatena di nuova la follia omicida di Maya che, accecata dalla rabbia, uccide Vandana. Ma il suo piano diabolico non finisce qui. Tornata a casa, Maya stende Arjun e inscena la sua morte e sparizione, facendo ricadere la colpa su suo marito. Maya quindi sparisce e Arjun viene incriminato per omicidio e condannato a morte per impiccagione.

Convinto che Maya sia ancora viva e che abbia orchestrato tutto questo per vendicarsi, Arjun scappa dal carcere e chiede aiuto a Saanjh. Nel frattempo Maya si allea con Samay, convincendolo di essere stata raggirata da suo marito e da Saanjh. Il suo piano però stavolta non ha effetto sul suo ex amante che la abbandona al suo destino.

Come sempre Maya decide di agire da sola. Bramando vendetta, Maya uccide Samay e rapisce Saanjh per attirare a sé anche Arjun e farla finita una volta e per tutte. Ma il piano pluriomicida di Maya fallisce e la donna viene finalmente presa in custodia dalla polizia. Grazie alla testimonianza di sua madre Jhanvi, ridestatasi dal coma, Maya viene dichiarata colpevole di omicidio. Liberi dalle grinfie di Maya e della sua follia, Arjun e Saanjh si sposano.

Cinque anni più tardi Maya evade di prigione, inscenando nuovamente la sua morte e svanendo nel nulla. Nel frattempo Arjun è diventato un milionario e vive con sua moglie Saanjh e i loro bambino in una perfetta armonia. La coppia, troppo vecchia per poter avere altri figli, decide di optare per la surrogazione e, tramite un’agenzia, avvia le pratiche. Il destino vuole che la madre surrogata del loro bambino sia proprio Maya, creduta morta ormai da tempo.

Il finale a sopresa di Beyhadh 2

La coppia quindi decide di prendersi cura di Maya (Jennifer Winget) nonostante tutto per poter salvare cosi il bambino. Ma la donna ha già in mente un piano per vendicarsi della coppia di traditori. Alla fine della gravidanza, Maya mette al mondo una splendida bambina e, subito dopo, sparisce con la piccola senza lasciare traccia.

Le indagini per ritrovare Maya e la bambina proseguono per settimane senza risultati. A essere decisivo è l’intervento di Arjun (Kushal Tandon) che, conoscendo fin troppo bene i processi mentali della sua malvagia ex moglie, riesce a mettersi sulle tracce di Maya. Saranno infatti Arjun e Saanjh (Aneri Vajani) a ritrovare la donna e la bambina, affrontandola in un pericoloso conflitto finale.

Stanca di dover sopportare ancora una volta che Saanjh le porti via l’unico uomo che abbia mai amato, Maya punta una pistola contro la sua rivale, pronta a fare fuoco. Ma stavolta Arjun è preparato al peggio e, prima ancora che Maya possa premere il grilletto contro Saanih, l’uomo spara alla sua ex moglie uccidendola. Maya muore tra le braccia di Arjun confessando tutti i suoi peccati commessi per proteggere il suo sposo, l’unico uomo che abbia mai amato.

Beyhadh streaming, dove vederla

Prodotta da Sony TV, la serie Beyhadh purtroppo a oggi non è ancora disponibile in streaming nel territorio europeo. Gli episodi al momento sono stati mandati in onda solo sulla tv indiana ma potrebbero arrivare anche qui in Italia in un prossimo futuro. Continuate quindi a seguirci e vi terremo aggiornati.

https://youtu.be/de6Rb_mhV7o

Fonte: Wiki, IMDB

 
 

Stardust, recensione del film con Johnny Flynn #RFF15

stardust

In un biopic si può puntare sul mainstream, raccontare un artista attraverso i suoi grandi successi, dare al pubblico ciò che si aspetta di vedere, restituendo l’immagine iconica della figura in questione, oppure cercare di esplorarne i lati meno noti e, come ormai spesso si fa, puntare su episodi o aspetti per lo più sconosciuti della vita e della carriera di un personaggio divenuto famoso. In tutti e due i casi, la strada è scivolosa, perché si ha a che fare appunto con delle icone. Il pubblico le ama e non vuole vedere rovinata l’immagine  che ha di loro. David Bowie è senza dubbio una di queste figure. Simbolo del glam rock e tra i capisaldi del rock tout court, amato da più generazioni e spesso da persone dai gusti musicali i più disparati. Un artista trasversale, la cui musica è entrata a far parte della memoria collettiva.

Il regista britannico Gabriel Range gli dedica il suo Stardust, che partecipa nella Selezione Ufficiale alla Festa del Cinema di Roma. E sceglie proprio di parlare del Bowie prima del successo, quello che i più non conoscono. Il film non può purtroppo contare sulla musica di Bowie, poiché, come ha dichiarato lo stesso regista, la famiglia non gli ha permesso di utilizzarla, ma a sua detta, l’estraneità dei familiari al progetto gli ha dato maggiore libertà di esprimersi.

Stardust, la trama

1971, Washington. David Bowie (Johnny Flynn) è agli inizi. Di lui si conoscono solo un paio di brani dall’album Space Oddity, tra cui la title track. Mentre The man who sold the world, appena uscito, è giudicato troppo triste e oscuro e non sta andando affatto bene. La sua etichetta, la Mercury, lo vuole scaricare, ma lui è ambizioso e vuole il successo. Quello che manca, dice il suo agente, “è un personaggio da vendere”. Chi è David come artista? Mentre cerca di rispondere a questa domanda, Bowie si imbarca per un tour negli Usa che si rivela un fallimento. Non ci sono soldi e i documenti di David non sono in regola, così non può suonare, ma solo parlare, ovvero rilasciare interviste. Nonostante Ron Oberman (Marc Maron), l’unico in America che crede in lui, si faccia in quattro per procurargli incontri con giornalisti e serate clandestine in cui esibirsi, Bowie colleziona un fiasco dopo l’altro. Scostante e provocatore con i giornalisti, confuso su sé stesso, è preda dei fantasmi del passato e della paura di impazzire, finché non realizza che la chiave del successo è diventare qualcun altro: Ziggy Stardust.

Un Bowie intimo ma nebuloso e poco coinvolgente

In questo lavoro scritto a quattro mani con Christopher Bell, Range punta i riflettori sul viaggio interiore che ha portato Bowie ad essere quello che conosciamo e svelare aspetti pressoché ignoti della sua vita. Si parla di disturbi mentali in famiglia: la schizofrenia di cui soffriva il fratello maggiore Terry e la malattia mentale che aveva colpito tre sue zie e la madre. Si evidenzia la paura di Bowie di ammalarsi anch’egli. Emerge anche una figura di artista ancora immaturo e incerto, che non sa bene cosa vuole fare della propria arte, cosa vuole essere nel panorama musicale. L’unica cosa chiara è che vuole avere successo.

Il problema di Stardust non è tanto, o non è solo che Flynn non canti le canzoni di Bowie, ma che effettivamente si racconti poco e in maniera confusa proprio ciò che dovrebbe essere il fulcro del film. Non solo Flynn canta Jaques Brel – Bowie ne fece alcune cover durante le sue apparizioni live nei primi anni ’70, tra cui My Death e Amsterdam qui presenti – e gli Yardbirds, oltre a una canzone composta dallo stesso Flynn per il film. Ma il lavoro  non fa capire molto sul percorso interiore dell’uomo Bowie. Egli ha creato il suo Ziggy Stardust “per vivere la follia in modo sicuro”, come ha dichiarato il regista? Oppure ha semplicemente esorcizzato in questo modo le proprie paure, dando spazio all’immaginazione? Vista la sua lunga e fulgida carriera, sembra difficile pensare ad un uomo con un quoziente così elevato di instabilità, né il regista sembra crederci fino in fondo, sebbene flirti a lungo con questa possibilità. Il rapporto col fratello Terry, Derek Moran, poi, non è approfondito, sebbene si intuisca fosse stretto e sia presente in diversi momenti, sia della vita reale, che nei flash visionari di David. Dal punto di vista stilistico, la parte più surreale e visionaria del film non si integra in modo ottimale col resto della narrazione, dai toni realistici.

Flynn (attore di serie tv e di film come Sils Maria di Olivier Assayas e Emma di Autumn de Wilde) lavora molto bene su pronuncia e timbro del parlato, che somigliano effettivamente a quelli di Bowie. Nel cantato, la sfida più difficile, ciò avviene meno e l’attore – che è anche musicista con la band Johnny Flynn and the Sussex Wit  –  non sempre sopperisce con l’intensità dell’interpretazione. La sua performance attoriale è altalenante.

Monocorde risulta il personaggio di Angie, moglie di Bowie, interpretata da Jena Malone, che non fa che accusare il marito di essere assente o non fare abbastanza. Manca un vero approfondimento sul loro rapporto.

Bowie e la scena glam rock, tutta “fuffa”?

Intervistato, Bowie non appare particolarmente brillante, non particolarmente efficace come provocatore, che pure vorrebbe essere. Sembra piuttosto atteggiarsi da dandy e trasgressivo, non essendo ben consapevole di ciò che fa e perché. La sua figura non ne esce benissimo, così come altri protagonisti del rock di quegli anni. Mark Bolan dei T-Rex, interpretato da James Cade, ma anche personaggi della scena americana come Lou Reed e Andy Warhol, che sarebbero stati fondamentali per Bowie, e lui per loro. Ne escono quasi come dei fantocci, dei personaggi costruiti ad arte dietro i quali c’è molta “fuffa”. Questo sorprende da parte di chi ammira Bowie e il rock di quegli anni. Sembra quasi dar ragione a chi definisce rock, e glam in particolare, come qualcosa di appariscente senza però grande sostanza.

La monotonia di Stardust

Il lavoro diretto da Range risulta quindi lento e noioso perché porta lo spettatore in giro per questo tour americano fallimentare dall’inizio, fino quasi alla fine del film. Una sequela di tappe rovinose, una uguale all’altra, cui è dedicato davvero troppo spazio. Stardust non riesce mai a coinvolgere con un momento davvero trascinante. Resta un peregrinare monotono che sembra senza meta perché il protagonista stesso non sa dove sta andando, nella vita e nella professione.

 
 

La promessa dell’assassino: trama, cast e finale del film con Viggo Mortensen

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Considerato uno dei migliori film realizzati negli ultimi anni dal regista David Cronenberg, La promessa dell’assassino, uscito al cinema nel 2007, è un intricato thriller sul traffico sessuale e il mondo criminale. La storia è frutto di un’idea originale di Steven Knight, sceneggiatore noto per aver scritto numerosi film di grande successo, tra cui Locke. Si tratta di un film in puro stile Cronenberg, con una forte presenza della violenza e del corpo come strumento. Temi che si ritrovano condensati all’interno del protagonista Nikolai. Ad interpretarlo vi è l’attore Viggo Mortensen, che ha qui dato vita ad uno dei personaggi più memorabili della sua carriera e del cinema recente.

Ambientato a Londra, La promessa dell’assassino è anche il primo film del regista ad essere girato interamente al di fuori del Canada, suo paese natale. Ha infatti segnato una vera e propria svolta nella carriera del regista, che ha grazie a questo film conosciuto una popolarità ancor più grande di quella avuta fino a quel momento. Uscito in sala, il film arrivò infatti ad incassare un totale a livello globale di circa 56 milioni di dollari. Il titolo venne poi particolarmente apprezzato anche dalla critica, che ne lodò l’atmosfera, la sceneggiatura e le interpretazioni dei protagonisti.

L’apprezzamento nei confronti del film fu dunque da subito particolarmente entusiasta, e ciò portò la pellicola ad essere una dei principali partecipanti alla stagione dei premi cinematografici. Ricevette infatti diverse nomination ai Satellite Award, agli British Independent Film Award e ai Golden Globe. Il riconoscimento più grande lo ottenne poi Mortensen, ricevendo la sua prima nomination all’Oscar come attore non protagonista. Sono molte le curiosità relative alla sua interpretazione, dalle ricerche svolte per il ruolo alle lunghe ore di trucco a cui si è sottoposto. Proseguendo nella lettura si potranno scoprire le principali tra queste, come anche diversi altri retroscena legati al film.

La promessa dell’assassino: la trama del film

La vicenda del film ha inizio nel momento in cui l’ostetrica russa Anna si ritrova a dover accudire una neonata, la cui madre quattordicenne è deceduta durante il parto. La donna non può però tenere con sé la creatura, e cerca informazioni sulla ragazza per scoprire a chi poter affidare la bambina. Le sue ricerche la conducono all’anziano Semyon, il quale gestisce un ristorante. Questi si presenta come un uomo cordiale e dal carattere mite, dichiarandosi disponibile a prendere in affidamento la neonata. Semyon, tuttavia, è in realtà un malvivente senza scrupoli, a capo di un’organizzazione criminale che gestisce un traffico sessuale. Egli condivide il potere con il figlio Kirill, il quale a sua volta è molto legato all’autista Nikolai.

Ciò che Kirll non sa, però, è che Nikolai trama alla sue spalle con l’intenzione di diventare un membro importante dell’organizzazione, prendendo il controllo di questa. Le cose non vanno però come previsto per lui, che si ritrova ad essere improvvisamente tradito e condannato morte. Grazie alla sua esperienza riesce però a salvarsi e rifugiarsi presso Anna. La donna, che intanto ha scoperto la verità sulla ragazza morta di parto e la sua relazione con Semyon, chiede all’uomo di vendicarsi. Nikolai inizia così a riacquisire le proprie forze, organizzando un colpo decisivo a coloro che tanto aveva servito salvo poi ritrovarsi gettato via. Egli giura vendetta, e la sua è una promessa da assassino.

La promessa dell'assassino cast

 

La promessa dell’assassino: il cast del film

Cronenberg, che aveva già lavorato con Mortensen in A History of Violence, volle nuovamente l’attore come protagonista nel ruolo di Nikolai. Per prepararsi alla sua parte, egli intraprese un lungo processo di studio e ricerca sul personaggio. Decise infatti di trascorre un periodo da solo in alcune zone della Russia, per imparare la lingua e gli usi delle località frequentate. Egli divenne inoltre un grande esperto della gang criminale Vory v Zakone, a cui si ispira quella del film. Grande particolare del suo personaggio, però, sono i numerosi tatuaggi sfoggiati. Questi sono in tutto 43, e richiesero più di quattro ore in sala trucco per essere applicati. Mortensen spese tale tempo approfondendo il significato che questi hanno per i criminali che li portano sul proprio corpo.

Nel film è poi presente Naomi Watts, nel ruolo dell’ostetrica Anna. Per poter risultare credibile in tali vesti, l’attrice decise di spendere diverso tempo in un ospedale, per assistere delle vere ostetriche nel loro lavoro e apprendere i segreti del mestiere. Durante le riprese la Watts scoprì anche di essere incinta, e quando ciò iniziò ad essere sempre più evidente iniziò ad utilizzare degli abiti più larghi che le permettessero di nascondere la pancia. Nel film, in ruoli di grande rilievo, sono poi presenti anche gli attori Vincent Cassel e Armin Mueller-Stahl. Il primo interpreta il giovane Kirill, mentre il secondo è suo padre Semyon. Mueller-Stahl è noto in particolare grazie al film Shine, per cui venne nominato all’Oscar.

La promessa dell’assassino: il finale, il trailer, e dove vedere il film in streaming e in TV

Nel finale del film, Nikolai ed Anna riescono a salvare la neonata dalle grinfie di Semyon e Kirill. La donna decide così di prendersi cura della bimba, divenendo sua madre adottiva. Più controverso è invece il finale riservato a Nikolai. Questi aveva infatti intrapreso una vera e propria guerra contro il gruppo Vory v Zakone. Nell’ultima scena del film si scopre tuttavia come il suo obiettivo non fosse eliminare tale organizzazione, quando prenderne il potere, arrivando al vertice della sua gerarchia. Dopo aver eliminato Semyon, infatti, è ora egli a diventare il nuovo boss, e i tatuaggi che sfoggia sul suo corpo dimostrano la devozione a tale causa. Per quanto egli abbia agito nel bene, salvando la neonata, Nikolai dimostra di non aver mai abbandonato la volontà di perseguire i propri controversi obiettivi, riuscendo infine a raggiungerli.

Per gli appassionati del film, o per chi desidera vederlo per la prima volta, sarà possibile fruirne grazie alla sua presenza nel catalogo di alcune delle principali piattaforme streaming oggi disponibili. La promessa dell’assassino è infatti presente su Chili Cinema, Apple iTunes e Amazon Prime Video. Per poter usufruire del film, sarà necessario sottoscrivere un abbonamento generale o noleggiare il singolo film. In questo modo sarà poi possibile vedere il titolo in tutta comodità e al meglio della qualità video, senza limiti di tempo. Il film è inoltre in programma in televisione per venerdì 16 ottobre alle ore 21:30 sul canale TV8.

Fonte: IMDb

 
 

Trash, recensione del film di Luca Della Grotta e Francesco Dafano #RFF15

Trash

Un messaggio socialmente edificante, ispirazione, grazie e padronanza tecnica si fondono in Trash – La leggenda della piramide magica, una nuova avventura in tecnica ibrida, in cui i protagonisti in animazione si muovono dentro scenari reali, una Roma notturna, silenziosa e bellissima, con i suoi platani e i suoi ponti.

La trama di Trash

La storia è quella di Slim e Bubbles. Sono due contenitori che hanno terminato il loro ciclo di utilizzo, dei vuoti che non servono più a nulla, sono spazzatura. Slim è una scatola logora e disincantata, Bubbles una bottiglia di bibita gassata, ammaccata ma molto romantica e sognatrice. Vivono sul pavimento di un mercato e la loro vita sembra finita fino a che non incontrano Spark, una scatoletta di batterie solari che ha, stampato sul retro della sua confezione, il simbolo del riciclo. La visione di quel simbolo ancestrale (secondo Bubbles) riporta la speranza nel cuore di questi malandati rifiuti: la piramide magica, come la chiamano loro, rappresenta la promessa di una seconda vita per tutti loro. Comincia così un viaggio avventuroso per questi simpatici rifiuti, al di fuori della loro zona di conforto, affronteranno mille difficoltà per raggiungere la piramide e aiutare il piccolo Spark. Per strada troveranno nemici, insidie, ma anche amici e una nuova consapevolezza di se stessi.

Diretto da Luca Della Grotta e Francesco Dafano, Trash – La leggenda della piramide magica riesce a portare a casa un risultato davvero notevole: è cinema educativo senza essere didattico. L’avventura alla ricerca del luogo in cui potersi riciclare ed essere nuovamente utili diventa un viaggio divertente e avventuroso, ma è anche l’occasione per guardarsi dentro e autodeterminarsi, oltre a ciò che rappresenta il loro utilizzo in senso stretto.

Character design vincente

L’aspetto visivo del film è particolarmente interessante prima di tutto nel contrasto che si crea trai fondali reali e i personaggi animati che si muovo in primo piano e, a dispetto della loro natura, sono proprio loro che animano il paesaggio, completamente privo di esseri umani. Inoltre il character design del film dimostra una grande attenzione nel costruire i personaggi sin nelle minime sfaccettature fisiche e caratteriali. Il risultato è affascinante e divertente, che riesce ad essere familiare eppure a dare la sensazione di qualcosa di mai visto prima.

Trash – la leggenda della piramide magica gioca con lo spettatore, vuole consegnare un messaggio importante che ha un valore sociale (l’importanza del riciclo) ma riesce anche ad assumere una sfumatura esistenziale in quanto racconta a chiare lettere che non solo delle cose, ma anche delle persone, bisogna imparare a prendersi cura, senza svuotarle e accantonarle troppo in fretta, in un mondo che sembra chiedercelo.

 
 

Supernova, la recensione del film con Stanley Tucci #RFF15

supernova

Invece che incastrarsi nella solita dinamica di viaggio fisico e metaforico di moglie e marito, Supernova di Harry Macqueen ha l’enorme pregio di spingersi più in là dei suoi predecessori, mettendo al centro del suo dramma delicato una coppia gay interpretata da Stanley Tucci e Colin Firth.

E non perché la sessualità dei protagonisti sia determinante, anzi, ma perché ci vorrebbero più film come questi per dimostrare che si possono e si devono cambiare i paradigmi e i punti di vista delle storie romantiche (e Supernova lo è nella migliore accezione) e che l’amore è, davvero, un sentimento universale, bello nella sua diversità e, talvolta, nella sua totale normalità.

“Normale” (e così raro da trovare) è l’amore che lega da vent’anni Sam, pianista, e Tusker, scrittore. Insieme partono a bordo di un vecchio camper percorrendo i paesaggi autunnali dell’Inghilterra: da qualche tempo, però, Sam si prende cura del compagno, a cui è stato diagnosticata la demenza senile, e inevitabilmente il viaggio assume un’importanza vitale. Sanno entrambi che il tempo a loro disposizione sarà sempre meno, che le abitudini lasceranno il posto all’imprevedibile, che l’uno dovrà farsi carico delle mancanze dell’altro; piccoli gesti assumono all’improvviso significati che prima sembravano impensabili, e ogni carezza o bacio vengono dati come se fosse la prima volta, ma attraversati dal dolore della mancanza che verrà.

Supernova, la recensione

Firth e Tucci sono superlativi nel modo in cui guidano attraverso il dolore dei personaggi e il film li accompagna con grazia senza mai scadere nel patetico. Pressoché priva di iperbole, anche la mano di Mcqueen è delicata e riesce a cogliere la dolcezza nei momenti che il cinema spesso trascura perché poco “spettacolari”.

Nemmeno la vastità accecante di un cielo pieno di stelle, quello che Sam e Tusker contemplano fuori e dentro il camper, potrebbe distoglierci dalla gioia – e dal privilegio – di guardare due persone che si amano così tanto nonostante le difficoltà, e questo è il vero valore aggiunto di un dramma non particolarmente originale ma estremamente sentito e interpretato da due grandissimi attori.

 
 

Steve McQueen incontra il pubblico e riceve il premio alla carriera #RFF15

Steve McQueen
Chris Cheung, CC BY-SA 2.0 , via Wikimedia Commons

Classe 1969 e londinese di nascita, il regista Steve McQueen è oggi una delle personalità più affascinanti del panorama cinematografico. Formatosi nel mondo della videoarte, egli ha poi debuttato nel cinema nel 2008 con il folgorante Hunger. Sin da quel suo esordio, egli ha introdotto tutti quelli che sono i suoi principali interessi come regista. Dalla forza di volontà al desiderio di resistenza e liberazione, e tutto ciò passando attraverso il corpo. Il corpo denutrito, il corpo oppresso e quello martoriato. Con i successivi Shame e 12 anni schiavo, con il quale vincerà il premio Oscar, McQueen si conferma uno dei nuovi grandi autori della sua generazione. Nel 2018, infine, dopo cinque anni di assenza, torna sul grande schermo con l’heist movie Widows, con protagonista Viola Davis.

Per celebrare quanto fin qui realizzato, a lui è stato conferito il premio alla carriera della 15ª edizione della Festa del Cinema di Roma. In occasione di tale evento, McQueen ha avuto modo di presentare il suo nuovo impegno da regista: la serie antologica Small Axe, il cui titolo si ispira ad un brano di Bob Marley, recitante “se voi siete il grande albero, noi siamo la piccola ascia”. Cinque episodi autoconclusivi incentrati sulla comunità caraibica di Londra tra gli anni Sessanta e Ottanta. Il primo episodio presentato, Red, White and Blue, che ha per protagonista l’attore John Boyega, ha confermato il grande potenziale del progetto, dimostrando ancora una volta le grandi capacità espressive del regista.

Steve McQueen: esiste solo la verità

L’incontro che McQueen tiene con il pubblico si apre naturalmente da lì dove la sua carriera da regista di lungometraggi ha avuto inizio. Con Hunger egli decide di raccontare lo sciopero della fame intrapreso dall’attivista Bobby Sands contro il trattamento riservato ai detenuti. Ad interpretare il protagonista vi è l’attore Michael Fassbender, che diventerà una presenza ricorrente nei film del regista. Particolarità dell’opera, vincitrice della Caméra d’or per la miglior opera prima alla Festival di Cannes, è quella di prevedere lunghissimi piani sequenza. Interrogato su questa scelta stilistica, McQueen dichiara che “l’importante per me è tenere alta la tensione. Quando si stacca da un’inquadratura all’altra, il pubblico tende inevitabilmente a distrarsi, a provare un momento di respiro. Invece non facendo questa scelta, ma dando vita ad un’unica lunga inquadratura, il pubblico rimane inchiodato lì, presente.”.

“Ho deciso di raccontare questa storia – continua il regista – perché riconobbi nel gesto di Sands un grande valore. Ciò che lui ha dimostrato è che tutti noi disponiamo delle possibilità per opporre resistenza in nome della libertà. Ad aprirmi gli occhi a riguardo è stato anche il film Zero in condotta, del regista Jean Vigo. Lo considero il mio film preferito in assoluto, ed è quello che mi ha fatto riflettere sulle cose per cui è importante combattere. Con i miei film cerco proprio di fare questo, di dare ulteriore risalto a queste capacità. La cosa più preziosa che ho imparato facendo cinema, infatti, è che non esiste giusto o sbagliato, esiste solo la verità. Vale la pena correre dei rischi in nome di questo valore.”

L’incontro prosegue poi parlando dei due successivi film di Steve McQueen. Il regista, in seguito alla visione di alcune clip tratte da questi, li introduce dimostrandone la coerenza all’interno del suo percorso cinematografico. “Come per Hungers, anche con Shame e 12 anni schiavo ho cercato il modo migliore per far emergere la verità. Nel primo, i personaggi sono spesso inquadrati di spalle. Impossibilitato a vedere i loro volti, lo spettatore sarà costretto a concentrarsi sulle loro parole, da cui emerge la loro essenza. Per 12 anni schiavo, invece, non mi sono risparmiato nel mostrare le crudeltà che realmente gli schiavi subivano. Trovo che il problema del razzismo possa essere sconfitto solo con il progresso. Sono un fervente sostenitore del progresso. Nessuno vorrebbe trovarsi dalla parte sbagliata della storia.

Dalla videoarte al cinema

Prima di intraprendere la carriera di regista cinematografico, Steve McQueen si è formato come artista, divenendo noto come fotografo e scultore. Grande appassionato di arti figurative, il passaggio dietro la macchina da presa è inevitabile e avviene ben presto. Egli realizza così numerosi cortometraggi, come Bear, Exodus, e Giardini, poi raccolti e presentati alla Biennale di Arti Visive di Venezia. Tale formazione artistica si ritrova anche in tutti i suoi lungometraggi, i quali vantano una grande cura nella composizione della messa in scena. Prima di concludere l’incontro, a McQueen viene a tal proposito chiesto quanto il suo lavoro da artista influenzi quello da regista, e viceversa. “Per quanto per me non vi siano grandi differenze, – risponde il regista – sono consapevole che si tratta di due ambiti molto diversi tra loro.”

“Il cinema è un arte narrativa, – continua poi – per me è molto simile al romanzo da questo punto di vista. L’arte figurativa o la videoarte, invece, sono oggetti molto più simili a dei frammenti. Rimanendo su un paragone letterario, li considero come fossero dei componimenti poetici. Sono due forme comunicative molto diverse, ma alla fine ciò che conta è che siano d’impatto. L’arte, per me, deve essere in grado di suscitare emozioni e riflessioni a prescindere dalla sua forma. A trasmettermi questa concezione è stato anche quello che ritengo il mio film italiano preferito: Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti. Mi ha permesso di comprendere davvero la passione che un film può emanare.” Conclusosi l’incontro, McQueen riceve infine il premio alla carriera, la quale promette però di essere ancora lunga e ricca di successi.

 
 

Benim Hala Umudum Var, serie tv: cast, trama e streaming

Benim Hala Umudum Var

Negli ultimi anni i prodotti televisivi turchi stanno avendo un successo incredibile in Italia. Grazie a serie tv come Daydreamer – Le Ali del Sogno – con gli amatissimi Can Yaman e Demet Özdemi – che ha fatto da apripista, oggi abbiamo accesso a tantissimi contenuti provenienti dalla tv turca. Una delle serie tv più amate in Turchia e che presto potrebbe arrivare anche in Italia è Benim Hala Umudum Var.

La serie, il cui titolo inglese è I Still Have A Hope, è un romance drama, ideato da Deniz Akçay per la Star TV, andato in onda tra il 2013 e il 2014 per una sola stagione di 33 episodi. La storia è ambientata in un quartiere medio borghese di Istanbul e segue le vicende di una ragazza alle prese con un nuovo amore e un nuovo ed esaltante futuro.

Benim Hala Umudum Var cast e trama

Protagonista della serie è Umut (Gizem Karaca) una giovane ragazza di appena ventitrè anni che lavora come manicurista presso un famoso salone di bellezza, specializzato nella cura dei capelli. Umut vive con sua madre Zeliha (Nergis Corakci), il suo patrigno Zafer (Ali Erkazan), due sorellastre e due fratellastri. Nonostante il suo carattere solare, Umut viene trattata dalla famiglia come la Cenerentola di casa.

Le sue sorellastre, gelosissime di lei, non contribuiscono minimamente alla gestione della casa che ricade completamente sulle spalle di Umut. E’ lei l’unica ad aiutare sua madre e a pensare a rassettare e a far da mangiare. Ma le sorellastre non sono le sole a renderle la vita un inferno. Il suo patrigno e uno dei suoi fratellastri, Musa (Burak Altay), continuano a metterle i bastoni tra le ruote. Zafer è un uomo violento e alcolizzato che sperpera il suo denaro e anche quello di Umut per comprarsi da bere. Allo stesso tempo, Musa, estremamente conservatore, non vuole che le sue sorelle frequentino ragazzi e abbiano un fidanzato.

La vita di Umut è un vero inferno ma la ragazza cerca sempre di avere un atteggiamento positivo e di andare avanti un giorno alla volta. Ma finalmente un giorno qualcosa comincia a cambiare. Umut incontra per caso un ragazzo, Ozan (Sukru Ozyildiz), che comincia a lavorare come parrucchiere nel suo stesso salone di bellezza. Ozan è o giovane, molto attraente e amante delle belle donne ma nasconte un grande segreto.

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Ozan è infatti molto ricco ma finge di essere al verde per far colpo di Umut, che più volte ha detto di avere dei pregiudizi nei confronti della persone benestanti. Così il ragazzo, per poterle stare vicino e conoscerla meglio, si finge povere e ottiene un lavoro come parrucchiere.

Il tempo passa e i ragazzi, ‘costretti’ a passare tanto tempo insieme al lavoro, si innamorano l’uno dell’altra. A causa però della famiglia di Umut, così arretrata e conservatrice, e del segreto di Ozan, i due decidono di mantenere privata la loro relazione.

I ragazzi non potrebbero essere più diversi di così. La famiglia di Ozan è abituata a vivere una vita lussuosa, fatta di agi e feste danzanti mentre quella di Umut fatica a tirare avanti a causa anche dell’alcolismo di Zafer. Eppure nonostante tutto il rapporto creatosi tra i ragazzi sembra autentico e sincero. Per questo motivo Ozan, perdutamente innamorato Umut, cerca in tutti i modi di rivelarle il suo segreto, senza però riuscirci.

Più passa il tempo e più il loro amore si fortifica, nonostante quell’ingombrante segreto. Ozan cerca in più di un’occasione di salvare Umut dalla sua famiglia, per rendere migliore e più felice la vita della donna che ama. Ma le differenze sociali e culturali sono incolmabili e finiranno col causare molti problemi alla coppia di giovani innamorati.

Benim Hala Umudum Var streaming: dove vederla

La serie esplora non solo il lato romantico della storia tra Umut e Ozan ma anche il problema del divario sociale che metterà a dura prova il loro rapporto. Quanto andrà avanti la commedia di Ozan? Quando Umut scoprirà delle bugie di Ozan, sarà in grado di perdonarlo? Le differenze tra le loro famiglie faranno naufragare il loro amore?

Troverete questo e molto di più ancora in Benin Hala Umudum Var (in inglese I Still Have Hope), una delle più famose e amate serie turche che potrebbe presto arrivare anche in Italia. Al momento la serie è disponibile in streaming solo in lingua originale sul sito della Star Tv oppure sottotitolata in inglese su The Global Agency.

https://youtu.be/2A0NJZCQg6U

Fonte: Wiki, IMDB, Turkish Drama

 
 

Small Axe: Red, white and blue, la recensione #RFF15

Small Axe - Red, white and blue

Small Axe è la destinazione perfetta di un grande autore contemporaneo che vuole trovare un punto di vista interessante, e non sempre originale e perfetto, sull’esperienza dei neri nella società e sulla creazione di una coscienza che lotta da sempre contro la supremazia bianca. In più, si tratta di una serie, il cui formato permette di non esaurire il discorso nella cornice limitata di un film e di esplorare lo stesso tema da angolazioni differenti.

Steve McQueen risponde di nuovo ad un’esigenza civile che l’aveva portato nel 2013, con 12 anni schiavo, dalle parti della storia americana, e che finalmente ci mette in contatto con le meno note e patinate vicissitudini della comunità afro-britannica tra gli anni sessanta e gli anni ottanta.

Small Axe, una serie antologica

L’immagine di una nazione multiculturale e inclusiva perpetuata nel tempo è presto contraddetta e McQueen non è il primo a parlarne: in The Lonely Londoners, lo scrittore originario di Trinidad ma cresciuto in Scozia Samuel Selvon aveva illustrato con grande precisione il fenomeno del flusso migratorio dai Caraibi in Inghilterra, a cui seguì la crisi della seconda guerra mondiale e la crescente richiesta di forza lavoro per ricostruire il paese. Richiesta a cui risposero le migliaia di anime venute dal mare, povere e bisognose di una casa e di adattarsi al meglio. Va da sé che l’apparente convivenza era destinata a non durare e Small Axe è la rappresentazione di questa grande, pacifica illusione.

La trama di Red, white and blue

Nell’episodio intitolato Red White and Blue e ambientato nei primi anni Ottanta, John Boyega interpreta Leroy Logan, un ricercatore nero che, contro ogni previsione e preghiera del padre, decide di arruolarsi nella polizia. Un’idea semplice che McQueen trascende e trasforma in un’ elaborazione – coerente con il suo percorso da Shame a Widows – dello sguardo e del potere che esercita sulle persone. Di fatto questo estratto della serie sembra puntare proprio sull’importanza e la necessità di “essere visti” e sulla duplicità che emerge quando si parla di categorie soffocate dal razzismo (essere giudicati in maniera positiva e senza etichette di razza ed essere emarginati sul luogo di lavoro, o, nella peggiore delle ipotesi, maltrattati).

A sua volta c’è un gioco interno di sguardi che rimbalzano, da Leroy che viene visto dal padre come un traditore e una delusione (ha studiato per diventare ricercatore, finisce per schierarsi con il nemico giurato degli immigrati) agli abitanti del suo quartiere che lo chiamano “coconut” (un termine dispregiativo dello slang per chi fuori è nero ma dentro ha l’anima di un bianco), fino ad arrivare ai colleghi poliziotti che lo trattano come una feccia umana che non merita nemmeno di essere soccorsa quando chiede aiuto. Infine, non meno fondamentale, c’è lo sguardo che Leroy pone su se stesso e che assume la forma di un sogno: diventare il ponte che educherà le presenti e future generazioni al dialogo e alla convivenza civile.

Osservati e osservatori alla ricerca di colpevoli e risposte

Ma come ci liberiamo dalla tenaglia di questo sguardo? Dal giudizio della famiglia, dell’accusa della società, della severa opinione verso di noi e il mondo? E quali sono gli agenti che lo creano e lo influenzano? Sono domande a cui McQueen, e l’episodio, provano a rispondere. Gli specchi, elemento di scena ricorrente, forse simboleggiano proprio questo continuo riflettersi tra sguardi, tra osservati e osservatori, dove l’uno assume il ruolo dell’altro. Un esempio è la modalità che il regista sceglie per mostrare lo stesso momento da due punti di vista differenti: gli agenti di polizia che aggrediscono il padre di Leroy e Leroy che viene picchiato da un criminale.

A cambiare è come i personaggi esercitano il loro potere, un grande assunto che stabilisce da sempre la gerarchia sociale e razziale. I poliziotti che abusano di un uomo innocente contro un uomo che fa valere il senso di giustizia; la mancanza di empatia contro un eccesso di comprensione dell’altro; “vedere” una persona, e non qualcosa di intrinsecamente e irragionevolmente sbagliato. Leroy è un’eccezione, ed è pronto a guardare perché ha allenato la sua coscienza e la sua conoscenza del mondo.

 
 

The Rossellinis: recensione del documentario di Alessandro Rossellini

The Rossellinis film

C’è chi considera Roberto Rossellini il più grande regista italiano (e non solo) mai esistito, e c’è invece chi di tale figura ha ben altra considerazione. Dipende quale punto di vista si adotta a riguardo, ma se a parlare è Alessandro Rossellini, nipote dell’autore di Roma città aperta, allora questo non potrà che essere condizionato dall’esistenza vissuta con tale importante cognome sulle spalle. Nel debuttare alla regia del suo primo film, The Rossellinis, questi si propone infatti di raccontare la propria versione della storia della sua famiglia. Un occhio interno che non fa mai male, e in questo caso particolarmente inedito rispetto a quanto già si conosce della famiglia del regista. Presentato durante la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il film sarà al cinema soltanto dal 26 al 28 ottobre.

La volontà di realizzare un documentario a riguardo nasce dalla presa di coscienza di Alessandro circa la Rossellinite. Questo è il nome da lui dato ad una particolarissima malattia, esclusiva della sua famiglia. Che lo si ammetta o pure no, tutti i discendenti del celebre regista neorealista sembrano esserne affetti. Per Alessandro, che si assume il compito di far riconoscere anche ai suoi parenti tale patologia, essa sarebbe caratterizzata dalla difficoltà di gestire un nome tanto importante. Tale responsabilità porterebbe dunque a reazioni e comportamenti che tentano di alleviarne il peso, con risultati talvolta imprevedibili. Si tratta ovviamente di un grande gioco, che non manca però di avere il suo fondo di verità. Attraverso il viaggio di Alessandro Rossellini si ripercorrerà così tanto la filmografia del celebre regista quanto la storia della sua numerosa famiglia.

Le colpe dei padri

Marito, amante, padre, nonno. Roberto Rossellini oltre a quello di regista ha ricoperto nella sua vita anche tali ruoli famigliari. Se con successo o meno dipende a quale dei suoi congiunti lo si chiede. Per Alessandro, il nipote, la figura del nonno è evidentemente stata piuttosto ingombrante nella propria personale formazione e autorealizzazione. Nonostante la sua scomparsa avvenuta nel 1977, questi ha continuato ad essere una figura centrale nella vita del regista di questo documentario, che decide ora di fare i conti con il suo passato e con quello della sua famiglia. Impresa più facile a dirsi che a farsi, ovviamente. L’autore neorealista ha infatti avuto ben tre mogli, nonché diversi figli. Riunirli per l’occasione richiede diversi spostamenti, alcuni in luoghi particolarmente remoti.

Dall’Italia alla Svezia e fino agli Stati uniti, nel tentativo di scoprire come ognuno dei figli di Roberto abbia gestito un cognome tanto invadente. Tale viaggio porta Alessandro alla scoperta di realtà diverse, tra chi come la zia Isabella Rossellini ha saputo far fruttare la cosa, a chi invece, come lo zio Robin, ha scelto una vita da eremita su di un’isola. In percorsi di vita tanto diversi si ritrova però un elemento comune, e che sembra infondo aver influenzato il modo di vivere e pensare di ognuno dei Rossellini. Si tratta del ricordo di Roberto come di un possessivo, ma benevolo, padre o nonno. Vero e proprio collante tra famiglie che esercitava, ed esercita tutt’ora, tale insostituibile ruolo.

Pur non essendo più fisicamente presente tra loro, la sua figura è comunque motivo di riunione e riscoperta. In fondo, pur partendo da motivi personali, è in nome del nonno che Alessandro intraprende il suo viaggio, e sempre nel suo nome si svolgono le conversazioni tra i vari parenti. The Rossellinis acquista così la forma di un vero e proprio album di famiglia, dove si collezionano ricordi e immagini di un passato che ha ancora molto da dire. Quelle che potevano essere le classiche colpe di un padre che ricadono sui figli diventano invece motivo di riflessione e di riaffermazione delle proprie individualità.

The Rossellinis recensione

The Rossellinis: la recensione del documentario

Quello che poteva facilmente diventare un non necessario focus sulla famiglia Rossellini acquista ben più interesse di quanto si poteva immaginare. Nel seguire il regista nel corso dei suoi viaggi e delle sue reunion famigliari, lo spettatore ne esce arricchito con affascinanti retroscena, curiosità ed episodi spesso inediti. L’elemento che più sorprende, tuttavia, è la grande ironia che Alessandro infonde nel documentario. Nell’affrontare il suo primo esperimento cinematografico, egli sembra essere consapevole dei propri limiti, e sceglie da subito di non prendersi sul serio. Ciò gli permette di non acquisire un’autorità che avrebbe rischiato di allontanare lo spettatore, assumendo invece un ruolo con cui è più facile relazionarsi.

Egli, pur parlando sempre e comunque dei Rossellini e di Roberto, riesce allo stesso tempo a far acquisire alla propria famiglia quell’universalità con la quale è possibile generare un legame. In fin dei conti, ciò che ci viene mostrato, pur con le caratteristiche uniche, non è altro che il bisogno di una famiglia di ritrovarsi. Attraverso questo sentimento è possibile costruire un racconto coinvolgente ed emozionante, che permette di riflettere tanto sui Rossellini quanto sul proprio privato.

 
 

Le streghe di Robert Zemeckis in esclusiva digitale dal 28 ottobre

Le Streghe

Preparatevi a festeggiare la notte di Halloween con “Le streghe“, il film fantasy diretto dal regista premio Oscar Robert Zemeckis (“Forrest Gump”, “Ritorno al futuro”) e tratto dall’amato racconto di Roald Dahl, in arrivo in Italia in esclusiva digitale da lunedì 28 ottobre, disponibile per l’acquisto e il noleggio premium su Amazon Prime Video, Apple Tv, Youtube, Google Play, TIMVISION, Chili, Rakuten TV, PlayStation Store, Microsoft Film & TV e per il noleggio premium su Sky Primafila e Infinity.

Le Streghe”, che vede tra i produttori anche Guillermo del Toro e Alfonso Cuaron, sarà inoltre presentato in anteprima domenica 25 ottobre, nella giornata di chiusura della 18° edizione di “Alice nella Città”, con una speciale proiezione alla Sala Alice TIMVISION La Nuvola all’EUR (Viale Asia).

Il film è interpretato dalle attrici premi Oscar Anne Hathaway (“Les Misérables”, “Il Diavolo veste Prada”, “Ocean’s 8”) e Octavia Spencer (“The Help”, “La forma dell’acqua – The Shape of Water”), dal candidato all’Oscar Stanley Tucci (i film di “Hunger Games”, “Amabili resti”), con Kristin Chenoweth (le serie TV “Glee” e “BoJack Horseman”) e il pluripremiato comico leggendario Chris Rock. Fa parte del cast anche l’esordiente Jahzir Kadeem Bruno (“Atlanta” in TV), al fianco di Codie-Lei Eastick (“Holmes & Watson”).

Rivisitando l’amato racconto di Roald Dahl per un pubblico moderno, la visione innovativa de “Le streghe” di Zemeckis, narra la storia commovente e ricca di humor nero di un giovane orfano (Bruno) che, alla fine del 1967, va a vivere con la sua adorata nonna (Spencer) a Demopolis, una cittadina rurale dell’Alabama. Il ragazzo e sua nonna si imbattono in alcune streghe apparentemente glamour ma completamente diaboliche, così la nonna saggiamente decide di portare il nostro giovane eroe in una sfarzosa località balneare. Purtroppo arrivano esattamente nello stesso momento in cui la Strega Suprema (Hathaway) ha riunito la sua congrega di fattucchiere di tutto il mondo -sotto copertura- per portare a termine i suoi piani malefici.

Con un libro venduto ogni 2,5 secondi per un totale di oltre 300 milioni di copie vendute, tradotto in 41 diverse lingue nel mondo, il racconto di Roald Dahl rimane uno dei testi di riferimento per i ragazzi di tutte le generazioni.

La sceneggiatura, basata sul libro di Roald Dahl, è di Robert Zemeckis e Kenya Barris (la serie TV “black-ish“, “Shaft”) e il premio Oscar Guillermo del Toro (“La forma dell’acqua – The Shape of Water”). Il film è prodotto dallo stesso Zemeckis, al fianco di Jack Rapke, del Toro, Alfonso Cuaron e Luke Kelly; mentre la produzione esecutiva è di Jacqueline Levine, Marianne Jenkins, Michael Siegel, Gideon Simeloff e Cate Adams.

La squadra creativa di Zemeckis che ha lavorato dietro le quinte, include un elenco di suoi frequenti collaboratori, tra cui il direttore della fotografia nominato all’Oscar Don Burgess (“Forrest Gump”), lo scenografo Gary Freeman, i montatori Jeremiah O’Driscoll e Ryan Chan, la costumista candidata all’Oscar Joanna Johnston (“Allied: Un’ombra nascosta”, “Lincoln”) e il compositore nominato all’Oscar Alan Silvestri (“Polar Express”, “Forrest Gump”).

Warner Bros. Pictures presenta, una produzione Image Movers / Necropia / Experanto Filmoj, un film di Robert Zemeckis, “Le streghe”.

 
 

Diabolik: il teaser trailer dei film con Luca Marinelli

01 Distribution ha diffuso il primo teaser trailer di Diabolik, l’adattamento cinematografico del personaggio creato dalle sorelle Giussani e portato su grande schermo dai Manetti Bros. Nel breve video vediamo Luca Marinelli, Miriam Leone e Valerio Mastandrea nei panni, rispettivamente, di Diabolik, Eva Kant e Ginko.

Il film, adattamento cinematografico delle avventure del personaggio creato da Angela e Luciana Giussani, è diretto dai Manetti bros., scritto da Michelangelo La Neve e Manetti bros., che hanno firmato anche il soggetto insieme a Mario Gomboli.

DIABOLIK è una produzione Mompracem con Rai Cinema, prodotto da Carlo Macchitella e Manetti bros., in associazione con Astorina, con il sostegno di Emilia – Romagna Film CommissionFriuli Venezia Giulia Film CommissionFilm Commission Vallee D’Aoste.

Il film uscirà nelle sale italiane il 31 dicembre 2020 distribuito da 01 Distribution.

 
 

The Jump, recensione del film di Giedrė Žickytė #RFF15

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Fa parte della Selezione Ufficiale della Festa del Cinema di Roma The Jump, il film lituano della regista Giedre Zickyte, documentarista nota in patria – e produttrice del film con la sua Moonmakers, assieme a  VFS Films e Faites Un Voeu, in associazione con Naked Edge Films – le cui opere sono state scelte per diversi festival internazionali. Tanto è vero che The Jump arriva a Roma dopo essere stato presentato in prima mondiale al Warsaw International Film Festival.

Quella che la regista sceglie di raccontare è una storia di disperata ricerca di libertà da parte di un uomo vissuto sotto il regime sovietico. Regime che lei stessa ha conosciuto da bambina, essendo la Lituania tornata indipendente quando aveva 10 anni, nel 1990. E’ quella voglia di libertà e quell’America sognata come un paradiso, ma troppo difficile da raggiungere che si vuole raccontare.

La trama di The Jump, diserzione, detenzione e infine di libertà

E’ il 23 novembre del 1970 quando una motovedetta della Guardia Costiera americana e una nave sovietica si incontrano a largo della costa orientale degli Stati Uniti per discutere di diritti di pesca nell’Atlantico. I comandanti sovietici salgono a bordo della nave Usa ed è lì che il marinaio lituano Simas Kudirca decide di tentare il tutto per tutto e fare lo stesso. Le due navi sono vicinissime e lui con un balzo è sulla nave americana, dove chiede asilo politico. In un primo momento gli americani danno rifugio a Simas, ma poi sono costretti da ordini superiori a restituirlo ai sovietici. Sarà processato per tradimento e condannato a 10 anni, spedito poi sugli Urali nei campi di lavoro. Nel frattempo in Usa si moltiplicano le proteste di piazza e i movimenti che chiedono la liberazione di Simas. Quando ormai sembra non ci sia più nulla da fare, un fatto nuovo promette di spalancare al marinaio le porte della tanto sognata libertà e quelle degli Stati Uniti.

Il racconto di protagonista e testimoni

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E’ lo stesso Simas, oggi novantenne, ad accompagnare lo spettatore lungo tutta la sua storia, sono la passione e il trasporto nei suoi occhi azzurri lucidi e sgranati, l’autentica commozione, ma  al tempo stesso la grande forza che promana da quest’uomo a coinvolgere lo spettatore. Inoltre, la regista fa una scelta vincente: servirsi dell’energia di Simas e della sua voglia di rendere il pubblico partecipe, mettere in atto una vera e propria ricostruzione degli eventi nelle loro fasi salienti, tornando con l’anziano marinaio sui luoghi della vicenda. Le concitate fasi della tentata fuga sulla nave americana Vigilant hanno il ritmo avvincente di un film d’azione e la suspense di un thriller, con l’anziano trascinato quasi da un furor mentre le racconta e le rivive. I corridoi della prigione  di Vilnius, dove fu rinchiuso, e la cella 13, che Simas definisce “la sua casa”, mentre ricorda la durezza della prigionia. Poi il campo di lavoro, il gelo e le privazioni. Ma non c’è solo la sua voce. Vi sono anche il comandante della nave Usa, Ralph W. Eutis, sospeso dopo l’inchiesta che venne aperta sull’accaduto, e altri membri dell’equipaggio come Paul E. Pakos. Vi sono le voci delle attiviste che si spesero tantissimo per creare un movimento per la liberazione di Simas, Daiva Kezis e Grazina Peagle, fino alle testimonianze di politici del calibro di Henry Kissinger.

La seconda parte del documentario, che ripercorre il soggiorno statunitense di Simas e della sua famiglia, durato fino al 2007, quando l’anziano ha fatto ritorno in Lituania dove oggi vive, è meno avvincente, come prevedibile. Manca la tensione della prima parte e la narrazione è più lenta. Colpiscono però alcune dichiarazioni rilasciate da Simas alle tv Usa, dove era invitato come una celebrità, trattato da eroe. Egli, conscio di cosa significassero povertà e privazioni, invitava gli americani a riflettere sul proprio benessere, a non sprecare e non dare nulla per scontato.

I materiali inediti e i filmati d’epoca

La ricostruzione è interessante non solo per la passione trascinante che il protagonista mette nel racconto, ma anche per la modalità in cui questo si dipana, alternando i ricordi dei testimoni a materiale di repertorio eterogeneo e spesso inedito, abilmente montato. Dalle  foto ai documenti d’epoca, ai filmati delle manifestazioni, a quelli dei discorsi di un imbarazzato Nixon che non sa come giustificare il comportamento della democratica America, patria della libertà, che in piena Guerra Fredda restituisce un richiedente asilo all’Urss. Fino a un vero e proprio film di finzione, The Defection of Simas Kudirca,  che raccontò la vicenda negli anni Settanta, protagonista Alan Arkin. Moltissimo materiale, ben assemblato nel montaggio efficace di Thomas Ernst e Danielius Kokanauskis, che spinge a una riflessione sui diritti umani e civili in Russia, in America e ad ogni latitudine, indagando però soprattutto il rapporto degli Usa con questi temi.

The Jump è il racconto di un sogno di libertà infine realizzato. Un racconto coinvolgente da un testimone prezioso, diretto da una talentuosa regista, i cui lavori sono da riscoprire e che farà ancora parlare di sé.

 
 

The Batman: nuovi video in sella alle moto direttamente dal set

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Sono ripartite a pieno regime le riprese di The Batman, e dopo le belle foto, ecco due video dal set in cui l’Uomo Pipistrello è alle prese con un inseguimento, ai danni di Selina Kyle. Riuscirà ad acciuffarla?

Il cast di The Batman è formato da molti volti noti: insieme a Robert Pattinson nei panni di Bruce Wayne, ci saranno anche Colin Farrell (Oswald Chesterfield/Pinguino), Zoe Kravitz (Catwoman), Jeffrey Wright (Jim Gordon), Paul Dano (Enigmista) e Andy Serkis (Alfred). Infine, John Turturro sarà il boss Carmine Falcone. Nel cast anche Peter Sarsgaard che sarà Gil Colson, il Procuratore Distrettuale di Gotham.

The Batman esplorerà un caso di detective“, scrivono le fonti. “Quando alcune persone iniziano a morire in modi strani, Batman dovrà scendere nelle profondità di Gotham per trovare indizi e risolvere il mistero di una cospirazione connessa alla storia e ai criminali di Gotham City. Nel film, tutta la Batman Rogues Gallery sarà disponibile e attiva, molto simile a quella originale fumetti e dei film animati. Il film presenterà più villain, poiché sono tutti sospettati“.

 
 

Spider-Man 3 – Holland, Maguire, Garfiled, la SONY seda gli entusiasmi

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La Sony Pictures ha smentito e così sedato le voci che volevano Tobey Maguire e Andrew Garfield vicini alla firma per partecipare a Spider-Man 3. La voce circola da un po’ di tempo con i fan che comprensibilmente si stanno emozionando e agitando, perché sarebbe davvero l’inizio di uno Spiderverse anche al cinema! SONY fa ora chiarezza.

Maguire ha interpretato il supereroe in tutti e tre i film di Sam Raimi – Spider-Man, Spider-Man 2 e Spider-Man 3 – mentre Garfield ha assunto il ruolo per il reboot di Sony in The Amazing Spider-Man del 2012. Ma visto che il secondo film non è andato come previsto, la SONY ha bloccato il progetto ed ha poi stretto un accordo con Marvel Studios e assunto Tom Holland, Spider-Man attualmente in carica.

Questa settimana sono circolate online voci secondo cui Maguire e Garfield erano in trattativa o addirittura avevano già firmato per interpretare i rispettivi personaggi di Peter Parker in Spider-Man 3. Tuttavia, in una dichiarazione a ET Canada, un rappresentante di Sony Pictures ha detto: “Quei casting di voci non sono confermati”. Gli studi non sempre commentano le voci sul casting, ma in questo caso Sony ha smentito le voci attualmente in circolazione su Maguire e Garfield.

Questo non esclude un futuro coinvolgimento dei “vecchi” Uomo Ragno nel film, tuttavia, al momento, si tratta solo di voci alimentate dall’entusiasmo.

Cosa sappiamo di Spider-Man 3?

Di Spider-Man 3 – che arriverà al cinema il 17 Dicembre 2021 – si sa ancora molto poco, sebbene la teoria più accredita è quella secondo cui il simpatico arrampicamuri sarà costretto alla fuga dopo essere stato incastrato per l’omicidio di Mysterio (e con il personaggio di Kraven il Cacciatore che sarebbe sulle sue tracce). Naturalmente, soltanto il tempo sarà in grado di fornirci maggiori dettagli sulla trama, ma a quanto pare il terzo film dovrebbe catapultare il nostro Spidey in un’avventura molto diversa dalle precedenti…

Tom Holland si è unito al MCU nei panni di Peter Parker nel 2016: da allora, è diventato un supereroe chiave all’interno del franchise. Non solo è apparso in ben tre film dedicati ai Vendicatori della Marvel, ma anche in due standalone: Spider-Man: Homecoming e Spider-Man: Far From Home. La scorsa estate, un nuovo accordo siglato tra Marvel e Sony ha permesso al personaggio dell’Uomo Ragno di restare nel MCU per ancora un altro film a lui dedicato – l’annunciato Spider-Man 3 – e per un altro film in cui lo ritroveremo al fianco degli altri eroi del MCU.

 
 

Disney+ aggiunge un avviso in testa ai film con contenuti razzisti

Disney+

Disney+ ha aggiunto degli avvisi in testa ai film del suo catalogo con contenuti razzisti. Il 2020 ha visto un’enorme resa dei conti culturale per quanto riguarda il trattamento delle persone di colore, sia nell’industria dell’intrattenimento che al di fuori di essa.

Mentre nella produzione hollywoodiana si chiede più inclusione nelle strutture produttive dei film e delle serie tv, alcune aziende hanno affrontato l’argomento che per troppo tempo è stato messo da parte nella storia. Ad esempio, gli episodi televisivi passati che coinvolgono Blackface sono stati rimossi da vari servizi di streaming e film di un certo calibro, quali ad esempio Via Col Vento, sono stati etichettati come film che contengono contenuti sensibili.

Dal suo lancio ad oggi, Disney+ ha compiuto i suoi piccoli passi per combattere gli esempi passati di stereotipi razziali. La piattaforma ha incluso dichiarazioni di non responsabilità nelle descrizioni di vari film che avvertivano il pubblico che “potrebbero contenere rappresentazioni culturali obsolete”. A quel tempo, alcuni apprezzarono il gesto, mentre altri notarono che così facendo si mancava di sottolineare il problema più grande, definendo queste raffigurazioni “obsolete” invece che razziste. Ora, Disney+ sta ufficialmente portando avanti la politica di questi avvisi con un ulteriore passo avanti.

La Disney ha creato una nuova campagna chiamata “Stories Matter“, che mira a mettere sotto i riflettori più voci diverse mentre rivede i casi del passato in cui la società non ha lavorato bene in fatto di inclusione. In primo luogo, questa iniziativa viene portata avanti attraverso nuovi avvisi per Disney+. Invece di lasciare un disclaimer all’interno della descrizione, gli avvisi vengono ora riprodotti prima del film stesso e non sono ignorabili. Il messaggio recita:

Questo programma include rappresentazioni negative e / o maltrattamenti di persone o culture. Questi stereotipi erano sbagliati allora e sono sbagliati adesso. Piuttosto che rimuovere questo contenuto, vogliamo riconoscere il suo impatto dannoso, imparare da esso e stimolare la conversazione per creare un futuro più inclusivo insieme.

Disney si impegna a creare storie con temi ispiratori e ambiziosi che riflettano la ricca diversità dell’esperienza umana in tutto il mondo.

Per saperne di più sull’impatto delle storie sulla società, visita il sito www.disney.com/StoriesMatter

 
 

Denis Villeneuve aveva dimenticato di aver scartato Timothée Chalamet in Prisoners

dune denis villeneuve

Il regista Denis Villeneuve aveva completamente dimenticato di aver incontrato Timothée Chalamet prima di Dune, poiché ha scartato il giovane attore, quando si propose per Prisoners, suo bellissimo film del 2013.

Villeneuve è l’ultimo regista in ordine di tempo ad affrontare l’epopea tentacolare di Frank Herbert, e questa volta i fan si sentono un po’ più ottimisti sulle sue possibilità di successo del film. Dune vedrà Chalamet nei panni di Paul Atreides, figlio fedele del leader del pianeta Arrakis. Prima della pandemia di coronavirus, Dune era uno dei film più attesi del 2020, ma recentemente è stato posticipato a ottobre 2021.

Il regista canadese ha dato modo ai fan di essere uno in cui poter riporre la propria fiducia, dati i buoni risultati dei suoi lavori precedenti, ad esempio Arrival e Blade Runner 2049, ma anche oltre il genere sci-fi, come hanno dimostrato Sicario e Prisoners, appunto. Quest’ultimo ha visto Hugh Jackman nei panni di un uomo le cui due figlie scompaiono e Jake Gyllenhaal nei panni del detective che le cerca.

Villeneuve ha scelto Chalamet come suo protagonista in Dune, ma si è scoperto che non era la prima volta che i due si incrociavano. In un nuovo profilo GQ su Chalamet, Villeneuve ha ricordato come aveva detto a Chalamet che era entusiasta di incontrarlo mentre parlava di Dune. Tuttavia, Chalamet ha dovuto ricordargli gentilmente che si erano incontrati prima, quando il giovane attore aveva fatto un provino per Prisoners. “‘Certamente!'”, Ricorda Villeneuve. Quando si è trattato del tentativo di Chalamet di unirsi a Prisoners, Villeneuve ha detto: “Ha fatto una grande audizione, ma non si è adattato fisicamente alla parte. Probabilmente mi avrà insultato perché non l’ho scelto!”.

In DuneTimothée Chalamet interpreterà il protagonista Paul Atreides, nato sul pianeta Caladan dal matrimonio fra il duca Leto Atreides I e la sua concubina Lady Jessica. Nel cast anche Javier BardemZendayaOscar IsaacRebecca FergusonStellan SkarsgardDave Bautista, Charlotte Rampling Jason Momoa. Ricordiamo che il film arriverà nelle sale americane il 18 Dicembre 2020.

 
 

Anya Taylor-Joy: la sua Furiosa sarà molto diversa da quella di Charlize Theron

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Dopo l’annuncio ufficiale, Anya Taylor-Joy ha commentato il suo casting nei panni della giovane Furiosa, spiegando che la sua interpretazione del personaggio nel prequel di Mad Max sarà diversa dalla rappresentazione originale di Charlize Theron in Fury Road.

Il regista australiano George Miller ha lanciato il franchise di Mad Max in forma di trilogia nel 1979, con Mel Gibson nei panni di “Mad” Max Rockatansky, un violento agente di polizia che cerca di abbattere una banda di motociclisti e proteggere la sua famiglia nella distopica Australia. I temi post-apocalittici di quei primi film e le immagini delle terre desolate sono radicati nella cultura popolare, mentre Miller ha sdoganato il paesaggio australiano in tutto il mondo, con quei film.

Il franchise ha visto uscire un altro capitolo nel 2015, e non si è trattato di un film qualsiasi, ma del travolgente e adrenalinico Mad Max: Fury Road, che ha visto Tom Hardy sostituire Mel Gibson come eroe del titolo. Ma questa volta Max è dolo la star di facciata, poiché il film si concentra principalmente sugli sforzi dell’Imperatrice Furiosa (interpretata da Charlize Theron) per far fuggire cinque donne che vengono usate come femmine da riproduzione dal tirannico leader Immortan Joe.

Fury Road è stato un successo clamoroso, ha incassato oltre 374 milioni di dollari in tutto il mondo, vincendo sei Premi Oscar, diventando uno dei migliori film degli anni ’10 e ora godendo di un prequel che indagherà l’origine di Furiosa, con Anya Taylor-Joy che reciterà al fianco di Chris Hemsworth e Yahya Abdul-Mateen II.

Ospite nel podcast Happy Sad Confused, Taylor-Joy ha discusso della sua eccitazione e ansia per l’interpretazione dell’ormai iconica Furiosa nel prequel di Miller. Ha spiegato come intende adottare un approccio diverso al personaggio dal momento che le prestazioni di Charlize Theron in Mad Max: Fury Road sarebbero impossibili da eguagliare:

“Mi sono innamorato di Furiosa, del modo in cui Charlize l’ha presentata. Ha fatto un lavoro così incredibile ed è stato così bello e non riesco nemmeno a pensare di provare a mettermi nei suoi panni. Deve essere qualcosa di diverso perché non può essere fatto allo stesso modo.”

 
 

Matt Damon a Ben Affleck: “Pattinson si è preso il tuo lavoro!”

Matt Damon e Ben Affleck tornano a mettere in palio il loro tempo per Omaze in favore di cause umanitarie e, come al solito, regalano delle perle davvero impagabili nei loro battibecchi!

In particolare, questa volta si sono concentrati sull’attualità, nel senso che mentre Affleck prende in giro Damon perché Jeremy Renner lo ha sostituito nel franchise di Jason Bourne, Damon replica con un secco: “Pattinson si è preso il tuo lavoro!”, in riferimento, naturalmente, al passaggio di testimone del ruolo di Batman da Ben Affleck a Robert Pattinson. Ecco di seguito l’esilarante video:

https://www.instagram.com/p/CGXq4VMDRV_/?utm_source=ig_embed

Ricordiamo però che Ben Affleck tornerà nel ruolo dell’Uomo Pipistrello per Justice League Snyder Cut e soprattutto in un breve cameo in The Flash, insieme a Michael Keaton che riprende il ruolo del Crociato di Gotham.

 
 

Paul Bettany nel trailer di Uncle Frank

Ecco il primo trailer di Uncle Frank, il film con Paul Bettany che arriverà su Amazon Prime Video il prossimo 25 novembre. Scritto e diretto da Alan Ball, il film vede nel cast Paul Bettany, Sophia Lillis, Peter Macdissi, Judy Greer, Steve Zahn, Lois Smith, con Margo Martindale e Stephen Root.

La trama di Uncle Frank

Nel 1973, l’adolescente Beth Bledsoe (Sophia Lillis) lascia la sua città natale rurale meridionale per studiare alla New York University, dove il suo amato zio Frank (Paul Bettany) è un venerato professore di letteratura. Presto scopre che Frank è gay e vive con il suo partner di lunga data Walid “Wally” Nadeem (Peter Macdissi) – una relazione che ha tenuto segreta per anni. Dopo la morte improvvisa del padre di Frank, il nonno di Beth, Frank è costretto a tornare a casa con riluttanza per il funerale con Beth al seguito, e ad affrontare finalmente un trauma sepolto da tempo da cui è scappato per tutta la sua vita adulta.

 
 

Tessa Thompson romantica nel trailer di Sylvie’s Love

Ecco il primo trailer di Sylvie’s Love, il film con Tessa Thompson che arriverà su Amazon Prime Video il prossimo 25 dicembre. Scritto e diretto da Eugene Ashe, il film è prodotto da Nnamdi Asomugha, Gabrielle Glore, Jonathan T. Baker, Eugene Ashe, Matthew Thurm, con produttori esecutivi Tessa Thompson, Bobbi Sue Luther, Akbar Gbajabiamila, Matt Rachamkin, Sidra Smith, Emmet Dennis. Nel cast del film Tessa Thompson, Nnamdi Asomugha, Aja Naomi King, Jemima Kirke, Tone Bell, Alano Miller, con Wendi Mclendon-Covey ed Eva Longoria.

La trama di Sylvie’s Love

In Sylvie’s Love, il jazz è dolce e l’aria afosa nella calda estate newyorchese del 1957. Robert (Nnamdi Asomugha), un sassofonista, passa le notti a suonare dietro un leader di band meno talentuoso di lui ma noto, come membro di un jazz quartetto. Sylvie (Tessa Thompson), che sogna una carriera in televisione, trascorre le sue giornate estive aiutando nel negozio di dischi di suo padre, mentre aspetta che il suo fidanzato torni dalla guerra. Quando Robert viene assunto part-time al negozio di dischi, i due iniziano un’amicizia che accende in ciascuno di loro una passione profonda, diversa da qualsiasi cosa abbiano provato prima.

Mentre l’estate finisce, la vita li porta in direzioni diverse, ponendo fine alla loro relazione. Passano gli anni, la carriera di Sylvie come produttrice televisiva sboccia, mentre Robert deve fare i conti con ciò che l’età della Motown sta facendo per la popolarità del Jazz. In un incontro casuale, Sylvie e Robert si incrociano di nuovo, solo per scoprire che mentre le loro vite sono cambiate, i loro sentimenti reciproci rimangono gli stessi. Lo scrittore / regista Eugene Ashe combina romanticismo e musica in una storia travolgente che riunisce tempi che cambiano, una cultura che cambia e il vero prezzo dell’amore.

 
 

Time, recensione del documentario su Fox e Rob Rich #RFF15

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A still from Time by Ursula Garrett Bradley, an official selection of the U.S. Documentary Competition at the 2020 Sundance Film Festival. Courtesy of Sundance Institute. All photos are copyrighted and may be used by press only for the purpose of news or editorial coverage of Sundance Institute programs. Photos must be accompanied by a credit to the photographer and/or 'Courtesy of Sundance Institute.' Unauthorized use, alteration, reproduction or sale of logos and/or photos is strictly prohibited.

Si intitola Time il nuovo film di Garret Bradley, un documentario che raccoglie immagini intime, repertorio e documenti legali, una storia che ripercorre la vita e la lotta di Fox Rich, una donna di New Orleans che combatte ogni giorno per tenere unita la sua famiglia, mentre il marito, Rob, sconta una pena di 60 anni nel famigerato Louisiana State Penitentiary (alias Angola).

Fox Rich è un combattente. L’imprenditrice, abolizionista e madre di sei ragazzi che ha trascorso gli ultimi due decenni a fare campagne per la scarcerazione di suo marito, Rob G. Rich, che sta scontando una pena per una rapina che entrambi hanno commesso all’inizio degli anni ’90 in un momento di disperazione. Time combina i video-diari che Fox ha registrato per Rob nel corso degli anni con scorci intimi della sua vita attuale, il regista Garre.

Nelle note di regia, Garrett Bradley descrive il racconto di Time come un affascinante ritratto della resilienza e dell’amore radicale necessari per prevalere su una separazione infinita, a causa del complesso e ingiusto sistema carcerario statunitense.

Bradley riesce a toccare tutte le corde giuste, con delicatezza e riguardo per il delicato materiale che gestisce, lo offre all’occhio del pubblico, eppure ne ha cura. Fox e Rob non sono offerti alla macchina mediatica ma sono raccontati, soprattutto grazie ai documenti che la donna stessa ha realizzato e fornito, nel corso dei vent’anni in cui ha provato a non far sentire al marito la lontananza sua e dei suoi figli, e ha vissuto con i ragazzi ogni giorno di Natale con la fervida speranza che l’anno successivo sarebbero stati insieme, con Rob a tavola con loro.

Time è una storia d’amore e di lotta

A questo racconto privato e intimo, delicato e pieno di vita, si associano le immagini delle udienze, della lotta di Fox per la scarcerazione del marito, del suo impegno nell’abolizionismo, della sua indefessa testimonianza d’amore non solo per il marito in carcere, ma anche per tutte quelle famiglie ingiustamente spezzate che un sistema carcerario folle tiene separate per tutta la vita.

Nel momento storico che viviamo, con le proteste nelle strade degli Stati Uniti che non cedono di un passo e il movimento Black Lives Matter che diventa sempre più urgente e importante, Time offre un nuovo sguardo, un nuovo lato di un problema endemico che, pur essendo legato al territorio statunitense, deve interessare tutto il mondo.

Le attese, le speranze e la lotta. Time racconta la vita di questa donna che rappresenta moltissime persone, la vita di Fox e Rob, che nonostante le circostanze, anzi, forse proprio a causa di quelle, sono stati capaci di testimoniare l’amore e la famiglia come pochi altri riescono.

 
 

Soul: recensione del film di Pete Docter #RFF15

Soul Annie Awards

Ci si è a lungo interrogati, talvolta scherzando, su quale fosse il presupposto comune di tutti i film prodotti dalla Pixar, giungendo alla conclusione che questi avevano al centro delle loro storie un personaggio non appartenente alla sfera “umana” (animali, oggetti, mostri di fantasia) dotata però dei nostri stessi sentimenti ed emozioni: in breve, avevano un’anima. Col passare del tempo, e grazie all’uscita di Soul – un titolo che potrebbe finalmente mettere il punto su quella teoria – ci si è resi conto che il vero elemento ricorrente è la perdita e il senso di ricostruzione o nuovo inizio che divampa nella mente dei protagonisti.

In A Bug’s Life e Alla ricerca di Nemo era la scomparsa dell’appartenenza; nella trilogia di Cars la sconfitta della presunzione; in Toy Story il saluto all’infanzia e in Inside Out quello all’innocenza; in Up, Coco e Onward la morte degli affetti. Soul invece va alla ricerca del vuoto più intimo e ancora più difficile da rappresentare: la perdita di se stessi, e quindi, di ciò che ci rende tali. Un’anima.

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Soul è scritto e diretto da Pete Docter (insieme a Kemp Powers) e si sente. In qualche modo sembra raccogliere le implicazioni psicologiche di Inside Out diventandone il seguito spirituale, come a volerne ampliare le riflessioni senza però uscire dal tradizionale schema Pixar. Anche la trama non tradisce il solito programma dello studio, e nel suo divincolarsi tra tematiche adulte e prese di posizione piuttosto politiche presenta allo spettatore l’ennesimo outsider schiacciato da una vita insoddisfacente e sogni che fatica a realizzare; in Soul si chiama Joe Gardner, ha le fattezze di un insegnante di musica afroamericano e pianista jazz, e un imprevisto – altra ricorrenza dello storico Pixar – lo mette davanti ad una nuova realtà. Fisica, perché ad un passo dalla morte, metafisica, perché precipita nel mondo parallelo “The Great Before”, il grande prima, dove strane creature creano la personalità, l’identità e le peculiarità degli esseri umani.

soul trailerLa trama di Soul

In questo paesaggio-laboratorio, a Joe viene affidata 22, un’anima che fatica a trovare la giusta direzione e che non conosce le gioie e le delusioni dell’esperienza sul pianeta terra. 22 come il numero che nella simbologia della cabala indica l’universo, ma anche 22 come numero maestro che simboleggia la capacità di costruire della sua somma, il numero quattro. Casuale o meno, la scelta degli sceneggiatori punta su una co-protagonista che muove dentro la storia e verso il pubblico una potente energia e la risoluzione dell’intreccio; un’attitudine simile a ogni eroe Pixar, bambino, adolescente o adulto, sempre spinto al miglioramento di sé dopo una grave perdita. Nessuno dice che sia un percorso semplice, anzi Soul e gli altri film dimostrano proprio il contrario, ma si può iniziare dalla consapevolezza di un problema.

Si attraversano gli stadi della conoscenza

La cosa straordinaria, soprattutto perché stiamo parlando di animazione (che nel linguaggio comune viene ancora considerato un immaginario infantile e bidimensionale), è che a scomparire sono i crismi del viaggio eroico tradizionale: i villain, di fatto, non esistono; l’avventura non ci mette di fronte a sfide materiali ma attraversa gli stadi della conoscenza e della psicologia (la Pixar sta abituando i bambini ai termini “depressione”, “salute mentale”, “debolezze” e “paura”). È un esercizio apparentemente semplice ma che ci proietta in una costante seduta terapeutica dove al centro c’è il miglior commento sull’essere umano contemporaneo e una critica – mai troppo dura – su come viviamo oggi e come potremo vivere tra qualche anno. Nel grande dopo…

 
 

Time: Fox Rich, eroina del nostro tempo, racconta la sua vita e il suo amore

time fox rich
A still from Time by Ursula Garrett Bradley, an official selection of the U.S. Documentary Competition at the 2020 Sundance Film Festival. Courtesy of Sundance Institute. All photos are copyrighted and may be used by press only for the purpose of news or editorial coverage of Sundance Institute programs. Photos must be accompanied by a credit to the photographer and/or 'Courtesy of Sundance Institute.' Unauthorized use, alteration, reproduction or sale of logos and/or photos is strictly prohibited.

Lei si chiama Fox Rich, è una donna incredibile, una vera eroina del nostro tempo e la sua storia è raccontata in Time, il documentario della talentuosa Garrett Bradley. Fondendo materiale d’archivio con filmati privati, il film racconta la vita di Fox e dei suoi sei figli mentre il marito è condannato a 60 anni di prigione da scontare ad Angola, così come è chiamato il Louisiana State Penitentiary, uno degli istituti più sanguinosi degli States.

Ho raggiunto la Signora Rich al telefono, a New Orleans, e mi ha raccontato la sua storia, la sua vita, così come fa nel film, con vivacità, ironia, passione, come fossimo sedute una accanto all’altra, a bere tè e a chiacchierare. Fox comincia a raccontare che ha conosciuto la regista del film, Garrett Bradley, mentre lei era al lavoro su un cortometraggio dal titolo Alone che racconta la condizione delle donne che vivono in solitudine ed attesa, perché il loro partner è in carcere. A presentarle è stata Gina Womack, direttore esecutivo e co-fondatrice dell’associazione Famiglie e amici dei Bambini incarcerati della Louisiana (FFLIC), e subito Bradley si è resa conto che Fox non era come le altre.

Fox Rich ha infatti cominciato a registrare video della sua famiglia molti anni fa, quando i figli erano piccolissimi, perché così il marito in carcere non perdesse neanche un momento di quella che era la loro crescita. E il film mostra tutti questi spaccati di vita, così Fox ci ha fatti entrare dentro alla sua vita e al suo passato. Ma perché ha accettato di raccontare una storia così personale?

“Quando ero in prigione io stessa, pregavo che Dio mi desse la possibilità di usare la mia voce per parlare in nome di coloro che una voce non ce l’avevano – ha spiegato la donna – Ho sperimentato cosa volesse dire non avere voce, essere rinchiusa in un luogo in cui non potevo comunicare con nessuno e ho pensato che da libera avrei dato voce a chi era rimasto dentro, condividendo la mia storia.”

Intervista a Fox Rich, protagonista del doc Time

Senti il senso di responsabilità per le persone che rappresenti e che, come hai detto, non hanno voce?

“Sia io che Rob (il marito, ndr) sappiamo che ci sono innumerevoli persone che contano su di noi. Mi ricordo una volta, in un periodo in cui il nostro matrimonio era in un momento difficile, Rob mi disse che dovevamo tenere duro, perché c’erano un sacco di persone che contavano su di noi, la storia che stavano portando avanti era ed è più grande di noi due soltanto, più grande della nostra famiglia. Ed è stato in quel momento che abbiamo deciso di diventare una dimostrazione di come appare l’amore, anche nelle situazioni più difficili, come la prigione, soprattutto se poi si parla dell’Angola. Siamo stati molto istintivi nello stabilire che volevamo essere un’ispirazione per altre persone, stimolandole a combattere con noi.”

Il risultato del vostro racconto, privato e pubblico, è un documentario dai toni molto delicati e intimi. Si tratta di una scelta che avete operato insieme alla regista?

“Questo capolavoro è tutto opera di Garrett. L’unica nostra intenzione era quella di rimanere insieme, di lottare per farcela, e la regista ha catturato tutte le nostre emozioni, le ha messe insieme. Il risultato è un documentario meraviglioso.”

Le dico poi che il film fa parte della selezione ufficiale della Festa di Roma 2020 e si parla già di Oscar Buzz (Time ha già vinto un premio al Sundance, ndr), Fox esulta come una bambina, con grande entusiasmo, e poi spiega: “Credo che in questo momento, con le proteste per le strade e il movimento Black Lives Matter, questa storia rappresenta un vero testamento, e riuscire ad ottenere il riconoscimento di un premio prestigioso come quello degli Oscar in questo momento, penso aiuti molto a far circolare il messaggio, rendendo le persone più consapevoli delle condizioni dei detenuti nell’Angola, della necessità di libertà.”

E quando le chiedo cosa direbbe alla se stessa più giovane, la signora Fox Rich quasi si commuove, dicendo: “Probabilmente direi alla me stessa più giovane che sono fiera di lei, nonostante abbia fatto delle scelte sbagliate, ha avuto il coraggio di lottare.”

Quando ci dicono che il nostro tempo è finito e la ringrazio, salutandola, Fox ci tiene a dire: “Ti ringrazio perché ci dai la possibilità di condividere la nostra storia anche con l’Italia”. Al che sono io che mi sento di ringraziarla, per lo straordinario documento che ha offerto ma soprattutto l’incredibile forza di volontà e per aver mostrato al mondo che forma ha il vero amore.

time

 
 

Armando Iannucci racconta il suo straordinario David Copperfield

Armando Iannucci intervista

Regista caustico e satirico che si è sempre confrontato con storie vietate ai minori, Armando Iannucci si cimenta con il classico della letteratura inglese per eccellenza, David Copperfiled. Non è la prima volta però che il regista si approccia a Dickens, dal momento che la sua formazione accademica ne è imbevuta e ha già lavorato in passato sull’autore, con un documentario che già lo spogliava della sua austerità vittoriana. Lo stesso approccio ha proposto per La straordinaria vita di David Copperfield.

Come ha lavorato tirando fuori la vis comica da testo di Dickens?

“Questo approccio ha molto a che fare con Simon Blackwell con cui ho collaborato molto, lui è un grande appassionato di Dickens e abbiamo sempre parlato di quanto lui fosse divertente. Lo abbiamo sempre paragonato a Chaplin, quegli inglesi diventati molto famosi da giovani in tutto il mondo per le loro storie. Ho riletto David Copperfield dieci anni fa e ho deciso di farci un film. Ho deciso di coglierne la parte visiva e comunicativa che rasenta la slapstick comedy in molte scene. Nel lavoro di adattamento ci siamo resi conto che c’era moltissimo materiale da utilizzare e volevamo farlo in modo diverso da ciò che era stato fatto prima, perché c’era sempre stata una reverenza nei confronti della storia, invece secondo noi il rispetto si doveva più allo spirito che alla storia, perché è un libro ricco di creatività e immaginazione.”

E così ha fatto, perché il film è sicuramente molto fedele allo spirito dickensiano, pur adattando la storia a necessità narrative, tanto che per Iannucci non è affatto importante conoscere la storia originale: “Non mi aspetto che le persone conoscano la storia prima di entrare in sala. È uno standalone, non c’è nessun esame d’ingresso, la storia comincia in mezzo ai fatti e volevo che lo spettatore si facesse trasportare da subito”.

A differenza della sua produzione solita, La straordinaria vita di David Copperfield è adatta a tutta la famiglia. “Il film è uscito in UK prima del lockdown, è andato abbastanza bene ed è il mio primo film che esce senza il divieto ai minori. Vorrei che venisse considerato un film per famiglie. Non è un film per bambini ma per tutte le età, credo che ogni fascia d’età possa trovare nel film un momento per identificarsi nella storia.”

La straordinaria vita di David Copperfield si diverte anche a mescolare luoghi e tempi, ma soprattutto, la caratteristica che balzerà subito all’occhio, si diverte a mescolare etnie di personaggi che sulla pagina erano pensati per essere tutti bianchi. Di fronte al rischio di apparire troppo politicamente corretto, Iannucci spiega: “Dickens era molto connesso ai problemi del suo tempo, che racconta nei suoi romanzi. Volevo mettere un piede nel passato, nel 1840 quando è ambientato il film, ma volevo anche che ci fosse una modernità, un riflesso della quotidianità di adesso. Non credo che sia politicamente corretto mostrare le diversità tra ricchi e poveri nelle grandi città, né tanto meno la rappresentazione della battaglia di qualcuno per entrare a far parte dell’establishment. Credo siano temi eterni, oggi più di ieri. Credo che Dev (Patel, ndr) sia stato perfetto per il personaggio di David, ha nobiltà fragilità vulnerabilità che sono evidenti e necessarie per il ruolo. Credo sia perfetto e credo che questo debba valere per qualsiasi scelta di casting.”

La straordinaria vita di David Copperfield, recensione del film con Dev Patel

Il film dà molto risalto alla parola scritta, che è poi quello che diventerà, dopo molte peripezie, il destino di David. A commento, Armando Iannucci spiega: “È un film che parla di scrittura, ma anche di amicizia, di amore e comunità. Siccome non ho visto molto spesso nel cinema celebrare la persona che scrive, lo scrittore, ho pensato che potesse essere una sfida e incoraggiare il pubblico a godere dell’uso delle parole. Per questo vediamo sempre le parole sullo schermo, che vengono mostrate, perché sono importanti. Anche io, come David, mi sono preoccupato se quello che facevo, se il sogno che rincorrevo potesse avere un esito positivo o negativo. Mi ci è voluto molto tempo per avere sicurezza e sentirmi uno scrittore. Un po’ come accade per David, che ci mette tempo a trovare la sua strada ma poi trova la fiducia in se stesso.”

La straordinaria vita di David Copperfield arriva in sala il 16 ottobre, distribuito da Lucky Red.

 
 

La straordinaria vita di David Copperfield, recensione del film con Dev Patel

La straordinaria vita di David Copperfield recensione

La straordinaria vita di David Copperfield porta al cinema un Charles Dickens che ci stupirà. Punto cardinale della letteratura popolare inglese, l’autore, che ha promosso la cura dell’infanzia e ha denunciato attraverso i suoi romanzi la condizione in cui versavano i più deboli all’inizio dell’epoca vittoriana, non era mai stato rappresentato al cinema o in tv con un approccio tanto fresco, libero, moderno, fedele allo spirito più che alla storia. A farlo è Armando Iannucci, che firma il suo primo film non vietato ai minori, insieme a Simon Blackwell, che collabora alla sceneggiatura e all’adattamento del romanzo di Dickens.

La storia è quella di David, un ragazzo che cresce senza padre e che si trova costretto a crescere in una fabbrica di cristalli a Londra quando la madre si sposa con un uomo burbero e intransigente, che vede il ragazzo come un ostacolo. Lo manda quindi in città, dove David alimenterà la sua intelligenza e crescerà bene, remissivo ma non certo sciocco, in mezzo alle brutture del mondo. Diventato un giovane uomo e messo al corrente della morte della madre, David abbandona la fabbrica e si rivolge ad una zia, sorella del padre, che si prenderà cura di lui e lo aiuterà a concludere gli studi ed a trovare lavoro. Di nuovo in città, con tutt’altre prospettive, David lotterà per trovare la sua strada, sempre attratto dalle parole, dalle storie, dall’esigenza di raccontare la sua.

La straordinaria vita di David Copperfield è un adattamento nello spirito

La straordinaria vita di David Copperfield è un adattamento dal classico di Charles Dickens che si distingue per due caratteristiche fondamentali, che ne attestano unicità e valore. In primo luogo, l’adattamento del regista Iannucci, insieme allo sceneggiatore Blackwell, è una modernizzazione mai vista prima dell’opera più personale di Dickens stesso. La storia si apre con lo stesso David che racconta in prima persona la sua vita, racconta la sua nascita e quello che non poteva ricordarsi, fino all’infanzia, dove tutto appare più colorato e vivace di come è in realtà, la sua fantasia, l’immaginazione, la passione per giocare con le parole e metterle ferme su carta, fino all’età adulta alla ricerca della fortuna, al trovare un amore, una storia, una vita da raccontare, trovare le parole giuste per la sua stessa storia.

Iannucci racconta tutto con un spirito leggero, allegro, giocoso, usando uno stile visivo originale, in cui i racconti dei personaggi prendono vita sui fondali delle scene, come fossero proiezioni, in cui si viaggia da un luogo all’altro con balzi in avanti o indietro, da slapstick comedy, con battute sopra le righe e personaggi bizzarri, assurdi, a volte sgradevoli, ma sempre accarezzati da una mano divertita.

La vita straordinaria di David CopperfieldUna bella boccata d’aria fresca rispetto a quanto era stato fatto rpima di adesso con i personaggi dickensiani, tutti appesantiti dalla polvere vittoriana, dagli scenari desolanti delle città, dalla Londra iconograficamente legata al fumo e alla povertà. La straordinaria vita di David Copperfield è, secondo le parole del regista stesso, più fedele allo spirito di Dickens che alla storia stessa, come dimostra anche il casting, che è il secondo elemento di originalità e pregio del film.

Un trionfo di etnie diverse

Per interpretare i personaggi del romanzi, tutti bianchi scritti per bianchi, Iannucci sceglie una varietà di etnie che arricchiscono di colori vivacissimi ogni singola scena, completamente incurante non solo dei testi originali, ma anche della genetica, tanto che lo stesso David, ad esempio, è interpretato da Dev Patel, di origini indiane, e sua madre e sua zia paterna, ad esempio, sono attrici bianche (Morfydd Clark e Tilda Swinton). E così la madre del migliore amico di David, interpretato da un attore caucasico (Aneurin Barnad) è interpretata da un’attrice di colore (Nikki Amuka-Bird). Una mescolanza di etnie che rende il film estremamente contemporaneo, quasi una fotografia di quello che è diventato adesso il tessuto sociale londinese, in particolare.

La regia si lascia andare a momenti molto romantici e toccanti, cambiando rotta e toccando punte di epica e adagiandosi al sicuro tra le braccia della commedia, non la caustica a cui il regista scozzese ci ha abituati, ma un linguaggio vivace e leggero, ma mai superficiale, che fa di La straordinaria vita di David Copperfield un film adatto alle famiglie di ogni foggia e tipo.

 
 

Avatar 2: le nuove foto dal set mostrano un’altra location

avatar 2

Il produttore della serie di Avatar, Jon Landau, ha condiviso su Instagram una serie di immagini dal set di Avatar 2 in cui ci viene data la possibilità di sbirciare nel luogo in cui James Cameron crea meraviglie. Si tratta del set del film e in particolare della location che sarà il laboratorio scientifico degli umani, nella storia. Ecco le foto di seguito:

Avatar 2 debutterà il 17 dicembre 2021, seguito dal terzo capitolo il 22 dicembre 2023. Per il quarto e quinto capitolo, invece, si dovrà attendere ancora qualche anno: 19 dicembre 2025 17 dicembre 2027.

Il cast della serie di film è formato da Kate WinsletEdie FalcoMichelle YeohVin Diesel, insieme ad un gruppo di attori che interpretano le nuove generazioni di Na’vi. Nei film torneranno anche i protagonisti del primo film, ossia Sam WorthingtonZoe SaldanaStephen LangSigourney WeaverJoel David MooreDileep Rao e Matt Gerald.