“È un padre saggio
quello che conosce il proprio figlio”. Ad asserirlo con
coscienza e zelante genio è William Shakespeare
tra le pagine del suo Il mercante di Venezia. Ma cosa
succede se gli occhi di un padre guardano e la mente non riconosce?
Tra i meccanismi fallaci del pensiero umano, mentre la saggezza
scivola via, possiamo davvero ritrovare ancore di salvezza a cui
aggrapparsi, ristabilendo un rapporto mandato in tilt come quello
tra padre e figlia, oppure tutto è destinato a perdersi, come neve
al sole?
In
The Father a rimanere in piedi è un gioco
delle parti abitato non più da maschere, ma da silenzi tangibili.
L’osservare la propria figlia e non riconoscerla, guardarla e
confonderla sotto mentite spoglie, crea un cortocircuito azionato
da lacrime e singhiozzi trattenuti all’interno di una fitta rete di
paura, tradimenti, manipolazioni, o disperata perdita.
La trama di The
Father
Tratto dall’omonima
pièce teatrale, sempre diretta da Florian Zeller,
The Father pone al centro del suo intreccio un
uomo deciso a rifiutare tutta l’assistenza di sua figlia mentre
invecchia. Impegnato a dare un senso alle sue mutevoli circostanze,
l’uomo inizia addirittura a dubitare dei suoi cari, della sua mente
e persino del tessuto della sua realtà.
Vestirsi di
thriller, vivere di dramma
Che qualcosa di
angosciante sia pronto a farsi largo tra i respiri esalati in casa
di Anthony, lo anticipa profeticamente il commento musicale che dà
ritmo alla prime battiture del film. I secondi passano e una mano
a forma di note si blocca sul capo di Anne (Olivia Colman) per poi afferrare le esistenze
della sua famiglia e scuoterle, facendo cadere dalle loro tasche
una tranquillità domestica già in precario equilibrio. Un ponte
associativo che collega le battute sincopate dell’aria che apre
l’opera con quella più iconica, insidiatasi nei meandri della
nostra mente, dell’hitchcockiano
Psyco.
Ma se la pellicola
diretta da Alfred Hitchcock non ha mai fatto
segreto della sua natura misteriosa e orrorifica, il film con
protagonista Anthony Hopkins è una scatola cinese
che si mostra in un modo, per poi raccogliere al suo interno mille
e altri mondi, altri generi, altre tempeste emotive pronte a
colpire il mare calmo dello spettatore.
Tutto il mondo è un
palcoscenico
È un puzzle della mente,
The Father. Un’opera ricoperta da abiti
del thriller, che ama farsi ammirare dai propri spettatori sulla
passerella dello schermo cinematografico (ora ridottosi a quello
televisivo) ma a ogni sequenza, un brandello di vestito inizia a
staccarsi e perdersi, lasciando nudo, nella sua essenza drammatica
e introspettiva, il film diretto da Florian
Zeller. L’alito di vita che si genera sulle assi del
palcoscenico teatrale, colpisce in pieno petto questo
kammerspiel ombroso, illuminato da piccoli bagliori di luce,
simboli di barlumi di una razionalità che va a perdersi tra i
labirinti di una mente (dis)funzionale. E se è vero che “tutto il
mondo è teatro”, gli attori di
The Father si muovono sul palcoscenico della
vita in punta di piedi, nell’eterna paura di svegliare un pensiero
rimosso, un ricordo confusionario, uno sprazzo di memoria
modificato.
Ma l’essenza
teatrale c’è e si sente. Investe lo schermo ammantando di
significati secondari, metafore, e associazioni perturbanti, ogni
singolo dettaglio. Nulla è come sembra, tanto in queste esistenze
diegetiche, quanto in quelle pensate, manipolate da una memoria che
arranca a tentoni. Ma il cinema ha uno strumento magico in più
rispetto all’arte teatrale. In questo gioco di ambiguità, il
montaggio esacerba con un sapiente impiego del campo contro-campo
la lontananza tra padre e figlia, e con essa il distacco da ciò che
reale, e immaginato. Gli sguardi tra Anthony
Hopkins e Olivia Colman, intermezzati da
quelli di Rufus Sewell e Mark
Gatiss, sono palline lanciate in una partita di tennis.
Incapaci di condividere gli spazi di una medesima inquadratura, i
personaggi si scrutano a debita distanza, enfatizzando le distanze
sociali, quasi con il terrore che violando lo spazio personale
altrui, cada quella bolla di sapone che si sono creati, ed entro
cui vivere la propria esistenza alternativa.
Gli incontri del padre
con la propria figlia sono scanditi da arrivederci e gesti
reiterati all’ombra di un’inquietudine velata dai contrasti
fotografici di poche luci e tante ombre. Il buio che adombra lo
spazio è lo stesso che disorienta il pensiero del protagonista.
Privi di segnali e indicazioni con cui orientarsi, i suoi pensieri
perdono la strada. Immersi nel buio abbagliato da poche lingue di
luce, i suoi (pseudo)ricordi tornano indietro, vanno avanti, si
muovono tentennando, alla ricerca di una via di uscita razionale
che non pare ritrovarsi.
Ambienti come
proiezioni mentali
Lo stesso appartamento è
la perfetta proiezione visiva e architettonica della mente di
Anthony. Tutto sembra immacolato, ma tra i suoi vani le parole si
muovono nel tentativo di mettere in ordine cocci di momenti passati
e presenti che sembrano non combaciare. I lenzuoli che ricoprono
divani, i quadri che scompaiono, o le sedie che compaiono
all’improvviso, sono la metafora perfetta di una mente che
rallenta, nasconde ciò che è in disuso e ripropone flash mnemonici
di eventi immaginati, o confusi. Le stanze dell’appartamento vivono
di polvere e ambiguità, di polli cucinati e gesti ripetuti ad
libitum, sempre uguali e sempre così diversi. La casa di Anthony è
il contenitore adatto per raccogliere tutti quei momenti in cui il
protagonista ricorre a formulazioni sensate, avanzando pretese
assurde per nascondere pensieri e ricordi lineari. Ogni ambiente è
vissuto da fantasmi di un pensiero passato, annunciati non più da
campane, o
brividi, ma da campanelli, fischi di teiere, arie di opere
classiche. Sono impronte sonore di un’identità che si va
dissolvendo, e che lascia a questi piccoli e grandi dettagli il
ruolo di contenitori di una vita frammentata in varie tessere di un
puzzle ormai impossibile da completare.
Tutto è in ordine ma
tutto è confuso; ogni piccolo pezzo di Anthony è come il suo
orologio, rubato dalle grinfie del tempo e della malattia.
Attori (magistrali)
alla seconda
Per ergersi al centro
della città, imponente ed elegante, ogni teatro ha bisogno di
fondamenta solide su cui basarsi, e colonne portanti che lo tengano
in piedi. Nel teatro della vita messo in scena da Florian
Zeller, è la performance di
Anthony Hopkins a sostenere un dramma
interiore vestito di oscuri pensieri e ambigui eventi. Ogni sua
piccola espressione, o mutamento facciale, è un fendente che
colpisce con perfezione chirurgica l’anima dello spettatore. Angelo
e demone di un aldilà personale, la sua interpretazione è una
commistione perfetta di reazioni sottomesse, e urla strazianti,
lasciate libere di mostrarsi, lontane dallo spettro della
macchietta o dell’overacting. A ruotargli intorno, un corollario di
comprimari capaci di alimentare la sua forza interpretativa,
attraverso performance altrettanto convincenti ed emotivamente di
impatto. C’è la dolcezza della figlia Anne (Olivia
Colman), l’esasperazione del genero Paul (Rufus
Sewell), la pazienza della badante Laura (Imogen
Poots), l’ambiguità di un uomo dai mille volti e nomi
(Mark Gatiss). Maschere dell’arte, queste
esistenze si improvvisano riverberi di uno specchio rotto rivolto
al passato, attori ingaggiati per interpretare a loro insaputa un
ruolo nel teatro messo in scena da un regista disattento e
smemorato, come il cervello di Anthony.
È un sadico burattinaio
la nostra mente. Ci tiene in pugno, facendoci muovere tra realtà e
immaginazione, speranze e razionalità. Ma nel momento in cui decide
di recidere uno dei fili che ci tengono saldi a sé, eccoci cadere
senza forze e senza bussola nel buio dell’esistenza. Camminiamo
arrancando sul palcoscenico della vita nella speranza che un occhio
di bue ci illumini, ritrovando un briciolo di lucidità e con essa
speranza, ricordo, saggezza.
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