Netflix e Shondaland tornano
a collaborare con The Residence, una
serie mistery in otto episodi creata da Paul William
Davies e ispirata al libro The Residence:
Inside the Private World of the White
House di Kate Andersen Brower. Tra
intrighi, omicidi e un cast corale di personaggi stravaganti, la
serie si posiziona a metà tra la classica detective story e la
commedia satirica, con una vena di assurdità che la rende
irresistibile.
La storia intricata
di The Residence
La vicenda prende il via durante una
cena di stato alla Casa Bianca, organizzata per rinsaldare i
rapporti con l’Australia. Mentre gli ospiti si godono la serata e
la performance di Kylie Minogue, un urlo
squarcia l’aria: il Capo Usciere della Casa Bianca, A.B. Wynter
(Giancarlo
Esposito), è stato trovato morto nella sala del
biliardo. L’indagine viene affidata alla detective Cordelia Cupp
(Uzo Aduba), un’investigatrice eccentrica con una
passione per il birdwatching e le sardine in scatola. Accompagnata
dal riluttante agente dell’FBI Edwin Park
(Randall Park), Cordelia si addentra nei segreti
dell’edificio più sorvegliato d’America, interrogando ospiti e
membri dello staff per ricostruire gli eventi della fatidica
notte.
Cordelia Cupp è un
personaggio memorabile
Il fascino della serie risiede nel
suo tono ironico e nel cast eccezionale. Aduba regala una
performance magnetica, Cordelia è un personaggio
memorabile: brillante, bizzarra e sempre un passo avanti
agli altri. Al suo fianco spiccano Giancarlo
Esposito nel ruolo della vittima, Susan
Kelechi Watson nei panni della sua ambiziosa vice
Jasmine Haney e Jane
Curtin, l’esilarante suocera alcolizzata del
Presidente. La presenza di Al
Franken nei panni di un senatore cinico aggiunge un
ulteriore strato di satira politica.
La narrazione si sviluppa su due
linee temporali: da un lato, l’indagine di Cordelia, arricchita da
flashback e versioni contrastanti degli eventi; dall’altro,
un’audizione al Congresso in cui Jasmine e altri testimoni tentano
di chiarire il mistero. Questo doppio livello di racconto mantiene
alta la tensione, anche se a volte la serie sembra perdersi nei
suoi stessi intrecci. Il numero elevato di personaggi e sottotrame
può risultare dispersivo, aspetto aggravato da alcuni flashback
dedicato alla passione di Cordelia per l’ornitologia e il
birdwatching. Il ritmo risulta rallentato in questi frangenti, ma
il personaggio si arricchisce, diventando sempre più bizzarro e
approfondito.
Una residenza di lusso per un
Cluedo contemporaneo
Visivamente, The
Residence è un gioiello. La Casa Bianca viene trasformata
in un gigantesco puzzle, con stanze nascoste e corridoi segreti che
amplificano il senso di mistero e rendono più complessa la
risoluzione del crimine. La regia di Liza
Johnson e Jaffar
Mahmood gioca con prospettive insolite e un montaggio
vivace, mentre la colonna sonora omaggia il cinema noir e i
classici del giallo, senza dimenticare le derive più moderne dei
classici whodunit, come la serie di Knives
Out di Rian Johnson o gli
ultimi adattamenti da Agatha
Christie con Kenneth
Branagh (tutti che vengono esplicitamente citati dai
personaggi).
La satira sociale
Nonostante il tono leggero, che
struttura l’indagine con intriganti svolte e con le piacevoli
digressioni di Cordelia che si orienta nel mondo degli esseri umani
grazie agli insegnamenti del comportamento degli uccelli che ama
avvistare, The Residence non si risparmia quando si parla di satira
sociale e di critica alle alte cariche della società. Il cast
corale rappresentativo e variegato e si confronta alla fine
con la meschinità del mondo moderno, che concentra potere e
autorità nelle mani di pochi, ma non quelli che ci aspetteremmo,
per cui la serie mantiene una componente di imprevedibilità che la
rende ancora più divertente, fino al confronto finale, con tanto di
atteso ma necessario spiegone su “come sono andate davvero le
cose”.
In definitiva, The
Residence è una serie con una trama coinvolgente e con
dei protagonisti sopra le righe, che unisce il fascino di un giallo
alla Agatha Christie con l’umorismo
dissacrante tipico di Shondaland. Uzo
Aduba brilla nel ruolo della detective Cordelia Cupp,
e il cast di supporto contribuisce a rendere ogni episodio
un’esperienza spassosa e avvincente.
Un whodunnit in salsa comica da divorare in un
binge-watching senza rimpianti.
Biancaneve è il classico dei
classici. Primo film d’animazione a colori Disney,
nonché uno dei suoi maggiori successi al botteghino, è riuscito a
entrare nell’immaginario collettivo come una delle fiabe più amate,
con una delle principesse più memorabili. Nell’era dei live-action,
prodotti ormai con continuità, era quindi impensabile escludere
proprio il primo lungometraggio che segnò un’epoca straordinaria
per la Casa di Topolino e per generazioni di bambini. E così, dopo
un iniziale stop dovuto alla pandemia, le riprese hanno preso il
via nel 2022 sotto la direzione
diMarc Webb.
Come accaduto per La
Sirenetta, anche questo live-action non
è stato esente da critiche e polemiche, legate alla scelta della
protagonista. Non è cambiato nulla rispetto alle accuse rivolte
alla produzione per aver selezionato un’attrice che non
rispecchiasse nella carnagione la piccola sirenetta, polemica poi
messa a tacere dalla performance di Halle
Bailey, che ha dimostrato come il valore di una storia emerga
ben oltre il colore della pelle. Lo stesso destino è toccato
a Rachel
Zegler, criticata per una carnagione ritenuta troppo
scura per interpretare Biancaneve, rinomata per la pelle bianca
come la neve e le labbra rosse. Eppure, nel film, che si apre
sfogliando il classico libro delle favole, viene subito spiegato
l’origine del suo nome: è nata durante una bufera di neve e,
nonostante il gelo, questa neve, lei, è riuscita “a dominarla”,
come sottolinea la narrazione più volte.
La pellicola, in
uscita nelle sale il 20 marzo, è scritta
da Erin Cressida Wilson, con canzoni
originali curate da Pasek & Paul.
La trama
di Biancaneve
In un regno lontano, circondato da
amore e serenità, la regina dà alla luce una bambina, in una
giornata di neve. E poiché la piccola dimostra una straordinaria
forza, non lasciandosi indebolire dal gelo, le viene dato il nome
di Biancaneve. Cresce felice, ballando e infornando torte per i
sudditi, con la promessa ai genitori di rimanere sempre impavida,
buona, e giusta.
Ma la sua vita è destinata a
cambiare: alla morte della madre, una donna bellissima arriva a
palazzo, ammaliando il re. Ben presto la sua natura si rivela, e,
quando convince il sovrano a partire per una missione volta a
salvare alcune terre, la Regina Grimilde prende il potere, gettando
il regno nell’oscurità e nel terrore. Biancaneve viene relegata
nell’ala più alta del castello, come serva, ignara che Grimilde,
invidiosa di lei, stia progettando di ucciderla. Seguendo la storia
del film d’animazione, Biancaneve, una volta fuggita, si ritrova
nella casa dei sette nani, ma questa volta sceglie di combattere,
affiancata da Jonathan, un ribelle ladro che, anziché essere un
principe, lotta in nome del re ormai scomparso.
Scenografie sontuose, fotografia
magica. I sette nani? Una sorpresa
I trailer diffusi nel 2024 avevano
già dato un’idea di ciò che sarebbe stato il film, e la visione
completa conferma molte delle impressioni iniziali. La
ricostruzione degli interni del castello, del regno e persino della
dimora dei sette nani riesce a restituire quella magia tipica delle
fiabe Disney, merito senza dubbio di una scenografia
sontuosa e di una fotografia elegante dai
toni caldi, che avvolge lo spettatore trasportandolo in un
mondo di sogni, speranze e meraviglia. Il grande impegno produttivo
è evidente anche nei costumi, realizzati con cura per evitare il
famigerato effetto cosplay, ma purtroppo, il celebre abito blu e
giallo di Biancaneve, indossato da Rachel Zegler, risulta il meno
incisivo tra tutti.
Per quanto riguarda invece
i sette nani, al centro di numerose
discussioni, dobbiamo ricrederci: sebbene la CGI non
sia impeccabile e il loro design non brilli per
bellezza – al punto che alcuni potrebbero persino risultare
inquietanti – la loro caratterizzazione è
riuscita. Sono loro il vero cuore emotivo del
film, con un’energia che li rende autentici e, a conti
fatti, anche i più divertenti. Simpatici, buffi, genuini: i sette
nani si rivelano la sorpresa di un film che, invece, non trova il
suo punto di forza nei protagonisti principali.
Il punto debole
di Biancaneve
E qui arriviamo al problema
principale: attori e sceneggiatura, due pilastri fondamentali per
il successo di un film. Se nelle prime scene la narrazione sembra
funzionare, tutto inizia a vacillare dopo la
canzone Waiting On a Wish, che, va detto, non ha la
stessa potenza sonora in doppiaggio. Dal momento in cui Biancaneve
fugge nel bosco, la pellicola prende una piega
differente. Diversi passaggi narrativi risultano poco
chiari, con dinamiche affrettate e scene che si
interrompono bruscamente, creando un ritmo spezzato che finisce per
distanziare il pubblico dalla storia.
A rafforzare questo distacco è la
performance di Rachel Zegler, che in molte sequenze carica troppo
le espressioni facciali, rendendo evidente la finzione.
Anche Gal
Gadot, pur mostrando impegno, fatica a trasmettere
appieno la crudeltà e l’invidia di Grimilde. Questo perché, pur
avendo assorbito il fascino del personaggio con sguardi intensi e
sorrisi malvagi, si scontra con uno script che non valorizza a
dovere la villain. Grimilde avrebbe potuto avere maggiore
profondità, ma la sceneggiatura la priva di sfumature, rendendo il
climax finale debole e respingente nello scontro con la sua rivale
in bellezza.
Il valore del grande classico
Se alcuni aspetti lasciano l’amaro
in bocca, Biancaneveriesce comunque a
regalare momenti di nostalgia grazie
ai numerosi riferimenti al classico del
1937, che conquisteranno gli amanti della pellicola originale e i
fan Disney. La riproduzione di scene iconiche – come la
trasformazione di Grimilde, la fuga nel bosco e i sette nani al
lavoro in miniera – è un omaggio commovente. Sono questi
i momenti che creano il legame più forte con il
passato, suscitando quel senso di familiarità per chi, da
bambino, ha visto e rivisto Biancaneve e i sette nani in VHS
accoccolato sul divano, premendo il tasto rewind ogni volta che
finiva. Un tuffo, perciò, nei ricordi d’infanzia. Una scelta forse
prevedibile, ma anche profondamente sentita, che per le vecchie
generazioni diventa un motivo in più per rimanere a guardare.
The Equalizer – Il
vendicatore è il thriller d’azione del 2014 che ha
visto Denzel Washington interpretare Robert
McCall, un marine letalmente pericoloso diventato
ufficiale della DIA. Nel teso film, diretto da Antoine Fuqua, il
personaggio di Washington torna in azione con riluttanza per
salvare un adolescente dalla mafia russa. Dato il successo di
questo lungometraggio, è poi stato realizzato un sequel,
The Equalizer 2 – Senza perdono, in cui Robert e
il suo ex collega Dave York indagano sull’omicidio
di un’altra collega, Susan Plummer, uccisa da
assalitori non visti durante quella che sembrava una rapina a
Bruxelles.
Nell’indagare su questo omicidio,
non ci vuole poi molto perché l’antieroe incallito di Washington
scopra la scioccante verità che ha porta al finale. Nel frattempo,
un artista adolescente problematico di nome Miles
si è offerto di dipingere un murales nell’appartamento di Robert.
Queste due trame convergono nelle scene finali di The
Equalizer 2– Senza perdono, quando Miles
viene rapito dall’assassino di Susan e Robert deve tornare nella
sua città natale per affrontare gli assassini. Nel frattempo, il
finale fornisce anche nuove informazioni sulla visione del mondo di
Robert, sulle sue lotte e sul percorso che lo ha portato a una vita
di protezione degli innocenti.
La spiegazione del finale di
The Equalizer 2 – Senza perdono, chi ha ucciso
Susan Plummer?
È scioccante apprendere che èstato
l’apparentemente dolce e onesto Dave York interpretato da Pedro Pascal a uccidere Susan in The
Equalizer 2 – Senza perdono. La donna era stata incaricata
di risolvere un caso a Bruxelles dove un agente della CIA ha ucciso
la moglie per poi spararsi. Tuttavia, è stata eliminata prima di
poter stabilire cosa effettivamente fosse successo. A farla fuori è
stato proprio Dave, responsabile di quel crimine. Insieme agli
altri ex colleghi di Robert, Kovak,
Ari e Resnik, si è infatti dato
al crimine dopo essere stati abbandonati dalla DIA nonostante anni
di fedele servizio. Sapendo che Susan sarebbe arrivata ad
incastrarli, hanno dunque deciso di eliminarla.
Alla luce di ciò, anche se Dave ha
trascorso la maggior parte del film cercando di trovare l’assassino
di Susan insieme a Robert, si è alla fine rivelato proprio lui il
colpevole dell’omicidio. Robert se ne rende conto quando vede il
numero di Dave nell’elenco delle chiamate di un assassino che ha
tentato, senza riuscirci, di uccidere Robert. A questo punto il
sequel diventa veramente brutale: Dave e i suoi soci rapiscono
Miles e seguono Robert fino alla sua città natale in riva al mare.
Lì, usando la torre di guardia locale come base, Robert li fa però
fuori usando una forte tempesta come copertura, per poi affrontare
Dave in un combattimento uno contro uno.
Perché c’è un uragano nel finale di
The Equalizer 2 – Senza perdono?
L’uragano nel finale di The
Equalizer 2 – Senza perdono è un classico caso di fallacia
patetica, in cui la natura diventa l’incarnazione delle emozioni dei personaggi.
L’omicidio di Susan da parte di Dave ha sconvolto i ricordi di
Robert sul periodo trascorso insieme alla DIA e lo ha costretto a
confrontarsi con gli orrori del suo passato. Così, la sua città
natale è stata letteralmente fatta a pezzi mentre, interiormente,
Robert sentiva che anche la sua meritata pace era stata interrotta
e fatta a pezzi. L’immagine dell’uragano esteriorizza quindi
l’agitazione interna di Robert, che si rende conto che non si può
mai tornare veramente a casa dopo aver vissuto gli orrori della
guerra. Robert deve invece accettare brutalmente di aver fatto
parte della squadra di Dave e di dover uccidere i suoi ex
amici.
Il significato della morte di Dave,
Kovak, Ari e Resnik
Robert attirato quindi Kovak, Ari e
Resnik nella sua città natale e li uccide con un fucile subacqueo,
dei coltelli e un’esplosione di polvere. In termini pratici, Robert
ha ucciso questi scagnozzi uno alla volta per rendere più facile la
resa dei conti finale. A livello metaforico, Robert aveva bisogno
di tornare nella sua casa d’infanzia e di infliggere questi destini
violenti ai suoi colleghi per uccidere le parti di sé che volevano
trasformare la sua rabbia in una vendetta omicida. Robert, come i
suoi colleghi, si sentiva ingannato e tradito da un governo
noncurante dopo anni di fedele servizio. Per questo motivo, aveva
bisogno di ucciderli per assicurarsi di non diventare come
loro.
Infine, Robert ha lentamente
pugnalato a morte Dave con il suo stesso coltello, utilizzando le
tecniche che entrambi hanno imparato alla DIA. Dave si è appoggiato
alla sua rabbia, amarezza e risentimento per diventare un
assassino, mentre Robert ha rivolto la lama su Dave (e, per
estensione, sul suo stesso risentimento). The Equalizer 2 –
Senza perdono è stato il primo sequel nella carriera di
Denzel Washington e questo pesante finale spiega perché. Quando
Robert ha ucciso Dave, ha scelto la strada del perdono piuttosto
che quella della vendetta violenta. Questo gli ha conferito un
senso di responsabilità che mancava nel finale dell’originale
The Equalizer – Il
vendicatore.
Per quanto riguarda la linea
narrativa dedicata a Miles, nel finale di The Equalizer 2 –
Senza perdono, il ragazzo dipinge un’idilliaca scena
rurale sul lato dell’edificio in cui vive Robert. Il murale
raffigura una comunità che si prende cura dei propri raccolti,
riflesso dell’orto comune del condominio e testimonianza del potere
della riabilitazione comunitaria. Dopo tanti spargimenti di sangue
e morti, Robert non avrebbe potuto trovare uno scopo nella sua vita
se non fosse stato per il potere riparatore della comunità.
Offrendosi come mentore di Miles, Robert ha incarnato l’approccio
olistico alla vita, incentrato sulla comunità, descritto nella
visione utopica di Miles. Tuttavia, l’incapacità di Robert di
offrire la stessa guida ai suoi colleghi lo perseguita dopo la loro
morte per mano sua.
Il vero significato del finale di
The Equalizer 2 – Senza perdono
Anche se il finale di The
Equalizer 2 – Senza perdono non è del tutto tragico, c’è
un forte senso di tristezza. Robert riunisce un sopravvissuto
all’Olocausto con il fratello perduto da tempo grazie alle sue
capacità, ma non riesce a costringere Dave a vedere un percorso per
la sua vita che non sia definito dalla violenza e dalla punizione.
Come dice il Nuovo Testamento, “È più facile che un cammello
passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di
Dio”, e Robert se n’è reso conto quando si è dimostrato più
facile cavare gli occhi a Dave che fargli capire l’errore dei suoi
modi.
Robert avrebbe potuto facilmente
diventare un altro mercenario scontento come Dave, Kovak, Ari e
Resnik, e nel finale di The Equalizer 2 – Senza
perdono è stato costretto a fare i conti con questo fatto.
Incoraggiando Miles a perseguire l’arte invece di una vita
criminale, Robert ha trasmesso la sua saggezza alla generazione
successiva. Tuttavia, non è riuscito a salvare gli uomini con cui
ha combattuto e, alla fine, è stato lui a doverli uccidere.
Nonostante i suoi tentativi di aiutare i bisognosi, Robert McCall è
dunque ancora turbato dai suoi limiti nel finale di questo film,
poiché si rende conto che avrebbe potuto essere tentato dal crimine
proprio come i suoi fratelli in armi. Forse è anche per questo che
in The Equalizer 3 – Senza tregua, cerca pace lontano da
quei luoghi.
Dopo aver trasformato Nicolas
Cage nel suo
incredibile Longlegs, Osgood – detto Oz –
Perkins rilancia con il nuovo The
Monkey,distribuito al cinema da
Eagle Pictures a partire dal 20 marzo 2025. Un film che riunisce
parte di un ipotetico Gotha dell’horror, nel quale non potrebbero
mai mancare James Wan (il padre delle
saghe di The Conjuring e Saw, qui
produttore) e Stephen King, autore del
racconto (contenuto nella raccolta “Scheletri“) dal quale
nasce questo adattamento, interpretato da Theo
James, nel doppio ruolo del tormentato e disperato
protagonista, e diretto appunto dal figlio dell’Anthony Perkins
di Psycho.
Da Psycho a Stephen
King
Che abbiamo visto muovere i primi
passi su un set nel 1983, come ‘giovane Norman’ nel Psycho
II di Richard Franklin, ed esordire alla regia nel 2015,
con February – L’innocenza del male nel 2015,
prima dell’interessante Sono la bella creatura che vive in
questa casa nel 2016 e la versione personale del poco
fiabesco Gretel e Hansel nel 2020, prima del
citato Longlegs. E che per questo gradito ritorno
sceglie di attingere alla storia “La scimmia“, pubblicata
dal Re del Brivido nel novembre del 1980, dopo che in passato era
stato Kenneth J. Berton, nel 1984, a farne un film con il
suo Il dono del Diavolo (The Devil’s Gift).
La trama di The
Monkey
Nel 1999, Petey Shelburn
tenta di restituire, e distruggere, una scimmia giocattolo in un
negozio di antiquariato, ma il congegno meccanito tutto è tranne
che un gioco. Come dimostra la reazione a catena che si scatena,
solo la prima stazione di una interminabile via crucis disseminata
di morti incredibili che sembrano funestare la famiglia Shelburn e
i due piccoli figli di Petey, Hal e Bill. Sono loro a sospettare
del potere nefasto della scimmia e a disfarsene… ma per quanto?
Venticinque anni dopo, infatti, i due, ormai separati dalla vita e
dalla precisa intenzione di non avere nulla a che fare l’uno con
l’altro, sono costretti a riavvicinarsi dall’inatteso riapparire
del “giocattolo”. Ma se non fosse un caso? Come potrebbe Hal
evitare che la maledizione ricada su suo figlio Petey?
Il destino è quel
che è
Tutti muoiono, il film ce
lo ricorda, ma accettato questo assunto tanto vale sbizzarrirsi.
Chissà che non sia stato questo il pensiero di Oz Perkins
nell’architettare questo adattamento infarcendolo di invasioni di
vespe assassine, donne che esplodono e incidenti mortali di ogni
tipo, nel quale il pericolo è dietro ogni angolo, dalla piscina al
ristorante, sia che si resti in casa sia che si vada a fare
shopping. Morti talmente assurde, esagerate ed esplicite da fargli
andare stretto persino il collegamento – spontaneo, a vedere il
film – con il franchise di Final Destination, e che
probabilmente faranno la gioia di molti appassionati del
genere.
Il Dark Humour
in The Monkey
Questo senso
dell’umorismo ‘malato’ è in fondo la cifra principale del film, nel
bene e nel male, visto che spesso, a fronte della grande creatività
omicida e dell’abilità del regista a costruire gradualmente la
tensione, viene a mancare proprio quella che dovrebbe essere la
spina dorsale dell’horror. La forza evocativa e inquietante del
giocattolo ha molta meno intensità e presa di altri suoi simili,
sostanzialmente ridotto a osservatore silente e trasformato in una
sorta di innesco di quello che è il vero conflitto, quello tra i
due fratelli.
Una scelta spiazzante,
che spezza in due il film, dopo un prologo avvincente e una
premessa promettente, affidandosi spesso a cliché e a una storia
debole nella sua rappresentazione, anche come mero tessuto
connettivo tra sequenze emozionanti e visivamente di impatto, che
finisce per dilungarsi eccessivamente prima della definitiva
conclusione. Anche questo effetto della libertà che Perkins
dimostra di prendersi nella trasposizione del racconto, insieme
alla fondamentale aggiunta di un fratello gemello, elemento che gli
permette di fare proprio il film e approfondire le dinamiche
familiari (dal rifiuto della paternità al senso di colpa per quanto
vissuto nell’infanzia) e i traumi che uniscono Hal e Bill, fino ad
assumere i tratti di una vera e propria maledizione, da affrontare,
accettare o scontare.
Un tentativo di
catarsi personale per Perkins
Tutto ciò, unito alla
relazione fratturata affidata al doppio Theo, aggiunge profondità
al racconto e un peso specifico particolare al cercarsi e
confrontarsi dei due gemelli. Forse non quella desiderata dallo
spettatore medio, che certo non si aspetterà Bergman, ma si
ritroverà di fronte a un progetto decisamente personale per il
regista, che ha pubblicamente ammesso di continuare a sfruttare i
propri film – almeno Longlegs e The
Monkey – per affrontare la depressione causata dalla morte
“mediatica” dei suoi genitori (il padre a causa dell’AIDS e la
madre Berinthia “Berry” Berenson negli attentati dell’11 settembre
2001) e mettere in scena genitori assenti, le drammatiche
conseguenze di certi segreti familiari, il desiderio di vendetta e
la paura di una distruttiva coazione a ripetere il passato.
Attenti al
gorilla
Attenzione a
fraintendere, The Monkey è
sufficientemente divertente, splatter e grottesco da appartenere a
buon titolo al genere e da poter essere apprezzato dallo stesso
King (nonostante il tradimento del suo originale), a patto di
possedere lo stesso humour del regista e sceneggiatore. Che, come
detto, a scelte convincenti di stile (dai titoli ‘western’ a una
fotografia desaturata e un commento musicale ben calibrato) e una
pletora di personaggi di contorno surreali, unisce uno sviluppo non
sempre di livello. Per ritmo e coerenza. Che rischierà di annoiare
qualcuno, forse i poco impressionabili, ma che per lo meno non si
prende sul serio. Decisamente.
Marcello Macchia,
meglio noto come Maccio Capatonda, torna con
Sconfort Zone, una serie disponibile dal 20 marzo
su Prime
Video che rappresenta una svolta nella sua carriera, quasi una
auto analisi che Macchia trasforma in racconto semi serio di una
sua difficoltà personale. Conosciuto per il suo stile comico
surreale e dissacrante, Capatonda questa volta si spinge oltre i
confini della semplice parodia, esplorando il lato più intimo e
vulnerabile della sua creatività.
Di cosa parla Sconfort Zone?
La serie segue Maccio Capatonda nei
panni di sé stesso, alle prese con una profonda crisi creativa.
Incapace di scrivere una nuova sceneggiatura, si affida alle cure
del Professor Braggadocio (Giorgio Montanini), uno
psicologo dai metodi non convenzionali che lo sottopone a una serie
di esperimenti per aiutarlo a riscoprire la propria ispirazione.
Quello che inizia come un percorso di rinascita artistica si
trasforma presto in una vera e propria ridefinizione della sua
identità, portandolo a mettere in discussione non solo la sua
carriera, ma anche la sua intera esistenza.
Un esperimento metatestuale
Fin dalle prime immagini, Sconfort
Zone si presenta come un’opera metatestuale, giocando con la realtà
e la finzione. Il protagonista affronta prove che affondano in
riflessioni su temi profondi come la malattia, la morte e il senso
della propria arte. In un primo momento, questa virata verso un
tono più drammatico può lasciare spiazzati i fan abituati alle gag
esilaranti dell’attore abruzzese, ma man mano che la storia si
sviluppa, emerge un perfetto equilibrio tra momenti di riflessione
e la sua inconfondibile vena comica, mai del tutto abbandonata.
Anche nei momenti più drammatici risulta difficile non stare
allerta in attesa della prossima intrusione nel surrealismo tipico
della comicità di Maccio.
Uno degli elementi più riusciti
della serie è la presenza di Valerio Desirò nei
panni di un infermiere esuberante e sarcastico, capace di
alleggerire i momenti più tesi con battute taglienti e una efficace
cadenza romana. Il suo personaggio non è solo un elemento comico,
ma anche una figura che incarna il precariato e le difficoltà della
generazione contemporanea che si aggrappa alla risata come
esorcismo nei confronti della difficoltà. Il cast di supporto,
composto da Francesca Inaudi (compagna di Maccio
nella finzione), Luca Confortini, Camilla Filippi,
e il trio di comici Valerio Lundini, Edoardo
Ferrario e Gianluca Colucci, che
interpretano gli amici intimi del protagonista (uno specchio
deformato in cui Marcello/Maccio riflette le proprie insicurezze)
arricchisce ulteriormente il tessuto narrativo della serie,
offrendo interpretazioni autentiche e sfumate, continuamente
tentate dal superare la linea di demarcazione tra tono drammatico e
surreale
Citazioni pop accanto a riflessioni
sull’arte e sulla vita
Se Sconfort Zone si
distingue per il suo coraggio tematico, altrettanto audace è il suo
approccio stilistico. Maccio Capatonda fonde la
sua tipica ironia con un linguaggio più cinematografico,
impreziosendo la narrazione con riferimenti alla cultura pop e
citazioni colte. Alcune scene, tra cui una toccante sequenza che
richiama Ritorno al Futuro, dimostrano una maturità registica
sorprendente (Macchia dirige a quattro mani con Alessio
Dogana, che viene dal documentario). La serie riesce a
bilanciare il suo umorismo con momenti di pura introspezione,
creando un’esperienza coinvolgente e stratificata.
Ma ciò che rende Sconfort
Zone davvero speciale è la sua capacità di parlare a un
pubblico trasversale. Dietro la trama autobiografica e i
riferimenti ironici al mondo dello spettacolo, si cela una
riflessione più ampia sulla pressione creativa e
sull’identità nell’era della sovraesposizione digitale,
quando la necessità di creare contenuto a tutti i costi sovrasta
l’estro naturale e ispirato che alimenta la creatività di artisti e
attori. Capatonda non si limita a intrattenere, ma solleva
interrogativi su cosa significhi essere un artista oggi, in un
mondo in cui l’originalità sembra sempre più soffocata dalle
logiche di mercato.
Marcello Macchia
dimostra con Sconfort Zone di riuscire a gestire sia la
sua nota vocazione comica fondendola con un registro insolito per
lui, che mira a un’analisi più profonda, un viaggio dentro
la mente di un artista in crisi, che riesce in egual
misura a divertire e emozionare, offrendo spunti di riflessione e
aprendo porte sul mondo privato dell’autore.
Un’opera audace che gioca con il
concetto di identità, percezione e bellezza,
A Different Man è
il nuovo film scritto e diretto da Aaron
Schimberg.
Con una trama che riecheggia il classico Operazione
diabolica
(1966) di John Frankenheimer, il film segue Edward (interpretato
daSebastian Stan),
un attore newyorkese con neurofibromatosi, una condizione che gli
causa vistosi tumori facciali e lo relega a ruoli marginali come
quelli nei video aziendali sulla diversità e l’inclusione. La sua
vita cambia quando accetta di sottoporsi a un trattamento
sperimentale che lo trasforma radicalmente, dandogli l’aspetto di
una star del cinema. Ma il cambiamento esteriore non si traduce in
una nuova vita felice: Edward scopre che il suo senso di
inadeguatezza non era solo una questione estetica.
Il fascino di una narrazione complessa
La forza di A Different
Man risiede nella sua capacità di esplorare il concetto di
identità in modo sfumato e spesso ironico. Schimberg non tratta
Edward con condiscendenza, evitando la tipica rappresentazione di
personaggi diversi come esseri straordinariamente virtuosi o saggi.
Edward è insicuro, mediocre come attore e non particolarmente
brillante. Il suo desiderio di cambiare aspetto non nasce da un
bisogno di accettazione sociale, ma da una cieca ambizione
artistica. Tuttavia, quando il cambiamento avviene, le cose non
migliorano come sperava: il suo nuovo aspetto lo porta solo a una
crisi ancora più profonda.
L’ironia sottile che percorre tutto
il film e l’estetica vintage ottenuta anche grazie alla pellicola
Super 16mm scelta dal direttore della fotografia Wyatt Garfield
contribuiscono a rendere credibile l’atmosfera da cinema
indipendente anni ’70 e coniuga l’omaggio stilistico al senso di
intimità e contraddizione che il protagonista porta avanti nella
sua turbolenta parabola personale.
Un cast brillante e performance
straordinarie
Sebastian Stan, noto per il
suo ruolo di Bucky Barnes nel MCU, dimostra ancora una volta il
suo talento nelle produzioni più rischiose. La sua interpretazione
di Edward/Guy non si basa solo sul cambiamento estetico, ma su una
profonda trasformazione fisica e vocale. La sua postura rimane
esitante, il suo tono di voce incerto, mostrando che l’insicurezza
è radicata nella sua personalità, non nel suo aspetto. Stan mette a
segno un’altra performance di grande spessore nella stagione
cinematografica che gli è valsa la sua prima nomination agli oscar
con l’interpretazione del giovane Donald Trump
in The Apprentice – Alle origini di
Trump.
Accanto a lui,
Renate Reinsve (già
acclamata per La
persona peggiore del mondo)
offre un’altra interpretazione affascinante. Il suo personaggio,
Ingrid, è una drammaturga norvegese che si trasferisce a New York
con grandi sogni e una personalità carismatica ma ambigua. Il suo
rapporto con Edward è inizialmente di supporto, ma si complica
quando lei scrive un’opera teatrale ispirata alla loro amicizia e
alla sua trasformazione, creando una dinamica di potere
intrigante.
Il vero fulcro emotivo
del film è però Adam
Pearson nel ruolo di Oswald. Pearson, che nella realtà
convive con la neurofibromatosi, incarna un personaggio
diametralmente opposto a Edward: sicuro di sé, affascinante e
dotato di una magnetica presenza scenica. Oswald rappresenta tutto
ciò che Edward avrebbe voluto essere, nonostante condividano la
stessa condizione fisica. Questa dicotomia genera una tensione
psicologica che diventa il cuore pulsante del film.
A Different
Man è una satira sull’autenticità
A Different
Man è una satira oscura sulla bellezza e sull’autenticità.
Il film suggerisce che la società ha una visione ristretta di ciò
che è desiderabile e normale, ma va oltre la semplice critica.
Schimberg scava più a fondo, mettendo in discussione anche la
rappresentazione della disabilità nel cinema. Edward e Oswald
dimostrano che una condizione fisica può portare a percorsi di vita
molto diversi, smentendo il cliché della persona diversamente abile
come vittima o come esempio di forza sovrumana.
Un finale aperto in
linea con lo spirito del film
Nella seconda parte, il film si fa
sempre più surreale, con una narrazione frammentata che riflette la
crisi d’identità del protagonista. Quando Edward/Guy si rende conto
di non essere comunque felice, la sua ossessione per Oswald cresce
fino a diventare autodistruttiva. Il film lascia molte domande
senza risposta, preferendo suggerire piuttosto che spiegare. Questo
senso di sospensione potrebbe risultare frustrante per alcuni
spettatori, ma è coerente con il tono della storia che non si ferma
mai a un giudizio univoco e lascia sempre spazio per discussione e
contraddittorio.
A Different Man è
un film stimolante, che sfugge alle convenzioni del genere e
propone una riflessione profonda sul rapporto tra aspetto fisico,
autostima e percezione sociale. Grazie a una regia intelligente,
un’estetica ricercata e interpretazioni memorabili, Schimberg firma
un’opera unica nel suo genere. Non tutto funziona perfettamente,
soprattutto nella seconda parte, ma il film rimane un’esperienza
intrigante e provocatoria, da vedere e discutere.
Il finale della miniserie NetflixAdolescence, visivamente impressionante ed
emotivamente straziante, rivela la verità su chi ha ucciso Katie.
Stephen Graham è il protagonista del cast di Adolescence nel
ruolo di Eddie Miller, il padre devastato di Jamie Miller, un
ragazzo apparentemente normale che viene accusato di aver
accoltellato a morte la sua compagna di classe, Katie. Graham, che
ha sviluppato la serie thriller culinaria del 2023 Boiling
Point, ha anche co-creato la miniserie in quattro parti con
Jack Thorne. Adolescence ha ricevuto un raro punteggio del
100% da parte della critica su Rotten
Tomatoes, diventando una delle nuove serie più acclamate dalla
critica del 2025.
Adolescence è realizzata in
modo brillante e si svolge come uno spettacolo teatrale, con ogni
episodio girato in un unico piano sequenza. Mentre l’aspetto visivo
della serie Netflix è un’impresa a sé stante, la storia di
Adolescence rimane la parte più avvincente del dramma
psicologico. Dopo che l’episodio 1 segue Jamie attraverso il
protocollo della polizia dopo il suo intenso arresto e il primo
interrogatorio, l’episodio 2 dà uno sguardo alla scuola frequentata
da lui e Katie, mentre l’episodio 3 rivisita il tormentato Jamie
mentre entra e esce dal controllo con uno psicologo. L’episodio
4 si svolge 13 mesi dopo che Jamie è stato accusato dell’omicidio
di Katie e si conclude con una tragica nota definitiva su ciò
che è realmente accaduto.
La scelta di Jamie di
dichiararsi colpevole è la prova che ha ucciso Katie
Jamie confessa finalmente di
aver ucciso Katie con la sua dichiarazione di colpevolezza
L’episodio 4 di Adolescenza
si svolge il giorno del 50° compleanno di Eddie, motivo per cui
riceve un biglietto di auguri da Jamie, che è detenuto da oltre un
anno in attesa di processo. L’episodio mostra come la famiglia
Miller abbia superato in parte il trauma causato da Jamie, ma non
del tutto. Dopo aver avuto a che fare con alcuni teppisti che
vandalizzano il suo furgone, Eddie perde la calma fuori da un
negozio di bricolage, causando una scenata. Eddie riceve una
telefonata da Jamie, che gli augura buon compleanno e gli dà una
notizia allarmante: si dichiara colpevole. Questo conferma
essenzialmente che Jamie ha effettivamente pugnalato Katie sette
volte e l’ha uccisa, come mostrato dalle prove video delle
telecamere a circuito chiuso nell’episodio 1.
Perché Eddie non riusciva a
credere che Jamie fosse un assassino dopo aver visto le prove
video
Eddie era spinto dal rifiuto di
proteggere suo figlio a tutti i costi
Uno degli aspetti più affascinanti
del personaggio di Jamie era quanto fosse convincente nel
mentire e manipolare. Questo aspetto viene messo in piena
evidenza con il suo terapeuta nell’episodio 3. Anche se Eddie ha
visto le immagini innegabili di Jamie che accoltellava e uccideva
Katie, non riusciva a crederci completamente.
Dopo aver finalmente
ascoltato la confessione di Jamie, Eddie capisce di essere stato
ingannato per tutto il tempo e la realtà finalmente affiora nella
sua mente e in quella della sua famiglia.
Negli ultimi 13 mesi, sembrava che
la famiglia Miller avesse ancora qualche speranza che il figlio
non fosse un assassino, probabilmente come misura difensiva
perché il dolore di una tale verità sarebbe stato troppo grande.
Dopo aver finalmente ascoltato la confessione di Jamie, Eddie
capisce di essere stato ingannato per tutto il tempo e la realtà
finalmente affiora nella sua mente e in quella della sua
famiglia.
La spiegazione della
conversazione emotiva di Eddie e Manda su Jamie
Si sentono in colpa per aver
creato un assassino, ma hanno anche cresciuto una figlia
fantastica
Dopo la notizia scioccante della
decisione di Jamie, Eddie e Manda hanno una conversazione emotiva e
riflessiva sul figlio, che dovrà sicuramente affrontare anni di
prigione. Ricordano i giorni migliori, analizzando anche cosa
avrebbero potuto fare diversamente, assumendosi la colpa e la
responsabilità di averlo “creato”.
Eddie dice che ha cercato di
avvicinarlo allo sport, ma Jamie non era interessato, mentre Manda
ricorda come Jamie tornava a casa da scuola, si metteva al computer
e rimaneva sveglio fino a tarda notte. Mentre Eddie e Manda si
assumono la responsabilità di averlo reso un assassino, la loro
figlia Lisa entra e ricorda loro che hanno creato anche lei e
che non possono incolpare se stessi per il lato oscuro di
Jamie.
Perché alcuni ragazzi hanno
scritto “Nonse” sul furgone di Eddie
Adolescence episodio 4
inizia con Eddie che scopre che il suo furgone di lavoro è stato
vandalizzato, con alcuni ragazzi che hanno scritto “Nonse” con
vernice spray gialla affinché tutti i vicini di Eddie potessero
vederlo. In gergo britannico, un “nonce” si riferisce a un
molestatore sessuale, in particolare uno che coinvolge bambini.
Lisa vede la scritta e dice a sua madre di essere confusa su chi
sia il “nonse”, se Eddie o Jamie. Jamie ha rivelato nell’episodio 3
di essere stato tentato di toccare Katie in modo inappropriato, ma
di non averlo mai fatto. D’altra parte, è impossibile sapere quanto
Jamie fosse sincero.
L’episodio 4 evidenzia anche il
fatto che Eddie sta avendo qualche difficoltà a gestire la
situazione di Jamie e la sua continua lotta contro la rabbia.
Quando Eddie affronta l’adolescente che ha vandalizzato il suo
furgone, gli urla “Non prendermi in giro”, che può essere
interpretato come una leggera ammissione di colpa, come se
sapesse che “nonse” era riferito a lui. Mentre Lisa non ha idea
della questione, Manda potrebbe sapere qualcosa sul passato di
Eddie che non viene necessariamente alla luce alla fine di
Adolescenza. Forse i ragazzi che hanno scritto “nonse” hanno
sentito dire che Eddie aveva abusato sessualmente di Jamie. In ogni
caso, l’accusa di “nonse” nei confronti di Eddie o Jamie sembra
infondata.
Chi è Jenny e perché Manda
continua a parlarne
Manda menziona “Jenny” più volte
durante la sua discussione con Eddie, ricordandogli ciò che lei ha
detto su alcuni suoi comportamenti. Anche se Jenny non appare nella
serie, è lecito supporre che sia la terapista di Eddie e
potrebbe anche essere una consulente di coppia per Eddie e
Manda.
Eddie ha chiaramente dei difetti e
il suo problema più evidente è la rabbia incontrollabile: chiede a
sua moglie se lui ha “trasmesso” questo a Manda, che nega, quando
in realtà è una domanda a cui è impossibile rispondere. Sicuramente
i bambini esposti all’idea che gli uomini esercitano il dominio
o il controllo attraverso la rabbia e la violenza potrebbero
implementare queste nozioni nella loro personalità e
percezione.
Spiegato il motivo per cui
Jamie ha ucciso Katie
Adolescence esplora diversi
aspetti della mentalità malsana di Jamie
Jamie lo ha reso ufficiale
nell’episodio finale di Adolescence, ma era già chiaro fin
dalla fine del primo episodio. Attraverso la visione giovanile di
suo figlio, Bascombe scopre che Jamie era vittima di bullismo
subliminale da parte di Katie, che usava determinate emoji nei
commenti sui suoi post Instagram per insinuare che lui fosse un
“incel”. Si parla anche della “manosfera” e di altri pilastri
della mascolinità tossica, perpetuati da figure controverse come
Andrew Tate, che viene persino menzionato direttamente nella
serie.
Questi elementi, combinati con la
scuola turbolenta di Jamie, la sua patologica propensione alla
menzogna, la storia familiare di rabbia e la profonda insicurezza,
dipingono un quadro comprensibile del perché qualcuno che è stato
rifiutato e vittima di bullismo da una ragazza che gli piaceva
avrebbe potuto vendicarsi con la forza bruta, potenzialmente senza
rendersi conto della gravità delle sue azioni.
Il vero significato del finale
di Adolescenza
Adolescence fa un ottimo
lavoro non solo nel sollevare le questioni relative alle
aggressioni con arma da taglio tra adolescenti nella vita reale,
che hanno ispirato la serie, ma anche nell’offrire alcune
circostanze applicabili e vie verso la comprensione. Graham e
Thorne presentano l’esperienza dell’adolescenza stessa come
enigmatica e spesso irrazionale, alimentata sempre più dal gergo
di Internet, dai cosiddetti influencer e da ingegnosi espedienti di
cyberbullismo. Considerando il contesto completo della
situazione di Jamie, è chiaro che aveva molte difficoltà sociali e
personali che non sapeva come elaborare o esprimere a un adulto di
fiducia. Gli spettatori di Adolescenza decidono quindi a chi
attribuire la colpa.
Con un argomento così confuso
e indescrivibile, Adolescenza offre brillantemente una prospettiva
empatica, avviando al contempo un dibattito sociale
fondamentale.
Jamie non era in terapia fino a
dopo aver ucciso Katie, il che gli avrebbe almeno aiutato a
chiarire in anticipo alcuni dei suoi sentimenti intensi e violenti.
Jamie è senza dubbio tragico in un certo senso e solleva ogni sorta
di domande e dibattiti, come ad esempio se fosse davvero destinato
a diventare un assassino e, in tal caso, cosa lo abbia
condizionato: i suoi genitori, i suoi coetanei, il mondo esterno
(Internet)? L’ultima frase di Eddie sullo schermo, “Avrei dovuto
fare di meglio”, mostra il suo dolore naturale, ma l’indagine
di Bascombe rivela che c’erano alcune cose che sfuggivano al
controllo di Eddie e Manda. Con un tema così confuso e
indescrivibile, Adolescenza offre brillantemente una
prospettiva empatica, avviando al contempo un dibattito sociale
fondamentale.
Immagina una Eleven ancora più
solitaria e arrabbiata, con un biondo ossigenato da vera ribelle e
un’energia da outsider in rotta col mondo. Affiancale ora uno
Star-Lord più trasandato e disilluso del solito, spogliato della
sua ironia sfacciata, e catapulta entrambi in un universo dove il
retrò e il futuristico si fondono in un’estetica nostalgica e
intrigante. Sulla carta,
The Electric State dei
fratelli Russo sembrerebbe un
mix esplosivo, il perfetto road movie sci-fi capace di conquistare
cuore e mente.
Eppure, qualcosa non torna del tutto.
Basato sull’omonimo romanzo illustrato del 2018 di Simon
Stålenhag, The
Electric State è
il nuovo emozionante film Netflixdiretto
da Anthony e Joe Russo,
con una sceneggiatura firmata da Christopher Markus e Stephen
McFeely. Il cast è stellare: accanto a Millie Bobby Brown e Chris Pratt troviamo
il premio Oscar® Ke Huy Quan, Jason Alexander, Giancarlo Esposito,
il candidato all’Oscar® Stanley Tucci e Woody
Norman. The
Electric State è disponibile
dal 14 marzo su Netflix.
Cosa racconta The
Electric State?
The Electric State è ambientato in un’America
rétro-futuristica degli anni ’90, segnata dalle conseguenze
di una guerra devastante tra umani e robot.
In questa versione alternativa del passato, le macchine senzienti
erano state inizialmente accolte come strumenti essenziali per la
società, occupandosi di compiti di pubblica utilità e supportando
gli esseri umani nella vita quotidiana. Nonostante ciò, la loro
richiesta di diritti e riconoscimento ha scatenato un conflitto
inevitabile tra umani e macchine, culminato nella sconfitta di
questi ultimi e nel loro esilio.
Il mondo che ne è scaturito è
profondamente mutato: la tecnologia permea ogni aspetto della vita,
ma invece di avvicinare le persone, le ha rese sempre più isolate,
immerse in realtà digitali attraverso i loro neurocaster. In questo
scenario, Michelle (Millie Bobby Brown
– Stranger Things, Enola Holmes, Damsel), un’adolescente
segnata dalla perdita dei genitori e del fratellino Christopher in
un incidente stradale avvenuto anni prima, fatica ad adattarsi a
una società ormai disumanizzata. Nel frattempo, i robot senzienti,
un tempo pacifici e dalle sembianze quasi giocose, sono stati
relegati in un fatiscente paesino, un limbo di rottami e sogni
infranti dopo la loro ultima, fallita ribellione.
Ma la vita di Michelle cambia di
nuovo quando, all’improvviso, riceve la visita di
Cosmo, un misterioso e affettuoso robot che sostiene di
essere controllato da Christopher, il fratellino che ha perduto.
Con lui si riaccende la speranza di riunire la sua famiglia, o
almeno ciò che ne resta. Determinata a scoprire la verità, Michelle
intraprende un viaggio pericoloso verso la Zona Interdetta nel
sud-ovest americano, decisa a capire chi li ha separati e perché,
dopo quel tragico incidente. Ad accompagnarla in questa avventura
sarà Cosmo, ma anche Keats (Chris Pratt, Guardiani della
Galassia, Jurassic World), un
contrabbandiere dal carattere ruvido, e il suo inseparabile
compagno robotico Herman, doppiato nella
versione originale da Anthony Mackie.
Ritrovare l’umanità che
abbiamo perso
Può un ammasso di metallo e
circuiti provare più empatia e lealtà di un essere
umano? D’istinto, verrebbe da rispondere con un no
secco. Eppure, la storia nata dall’immaginazione di Simon Stålenhag
ci porta a riconsiderare questa certezza. La commovente avventura
di Michelle e Keats dipinge un mondo in cui gli esseri umani si
sono fatti più freddi, distanti e alienati di qualsiasi macchina.
Nel loro lungo viaggio attraverso un’America fatiscente e
nostalgica, i due trovano ben poco calore tra le persone, ad
eccezione di Keats stesso, che condivide con Michelle un senso di
inadeguatezza, ribellione e solitudine.
Paradossalmente, il vero rifugio lo
scopriranno in un villaggio dimenticato, un luogo dove i robot
dotati di coscienza sono stati esiliati e abbandonati, scartati
dalla società umana nonostante il loro desiderio di restare accanto
alle persone. In questo angolo di rottami e
malinconia, Michelle e Keats realizzeranno che forse l’umanità non
risiede più nelle persone, ma in ciò che loro stesse hanno creato e
poi respinto.
Ed è proprio attraverso la tragica
storia familiare di Michelle che Stålenhag sembra rivolgere al
pubblico una domanda silenziosa ma potente: quando
abbiamo smesso di essere umani? Mentre la giovane
determinata protagonista cerca di ricostruire ciò che ha perduto,
il film invita lo spettatore a guardare dentro se stesso e
riflettere su quanto l’umanità abbia sacrificato sull’altare della
tecnologia. In un mondo dove le connessioni reali si sono
assottigliate e l’empatia sembra sempre più
un’illusione, The
Electric State diventa un monito: forse non sono i robot
a voler essere più umani, ma siamo noi a dover riscoprire cosa
significhi davvero esserlo.
Un cast stellare e
un’ambientazione che rapisce
Al di là della sua emozionante
storia e del profondo messaggio sottostante, The Electric
Stateconferma ancora una volta la maestria dei
fratelli Russo nel miscelare sentimentalismo, avventura e
azione, regalando due ore di puro intrattenimento. Il film
scorre con un equilibrio perfetto tra emozione e
spettacolo visivo, riuscendo a coinvolgere il pubblico sia
a livello narrativo che estetico.
Il cast hollywoodiano brilla, con
una coppia protagonista che funziona alla perfezione. Millie Bobby
Brown e Chris Pratt dimostrano fin dalle prime scene un’alchimia
vincente, riuscendo a conquistare la scena grazie al loro carisma e
talento. I loro personaggi, apparentemente opposti, si rivelano in
realtà molto più simili di quanto sembri inizialmente, dando vita a
un rapporto che evolve in modo naturale e convincente.
Ma non sono solo gli eroi a
spiccare: anche gli antagonisti lasciano il
segno. Stanley
Tucci (Amabili resti, Il diavolo veste
Prada) è impeccabile nel ruolo di Ethan Skate, il folle
magnate della tecnologia a capo della Sentre, una corporazione
tanto potente quanto inquietante. Al suo fianco, Giancarlo
Esposito (Captain America: Brave New
World,Breaking Bad) regala
un’interpretazione memorabile nei panni del Colonnello Bradbury,
detto Il Macellaio, un uomo spietato che ha
guadagnato il suo soprannome sterminando robot senzienti durante la
guerra. Il loro carisma e la loro presenza scenica elevano il film,
offrendo antagonisti credibili e sfaccettati, che incarnano
perfettamente le tematiche di potere e disumanizzazione esplorate
dalla storia.
Anche l’ambientazione gioca un ruolo
chiave nell’immergere il pubblico in un mondo che mescola
passato e futuro con un tocco di malinconia. La nostalgia
degli anni ’90 – un decennio ormai mitizzato da un’intera
generazione – si intreccia con un futuro distopico fin troppo
plausibile, creando un’atmosfera unica. La fusione tra
elementi vintage, colonna sonora pop e tecnologie obsolete si
integra perfettamente con la presenza di dispositivi
futuristici come i neurocaster e
le imponenti macchine da guerra telecomandate dagli umani,
comodamente seduti nel salotto di casa. Il risultato è un universo
visivo che non solo affascina, ma che fa anche riflettere sul
rapporto sempre più alienante tra uomo e tecnologia.
Non è tutto oro ciò che
luccica
Che i fratelli Russo sappiano come
sfruttare al meglio il mezzo cinematografico per dare vita a storie
che restano impresse è ormai una verità consolidata.
Con The Electric
State, continuano a dimostrare il loro talento nel creare
un’esperienza visiva coinvolgente, arricchita da emozioni forti e
momenti che lasciano il segno. Tuttavia, nonostante la
bellezza estetica e l’intensità delle emozioni che cercano di
suscitare, il film manca di quella profondità e della tensione
drammatica che ci si aspetterebbe da una storia così ricca e un
cast altrettanto vincente.
Il film, purtroppo, sembra
seguire la stessa sorte di un soufflé: cresce
e si eleva nelle prime scene, mostrando la sua forma più
affascinante e ben costruita, per poi sgonfiarsi e perdere di
consistenza nel corso della narrazione. Il viaggio emotivo e di
formazione che Michelle intraprende all’inizio, segnato da una
ricerca di riscatto e dalla necessità di elaborare il lutto, trova
nella seconda parte del film una trasformazione che, seppur
significativa, manca di quella potenza che ci si aspetterebbe in un
racconto così carico di potenziale. La sua presa di coscienza e
l’accettazione del dolore sembrano troppo snelle e prive di un
percorso davvero coinvolgente, lasciando lo spettatore con una
sensazione di incompiutezza.
Pur toccando le corde
giuste, The Electric
State fallisce nel mantenere alta la tensione emotiva
necessaria per trasformare questo viaggio in una vera e propria
rivelazione
L’episodio 9 della seconda stagione
di Scissione
(Severance) prepara perfettamente il
terreno per il finale, dando un assaggio di come potrebbe
concludersi la storia di ogni personaggio principale. Nei primi
minuti, l’episodio 9 della seconda stagione rivela le grandi
aspettative che Jame Eagan ripone in Helena. Tuttavia, qualunque
cosa lei faccia, lui sembra deluso e persino infastidito dal fatto
che lei non mangi le uova crude come Kier. Dopo aver mostrato come
Helena sia schiacciata dalle aspettative del padre e dall’eredità
della sua famiglia, l’episodio 9 della seconda stagione di Severance fa
empatizzare gli spettatori con Huang, accennando al suo futuro alla
Lumon. Anche Dylan, l’innie, attraversa una delle fasi più
difficili della sua vita quando incontra di nuovo la moglie del suo
outie.
Nel frattempo, gli outie di Burt e
Irving parlano finalmente della relazione dei loro innies e vivono
una serie di emozioni complesse prima di separarsi. L’episodio
della seconda stagione di Scissione
(Severance) si conclude finalmente
con l’arrivo di Cobel, Mark e Devon al Damona Birthing Retreat,
dove Cobel spera di poter parlare con l’innie di Mark.
Perché Cobel vuole parlare con
l’innie di Mark nel finale dell’episodio 9 della seconda stagione
di Severance
Quasi per tutto l’episodio 9 della
seconda stagione di Severance, Mark non può fare a meno di
sospettare che Cobel voglia aiutarli. Il suo sospetto ha senso,
dato che Cobel è stata cresciuta da Lumon. Tuttavia, Mark alla fine
cede quando Cobel rivela che Gemma potrebbe essere ancora viva se
il suo innie non avesse finito di elaborare il file Cold Harbor.
Rendendosi conto che solo un ex insider come Cobel può aiutarli a
salvare Gemma, Mark accetta di seguire il suo consiglio.
Nell’ultima scena dell’episodio 9
della seconda stagione di Severance, Mark entra in una
capanna del Ramona Birthing Retreat e si trasforma nel suo alter
ego. Con sua grande sorpresa, trova Cobel ad aspettarlo, che gli
suggerisce di aiutare Gemma a fuggire dalla Lumon. Dopo essere
stata tradita e abbandonata da Lumon, Cobel sembra finalmente aver
capito quanto l’azienda si preoccupi poco del benessere delle
persone. Tuttavia, dato che non può più entrare nell’edificio
Lumon, non può fare molto per aiutare direttamente Mark. Pertanto,
sembra sperare di convincere l’innie di Mark ad aiutarli a salvare
Gemma.
Il futuro della signora Huang in
Lumon spiegato: perché Milchick le chiede di interrompere il
gioco
Milchick annuncia il completamento
della borsa di studio Wintertide della signorina Huang, che avrebbe
dovuto determinare il suo futuro alla Lumon. Proprio come Cobel è
diventata una dipendente a tempo pieno della Lumon dopo aver
completato la sua borsa di studio, anche Huang sembra poter fare lo
stesso. Milchick conferma che sarà trasferita al Gunnel Eagan
Empathy Center, dove continuerà a lavorare per la Lumon.
Sebbene la signorina Huang lavori duramente per completare la sua
borsa di studio, è triste per il trasferimento perché significa che
dovrà allontanarsi dai suoi genitori.
Il processo di distruzione del
totem non solo serve come simbolo per segnare la fine dell’infanzia
di Huang, ma è anche parte del processo di indottrinamento di Lumon
per spogliare le persone della loro identità e renderle parte del
culto che venera Kier.
Il suo tragico futuro alla Lumon
evidenzia come l’azienda costringa molti minori a lavorare
mascherando il lavoro minorile come un’opportunità di crescita
professionale. Anche Cobel ha vissuto un’esperienza simile quando
era molto più giovane. Milchick le fa anche capire la gravità del
suo ruolo alla Lumon facendola distruggere il suo amato gioco. Il
processo di distruzione del totem non solo serve come simbolo per
segnare la fine dell’infanzia di Huang, ma è anche parte del
processo di indottrinamento di Lumon per privare le persone della
loro identità e renderle parte del culto che venera Kier.
Cosa intende Jame Eagan quando
dice di vedere Kier in Helly
Jame Eagan ha detto la stessa
cosa a Helly e Harmony
Nell’arco narrativo finale
dell’episodio 9 della seconda stagione di Severance, Jame
Eagan si intrufola nel piano separato della Lumon e sembra voler
affrontare Helly. Tuttavia, più le parla, più diventa evidente che
vorrebbe che sua figlia fosse più simile a lei. Afferma di aver
visto Kier in Helena una volta, ma ora fatica a vedere la stessa
cosa.
La sua insoddisfazione nei confronti
della figlia emerge anche nei primi minuti dell’episodio, quando la
guarda con disappunto e afferma che vorrebbe che mangiasse le uova
crude come Kier.
La ribellione di Helly e la sua
volontà di costruirsi una propria strada e identità sembrano
ricordare a Jame Eagan Kier, suggerendo che preferirebbe avere
lei come erede al posto di Helena. Dato che Helena è già gelosa
della sorella, diventerà ancora più invidiosa di Helly se scoprirà
come la vede suo padre. Questo potrebbe non solo esacerbare
ulteriormente il rapporto già teso tra Helena e suo padre, ma anche
complicare il rapporto di Helly con Mark.
Perché il destino di Gemma
dipende dal completamento di Cold Harbor
Cobel dice a Mark che i numeri dei
file MDR sono sua moglie, suggerendo che il destino di Gemma è
sempre dipeso dal lavoro di Mark con l’MDR. Questo ha senso, dato
che l’episodio 7 della seconda stagione di Scissione
(Severance) ha stabilito che il nome di
ogni stanza del piano di test corrispondeva al nome di un file su
cui Mark aveva lavorato in precedenza. Gli sviluppi della trama
dell’episodio 7 sembrano aver stabilito che Mark stava
“creando” le innies individuali di Gemma lavorando sui file
nel reparto MDR.
Severance ha rivelato finora i nomi
delle seguenti stanze del piano di test:
Allentown
Dranesville
Siena
Lucknow
Loveland
Wellington
St. Pierre
Zurich
Cold Harbor
Per questo motivo, è difficile non
credere che il completamento di Cold Harbor creerà un altro
innies per Gemma, che si attiverà dopo che Gemma entrerà nella
stanza Cold Harbor nel piano di test. Cobel continua a insinuare
che Gemma sarebbe viva solo se l’innies di Mark non avesse
completato il file Cold Harbor. Questo potrebbe significare che una
volta che Lumon avrà testato la stanza finale su Gemma, la
uccideranno invece di liberarla? Il finale della seconda stagione
di Severance probabilmente fornirà ulteriori risposte.
Perché Burt costringe Irving a
lasciare la città di Kier
Burt rivela la sua storia con Lumon
nell’episodio 9 della seconda stagione di Severance,
confessando di non aver mai fatto del male direttamente a nessuno.
Ha solo accompagnato delle persone a Lumon, ma ha sempre saputo che
l’azienda stava facendo qualcosa di sbagliato. Si sente in colpa
perché ha facilitato le azioni illecite di Lumon. Come spiega, è
entrato a far parte di Lumon come dipendente separato perché
credeva che gli avrebbe dato l’opportunità di trovare una parvenza
di redenzione.
Irving prova empatia per lui e non
lo giudica per il suo passato. Si rende anche conto che
raccontandogli del suo passato con Lumon, Burt sta rischiando la
vita. Irv spera di esplorare il suo rapporto con Burt nel mondo
esterno, credendo che potrebbero potenzialmente avere lo stesso
rapporto che avevano da “innies”. Tuttavia, con suo grande
disappunto, Burt lo incoraggia ad andarsene, rendendosi conto che
Lumon è a conoscenza della sua operazione segreta contro di
loro.
Sebbene Irv cerchi di convincerlo a
lasciare la città di Kier con lui, Burt rifiuta l’offerta di
restare con il suo partner, Fields.
La decisione di Dylan di
dimettersi
Come altri lavoratori MDR, Dylan era
inizialmente motivato dai vantaggi che Lumon offriva a tutti i
dipendenti con prestazioni elevate. Tuttavia, il suo mondo è
crollato quando l’incidente dell’Overtime Contingency gli ha fatto
capire di avere una famiglia al di fuori dell’ufficio Lumon. Per
mantenerlo motivato, Milchick capì che avrebbe dovuto fargli
incontrare sua moglie, Gretchen. Poco dopo aver incontrato la
moglie del suo outie, Dylan trovò un nuovo motivo per rimanere
fedele alla Lumon. I suoi incontri occasionali con Gretchen
divennero il momento clou della sua vita, mentre gradualmente si
innamorava di lei.
Anche Gretchen gli ha dato speranza
quando lo ha baciato. Purtroppo, l’outie di Dylan non ha gradito
quando Gretchen gli ha detto di aver baciato il suo innie. Di
conseguenza, Gretchen ha deciso di interrompere gli incontri. Con
questo, l’unica cosa che spingeva Dylan a lavorare per Lumon
dopo gli eventi della prima stagione di Severance gli
è stata portata via. Pertanto, ha deciso di porre fine alla sua
esistenza scrivendo una lettera di dimissioni. Se le sue dimissioni
saranno accettate nel finale della seconda stagione di
Severance dipenderà interamente dal suo outie.
FBI 6 è la
sesta stagione della serie tv FBI creata
da Dick Wolf e Craig Turk per CBS. La
serie è prodotta da Wolf Entertainment, CBS
Studios e Universal Television, con Dick
Wolf, Arthur W. Forney, Peter Jankowski e Turk
come produttori esecutivi.
La
serie presenta un cast
corale che
include Missy
Peregrym , Zeeko Zaki , Jeremy
Sisto, Ebonée Noel , Sela Ward , Alana de
la Garza , John Boyde Katherine
Renee Turner.
FBI 6: quando esce e dove vederla
in streaming
FBI 6 ha
debuttato negli USA il 13 febbraio 2024 su CBS. In
Italia FBI 6 debutterà su RAI 2 in chiaro e FBI 6 in streaming sarà
disponibile su RAIPLAY
FBI 6: trama e cast dei nuovi
episodi
Nella sesta stagione
di FBI La squadra entra in azione per sconfiggere
l’organizzazione terroristica responsabile dell’esplosione di un
autobus.
Nella sesta stagione
di FBIMissy
Peregrym riprende il ruolo di Maggie Bell, agente
speciale dell’FBI. Zeeko Zaki riprende
il ruolo di Omar Adom “OA” Zidan, agente speciale dell’FBI e
partner di Maggie. Jeremy Sisto riprende
il ruolo di Jubal Valentine, assistente agente speciale incaricato
dell’FBI (ASAC). Alana de la
Garza riprende il ruolo dell’agente speciale in
carica (SAC) Isobel Castille.
John
Boyd riprende il ruolo di Stuart Scola, agente
speciale dell’FBI e partner sul campo di Kristen, e più tardi, di
Tiffany. Katherine Renee Kane riprende il ruolo di Tiffany Wallace,
agente speciale dell’FBI ed ex ufficiale della polizia di New York
e agente della White Collar Division.
Nei ruoli ricorrenti troviamo
Roshawn Franklin nel ruolo di Trevor Hobbs (stagioni 2-6), un
agente speciale dell’FBI e un analista dell’intelligence. Vedette
Lim nel ruolo di Elise Taylor (stagione 2-presente), un’analista
dell’intelligence dell’FBI.
Mare
Fuori 5 deve gestire un
finale di stagione della stagione precedente che ha
lasciato tutti con il fiato sospeso, ancora più di quello
sparo nel buio che aveva chiuso invece il terzo
ciclo. Rosa
Ricci lascia Carmine Di
Salvo all’altare, il matrimonio tra le due grandi
famiglie come promessa di pace non si celebra,
mentre Edoardo Conte trova la sua morte
per mano sconosciuta sul fondo della cripta dei Ricci, tra la bara
di Ciro e quella di Don
Salvatore, che proprio lui aveva a sua volta ucciso.
“Voglio che tu sappia che sei
l’unico che sia riuscito a vedere la luce in me. Sei puro, sei luce
ed esplodi come un vulcano ogni volta che ami. Per salvarti ti sei
aggrappato alla cosa più bella che esista: l’amore. E io non
sono quella cosa bianca limpida che pensavi tu. Io sono rossa
e nera, sono passione e vendetta.Mi hai insegnato
che l’amore salva e io ti ho salvato dall’unica cosa che ti poteva
uccidere: da me.” Con queste parole di addio, Rosa giustifica
il suo addio all’amore e a una vita normale, quella che è quasi una
poesia liquida in apertura la scelta di Rosa. E Carmine diventa un
ricordo… per ora.
Un’alleanza
al femminile perMare
Fuori 5
La giovane vuole ora prendere le
redini del regno criminale ereditato dal padre e si rende subito
conto che Carmela, moglie e vedova di Edoardo, è l’unica alleata
che le resta. Entrambe hanno fatto qualcosa per ferire l’altra, ma
perdonarsi e fare squadra sembra l’unico modo per sopravvivere
contro Donna Wanda Di Salvo.
Il loro scopo è ovviamente
riprendere possesso delle piazze di spaccio, ma anche scoprire chi
ha ucciso Edoardo. Come spesso accade nella serie, la risposta
arriva dall’interno dell’IPM, dove nuovi sconvolgimenti sono pronti
ad avvenire per portare scompiglio nel delicato equilibrio
all’interno della struttura. Simone (Alfonso
Capuozzo) e Tommaso (Manuele Velo) di
Napoli, e Samuele (Francesco Alessandro Luciani) e
Federico (Francesco Di Tullio), di Milano,
arrivano a turbare le sorti dei protagonisti, in particolare i due
ragazzi del nord, che si rivelano spregiudicati e
violenti. Completano il cast Elisa
Tonelli e Rebecca Mogavero,
rispettivamente nei ruoli di Sonia e Marta, che nella prima parte
della serie non hanno ancora avuto un ruolo importante ma che, lo
immaginiamo, verranno raccontate meglio nella seconda parte.
Volti vecchi e nuovi
Il mondo esterno all’IPM porta nel
flusso del racconto di Mare Fuori 5 anche Assunta, madre di Rosa e
Ciro, creduta morta perché così aveva dichiarato Don Salvatore, e
che il pubblico sa essere viva, vegeta e libera dalla quarta
stagione, dove si scopre che è stata aiutata da Ciro a rimettersi
in sesto dopo che il marito l’aveva fatta rinchiudere in un
ospedale psichiatrico. La donna vorrebbe riallacciare i rapporti
con la figlia, visto che era presente al suo non-matrimonio? Lo
scopriremo…
Tornano ovviamente tutti i volti
noti e amati della serie: Pino, Cardiotrap, Mimmo, Cucciolo e
Micciarella, Milos, Dobermann, Silvia, Alina, ma anche gli adulti
Massimo, Sofia, Beppe con le loro storie, i loro drammi e le loro
aspirazioni.
Messo da parte il grande dramma
romantico di Rosa e Carmine, Mare Fuori 5 torna a raccontare storie
di violenza, soldi, vendetta e difficoltà, riportando la serie alle
sue origini, e relegando ai margini del racconto l’aspetto
soapoperistico che tanto aveva fatto innamorare il pubblico. Ogni
personaggio è chiamato verso la salvezza, ma questa non arriverà
per tutti, come si scopre man mano che gli episodi vanno avanti. Il
ritorno alle origini con la centralità di determinati temi però non
corrisponde alla replica di quello che era il tono delle prime
stagioni, in cui c’era una forte aspirazione alla speranza e al
cambiamento per i giovani protagonisti. Quel mare
fuori era davvero una metafora radicata anche nel modo di
raccontare le aspirazioni di ciascuno.
Mare Fuori 5 la
speranza è bandita
In Mare Fuori
5 la speranza è bandita. Rosa, emblema
“romantica” della quarta stagione, diventa qui un oscuro angelo di
vendetta, sopraffatta dai compiti oscuri che ha scelto di
ereditare. Ludovico Di Martino, che prende il posto
di Ivan Silvestrini alla direzione degli episodi,
cambia ancora una volta le carte in tavola e preferisce una regia
presente, invasiva, drammatica, quasi solenne, così come sono
solenni le minacce, le frasi stentoree e le parole dei
protagonisti. Il risultato è un tono artefatto che in qualche modo
strano trova comunque la sua armonia, perché più che empatia genera
distacco dalle disavventure che guardiamo sullo schermo.
Non sappiamo dove ci porterà la
seconda parte di stagione di Mare Fuori
5, ma senza dubbio si tratta di un cammino oscuro, in
cui il confine tra bene e male verrà oltrepassato e confuso più
volte.
Il regista e sceneggiatore
singaporeano
Anthony Chen torna
con The
Breaking Ice,
presentato a Cannes 76, un’opera intensa e poetica
che esplora il senso di smarrimento, solitudine e desiderio di
evasione di tre giovani in una gelida città cinese al confine con
la Corea del Nord. Il film si distingue per la sua atmosfera
malinconica e contemplativa, in cui la neve e il ghiaccio diventano
elementi simbolici di uno stato emotivo sospeso tra l’immobilità e
il cambiamento.
The Breaking Ice è un
racconto di anime perdute
La pellicola si apre con un’immagine evocativa:
uomini intenti a tagliare blocchi di ghiaccio, una rappresentazione
visiva del titolo stesso. Subito dopo incontriamo Li Haofeng
(Haoran Liu), un giovane che partecipa con distacco al ricevimento
di nozze di un collega coreano. La sua alienazione si manifesta
nella solitudine con cui mastica il ghiaccio del suo drink,
rompendolo sotto i denti, di nuovo si evoca il titolo e si racconta
una difficoltà a inserirsi dentro un contesto vitale, come può
essere un matrimonio. La sua esistenza si intreccia presto con
quella di Nana (Dongyu Zhou), una guida turistica
che accompagna visitatori alla scoperta della comunità coreana
della regione, e Han Xiao (ChuxiaoQu), cuoco di un
ristorante coreano che nutre sentimenti irrisolti per Nana.
Un incontro casuale e una notte di alcol e confidenze fanno nascere
tra i tre una connessione insolita e temporanea, trasformandoli in
una sorta di famiglia improvvisata. Il loro legame si cementa
attraverso momenti di fuga dalla realtà: balli sfrenati, escursioni
pericolose, sfide insensate e un viaggio fino al remoto e innevato
sentiero che porta al Lago del Paradiso. Questo cammino non è solo
fisico, ma anche metaforico: ciascuno di loro è alla ricerca di una
via di fuga dalla propria esistenza stagnante e
irrisolta.
Un film d’atmosfera
Chen si affida a un racconto fatto di frammenti, momenti sospesi e
silenzi che parlano più delle parole, realizzando una composizione
visiva che evoca più che raccontare, ricordando il cinema della
Nouvelle Vague francese, con riferimenti espliciti a “Bande à part”
e “Jules e Jim”. Le immagini costruite dal regista sono
costantemente costruite per rimandare a un altro significato oltre
a quello che mostrano: una gabbia di animali in uno zoo riflette la
prigionia interiore dei protagonisti, mentre un orologio costoso
che smette di funzionare sottolinea l’inesorabile scorrere del
tempo in qualsiasi condizione socio economica si possa vivere. Quel
ghiaccio che Li Haofeng mastica all’inizio del film diventa di
nuovo un riferimento al titolo ma questa volta viene condiviso
dagli altri, acquista una ulteriore simbologia: connessione e
vulnerabilità.
Tre protagonisti magnetici
A dare forma a questo cinema di suggestioni, intervengono i tre
protagonisti: Dongyu
Zhou dona
a Nana un’intensità struggente, un personaggio che cerca di
soffocare il dolore tra alcool e sesso privo di
intimità. Haoran
Liu interpreta
Haofeng con una delicatezza toccante, incarnando il disagio di chi
si sente fuori posto ovunque vada. Chuxiao
Qu,
nel ruolo di Han Xiao, trasmette una mascolinità ruvida ma ferita,
mostrando il conflitto tra il desiderio di fuggire e l’incapacità
di farlo. Tre voci che si uniscono in un coro di disagio e
inadeguatezza, specchio di una generazione Z che chiede aiuto ma
non sa a chi rivolgersi.
Chen dimostra ancora una volta la sua capacità di catturare i
dettagli più sottili e significativi, come nel modo in cui
posiziona i personaggi in un’ambientazione che ricorda il quadrante
di un orologio, suggerendo ancora una volta l’inesorabile avanzare
del tempo. Uno sforzo di composizione che viene accentuato dalla
fotografia, con le sue tonalità fredde e una composizione
meticolosa, che enfatizza il senso di isolamento.
The Breaking Ice ha
un grande fascino visivo ma soprattutto emotivo, capace di
trasmettere con estrema sensibilità la condizione di giovani che si
sentono intrappolati nelle loro vite. Il film non manca di
incongruenze, ma rimane un’opera di grande valore artistico. Il
finale suggerisce poi una circolarità alla narrazione che sembra
voler indicare che il senso di inadeguatezza e incertezza verso la
strada da prendere non si supera, ma si impara a dare valore alla
ricerca del cammino, non più alla destinazione del
viaggio.
The Breaking
Ice è un’opera che cattura con delicatezza la
vulnerabilità dei suoi personaggi, immergendoli in un paesaggio
invernale che riflette le loro anime alla deriva. Con una regia
evocativa, Anthony Chen conferma la sua capacità di
raccontare storie intime e profonde, regalandoci un film che lascia
il segno con la sua bellezza visiva e il suo toccante ritratto di
giovani alla ricerca di un senso di appartenenza.
Il finale della seconda stagione di
Yellowjacketsha portato la storia in una direzione inaspettata,
aprendo la strada a una terza stagione ricca di suspense. La
seconda stagione di Yellowjackets è stata piena di sorprese
e rivelazioni scioccanti, fornendo risposte a misteri di lunga data
come il significato del biglietto di Travis a Natalie, l’idea che
la natura selvaggia sia un’entità influente e molto altro ancora.
Il finale è iniziato con l’ipotesi che uno degli adulti
sopravvissuti dovesse morire per soddisfare il crescente bisogno
della natura selvaggia nella
linea temporale del 2021. Tuttavia, le cose non sono andate
necessariamente secondo i piani.
In questo contesto, si sono svolti
altri intrecci ad alto rischio che hanno portato a conclusioni
soddisfacenti. La polizia ha dato la caccia all’adulta Shauna per
l’omicidio di Adam Martin per gran parte della stagione, è stato
spiegato cosa stava realmente tramando Walter Tattersall, il
“fidanzato” di Misty, e il rituale ufficiale di cannibalismo
sacrificale descritto nella linea temporale del 1996 è stato
finalmente svelato nella sua interezza. Tutto questo è confluito
nell’episodio 9 della seconda stagione di Yellowjackets, che
ha visto trionfi e delusioni in egual misura per i sopravvissuti
adulti rimasti. Dopo la fine della seconda stagione di
Yellowjackets, solo una cosa è certa: la natura selvaggia
non ha finito il suo lavoro, né nel passato né nel presente.
Perché Travis ha mangiato il
cuore di Javi
Quando le ragazze sono tornate con
il corpo di Javi dopo che era annegato nell’episodio 8 della
seconda stagione di Yellowjackets, nessuno era più sconvolto
di Travis. Natalie aveva sicuramente il proprio senso di colpa da
placare dopo averlo lasciato morire, ma Travis era davvero quello
che aveva sofferto di più per la perdita. Ha cercato di spiegare
la portata della distruzione che stavano causando a Van, il quale,
a sua volta, lo ha convinto che la morte di suo fratello era un
sacrificio per salvare i sopravvissuti e che avrebbe dovuto onorare
il sacrificio e la morte di Javi. Travis ha quindi preso a
cuore questa conversazione e si è unito al cannibalismo del resto
del gruppo.
Shauna ha offerto a Travis il cuore
di suo fratello da mangiare per primo, quasi come un segnale al
resto del gruppo che se Travis era d’accordo a consumare Javi,
allora anche gli altri avrebbero dovuto farlo. Travis ha
mangiato il cuore di Javi per dimostrare la sua lealtà al gruppo e
onorare il sacrificio di suo fratello. Quel momento ha
dimostrato che Travis era completamente caduto nella sua
convinzione che la natura selvaggia fosse un’entità e che questi
sacrifici fossero necessari e vantaggiosi per la loro
sopravvivenza. Ha visto Javi come un martire piuttosto che come una
tragica vittima e ha giustificato il fatto di aver mangiato suo
fratello gettandosi in questa convinzione.
Come Natalie è diventata la
regina delle corna
Uno dei colpi di scena più grandi
del finale della seconda stagione di Yellowjackets è stato
che Natalie era la vera regina delle corna, non Lottie. Sembrava
che tutta la serie suggerisse e preparasse Lottie come regina delle
corna, ma quando sarebbe stata rivelata per la prima volta nel suo
abito ufficiale, non sarebbe stato poi così sorprendente. Tuttavia,
nella seconda stagione di Yellowjackets, Lottie ha deciso di
dimettersi e cedere la leadership a Natalie, lasciando Shauna un
po’ gelosa. Guardando indietro, le insicurezze di Lottie come
leader erano cresciute, come dimostrato dalla sua visione al centro
commerciale in precedenza, ma nessuno si aspettava che passasse la
mano.
Lottie ha scelto Natalie perché
credeva che Nat fosse sempre stata la “preferita” della natura
selvaggia. Ha citato il fatto che il gruppo aveva cercato di
ucciderla quando aveva pescato la Regina di Cuori, ma la natura
selvaggia non glielo aveva permesso. C’erano segni che indicavano
che la natura selvaggia favoriva Natalie, come il fatto che fosse
la cacciatrice principale. Sebbene Lottie fosse stata la prima a
comunicare con la wilderness, tutti i sopravvissuti avevano
imparato a farlo, quindi non avevano più bisogno della sua guida. È
possibile che il fatto che Natalie non fosse così influenzata dal
pensiero di gruppo la rendesse una leader più naturale di una
seguace, il che potrebbe essere un altro motivo per cui Lottie le
ha dato la precedenza.
Il piano di Walter per porre
fine alle indagini su Adam Martin
Walter ha ideato un piano elaborato
per salvare Misty e i suoi amici dall’essere scoperti dalla
polizia, che prevedeva la corruzione della polizia. Dopo averlo
ucciso con il fenobarbital, Walter è riuscito a collegare una
grande quantità di documenti bancari e telefonici relativi ad Adam
a Kevyn Tan. Ha poi sparato a Kevyn con la pistola di Saracusa e
gli ha proposto di aiutarlo a incastrare Kevyn per gli omicidi di
Adam eJessica Roberts, utilizzando una storia
secondo cui Saracusa aveva “scoperto” una massiccia corruzione
nella polizia e aveva quasi perso la vita per questo. Ha poi
aggiunto che tutte queste informazioni potevano essere ricondotte a
Saracusa se non avesse accettato.
Il piano di Walter aveva diverse
funzioni importanti in Yellowjackets. In primo luogo,
dimostrava la sua fedeltà a Misty, cosa discutibile per gran parte
della stagione, soprattutto quando lui la paragonava a Sherlock e
se stesso a Moriarty. In secondo luogo, dimostrava che Walter
stesso non era al di sopra dell’omicidio e probabilmente
condivideva le tendenze psicopatiche della sua “ragazza”.
Infine, dimostrava le abilità di
Walter come hacker e detective dilettante. Essere in grado di
manomettere le prove in modo tale da incastrare qualcuno che non
c’entrava nulla era davvero impressionante.
Il gruppo avrebbe davvero
ucciso Shauna nella nuova caccia?
Shauna ha avuto la sfortuna di
scegliere la Regina di Cuori nella linea temporale del 2021, ed è
possibile che il gruppo stesse preparando la sua uccisione. Durante
le scene culminanti del rituale rivissuto dagli adulti e
l’inseguimento con le maschere che ne è seguito nel finale della
seconda stagione di Yellowjackets, il tono oscillava tra il
gruppo che vedeva la realtà e il gruppo che cadeva preda della
natura selvaggia. Sebbene inizialmente fossero d’accordo sul fatto
che Lottie volesse soddisfare la natura selvaggia fosse una cattiva
idea, le cose si sono complicate quando Van ha convinto Taissa a
chiamare la squadra di crisi che avrebbe dovuto interrompere il
rituale e portare Lottie al sicuro.
Lo sguardo affamato dell’adulta Van
durante l’inseguimento era particolarmente terrificante, e il fatto
che abbia chiamato le autorità ha sicuramente dipinto le sue
intenzioni in una luce negativa. Lottie era pronta a sacrificare
Shauna, completamente assorbita dal compito di nutrire la natura
selvaggia. Misty, Natalie e Taissa, invece, sembravano le più
combattute. Se Lottie avesse raggiunto Shauna per prima, sarebbe
sicuramente morta, e lo stesso avrebbe potuto accadere a Van, visto
quanto sembrava presa durante l’inseguimento.
Il sacrificio e la morte di
Natalie spiegati
Sfortunatamente, la natura
selvaggia ha mietuto un’altra vittima tra gli adulti sopravvissuti,
e si è trattato di Natalie. Il momento scioccante ha visto Misty
cercare di pugnalare Lisa con una siringa, ma Natalie si è
sacrificata e si è gettata davanti a lei. Il sacrificio di Natalie
e la reazione straziante di Misty all’aver ucciso (di nuovo) la sua
“migliore amica” hanno fatto riferimento a diversi momenti chiave
di Yellowjackets. Natalie si è sacrificata perché il senso
di colpa più grande che portava con sé dal suo periodo nella natura
selvaggia era quello di essersi fatta da parte e aver lasciato
morire Javi. Se si fosse sacrificata nella stagione 2, episodio 8
di Yellowjackets, non sarebbe mai diventata la prima Antler
Queen.
Natalie probabilmente provava
molto più senso di colpa di quanto Yellowjackets lasciasse
inizialmente intendere per essere stata l’Antler Queen e aver dato
il via agli eventi del resto della serie. La rivelazione del
suo status elevato nel 1996 e il senso di colpa che ne è seguito
hanno anche contribuito a spiegare le sue difficoltà nella vita
adulta e il suo successivo tentativo di suicidio. Pertanto, quando
ha visto l’opportunità di salvare qualcuno che era stato buono con
lei, ha pagato per i suoi peccati passati sacrificandosi per loro.
Anche la reazione di Misty ha dimostrato la sua devozione verso
Natalie. È possibile che fosse stata così affascinata e
ossessionata da lei per tutto questo tempo perché Natalie era la
sua leader.
Dove Taissa e Van hanno mandato
Lottie adulta (verrà mandata via?)
Lottie è stata mandata in una
struttura di salute mentale conosciuta come Whitmore alla fine
della seconda stagione di Yellowjackets a causa della sua
convinzione irrefrenabile che l’entità della natura selvaggia fosse
tornata e volesse uno dei sopravvissuti. Il resto dei sopravvissuti
adulti non ha preso troppo bene il piano di Lottie con il
fenobarbital ed era comprensibilmente preoccupato per la sua salute
mentale quando ha voluto ripetere il rituale cannibalistico
sacrificale di Yellowjackets. Lottie ha orchestrato la
caccia, che ha portato i sopravvissuti a chiamare una squadra di
crisi per portarla via, ma era ormai troppo tardi. Lottie
trascorrerà molto probabilmente la terza stagione di
Yellowjackets in un istituto psichiatrico.
Taissa ha promesso che lei e il
resto dei sopravvissuti avrebbero fatto visita a Lottie al
Whitmore. Tuttavia, Lottie è rimasta convinta che il sacrificio di
Natalie abbia nutrito la natura selvaggia e che tutti ne vedranno i
risultati positivi. L’episodio 9 della seconda stagione di
Yellowjackets ha chiarito che i sopravvissuti, Van in
particolare, si sentono in colpa per il deterioramento dello stato
mentale di Lottie. I flashback alla linea temporale del 1996,
comprese le coerciioni di Misty, la storia di Van sulla natura
selvaggia e il fatto che Lottie non abbia mai voluto che il rituale
fosse istituito, indicano che le ragazze hanno contribuito a
rendere possibile la psicosi di Lottie e il suo crollo finale da
adulta.
Perché il coach Ben ha dato
fuoco alla capanna dei sopravvissuti
Gli ultimi momenti della seconda
stagione di Yellowjackets hanno visto le ragazze fuggire
mentre la loro casa nella natura selvaggia bruciava completamente,
e solo una persona non era con loro: Ben. Ben ha dato fuoco alla
capanna perché era terrorizzato da ciò che era diventata la squadra
e le vedeva come mostri privati della loro umanità. La sanità
mentale del coach Ben era andata scemendo come quella del resto del
gruppo. Tuttavia, aveva chiarito fin dall’inizio che non avrebbe
oltrepassato il limite del cannibalismo e vedeva in Natalie
un’anima gemella. Purtroppo, Natalie ha respinto i suoi tentativi
di nascondersi con lui nella grotta di Javi per il resto
dell’inverno.
Dopo aver assistito alla dissezione
del cadavere di Javi, aver capito che l’unica persona con cui aveva
trovato un’affinità era passata al lato oscuro, aver rivissuto in
visioni tormentate la vita che avrebbe potuto avere e aver visto
che la squadra ora si stava sacrificando a vicenda, Ben ne aveva
finalmente avuto abbastanza. Credeva che la squadra fosse ormai
troppo lontana per ragionare e fermare lo spargimento di sangue, e
che fosse diventata una setta cannibale in grado di compiere atti
di estrema violenza. Per la sua sicurezza, ha deciso di
bruciare la capanna per impedire che la follia continuasse e
presumibilmente si nasconde nella caverna di Javi.
Il vero significato del finale
della seconda stagione di Yellowjackets
Yellowjackets, stagione 2,
episodio 9, è intriso di un significato molto più profondo rispetto
alle paure in superficie, sebbene sia anche uno show horror
efficace nella sua semplicità. Il finale della seconda
stagione di Yellowjackets è stato una sorta di punto
di svolta per i personaggi, poiché non solo ha risposto alle
domande, ma ha anche sollevato ulteriori misteri per il futuro. Ma
soprattutto, il finale ha dimostrato che c’è qualcosa di speciale
nei giovani sopravvissuti, qualcosa che continua a perseguitarli
nel presente. Se Yellowjackets ha rivelato qualcosa di sé, è
che quasi nulla è come sembra.
Come il finale della seconda
stagione di Yellowjackets prepara la terza
Il finale della seconda
stagione di Yellowjackets ha preparato il terreno per numerosi
filoni narrativi per la terza stagione e una serie di nuovi
misteri. Innanzitutto, i sopravvissuti adulti dovranno
affrontare le conseguenze del sacrificio e della morte di Natalie.
Misty sembrava inconsolabile per il suo ruolo nella vicenda e,
anche se la terza stagione dovrebbe vederla coinvolta in una
relazione romantica con Walter, dovrà lottare con qualcosa che non
ha mai provato prima: il senso di colpa. La terza stagione vedrà
anche Natalie nel passato come nuova leader del gruppo e la sua
discesa verso il diventare la Yellowjackets‘ Antler Queen. Il finale ha lasciato
intendere che Shauna è gelosa del fatto che Natalie sia diventata
la leader, quindi questo sicuramente entrerà in gioco.
La setta di Lottie adulta
molto probabilmente verrà sciolta ora che lei è in un istituto
psichiatrico, e probabilmente riceverà la visita di Taissa, affetta
da sonnambulismo.
Il culto dell’adulta Lottie verrà
probabilmente sciolto ora che lei è in un istituto psichiatrico, e
probabilmente riceverà la visita di Taissa, affetta da
sonnambulismo. La terza stagione di Yellowjackets potrebbe
finalmente vedere un po’ di pace nella famiglia Sadecki, dato che
l’indagine su Adam Martin è stata portata a termine da Walter.
Tuttavia, le cose si surriscalderanno notevolmente nel 1996 con
l’incendio della baita. I sopravvissuti adolescenti potrebbero
scoprire che è stato Ben ad accendere il fiammifero, dato che è
l’unico a non essere presente, ma dovranno comunque trovare una
nuova casa. Speriamo che non trovino Ben nascosto nel rifugio di
Javi, così potrà sopravvivere un altro giorno in
Yellowjackets.
Come è stato accolto il finale
della seconda stagione di Yellowjackets
Nel complesso, il finale della
seconda stagione di Yellowjackets è stato accolto bene. Il
nono e ultimo episodio della seconda stagione di
Yellowjackets, “Storytelling”, ha attualmente un punteggio
di 7,1/10 su IMDb e un punteggio
Tomatometer del 70% su Rotten
Tomatoes. Tuttavia, il finale della prima stagione
ha ottenuto un punteggio di 8,2/10 su IMDb (anche se non ha
una valutazione individuale su Tomatometer) e, in generale, il
finale della prima stagione di Yellowjackets è considerato
superiore. Tuttavia, questo non significa che il finale
della seconda stagione di Yellowjackets sia stato brutto,
ma semplicemente che la seconda stagione della serie non ha avuto
lo stesso impatto della prima.
Questo è stato sottolineato da
molti critici nelle loro recensioni, e i paragoni tra il finale
della seconda stagione di Yellowjackets e quello della prima
si estendono al resto degli episodi in generale. È opinione della
maggior parte degli spettatori e dei critici che la prima stagione
di Yellowjackets sia stata più coerente. Tuttavia, ci
sono stati molti momenti degni di nota nella seconda stagione,
specialmente durante il finale, che hanno più che eguagliato il
primo capitolo della storia, e questi sono stati sottolineati in
molte recensioni. Ad esempio, Esther Zuckerman del New York Times scrive:
La seconda stagione di “Yellowjackets” è stata discontinua,
cosa non insolita per una serie di successo che cerca di trovare il
proprio equilibrio dopo un primo giro sensazionale. Ma ci sono
stati frequenti momenti di trascendenza. L’addio alla Natalie
adulta è stato uno di questi. È stato tragico e in qualche modo
catartico e sarà difficile da dimenticare man mano che la serie
andrà avanti.
Tuttavia, mentre molti critici
non sono riusciti a superare l’incoerenza della seconda stagione
rispetto alla prima, altri hanno avuto solo parole di elogio per
“Storytelling”. In particolare, sono stati elogiati il modo abile
con cui il finale della seconda stagione di Yellowjackets ha
sovvertito le aspettative degli spettatori e riposizionato molte
delle “verità” su cui i fan avevano fatto affidamento fino
all’arrivo dell’episodio 9 del secondo capitolo. A riassumere
incredibilmente bene questa prospettiva è Hattie Lindert diAV
Club, che scrive:
Una lezione magistrale sia nel sovvertire la propria etica
che nel coltivare i semi di una nuova stagione, il finale della
seconda stagione di Yellowjackets prende le rivelazioni limitate
che la stagione ha costruito e le ricontestualizza ancora una
volta, ricordando ai sopravvissuti (e di conseguenza al pubblico)
che la verità della loro esperienza – ciò che era reale e ciò che
non lo era, e ciò che è rimasto reale nel tempo – è malleabile
quanto la loro bussola morale. Ciò che è sempre stato più
importante, sia nel proteggersi dalla polizia da adulti che nel
giustificare le loro azioni da bambini, è la storia che hanno
scelto di raccontare, una storia di selvaggio che hanno scolpito
con sangue, sudore, lacrime e merda.
Quindi, il finale della seconda
stagione di Yellowjackets è stato all’altezza di quello della
prima? Probabilmente no. Tuttavia, è stato comunque un finale
incredibilmente solido per la serie, e ha funzionato più che bene
per creare l’hype e lo slancio necessari per l’attesissima
terza stagione di Yellowjackets.
Le donne al balcone –
The Balconettes di Noémie
Merlant non è solo un film, è un affascinante viaggio
attraverso un racconto femminista stratificato e punk, che sa
essere tanto divertente quanto provocatorio. Presentato
a Cannes
77 con il titolo originale Les
Femmes au Balcon, questo film esplora la vita di tre
donne – Nicole, Ruby ed Elisa – legate da una profonda amicizia e
da un’intensa ribellione contro i dogmi della società patriarcale,
il tutto ambientato in un appartamento e un balcone condiviso nel
caldo di Marsiglia.
La dichiarazione di intenti di
Le donne al balcone – The
Balconettes
Fin dall’inizio, Merlant ci
introduce in un’atmosfera sospesa e surreale, grazie a un piano
sequenza che spazia tra due palazzi. La macchina da presa sembra
fluttuare, stabilendo una distanza tra il pubblico e la storia,
come se fossimo anche noi osservatori dietro una finestra,
abbracciando così il più classico dei contesti voyeuristi e
impiantandoci sopra il suo racconto. In questo primo momento
vediamo una donna, riversa a terra e coperta di lividi, incalzata
da un marito che la accusa di essere “esageratamente drammatica.”
La scena, che mescola dramma e sarcasmo, offre una chiave di
lettura per comprendere la portata del film: un’opera che sfida le
convenzioni, trascendendo i generi e mescolando commedia, thriller,
e un femminismo mai didascalico. Questa scena
fondamentale, un cortometraggio dentro al film: una specie
di riassunto di quello che la storia vuole significare e di quello
che racconterà.
Al centro della storia ci sono
Nicole
(Sanda Codreanu), Ruby (Souheila
Yacoub) ed Elisa (Noémie Merlant).
Ognuna di queste donne ha una storia unica: Nicole è una scrittrice
che prova a tratte ispirazione dalla vita delle sue amiche, sempre
più divertente e sfrenata della sua; Ruby è una cam girl fiera
della propria sessualità, esibizionista almeno quanto Nicole è
pudica; Elise invece è un’attrice che cerca di sfuggire da un
innamorato opprimente, sembra svampita, ma trova il suo ancoraggio
alla realtà grazie alle sue coinquiline. Insieme, condividono
momenti di complicità e confidenze, esplorando una libertà
autentica e quasi sfacciata, che include un’esposizione del corpo
sincera, svincolata da giudizi.
Merlant dimostra una grande
padronanza del mezzo cinematografico, mostrando una disinvoltura
sorprendente per una regista al suo secondo lungometraggio. La
narrazione sembra muoversi disordinata, riflettendo però un caos
ben calibrato che rispecchia la vitalità e la libertà delle tre
protagoniste. E infatti nulla è lasciato al caso: la scrittura
coadiuvata da Céline Sciamma e il
montaggio di Julien
Lacheray conferiscono alla trama una coerenza interna
che esplode solo alla fine, lasciando lo spettatore in una sorta di
estasi visiva e narrativa.
Una delle grandi trovate
di Le donne al balcone – The Balconettes è
il modo in cui affronta la questione della mascolinità tossica
senza mai scivolare nella retorica. L’aitante vicino di casa
(interpretato da Lucas Bravo), ad esempio,
inizialmente oggetto dei sogni di Nicole, si rivela poi un
predatore mascherato da principe azzurro. La svolta narrativa è
feroce e geniale: un incontro apparentemente innocente si trasforma
in una lotta disperata, e le tre protagoniste devono difendersi
dalla violenza inaspettata, optando per un’autodifesa radicale e
liberatoria. La loro “vendetta” non è solo una reazione istintiva,
ma anche un simbolo di una ribellione.
La mescolanza di generi
La commistione di generi è una
caratteristica distintiva di questo film: da commedia grottesca e
horror leggero si passa a un thriller crudo e spietato, fino a un
gore che strizza l’occhio a Tarantino, pur rimanendo sempre vitale
e libero, come il primo cinema di Almodovar. Merlant evira il corpo
maschio della storia per affermare la femminilità come unica forza
vitale, e nonostante questo è sempre ironica e leggera, non perde
mai di vista il fuoco del suo racconto. Questo rende Le
donne al balcone – The Balconettes un’esperienza
visivamente affascinante e emotivamente coinvolgente. La violenza
viene messa in scena in modo iperbolico, ma il vero nucleo del film
è la ferita invisibile che la violenza infligge all’animo
femminile.
La fiera esposizione del corpo
femminile
Merlant si dimostra non solo una
regista di talento, ma una narratrice coraggiosa, pronta a
infrangere le convenzioni e a esplorare i confini della
rappresentazione cinematografica del femminile. In questo film, i
corpi delle protagoniste non sono mai oggetto di sguardi
esterni/giudicanti; sono corpi che si espongono con fierezza,
rivendicando il diritto di esistere senza
compromessi. Le donne al balcone – The
Balconettes non è solo un film che parla di
emancipazione femminile: è un atto di insurrezione, un’opera che si
rivolge allo spettatore con uno spirito di sorellanza
feroce e libera.
Il 13 marzo arriva nelle sale
Lee Miller, il
film dedicato
alla straordinaria fotografa americana interpretata
da Kate
Winslet,
qui anche in veste di produttrice. Per la sua performance intensa e
coinvolgente, l’attrice ha ottenuto una
candidatura ai Golden Globes come
Miglior Attrice drammatica (il premio è andato poi
a Fernanda Torres).
Diretto da Ellen
Kuras,
alla sua prima regia cinematografica dopo una lunga carriera come
direttrice della fotografia, il film trae ispirazione
dall’opera Le
molte vite di Lee Miller di Antony
Penrose,
figlio della fotografa e del surrealista Roland
Penrose.
Il film ripercorre la vita di Miller, una donna che ha rifiutato
ogni etichetta: da modella di successo a fotografa d’avanguardia,
fino a diventare corrispondente di guerra per
Vogue durante
la Seconda Guerra Mondiale. Unica fotografa donna a documentare la
liberazione dei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald, ha
lasciato un segno indelebile nella storia con le sue immagini di
straordinaria potenza. Intorno a Winslet, ruota un cast di supporto
che vanta nomi del calibro di Alexander
Skarsgård, Marion
Cotillard, Andrea
Riseborough, Josh
O’Connor, Noémie Merlant ma
anche Andy
Samberg
alla sua prima performance drammatica (molto riuscita).
La trama di Lee
Miller
La narrazione inizia nel 1977 con
un’intervista tra Lee e un giovane giornalista (Josh
O’Connor), che desidera conoscere la verità dietro le sue
fotografie. O almeno è quello che sembra all’inizio del film.
Questo espediente narrativo introduce la lunga retrospettiva sulla
vita della Miller, dal suo lavoro come modella e artista
surrealista fino alla sua esperienza sul fronte di guerra.
Tuttavia, il film fatica a mantenere un equilibrio tra il ritratto
intimo della protagonista e la sua carriera professionale,
risultando a tratti distaccato. Il finale si apre all’emozionante
rivelazione della vera identità di quel giornalista, offrendo
un interessante omaggio a quello che è veramente successo dopo la
morte di Lee, tuttavia è troppo tardi per sentire anche il pur
minimo gancio emotivo con i protagonisti.
Kate Winslet regala una delle sue
interpretazioni più intense, riuscendo a restituire la
determinazione e il coraggio di Miller. Tuttavia, la sceneggiatura
non offre un ritratto completamente sfaccettato del personaggio e
il film si concentra più sul suo lavoro come fotografa di guerra,
lasciando in secondo piano la sua vita personale e le sue
fragilità. Le relazioni con il partner Roland Penrose (Alexander Skarsgård), l’amicizia con
David Scherman (Andy Samberg) e il rapporto con la
direttrice di Vogue Audrey Withers (Andrea
Riseborough) vengono accennate senza un vero approfondimento,
facendo sì che molti personaggi appaiano come semplici comparse o
sponde su cui Lee rimbalza.
Regia realistica e
fotografia desaturata
Dal punto di vista
registico, Kuras adotta un approccio visivo potente, sfruttando il
contrasto cromatico tra il mondo vibrante e saturo del pre-guerra e
le tonalità spente e cupe del periodo bellico. La scelta di
integrare le fotografie reali di Miller nel film conferisce
autenticità alla narrazione, restituendo con forza il peso delle
immagini chela donna ha catturato e consegnato alla Storia.
Uno degli aspetti più
riusciti del film è la capacità di mostrare la Miller come una
testimone della storia, capace di cogliere dettagli che i suoi
colleghi uomini spesso trascuravano. La sua sensibilità nel
ritrarre la sofferenza e l’umanità dietro il conflitto è un
elemento centrale del film, ben interpretato da Winslet. Tuttavia,
il film manca di quel pathos che avrebbe potuto renderlo
memorabile, risultando a tratti troppo schematico, un biopic che
non sfrutta le potenzialità del materiale originale.
Un biopic innocuo anche
se visivamente affascinante
Nel
complesso, Lee Miller è un’opera visivamente
affascinante e impreziosita da una grande interpretazione
di Kate
Winslet, ma che non riesce a scavare a fondo nella
complessità della sua protagonista risultando quindi innocuo. Il
film si limita a raccontare la sua carriera senza esplorare appieno
le sue contraddizioni e le sue battaglie interiori, rendendo il
racconto più informativo che emozionale.
Quando si pensa al genere del
thriller contemporaneo, uno dei primi nomi che vengono in mente
è certamente quello di David Fincher. Oggi
conosciuto per opere di grande prestigio come The Social
Network e Il curioso caso di
BenjaminButton, questi diede vita nel 1995 a
quello che è ancora oggi considerato uno dei thriller per
eccellenza. Si tratta di Seven, film che ha
contribuito a riscrivere le regole del genere, gettando la base per
numerose opere simili realizzate in seguito. Pur avendo una
classica storia con uno psicopatico serial killer, un maligno gioco
da questi orchestrato, e due detective a seguirne le tracce, il
film presenta così tante originalità da essersi affermato da subito
al di sopra della media.
L’idea nasce dall’esperienza di
Andrew Kevin Walker, il quale agli inizi degli
anni Novanta stava cercando di affermarsi come sceneggiatore a New
York. Qui si imbatté nello squallore dei vizi capitali, decidendo
così di costruire una storia a partire da questi. Il progetto venne
poi proposto dalla New Line Cinema a Fincher, il quale era reduce
dalla terribile esperienza di Alien³. Il regista vide in Seven la
possibilità di realizzare un film più piccolo, attraverso il quale
riscoprire la propria passione per quel mestiere. Attratto
dall’intreccio, egli decise così da subito di iniziarne la
lavorazione, componendo un cast di grandi attori.
Una volta arrivato in sala, il film
si affermò come un successo assoluto. A fronte di un budget di soli
33 milioni di dollari, arrivò ad incassarne circa 327 in tutto il
mondo. In Italia si classificò al quarto posto tra i film più visti
della stagione cinematografica 1995/96. Seven fu un
successo anche di critica, la quale elogiò l’atmosfera cupa e
violenta, la sceneggiatura e le interpretazioni dei protagonisti.
Particolarmente apprezzato, infine, fu anche il macabro finale.
Tutto ciò, insieme anche a numerosi premi vinti, portò il film ad
affermarsi come un cult, segnando un vero e proprio momento di
transizione all’interno del genere thriller. Dopo Seven,
questo non sarebbe più stato lo stesso di prima.
La trama di
Seven
Protagonista del film è il detective
William Somerset, saggio e anziano, egli si
ritrova ora a vivere una profonda disillusione nei confronti di un
mondo sempre più violento e degradato. Ad una settimana dalla
pensione, si ritrova poi affiancato dal giovane e impulsivo agente
David Mills, il quale prenderà poi il suo posto.
Somerset inizia così ad insegnare al giovane i trucchi del
mestiere, anche se date le differenze caratteriali tra i due non
scorre da subito buon sangue. I due si ritrovano però
improvvisamente ad indagare su un particolare omicidio. Un obeso è
infatti stato costretto a mangiare fino a morire. A tale episodio
segue quello di un avvocato corrotto orrendamente mutilato. Sul
cadavere di questo i due agenti ritrovano scritta la parola
“avarizia”.
Somerset e Mills sospettano che
dietro tali omicidi vi sia un unico serial killer, e che quanto da
lui compiuto sia connesso da uno strano rapporto. Ben presto, con
il susseguirsi di ulteriori omicidi, i due capiranno di trovarsi di
fronte ad un pazzo che punisce con la morte persone colpevoli dei
sette vizi capitali. Mentre cercano di prevedere le prossime mosse
di questo, Somerset e Mills stringono una buona amicizia, e
quest’ultimo arriva a presentare al collega la bella moglie
Tracy. Nel momento in cui il killer farà però
capire loro di sapere chi sono, la vita dei due agenti e di quanti
a loro cari finirà con l’essere in pericolo.
Il cast del film
Il film ha come protagonista nei
panni del detective Somerset il premio Oscar Morgan
Freeman. Il giovane Mills è invece interpretato da
Brad
Pitt, qui alla sua prima collaborazione con Fincher.
L’attore accettò il ruolo desideroso di togliersi di dosso
l’etichetta da “sex symbol” ed evidenziò così gli aspetti meno
affascinanti del personaggio. Nei panni di Tracy, moglie di Mills,
vi è invece la premio Oscar Gwyneth
Paltrow. Inizialmente non interessata, su consiglio di
Pitt, all’epoca suo compagnò, decise infine di accettare. L’attore
Kevin
Spacey, infine, è Jon Doe, il killer della storia. Per
mantenere un’aura di mistero a riguardo, egli chiese che il proprio
nome non venisse pubblicizzato, così da far diventare una vera e
propria sorpresa il suo ingresso in scena.
La spiegazione del finale del
film
Il finale di Seven
è ormai uno dei più noti e scioccanti di sempre. È la perfetta
conclusione di una storia cupa e senza apparente speranza. Proprio
per via della sua grande drammaticità, i produttori del film non
volevano che fosse questo il finale, e decisero dunque di
cambiarlo. Fincher, però, si oppose fermamente a tale decisione e
dalla sua parte si schierò anche Pitt, il quale si rifiutò di
recitare nel film se il finale non fosse stato quello con la
celebre scatola. Alla fine, i produttori dovettero cedere alle
pressioni, permettendo così di realizzare un finale che ha poi
effettivamente contribuito alla fama del film. Con questo, viene
definitvamente alla luce il piano di Joe Doe, il quale sta
sostanzialmente conducendo un gioco con il detective Mills,
all’insaputa di quest’ultimo.
Sia Doe che Mills fanno infatti
parte dei sette peccati capitali e l’assassino è pronto a
dimostrarlo facendo sì che Mills getti via la sua maschera da
persona per bene per soccombere al rabbia, uccidendo Doe. Così
facendo, fa però il suo gioco, dimostrando dunque che non sembra
esserci via di fuga dai sette peccati capitali. Nonostante ciò, il
detective Sommerset chiude il film con quella che è divenuta una
delle più grandi battute finali della storia del cinema:
“Ernest Hemingway una volta scrisse: ‘Il mondo è un bel posto e
vale la pena di lottare per esso’. Sono d’accordo con la seconda
parte”. Questa citazione finale evidenzia in realtà un
cambiamento significativo anche in Somerset.
Unita al fatto che egli assicura al
suo capitano che “resterà in giro”, dimostra innanzitutto che non
intende più ritirarsi come aveva fatto in precedenza. Ma è
importante soprattutto perché dimostra ulteriormente che le azioni
di John Doe hanno avuto l’effetto desiderato sui suoi avversari.
Non solo è riuscito a manipolare Mills, ma ha anche scosso Somerset
dalla sua stessa apatia, costringendo il detective più anziano a
rivalutare la sua scelta di ritirarsi. I momenti finali di
Seven sono lasciati relativamente aperti
all’interpretazione, ma la citazione di Hemingway implica che
Somerset ha deciso di combattere per il mondo, anche se non lo
ritiene un bel posto. Anzi, forse è proprio nel tentativo di
farcelo diventare che bisogna lottare con più forza.
Il finale di Seven
è dunque particolarmente interessante perché non solo permette al
suo cattivo di vincere, ma sembra giustificare alcune delle sue
azioni nel processo. Manipolando il detective Mills affinché lo
uccida e portando a compimento il suo piano, John Doe vince e
dimostra che nessuno, anche la persona più ammirevole, è al di
sopra del peccato. Ciò è ulteriormente dimostrato dalla decisione
di Somerset di non ritirarsi, in quanto è sconvolto dalla sua
apatia, a cui si fa riferimento in una scena precedente in cui
discute con Mills le sue ragioni per ritirarsi. Questo dipinge John
Doe come un personaggio “nel giusto”, poiché il finale convalida le
sue intenzioni.
Il finale, inoltre, vede i sette
peccati rappresentati in modo appropriato e consolida
l’ambientazione del film come un luogo simile al purgatorio, con
Somerset che rimane come detective per continuare a lottare contro
il male che John Doe incarna. Per tutto il film, Mills è
considerato il successore di Somerset e il fatto che Doe prenda di
mira il giovane detective sembra essere un modo per costringere
Somerset a fare un bilancio di se stesso. In realtà Somerset
rappresenta l’ultimo (e ottavo) “peccato” di Se7en: l’apatia. Il
piano di John Doe vede quindi Somerset continuare a svolgere il suo
ruolo di detective, intrappolandolo di fatto nel purgatorio e
rendendolo una vittima finale del film.
Il trailer del film e dove vederlo
in streaming e in TV
Per gli appassionati del film è
possibile fruire di questo grazie alla sua presenza su alcune delle
più popolari piattaforme streaming presenti oggi in rete.
Seven è infatti disponibile nel catalogo di
Infinity+ e Amazon Prime
Video. Per vederlo, basterà sottoscrivere un
abbonamento generale, avendo così modo di guardare il titolo in
totale comodità e al meglio della qualità video. Il film sarà
inoltre trasmesso in televisione il giorno sabato 8
marzo alle ore 21:00 sul canale
Iris.
Diretto da Ali Abbasi (regista
anche di Border – Creature di
confine e del recente The
Apprentice), Holy Spider è un film in
lingua persiana che presenta una ricostruzione fittizia di
eventi reali accaduti a Mashhad, in Iran. Nell’arco di circa
undici mesi, nel 2000-2001, un uomo di nome Saeed
Hanaei ha adescato e ucciso sedici donne che lavoravano
come lavoratrici del sesso e piccole spacciatrici di droga nelle
strade della città. Il regista Abbasi ha detto chiaramente che la
sua intenzione con questo film non era solo quella di raccontare la
macabra storia del serial killer, ma di concentrarsi maggiormente
sulla misoginia che esisteva, e esiste ancora, nella società
iraniana.
Abbasi era infatti principalmente
interessato ad approfondire la storia di questo serial killer e il
fatto che per buona parte della popolazione fosse diventato un
eroe, offrendo così anche un ritratto inedito della condizione
femminile in Iran. Ciò è evidente in tutto il film, poiché
Holy Spider si assicura di includere il fanatismo
religioso e il sostegno sessista a un assassino lungo tutta la
narrazione. Nel complesso, si tratta di un’ottima esperienza di
visione, con immagini e momenti lodevoli che si dipanano con
precisione. Il suo finale, inoltre, risulta l’apice di un racconto
particolarmente scioccante, tanto da richiedere una spiegazione
generale.
La trama e di Holy
Spider
Ambientato in Iran nel 2001, il film
racconta la storia di un uomo di nome Saeed, un
padre di famiglia alle prese con la propria ricerca religiosa.
Saeed è intenzionato a compiere una sacra missione: purificare la
città santa di Mashhad, sradicando del tutto la prostituzione,
simbolo di immoralità e corruzione. Il modo che sceglie per portare
a termine questa impresa è l’eliminazione fisica delle donne. Dopo
l’ennesima vittima, una giornalista di Teheran,
ArezooRahimi, giunge in città
per indagare sullo spietato serial killer, rendendosi conto che le
autorità locali non sembrano avere fretta di trovare il colpevole.
Si scontra infatti con pregiudizi sessisti ed una polizia apatica e
potrà contare solo sul reporter locale
Sharifi.
Mehdi Bajestani in Holy Spider.
La spiegazione del finale: come fa
Arezoo a scoprire l’identità dell’assassino?
La lotta di Arezoo Rahemi per
scoprire di più sul serial killer e gli ostacoli che deve
affrontare riassumono la posizione di una donna nella società dei
primi anni 2000. L’unica ragione per cui potrebbe non assomigliare
esattamente al presente è che il presente è ancora peggiore. Senza
entrare nello specifico, la società e la cultura che Abbasi
presenta in Holy Spider, in piena somiglianza con
la realtà, sono estremamente dure nei confronti delle donne. Nella
primissima scena di Arezoo, dopo essere scesa da un autobus che
l’ha portata a Mashhad, la donna fa il check-in in un hotel dove ha
prenotato una stanza. Tuttavia, l’impiegato dell’hotel non è
disposto a farla entrare perché è una donna single e non sposata,
sottintendendo che una donna senza una figura maschile di
riferimento non dovrebbe stare fuori casa.
All’inizio Arezoo non vuole
ostentare i suoi diritti, ovviamente, perché le viene negato un
servizio di base, ma quando la situazione le sfugge di mano, mostra
all’impiegato il suo tesserino da giornalista. Il fatto che sia una
giornalista costringe l’impiegato a cambiare la sua decisione, ma
fa subito notare che Arezoo dovrebbe coprire di più i capelli e la
testa con il suo foulard. Questo comportamento categorico e
sessista è qualcosa che Arezoo, purtroppo, affronta per tutto il
film e diventa parte del suo personaggio in senso positivo. L’unico
contatto che sembra avere a Mashhad per iniziare il suo lavoro è un
uomo di nome Sharifi, che lavora come direttore editoriale della
sezione penale del giornale locale.
Sharifi è perlopiù contenuto e ben
educato con Arezoo, ad eccezione dell’unica volta in cui ricorda di
aver sentito parlare del licenziamento di Arezoo da un lavoro a
Teheran. Anche se Sharifi non sembra avere intenzioni sbagliate nel
parlarne, il modo in cui lo presenta irrita Arezoo, perché anche
questa storia è carica di ingiusto sessismo. Il capo di Arezoo nel
suo precedente posto di lavoro voleva avere una relazione
sentimentale con lei e, quando lei ha negato il suo approccio, la
donna è stata licenziata. Non solo Arezoo ha perso il lavoro, ma il
capo ha anche diffuso la falsa notizia che il licenziamento era
dovuto al fatto che lei aveva avuto una relazione sentimentale con
lui, il che è contrario alle regole del posto di lavoro.
La giornalista cerca ora di mettere
da parte tutto questo e di concentrarsi sul suo lavoro, ma si trova
di nuovo di fronte a un comportamento simile quando incontra
l’ufficiale di polizia che si occupa del caso. L’agente, un uomo
orgoglioso del suo lavoro e della sua statura, a un certo punto
chiede ad Arezoo di uscire e ha una reazione inappropriata e al
limite dell’abuso quando lei lo rifiuta. Nella sua ricerca del
serial killer, Arezoo è quindi spinta da una preoccupazione simile
a quella di tutte le donne di questa società, perché sa che
probabilmente a nessun altro interesserà molto di quest’uomo in
preda a una furia omicida. È importante notare che, sebbene
Holy Spider sia
basato su eventi e personaggi reali, il personaggio di Arezoo è
in realtà completamente inventato, ed è un’aggiunta creativa di
Abbasi.
Va anche detto che questa aggiunta è
semplicemente meravigliosa, ed è Arezoo a rendere il film ancora
più stratificato e degno di nota. La giornalista inizia a studiare
il carattere di questo assassino attraverso le telefonate che egli
fa a Sharifi dopo ogni suo omicidio, vantandosi di informare lui e
il mondo su dove trovare il corpo della sua ultima vittima.
L’autrice si concentra sui fili comuni che legano tutti i crimini:
tutte le donne erano lavoratrici del sesso e la maggior parte di
loro erano anche spacciatrici e abusatrici di droga, oltre al fatto
che tutte sono state strangolate con le loro stesse sciarpe. Arezoo
e Sharifi capiscono dunque che si tratta di una questione
religiosa.
Forouzan Jamshidnejad in Holy Spider.
Per questo Sharifi era stato cauto
nel riferire la notizia, perché i suoi superiori gli avevano
ordinato di non mettere in cattiva luce i crimini religiosi. Dopo
numerosi omicidi da parte dell’assassino, però, Arezoo e Sharifi
vanno a incontrare uno dei leader religiosi, chiedendogli di
aiutarli a scoprire l’assassino. Con grande sorpresa, il leader
concede loro i suoi migliori auguri e il suo sostegno, ma è anche
diretto nel dire che non si fida di Arezoo per denunciare i crimini
nel modo esatto in cui sono stati commessi. All’epoca, c’erano
pressioni politiche su questi leader per non tollerare tali crimini
contro la legge, ma anche la pressione sociale di essere moralisti
non ha mai lasciato la scena.
Successivamente, Arezoo decide di
incontrare le donne che si prostituiscono per strada ogni notte, ma
nessuna di loro è disposta a parlare con lei. Aiuta poi una donna
di nome Soghra quando questa è malata in un caffè e all’inizio fa
amicizia con lei, ma le domande sulla droga e sull’assassino la
allontanano immediatamente. Nel giro di pochi giorni, però, Soghra
viene ritrovata cadavere, ultima vittima dell’a. Questo non solo
commuove Arezoo oltremisura ma le dimostra che ha cercato nel posto
giusto. Avendo ormai oltrepassato tutti i limiti e rendendosi conto
che, sebbene tutti le assicurino di aver trovato l’assassino ma che
nessuno ha realmente intenzione di farlo, Arezoo decide di prendere
in mano la situazione.
Si finge una prostituta per strada
per farsi prendere dall’assassino, ed è proprio quello che succede.
Ma una volta entrata nella casa dell’assassino, Arezoo non demorde
e riesce in qualche modo a fuggire. È la sua denuncia alla polizia,
il giorno seguente, a far arrestare Saeed, perché è l’unica donna
sopravvissuta alla presa dell’assassino. Negli ultimi minuti del
film, l’attenzione si concentra sul se Saeed sarà punito dalla
legge o meno. All’epoca tutti sapevano che l’arresto dell’assassino
era avvenuto solo perché c’erano pressioni politiche dovute alle
imminenti elezioni. Tuttavia, c’era anche la convinzione generale,
sostenuta fino alla fine anche da Arezoo, che Saeed sarebbe stato
lasciato fuggire o tenuto al sicuro.
L’avvocato difensore dell’uomo vuole
presentare Saeed in tribunale come affetto da problemi di salute
mentale, ma Saeed si rifiuta di accettarlo. In modo piuttosto
drammatico, dice a tutti in tribunale che aveva il pieno controllo
delle sue azioni e che la sua unica follia era l’amore per Dio e
per l’Imam Reza. Nelle sue conversazioni private, Saeed afferma di
essere consapevole di quante persone nella società lo ammirino e di
non volerle deludere dichiarando di essere un pazzo. È chiaro che
Saeed stesso crede di fare la cosa giusta perché è spronato da una
società che glielo faceva credere. Così, quando il suo migliore
amico Haji lo va a trovare in carcere dopo l’udienza della sentenza
definitiva e gli dice che è in atto un grande piano per farlo
evadere prima della pena di morte, Saeed si sente immensamente
sollevato.
L’uomo è estremamente spaventato
dalla morte, ma è spronato alle sue azioni solo dalla religione e
dalla società. Alla fine, però, questo grande piano non viene
portato a termine e Saeed Azeemi viene impiccato. Il motivo esatto
di questo cambiamento di piani o della falsa promessa di Haji non
viene chiarito, ma sembra che sia stata Arezoo a garantire che
l’uomo fosse consegnato alla giustizia. Dopo aver concluso il suo
lavoro a Mashhad, Arezoo Rahimi sale su un autobus diretto a
Teheran e, durante il tragitto, guarda l’intervista che aveva fatto
al figlio di Saeed, Ali, in cui il ragazzo esprime il suo orgoglio
per le azioni del padre. Holy Spider si conclude
con la triste constatazione che numerosi altri Saeed sono spuntati
nella società, spinti da cieche convinzioni e dal fanatismo
religioso.
Beauty
in Black ha pubblicato il resto della sua prima
stagione e il finale della seconda parte ha portato alcune delle
rivelazioni più sconvolgenti della serie drammatica di Tyler Perry.
Beauty in Black parte 1 si è conclusa con un finale
scioccante: Horace ha sventato un furto nella sua casa, Rain è
finita in ospedale con un destino incerto e la sorella minore di
Kimmie, Sylvie, è stata rapita. La seconda parte riprende proprio
da questo finale sospeso, con Kimmie che intraprende una guerra
senza quartiere per trovare Sylvie e farla pagare ai suoi rapitori
(naturalmente, facendosi molti nemici pericolosi lungo il
percorso).
Nei primi otto episodi, Beauty in Black ha lasciato molte domande senza risposta
che saranno esplorate nei prossimi otto. La seconda parte della
prima stagione di Beauty in Blackè uscita su Netflix il 6 marzo e si tuffa a capofitto in
quelle domande. Si arriva a un finale emozionante, l’episodio 16,
“Now Make It Thunder”, in cui un Horace malato fa un’ultima mossa
di potere contro la sua famiglia doppia. Kimmie riceve una proposta
inaspettata, Olivia fa una mossa spietata contro Lena e il
palcoscenico è pronto per una seconda stagione emozionante.
Perché Horace vuole sposare
Kimmie nel finale di Beauty in Black – Parte 2
Horace non vuole che i suoi
figli ereditino i suoi soldi
All’inizio del finale di Beauty in
Black – Parte 2, Kimmie va a trovare Horace in ospedale, dove lui
le dice che sta morendo e che vuole sposarla. Ma non vuole sposarla
perché è innamorato di lei o perché non vuole morire da solo; ha un
motivo molto più pratico. Quando morirà, Horace vuole
assicurarsi che la sua fortuna guadagnata con fatica non vada ai
suoi figli fannulloni – che sono “fottuti perdenti”,
secondo le sue parole – e l’unico modo per farlo è sposarsi.
Beauty in Black è la prima
serie drammatica di Tyler Perry per Netflix.
Horace è impegnato in un’intensa
lotta finanziaria con la sua famiglia e non vuole perdere,
nemmeno con la morte. È disposto a sposare una quasi
sconosciuta per tenere i suoi soldi lontani dalle loro mani. Kimmie
non accetta di sposare Horace a meno che lui non le spieghi perché
odia così tanto i suoi figli, e lui le dice che non hanno mai
lavorato un giorno in vita loro, quindi non pensa che meritino di
diventare ricchi per caso. Kimmie chiede di quanto denaro si tratta
e Horace risponde in modo criptico: “Abbastanza perché tu non
debba più lavorare in vita tua”.
Perché Kimmie accetta davvero
la proposta di Horace
Kimmie non accetta subito la
proposta di Horace, ma ci pensa su per qualche minuto, prima di
accettare di sposarlo. Quando racconta della proposta alla sua
amica Rain, Rain cerca subito su Google il patrimonio netto di
Horace e scopre che vale ben 376 milioni di dollari. Questo rende
sicuramente più allettante l’offerta, dato che Kimmie pensa che
sarà più che sufficiente per pagare i suoi debiti e liberarsi
delle persone pericolose che la perseguitano. Ma non è l’unico
motivo per cui Kimmie accetta di sposare Horace.
Quando Kimmie sposerà Horace,
diventerà una Bellarie, che nel mondo di Beauty in Black è come
essere una Kennedy o una Vanderbilt.
Quando Kimmie sposerà Horace,
diventerà una Bellarie, che nel mondo di Beauty in Black è
come essere una Kennedy o una Vanderbilt. Potrà ottenere tutto ciò
che desidera semplicemente cambiando il proprio cognome da sposata.
Quando un’infermiera entra nella stanza d’ospedale di Sylvie in
fondo al corridoio e cerca di cacciarla per trasferirla in un
ospedale meno prestigioso, Kimmie le dice che è fidanzata con un
Bellarie, e l’infermiera cambia immediatamente atteggiamento e
lascia Sylvie nella stanza. Questo matrimonio porterà con sé alcuni
vantaggi piacevoli.
Il piano di ricatto di Olivia
contro Lena spiegato
Fin dalla prima parte, l’avvocato
Lena ha costruito un caso contro l’impero dei prodotti per capelli
Bellarie. Nel finale, finalmente consegna alla matriarca Olivia
Bellarie un mandato di comparizione per avviare il procedimento
giudiziario. Tuttavia, Olivia ricatta rapidamente Lena affinché
ritiri il caso. Provoca Lena affinché la schiaffeggi, la filma e
minaccia di diffondere il video se lei porta avanti la causa
collettiva. Per provocarla, Olivia schiaffeggia Lena ripetutamente,
ma dato che Olivia è così potente, l’unico testimone chiude un
occhio. Questo è un commento interessante su come lo Stato di
diritto non si applichi ai super ricchi.
Perché i Bellarie si oppongono
così tanto al matrimonio
Non appena i Bellary vengono a
sapere del matrimonio, fanno di tutto per impedirlo. Mallory corre
all’ospedale per fare casino, Olivia chiede a Roy e Charles di
raggiungerla e Jules si unisce a loro. Horace ha previsto tutto,
quindi ha chiesto alla sicurezza dell’ospedale di chiudere il suo
reparto e di tenere i Bellary nella hall. Alla fine, i Bellary
si coalizzano contro la guardia di sicurezza e la spintonano per
entrare nell’ala e vedere Horace. Ma quando arrivano, è troppo
tardi: il matrimonio è già stato celebrato.
Ci sono un paio di ragioni per cui
i Bellary sono così determinati a impedire a Horace di sposare
Kimmie. Per cominciare, non vogliono che il denaro esca dalla
famiglia e finisca nelle mani di una persona che non è un Bellarie.
Come la maggior parte delle persone ricche, non hanno mai
abbastanza e vogliono tenersi ogni singolo centesimo a cui sentono
di avere diritto. E soprattutto non vogliono che il denaro vada a
Kimmie, una loro nemica di lunga data, che ha causato loro problemi
per 16 episodi.
Perché l’avvocato di Horace ha
fatto uscire Kimmie dalla sua stanza d’ospedale
Mentre Horace sta sostenendo il
test cognitivo necessario per il matrimonio, il suo avvocato porta
Kimmie nel corridoio per rispondere a tutte le sue domande. Ma lui
inizia subito a comportarsi in modo sospetto. Inventa ogni tipo di
scusa per portare Kimmie nella hall, e Kimmie capisce subito il
trucco. L’avvocato voleva attirare Kimmie nella hall, dove si
trovavano i Bellary, in modo che potessero affrontarla. Ma ciò che
rende Kimmie il miglior personaggio di Beauty in Black è che
non cade facilmente in trucchi del genere.
Il vero significato del finale
di Beauty in Black – Parte 2
Beauty in Black è
stata fin dall’inizio una soap opera sul classismo, e il finale
mette in evidenza la banalità della divisione di classe. Esplora
l’idea che alcune persone che lavorano duramente, come Kimmie,
passano la vita sommerse dai debiti, mentre altre che non hanno mai
mosso un dito, come i figli di Horace, sono nate in famiglie
benestanti e possono godersi lussi che non si sono guadagnate. Il
finale tocca il tema del “non puoi portarlo con te”, quando
Horace, dopo aver accumulato ricchezze per anni, cerca di lasciare
la sua fortuna nelle mani giuste alla fine della sua vita.
Gabriele Mainetti
torna al cinema con
La città proibita,
un’opera ambiziosa che mescola generi e suggestioni con la consueta
consapevolezza, confermando la sua intenzione di portare avanti
un’idea di cinema spettacolare e profondamente radicato nella
contemporaneità. Dopo Lo
chiamavano Jeeg Robot e Freaks
Out,
il regista romano ci accompagna in una Roma ibrida, viva, in
perenne trasformazione, raccontando una storia di vendetta, amore e
riscatto, vibrante di adrenalina.
La trama de La città
Proibita
In un villaggio tra le montagne della Cina, due bambine si allenano
con il padre che insegna loro delle mosse di kung fu. Molto anni
dopo incontriamo Mei, una delle due ormai cresciuta, protagonista
di una scena d’azione mozza fiato degna del miglior Bruce Lee,
mentre si difende da un gruppo di malavitosi e cerca sua sorella.
Sembra di essere in un qualsiasi localaccio di Shanghai, e invece
siamo nel coloratissimo all’Esquilino, nel cuore di Roma. Mei
incontra Marcello e, involontariamente, il loro destino si lega per
quella che sarà l’avventura che cambierà per sempre le loro
vite.
Il più grande pregio di la città Proibita è quello di trovare un
buon equilibrio tra l’anima romanesca che il regista aveva già
raccontato nei suoi film precedenti, così come le persone che
vivono ai margini, e la sua grande passione per i film di kung fu e
i revenge movie, elemento che costituisce poi il centro action del
racconto.
Un equilibrio trai generi non
sempre al servizio della storia
Il film ha la grande capacità di
passare senza soluzione di continuità dalla commedia al dramma, dal
melodramma al film di arti marziali, sempre con grande coerenza e
senza mai risultare forzato. La scrittura, firmata da Mainetti
stesso insieme a Stefano Bises e Davide Serino, diventa più sincera
e lineare, rispetto ai film precedenti, anche se spesso si nota un
compiacimento per la bellezza e l’adrenalina di alcune scene che
però non servono la storia, sfociando nel risultato opposto di
allontanare lo spettatore anziché tenerlo incollato allo
schermo.
Le scene di combattimento, curate
dal fight coordinator Liang Yang, elevano le scene d’azione a un
livello tecnico competitivo con chi questi film li realizza
continuamente, anche perché quando si tratta di azione, Mainetti sa
il fatto suo: le scene in cui il protagonista è il kung fu sono
fluide, creative e perfettamente integrate nella narrazione, anche
se talvolta troppo lunghe e compiaciute.
Mei e Marcello protagonisti
irresistibili
In questo crogiolo di riferimenti,
sfumature e culture, Gabriele Mainetti sceglie due volti
memorabili: Enrico
Borello e Yaxi Liu, come eroi
semi-romantici di questa storia. Lui, visto in molti altri
progetti, tra cui Lovely Boy e il
recente Familia, sorprende con una dolcezza e un
incanto negli occhi che fanno tenerezza al primo sguardo, non si
può non fare il tifo per il suo Marcello. Lei, letale e sottile, è
stata la controfigura di Liu
Yifei nel Mulan in live
action della Disney e “mena come un fabbro”. Non solo, il suo
viso pulito sono una rappresentazione perfetta della grinta e della
dedizione che Mei, il suo personaggio, mette nel perseguimento dei
suoi obbiettivi. Due opposti che trovano il modo di incontrarsi e
incrociarsi, in mezzo a un inferno che nessuno dei due ha cercato.
A completare il cast intervengono Sabrina
Ferilli e Marco
Giallini.
Ma Roma nei film di Mainetti è
sempre protagonista e così da quella multietnica dell’Esquilino a
quella da cartolina dei Fori Imperiali, la Città Eterna fa bella
mostra di sé, diventando lo scenario perfetto per questa
narrazione. L’Esquilino, con le sue bancarelle, i ristoranti cinesi
e le trattorie romane, diventa il palcoscenico perfetto per
raccontare un mondo in continua evoluzione. E Mainetti non si
limita a rappresentare questa realtà, ma la esalta, mostrandone la
bellezza e la complessità.
La città
proibita non è solo un film d’azione o una storia d’amore:
è un manifesto di come Gabriele
Mainetti intende il suo cinema. E nel bene e nel male
è ormai una cifra stilistica distintiva, con la sua ricchezza di
riferimenti ma anche l’autocompiacimento, lo stile impeccabile e la
mancanza di umiltà per mettersi al servizio della storia. Il film
si impone come uno dei più interessanti delle prossime settimane al
cinema, dal 13 marzo in sala
con PiperFilm con anteprime l’8 marzo in
anteprima.
Dopo il sincero
omaggio a Dante Alighieri e
il malinconico La
quattordicesima domenica del tempo
ordinario, Pupi
Avati torna
a confrontarsi con il genere che ha segnato la sua carriera:
l’horror gotico. Con L’orto
americano,
tratto dall’omonimo romanzo da lui stesso scritto, il regista
bolognese confeziona un’opera densa di riferimenti letterari e
cinematografici, in bilico tra la memoria storica e il
perturbante.
La trama di L’orto
americano
La storia segue un giovane aspirante
scrittore bolognese (interpretato da Filippo
Scotti) che, poco dopo la fine della Seconda Guerra
Mondiale, si innamora perdutamente di una giovane infermiera
americana incontrata per caso in una bottega di barbiere. Il loro
fugace incontro segna l’inizio di un’ossessione amorosa che lo
porterà fino in Iowa, dove il protagonista si trasferisce per
scrivere il suo romanzo. Lì, accanto alla casa della ragazza, si
trova uno strano orto abbandonato, nel quale rinviene una teca di
vetro contenente i genitali di una donna e una criptica citazione
del poeta greco Bacchilide. Da quel momento, il giovane si troverà
invischiato in un inquietante mistero che lo costringerà a fare
ritorno in Italia, dove l’orrore troverà la sua compiutezza.
L’orto
americano riprende molte delle tematiche care ad
Avati: la follia come varco tra il reale e il soprannaturale, la
memoria storica come terreno fertile per l’orrore, il gotico padano
come cifra stilistica inconfondibile. Il protagonista, segnato da
un ricovero in un istituto psichiatrico perché sosteneva di parlare
con i defunti, incarna un’umanità fragile e tormentata ma comunque
aperta alla meraviglia e al richiamo dello extra-ordinario, anche
lui porta d’accesso verso un mondo in cui si può trovare la
pace solo nelle “vie di mezzo”, “tra l’acqua dolce del Po
e il mare”. Un personaggio delicato e sfumato che Scotti ritrae con
grande sensibilità.
Il bianco e nero: narrazione e
esperimento
Visivamente, Avati compie una scelta
audace adottando il bianco e nero, che conferisce al film
un’estetica espressionista e sospesa nel tempo. Le atmosfere
oniriche e inquietanti, arricchite da un sapiente uso delle ombre e
delle inquadrature, rimandano ai maestri del gotico,
da Mario Bava a Carl
Theodor Dreyer e la scelta fotografica, un unicum
nella carriera di Avati, segnala non solo un’esigenza legata al
racconto ma anche una volontà di sperimentare viva e propositiva.
La fotografia diventa fondamentale per amplificare il senso di
straniamento e la tensione narrativa, sostenendo il costante
contrasto tra lirismo e brutalità.
Uno degli aspetti più interessanti
di L’orto americano è la sua natura
metaforica che ripercorre una discesa agli inferi, un percorso di
discesa nel lato oscuro dell’animo umano che richiama la tradizione
dantesca (un ritorno!). Il protagonista si muove tra l’amore
idealizzato e la crudele realtà della morte, tra il Midwest
americano e la Bassa Padana, tra il mito dei testi classici e la
cronaca nera. Un continuo ossimoro che trova un equilibrio perfetto
in un racconto avvincente, oltre che ammaliante.
Con L’orto
americano, Pupi
Avati rappresenta ancora una volta quanto sia
importante raccontare l’inspiegabile, firmando un film che si
impone come uno dei suoi migliori lavori in assoluto. Un’esperienza
cinematografica sospesa tra sogno e allucinazione, come quegli
incubi confusi, che si dissipano al mattino, ma che lasciano un
segno di sé sul cuore.
L’ottavo episodio della seconda
stagione di Scissione non
è come gli altri episodi della serie Apple TV+,
in quanto si concentra esclusivamente su Harmony Cobel, sul suo
passato e sui suoi piani futuri per abbattere Lumon. Anche se Cobel
è stata ritratta come uno dei personaggi chiave nella prima
stagione della serie di fantascienza di Apple
TV+, dopo i primi episodi della seconda stagione ha
avuto pochissimo tempo sullo schermo. Dopo non essere stata
autorizzata a gestire nuovamente il piano reciso, Cobel si è
rivoltata contro l’azienda che aveva lealmente adorato ed è
scomparsa prima che qualcuno potesse rintracciarla.
Anche se la seconda stagione
inizialmente accennava al fatto che si stava dirigendo verso un
luogo chiamato Salt’s Neck, non rivelava mai perché Cobel si stava
dirigendo lì e cosa aveva intenzione di fare dopo la sua partenza
da Lumon. Dopo aver mantenuto un’aria di ambiguità sulla sorte di
Cobel, la seconda stagione di Scissione le
dedica un intero episodio, rivelando tutto, dalla sua storia in
Lumon al vero motivo per cui si sentiva tradita dall’azienda. Una
grande rivelazione sul passato di Harmony
Cobel in Lumon cambia tutto ciò che si sapeva su di lei e sul
suo contributo all’azienda.
Perché Cobel accetta di
incontrare Mark nel finale dell’ottavo episodio della seconda
stagione di Scissione
Cobel è rimasta devastata quando
Lumon l’ha licenziata nel finale della prima
stagione di Scissione. Nonostante fosse stata
licenziata, mantenne la sua lealtà e aiutò Lumon a contenere il
caos causato dalla contingenza degli straordinari che ne seguì
nell’arco finale della prima stagione. Con suo sgomento, anche dopo
aver dimostrato la sua dedizione al servizio dell’azienda, Helena
non accettò di averla a bordo come responsabile del piano
licenziata e le offrì solo un profilo di lavoro alternativo in
azienda.
Questo creò un senso di dissonanza
nella mente di Helena, che si rese conto di come avesse
sprecato tutta la sua vita rimanendo fedele a un’azienda che
l’aveva buttata fuori come uno strumento scartato. Con
questo, Cobel poteva finalmente vedere quanto fosse malvagia Lumon,
spingendola a scappare a Salt’s Neck, la piccola città in cui era
cresciuta. Dopo aver ottenuto ciò che voleva dalla sua casa
d’infanzia, si allontana da Salt’s Neck e riceve una chiamata da
Devon. Invece di ignorare Devon e Mark e rimanere fedele a Lumon,
Cobel non si trattiene dall’aiutarli.
Nella scena finale dell’episodio 8
della seconda stagione di Scissione si rende conto di essere
stata programmata per credere nella visione di Lumon per tutta la
vita. Tuttavia, come i lavoratori tagliati fuori, anche lei era un
burattino che l’azienda sfruttava a proprio vantaggio. Questa
consapevolezza le fa odiare Lumon e la incoraggia a collaborare con
coloro che sono determinati a distruggerla.
Chi arriva a casa di Sissy Cobel
nel finale dell’ottavo episodio della seconda stagione di
Scissione
Dopo essere arrivata a Salt’s Neck
nell’ottavo episodio della seconda
stagione di Scissione, Cobel teme di essere
seguita. Inoltre, teme che Sissy non la faccia entrare in casa se
vede la sua auto parcheggiata fuori. Pertanto, chiede aiuto a
Hampton e gli chiede di lasciarla in silenzio a casa di Sissy.
Verso la fine dell’episodio, Cobel trova finalmente ciò che stava
cercando, ma Hampton vede da lontano un’auto che si avvicina alla
casa di Sissy. Anche se l’episodio non rivela chi è arrivato a casa
di Sissy, sembra ovvio che si trattasse di qualcuno della
Lumon.
Sissy Cobel aveva precedentemente
rivelato che dopo che Harmony aveva lasciato Lumon, Drummond
l’aveva chiamata per raccontarle della sfida di Harmony. Mentre
Harmony trascorre del tempo nella stanza di sua madre e ricorda la
sua tragica scomparsa, Sissy sembra tradirla informando le autorità
di Lumon del suo arrivo a casa sua. Questo spiegherebbe come Lumon
sia venuta a conoscenza di dove si trovasse Cobel. Poiché anche
Hampton sembra aver avuto una storia traumatica con Lumon, esprime
il suo odio verso l’azienda dicendo “Venite a domare questi
temperamenti, stronzi”, mentre l’auto di Lumon si avvicina alla
casa di Sissy.
Cosa cerca Harmony nella casa di
Sissy Cobel
Harmony cerca in particolare un
taccuino nella casa di Sissy che apparentemente contiene intricati
disegni di qualcosa che ha creato lei. Dopo aver cercato in tutta
la sua stanza e in quella di sua madre, Cobel si rende conto che
Sissy non avrebbe mai buttato via le sue cose. Con questo, si rende
conto che Sissy potrebbe aver conservato le sue cose in cantina.
Quando va in cantina, trova finalmente il taccuino che stava
cercando, che contiene intricati disegni di tutti i protocolli e le
procedure di override che Lumon utilizza per creare le barriere di
separazione nei cervelli dei propri dipendenti.
I disegni nel taccuino di Cobel
spiegati: perché James Eagan li ha rubati?
I progetti nel taccuino di Cobel
rivelano che la procedura di separazione e le sue numerose
componenti erano frutto del suo ingegno. Era la mente dietro
tutte le procedure che Lumon utilizza sui suoi lavoratori.
Tuttavia, non le è mai stato dato il merito che meritava per il suo
lavoro. Invece, Jame Eagan ha rivendicato come sue le sue
invenzioni e si è preso tutto il merito per i suoi contributi a
Lumon. La storia di Cobel e Jame Eagan ricorda la leggenda
che circonda Thomas Edison e Nikola Tesla.
La rivelazione di Cobel spiega
perché Harmony si sentì così distrutta dopo che Lumon la allontanò
dal piano di separazione. Era orgogliosa di aver contribuito alla
crescita di Lumon inventando e studiando la procedura di
separazione, ma l’azienda glielo portò via.
È opinione diffusa che Thomas Edison
abbia brevettato le invenzioni di Tesla solo a suo nome e le abbia
presentate agli azionisti senza dare a Tesla il giusto merito per i
suoi contributi. Anche se non ci sono prove che Edison abbia rubato
a Tesla, il retroscena di Cobel mette in evidenza come le potenti
forze dietro Lumon gestiscano l’azienda come una setta. Manipolano
lavoratori come Cobel facendogli credere che il loro unico scopo è
servire Kier, mettendo a tacere qualsiasi riconoscimento dei loro
contributi individuali.
La spiegazione della storia di
Harmony Cobel alla Lumon
L’ottavo episodio della seconda
stagione di Scissione non solo rivela la verità
sui contributi di Harmony Cobel alla Lumon, ma svela anche come è
stata assunta dall’azienda quando era solo una bambina. Come la
signorina Huang, anche Cobel era minorenne quando fu assunta
dall’azienda come stagista. Come la Huang, anche lei
partecipò al prestigioso programma Wintertide
Fellowship di Lumon e fu ritenuta meritevole di tale borsa
di studio solo dopo aver dimostrato quanto fosse laboriosa durante
il suo periodo di lavoro in una fabbrica Lumon.
Sebbene l’episodio non approfondisca
i dettagli del viaggio di Cobel a Wintertide, suggerisce che anche
Hampton abbia lavorato con lei nella fabbrica Lumon. Hampton
continua a sottolineare come Lumon li abbia costretti a lavorare
come bambini, rivelando la triste verità sulla storia di
sfruttamento di giovani menti impressionabili da parte
dell’azienda. Quando Cobel e Hampton si drogano, Cobel ricorda
anche di aver fumato etere per la prima volta quando aveva solo
nove anni. Questo suggerisce che Cobel e Hampton erano
costantemente esposte all’etere e ai suoi effetti inebrianti quando
lavoravano nelle fabbriche di etere della Lumon da bambine.
La spiegazione del ruolo di
Celestine “Sissy” Cobel nella Lumon
Anche se l’episodio 8 della seconda
stagione di The Divide non menziona esplicitamente
il ruolo di Sissy Cobel in Lumon, mette in evidenza come anche lei
sia accecata dalla sua devozione all’azienda. Per alcuni secondi,
l’episodio mostra anche una foto di una targa su una delle pareti
della casa di Sissy, che rivela che lei era la “Maestra
apprendista dei giovani”. Mostra anche che era stata
etichettata come la “Quarterly Striver” nel “4th
Quarter”, suggerendo che aveva legami profondi con l’azienda
come sua dipendente per un bel po’ di tempo.
Cosa è successo alla madre di
Harmony Cobel
L’episodio 8 della seconda stagione
di Scissione rivela che la madre di Cobel aveva una malattia
terminale. Cobel accettò di lavorare per Lumon in giovane età
perché credeva che l’azienda l’avrebbe aiutata a pagare le cure per
sua madre. Tuttavia, mentre era via per lavoro per Lumon, sua madre
morì. Come si vede nell’episodio di Scissione
– stagione 2, Cobel rimane traumatizzata dalla morte di
sua madre e porta persino con sé il suo tubo per la
respirazione.
La stagione 2 di
Scissione dovrebbe avere un totale di 10 episodi, con l’ultimo
episodio in uscita il 21 marzo 2025.
Cobel cerca di incolpare Celestine
per la morte di sua madre sostenendo che non si è presa cura di
lei. Tuttavia, con grande sorpresa di Harmony, Celestine sostiene
che sua madre è morta dopo che lei stessa ha scollegato il tubo di
respirazione dal suo macchinario di supporto vitale. Sebbene
Harmony si rifiuti di credere alle affermazioni di Sissy Cobel, la
rivelazione la sconvolge profondamente.
L’impatto e l’influenza di Lumon
su Salt Neck spiegati
Anche se l’ottavo episodio della
seconda stagione di Scissione non approfondisce
l’influenza di Lumon su Salt’s Neck, accenna a come l’azienda abbia
distrutto la città. Molti cittadini sembrano soffrire di gravi
problemi di salute e utilizzare tubi per respirare, il che
suggerisce che Lumon abbia fortemente inquinato l’aria e l’acqua.
Per fare spazio alla sua crescita, l’azienda sembra anche aver
costretto molte persone a trasferirsi, mentre quelle rimaste sono
state costrette a lavorare per Lumon.
L’attesissimo Mickey
17 di Bong
Joon-ho è finalmente in sala (qui
la nostra recensione), ed ecco di seguito un’analisi sul finale
del film, nel tentativo di spiegare cosa succede in questo bizzarro
approccio alla fantascienza del regista premio Oscar. Basato sul
romanzo Mickey 7,Mickey 17
costruisce un nuovo mondo fantascientifico in cui le persone,
previo consenso, possono diventare “sacrificabili”. Il protagonista
(interpretato da Robert Pattinson) è uno di questi, che vengono
sacrificati per fare degli esperimenti e capire come e quando un
uomo muore. Dopo OGNI SINGOLA MORTE, Mickey viene ristampato, con
tutte le sue emozioni pregresse. Il problema insorge quando Mickey
17 non muore come dovrebbe, mentre dalla centrale operativa
stampano un nuovo Mickey 18.
Alla fine del film, le cose sono
degenerate a un livello pericoloso. Mickey 18 ha tentato di
assassinare il capo della colonia Kenneth Marshall (Mark
Ruffalo), mentre lui e i suoi seguaci radicali si
stanno preparando a spazzare via le specie native del pianeta, i
creepers, che però Mickey sa essere pacifiche, dal momento che è
proprio grazie al loro intervento che non è morto. Fortunatamente,
Mickey 17, Mickey 18 e Nasha (Naomi Ackie)
riescono a sventare il piano di Marshall. E alla fine Mickey 18 si
sacrifica per uccide Marshall e liberare Nilfheim.
Mickey 17 elimina il
programma dei “sacrificabili” dopo il sacrificio di Mickey 18
Il programma dei
sacrificabili è l’amo principale del film, l’intera storia è
incentrata sulla pratica di clonare Mickey dopo ogni sua morte. Nel
mondo di Mickey 17, il programma è
incredibilmente controverso, essendo stato reso illegale sulla
Terra. Anche mentre è a Nilfheim, molti coloni guardano dall’alto
in basso Mickey per la sua iscrizione al programma. Tuttavia,
Marshall ritiene che sia una necessità, perché Mickey viene inviato
in tutti i tipi di missioni pericolose e sottoposto a tutti i tipi
di esperimenti.
Alla morte di Marshall, Nasha viene
promossa in una posizione politica di potere su Nilfheim. Così,
Mickey e Nasha colgono questa opportunità per porre fine al
programma dei sacrificabili. Durante una cerimonia, a
Mickey viene permesso di far esplodere l’unica stampante per umani
di Nilfheim, gesto che rende illegale il programma anche su altri
pianeti, così come lo è sulla Terra. Poiché Mickey
18 è morto poco prima, Mickey 17 è
l’ultimo Mickey. Quindi, quando inevitabilmente morirà, la sua
morte rimarrà permanente.
I Creepers possono davvero uccidere
tutta l’umanità?
L’atto finale di Mickey
17 è piuttosto intenso, incentrato su uno scontro tra
i coloni umani di Nilfheim e i creepers. Marshall ha rapito un
cucciolo di creeper e ha intenzione di sterminare tutti i creeper
in una volta sola mentre circondano la base umana. Quando i deu
Mickey vengono mandati a parlare con i creeper, scoprono che i
creeper possono emettere una frequenza che ucciderà tutta
l’umanità, minacciando di farlo se il cucciolo di creeper non verrà
riportato indietro.
Dopo che Marshall viene ucciso e il
programma dei sacrificabili termina, il protagonista
riesce ad avere un’altra conversazione con i creeper. Durante
questa conversazione, lui scopre che i creeper non possono
effettivamente uccidere tutta l’umanità. La minaccia della
frequenza era un bluff, dato che sono per lo più innocui. Tuttavia,
questo bluff è esattamente ciò di cui avevano bisogno per salvare
la loro specie.
Perché Kenneth Marshall voleva
spazzare via i Creepers e colonizzare Nilfheim
Kenneth Marshall è il principale
antagonista del film e, mentre la performance di Mark Ruffalo è satirica, il piano del
potente politico è invece genocida. Come spiega il film, Kenneth
Marshall è un politico popolare che ha perso un’elezione. Per
questo motivo, Marshall e i suoi seguaci hanno iniziato la missione
Nilfheim, con la colonizzazione di un pianeta lontano in grado di
supportare la vita. Una volta arrivato, Marshall vuole che Nilfheim
sia interamente per gli umani. Ecco perché vuole uccidere tutti i
Creepers, ottenendo un pianeta in cui lui è l’autorità suprema.
Cosa significa in realtà la
sequenza onirica di Mickey 17
Sebbene Mickey 18 uccida Marshall e
sua moglie Ylfa venga imprigionata, questa non è la fine del
conflitto di Mickey 17. Verso la fine del
film, Mickey sogna che la stampante umana è ancora in funzione.
Vede Ylfa lì, che gli dice di provare una nuova salsa. Poi, Ylfa
inizia a stampare un’altra versione di Marshall, che apparentemente
torna in vita. Sebbene questa sia una sequenza onirica, il pubblico
non se ne accorge subito.
I sogni di Mickey 17 mettono in luce
la sua paranoia e, sebbene sia impossibile che Kenneth Marshall
stesso torni, Mickey ha paura che qualcuno come lui salga al
potere. Questa è la chiave del commento politico di
Mickey 17. Anche se quel politico
fascista, un’altra persona come lui potrebbe facilmente ribellarsi
e destabilizzare di nuovo le cose. La stampante in sé dovrebbe
essere un simbolo di questo ciclo e Mickey dovrà continuare a
combattere per impedire che questo sogno si avveri.
Mickey 17 imposta il libro sequel,
Antimatter Blues?
Mickey 17
è basato sul romanzo di Edward AshtonMickey
7 e, sebbene molti spettatori potrebbero non saperlo, il libro
ha in realtà un sequel. Ashton ha anche scritto il romanzo del 2023
Antimatter Blues, che si svolge due anni dopo gli eventi
di Mickey 7. Nel libro, Mickey scopre che una bomba è
stata nascosta a Nilfheim e deve trovarla per rifornire la base dei
coloni evitando il conflitto con i creepers.
È improbabile che si realizzi un
sequel del film Mickey 17, poiché
Bong Joon-ho non è noto per aver realizzato
sequel. Sebbene sia possibile, poiché la storia potrebbe basarsi
sul finale di Mickey 17, probabilmente non accadrà
a meno che Mickey 17 non sia un enorme successo finanziario (e
sembra improbabile).
Il vero significato di Mickey
17
Come altri film di Bong
Joon-ho, Mickey 17 è pieno di
riflessioni su classe, politica, potere e capitalismo. Il
programma dei sacrificabili è pensato per essere parallelo
a quanto siano sacrificabili molti lavoratori, con l’atteggiamento
indifferente di Nilfheim nei confronti di Mickey che è simile agli
atteggiamenti di molti superiori nei confronti dei loro dipendenti.
Kenneth Marshall è anche chiaramente ispirato da alcuni politici
della vita reale, con la sua retorica e i suoi obiettivi non
lontani da alcune ideologie politiche nonostante l’ambientazione
fantascientifica del film.
La cronologia delle Yellowjacketsè
molto vaga, rendendo difficile per gli spettatori capire da quanto
tempo le ragazze sono disperse, ma alcuni indizi durante lo show
forniscono qualche informazione in
più. Yellowjackets segue la squadra di calcio di
una scuola superiore che lotta per sopravvivere dopo che il loro
aereo diretto alle nazionali si è schiantato nella natura canadese.
Lo show, che alterna le ragazze da adolescenti nel 1996 nel bosco a
donne adulte ai giorni nostri, rivela che le Yellowjackets sono
rimaste bloccate per 19 mesi. Tuttavia, finora è stata mostrata
solo una parte di quel periodo, lasciando il pubblico con domande
senza risposta.
Descritta come una versione più
cupa e tutta al femminile de Il signore delle
mosche, la scena di apertura di Yellowjackets mostra
le ragazze che alla fine ricorrono al cannibalismo, che dà i suoi
frutti quando la linea temporale di
Yellowjackets raggiunge la seconda stagione e Jackie e
Javi vengono mangiate. La raccapricciante tattica di
sopravvivenza sembrava essere molto lontana nella linea temporale,
ma un inverno rigido durante i due mesi che separano le stagioni li
ha costretti a farlo. Senza date esplicite, è difficile determinare
per quanto tempo i sopravvissuti del volo 2525 sono rimasti nei
boschi. Tuttavia, alcuni indizi contestuali possono
essere raccolti per stabilire una linea temporale approssimativa
di Yellowjackets.
Cronologia della prima stagione
di Yellowjackets: 5-6 mesi
Ci sono indizi e riferimenti
nascosti in tutta la prima stagione
diYellowjackets, che aiutano
il pubblico a sviluppare teoriee servono come indizi
contestuali per la cronologia di
Yellowjackets. Il pubblico sa che i Yellowjackets
hanno saltato il ballo di fine anno per andare alle nazionali,
quindi è probabile che l’aereo sia precipitato nel maggio 1996.
Anche la gravidanza di Shauna (Sophie Nélisse) è uno dei maggiori
indicatori di quanto tempo sia passato, poiché la serie lascia
intendere che sia rimasta incinta la notte prima dell’incidente
aereo.
Durante il finale, la sua pancia ha
iniziato a diventare più prominente, al punto che fatica a entrare
nel suo vestito da “fine del mondo”. Anche se è difficile stabilire
a che punto della gravidanza si trovi, è molto probabile che sia al
secondo trimestre, il che suggerisce che gli eventi del finale si
svolgano almeno tre mesi dopo l’incidente aereo. Altri indizi della
linea temporale di Yellowjackets sono i
cambiamenti del tempo e diversi commenti improvvisi dei
personaggi.
All’indomani dell’incidente, le
Yellowjackets possono dormire tranquillamente all’aperto, ma il
tentativo di Jackie di farlo nel finale ha conseguenze mortali. I
personaggi riconoscono ripetutamente che la sopravvivenza diventa
più difficile quanto più fa freddo fuori, e l’improvvisa nevicata
nel finale indica che hanno iniziato a entrare nell’inverno. Le
ragazze organizzano la loro festa di “doomcoming” in sostituzione
del ballo di fine anno, un evento che si svolge a
settembre/ottobre, e Jackie dice che si sarebbero preparate per la
“rush week” se l’aereo non si fosse schiantato.
Le Yellowjackets sono rimaste
bloccate per 5 o 6 mesi.
Prima dell’incidente, gli studenti
più grandi si stanno preparando per l’università, e la giocatrice
Allie si lamenta del fatto che il viaggio alle nazionali le farà
perdere il ballo di fine anno, che di solito si tiene a
maggio. Questi indizi combinati forniscono una risposta
approssimativa, in quanto suggeriscono che l’aereo si è schiantato
a maggio o all’inizio di giugno, e gli eventi del finale si
svolgono a fine ottobre o inizio novembre, il che significa che le
Yellowjackets sono rimaste bloccate per 5-6 mesi.
Cronologia della seconda
stagione di Yellowjackets: 4-5 mesi
Il secondo capitolo copre un
periodo leggermente più breve
La cronologia di
Yellowjackets si accorcia per la seconda stagione, ma
è più ricca di azione rispetto alla prima puntata. La seconda
stagione di Yellowjackets si apre con la
rivelazione che sono passati due mesi dal finale della prima
stagione. Pertanto, si può intuire che, contando il salto temporale
di due mesi, gli eventi del secondo episodio si svolgono nel corso
di 4-5 mesi, concludendo la stagione al più presto a febbraio e al
più tardi ad aprile. Durante l’intera stagione, la natura selvaggia
è coperta di neve, con una tempesta torrenziale alla vigilia del
travaglio di Shauna.
La neve inizia a sciogliersi a
marzo o aprile, ma può rimanere più a lungo, a seconda della zona.
Quattro cose indicano quanto tempo passa nella linea temporale
di Yellowjackets: il tempo, il cibo, la gravidanza di
Shauna e il dialogo. Il salto temporale di due mesi è stato
stabilito quando Taissa osserva che Shauna ha conversato con il
corpo di Jackie per due mesi e, sebbene non si stia decomponendo
così velocemente come farebbe normalmente a causa del freddo, le
cade l’orecchio.
All’inizio della puntata, la carne
dell’orso ucciso da Lottie nella prima stagione è diventata
sottilissima, e non consumano più animali, riempiendo invece le
loro pance di carne umana, fino a quando gli uccelli morti cadono
sulla capanna nell’episodio 3, “Digestif”. Shauna ha anche avuto il
suo bambino selvaggio nell’episodio 6, “Qui”. Quando è iniziato il
travaglio, nessuno ha fatto menzione del fatto che il bambino
sarebbe nato troppo presto, e il team si era preparato per il parto
attraverso le meditazioni mattutine di Lottie.
Il team è rimasto bloccato
per nove mesi in totale.
Pertanto, si può supporre che, a
metà della pausa stagionale nella cronologia
delle Yellowjackets, la squadra sia rimasta bloccata
per nove mesi in totale. Dopo che Shauna è costretta a seppellire
il suo bambino, accadono molte cose, come l’istituzione del rituale
e il passaggio della leadership da Lottie a Natalie. Tuttavia, c’è
ancora neve a terra, il che significa che è probabile che l’ultima
serie di episodi della seconda stagione
delle Yellowjackets si svolga nell’arco di un
mese.
Le Yellowjackets rimangono
bloccate per 19 mesi in totale
Si suggerisce che il team
rimarrà nella natura selvaggia per un anno e mezzo
Anche se la cronologia
di Yellowjackets non è stata stabilita
esplicitamente nel 1996, è possibile calcolare esattamente per
quanto tempo la squadra è rimasta bloccata nella natura selvaggia.
È stato rivelato che le Yellowjackets sono rimaste bloccate
per 19 mesi, circa un anno e mezzo. Se la cronologia
di Yellowjackets seguisse le stime elencate, è
probabile che la serie abbia finora coperto un periodo di tempo
compreso tra i 9 e gli 11 mesi.
Ciò significa che mancano circa
8-10 mesi prima che venga mostrato come le ragazze vengono salvate.
Tuttavia, i creatori della serie hanno suggerito che una terza
linea temporale potrebbe entrare in gioco. Solo il tempo lo dirà,
mentre Yellowjacketscontinua con
la terza
stagione.
La linea temporale degli adulti
di Yellowjackets
Il segmento del 2021 copre
molto meno
Sebbene la maggior parte delle
domande sulla linea temporale di Yellowjackets si
concentri sul periodo del 1996 e su quanto a lungo i sopravvissuti
del volo 2525 siano stati abbandonati a se stessi nella natura
selvaggia, questo non è l’unico punto della storia dei personaggi
trattato dalla serie. Yellowjackets si concentra
anche sul presente dei suoi personaggi, esplorando l’impatto di ciò
che è accaduto nella natura selvaggia e l’impatto che ha avuto
sulle loro vite 25 anni dopo.
Le parti
di Yellowjackets ambientate nella natura selvaggia
si svolgono tra il 1996 (l’incidente) e il 1998 (quando le ragazze
vengono salvate). La narrazione poi riempie retroattivamente gli
spazi vuoti man mano che rivela altro del mistero. La linea
temporale attuale, d’altra parte, viene esplorata in modo lineare.
Tuttavia, l’arco temporale degli eventi del 2021
in Yellowjackets è molto più breve. Mentre
la parte degli anni ’90 della serie copre circa un anno e mezzo,
finora la linea temporale degli adulti
in Yellowjackets copre poco più di un mese o
due.
Il ritmo degli eventi nella linea
temporale attuale di Yellowjackets è molto più
compatto. Questo vale sia per la prima e la seconda
stagione diYellowjackets, sia
per il tempo che intercorre tra di esse. Nella linea temporale
degli anni ’90, tra la prima e la seconda stagione
di Yellowjackets passano due mesi. Tuttavia, per
quanto riguarda la vita adulta dei sopravvissuti nel 2021, ci sono
solo pochi giorni tra gli eventi del finale della prima stagione e
la prima della seconda.
È probabile che la terza stagione
di Yellowjackets si espanderà
maggiormente sulla linea temporale degli adulti, ed è anche
possibile che ci possa essere un salto temporale che estenda
ulteriormente l’arco temporale della parte odierna della
storia.
Quanto tempo è probabile che
passi nella terza stagione
Le prime due stagioni
di Yellowjackets sembrano essere durate tra i 10 e
i 12 mesi. Si suggerisce anche che le ragazze siano rimaste
intrappolate nella natura selvaggia per 19 mesi, ovvero per poco
meno di due anni. I co-creatori Ashley Lyle e Bart Nickerson hanno
dichiarato di avere un piano di cinque stagioni per la serie
(tramite THR),
e poiché intendono passare dalle ragazze bloccate alle situazioni
attuali, la terza stagione non dovrebbe durare più di tre o
quattro mesi, a meno che la serie non arrivi completamente ai
giorni nostri alla fine.
Naturalmente, tutto questo potrebbe
cambiare se ci fosse una terza linea temporale, quindi tutto è
possibile.
Lost è un buon esempio
di serie che ha dato una scossa con flash-forward piuttosto che
flashback, quindi se ciò accadesse, la terza stagione potrebbe
essere simile per durata alle prime due e portare quasi al loro
salvataggio prima che i creatori scuotano le cose per i personaggi.
Con il primo sguardo alle ragazze che iniziano a diventare più
animalesche quando si tratta di
cannibalismo, Yellowjackets potrebbe essere
pronta per una terza stagione molto traumatizzante su Showtime.
Uscito nel 2018,
Nella tana dei lupi si
è rivelato il miglior action-thriller realizzato dai tempi
di The
Town,
seconda regia di Ben
Affleck.
Costruito con realismo pungente soprattutto nelle sequenze di
sparatorie e nelle interpretazioni carismatiche del cast, il
lungometraggio diretto da Christian
Gudegast
ha ottenuto un discreto successo al botteghino e un’ampia schiera
di fan.
Sviluppare un sequel non sarebbe stato tuttavia un compito facile,
per due ragioni specifiche: in primo luogo, il film avrebbe avuto
bisogno di una nuova ambientazione, lontana da una Los Angeles
stilizzata e in fiamme; in secondo luogo (SPOILER ALERT!) sarebbe
stato più che complesso restituire allo spettatore il tono teso e
struggente una volta uscito di scena il personaggio di Ray
Merrimen, nell’originale interpretato da un impressionante
Pablo Schreiber,
di gran lunga il maggiore punto di forza dell’intera
operazione.
Nella tana dei lupi 2:
Pantera accetta le sfide
Nella tana dei lupi 2:
Pantera ha accettato queste sfide e, pur non
raggiungendo l’eccellenza cinematografica del primo capitolo,
dimostra chiaramente che Gudegast è un regista intelligente.
Ambientato quasi completamente nel sud della Francia, questo sequel
si orienta maggiormente verso l’heist-movie, scegliendo un
approccio più dolce e rilassato sia nei confronti della storia che,
fattore ancor più importante, del tono. Alla fine, il regista
utilizza i personaggi rimasti per realizzare qualcosa che risulta
divertente in modo diverso: una scelta che paga soprattutto perché
era piuttosto impossibile eguagliare quanto fatto in precedenza, e
Gudegast dimostra fin da subito di averlo capito.
Detto
questo, Nella tana dei lupi 2:
Pantera inizia con una notevole scena d’azione che
stabilisce il tono dell’intero film, per poi procedere allo
sviluppo di una trama piuttosto efficace e coerente con il ritmo
della narrazione. Quando diventa chiaro che non c’è un’altra figura
di spessore quale era quella di Merrimen, i protagonisti Nick
O’Brien (Gerard
Butler) e Donnie Wilson (O’Shea Jackson
Jr.) iniziano a sviluppare quel rapporto di amore/odio che
abbiamo visto molte volte in questo tipo di heist-movie. Il duello
psicologico, carismatico e viscerale tra Gerard Butler e Pablo
Schreiber in Nella tana dei lupi non viene replicato in Pantera,
perché O’Shea Jackson Jr. non interpreta quel tipo di personaggio e
non possiede la presenza scenica di Schreiber. Di conseguenza, il
nuovo capitolo non può contenere lo stesso tipo di dramma.
La sceneggiatura sviluppa
il piano di rapina e la sua esecuzione utilizzando tutte le
coordinate narrative più conosciute e un paio di colpi di scena non
particolarmente originali, ma questo non significa che non
funzionino per intrattenere. Tranne forse negli ultimi dieci
minuti, l’azione non va mai troppo sopra le righe, impostando un
realismo di base che tiene lo spettatore dentro la storia e accanto
ai personaggi. Le sequenze d’azione non sono mai incredibili, non
c’è violenza usata solo per intrattenere il pubblico, e
ovviamente si finisce per tifare per i criminali quando si tratta
di rubare milioni di dollari a qualcuno che può sicuramente
permettersi di perderli.
Un action che predilige
l’intrattenimento
Manca senza dubbio una
dose di empatia sviluppata attraverso la narrazione, ma è
abbastanza chiaro che, a vogliamo ribadirlo ancora una
volta, Pantera preferisce intrattenere
con un tono più rilassato invece di cercare di raggiungere lo zenit
emotivo del primo Nella tana dei lupi. Questo
sequel è molto meno un dramma e uno studio sui personaggi, ma
dimostra fin dall’inizio di non volerlo essere, diventando un
onesto sequel tutto sommato sa muoversi in autonomia. Spostandosi
nella cornice più rilassante dell’heist-movie, Christian Gudegast
ha deciso di esplorare toni addirittura antitetici nel sequel del
suo acclamato primo lungometraggio. Una scelta che non è sbagliato
avallare, visto che il cineasta ha cercato di cambiare rotta e non
ripetere una formula che sapeva non avrebbe funzionato. Nella tana
dei lupi 2: Pantera è lontano dall’essere perfetto, ma è divertente
e in modo evidente sembra essere consapevole di regalare puro
intrattenimento.
Bong
Joon-ho torna sul grande schermo con Mickey
17, il suo primo film dopo il trionfo agli Oscar con
Parasite nel 2019. Basato sul romanzo
Mickey7 di Edward Ashton, il film si inserisce nel filone
della fantascienza satirica, combinando elementi di critica sociale
con uno stile visivo spettacolare, che, nel contesto della
filmografia di Bong, ci riporta alla mente
Snowpiercer. Con Robert Pattinson alla guida del cast, il film
si propone di essere un viaggio surreale e filosofico nella
colonizzazione spaziale, nell’etica del sacrificio e nella natura
dell’identità umana.
La trama di Mickey
17
La storia segue Mickey
Barnes, interpretato da Pattinson, un uomo senza particolari
capacità o pregi che, per sfuggire a problemi finanziari, accetta
di diventare un “sacrificabile” per una missione interplanetaria.
Il suo compito è quello di svolgere incarichi estremamente
pericolosi, con la consapevolezza che ogni volta che muore il suo
corpo verrà ricreato attraverso un processo di bio-stampa,
mantenendo intatti i suoi ricordi e la sua personalità. Tuttavia,
quando Mickey 17 sopravvive inaspettatamente a una incursione su un
pianeta remoto e si trova faccia a faccia con il suo sé successivo,
Mickey 18, la situazione sfugge di mano, mettendo in discussione le
regole della missione e il concetto stesso di identità.
Bong
Joon-ho, con la sua inconfondibile capacità di sovvertire
i generi cinematografici, costruisce una narrazione che oscilla tra
la satira distopica e la riflessione esistenziale. Il regista
riprende le atmosfere di Snowpiercer e Okja,
mescolando critica sociale e immaginario sci-fi. Mickey 17
infatti ambisce anche a proporsi come una satira sui magnati della
tecnologia, con Kenneth Marshall (interpretato da Mark Ruffalo) che incarna la figura di un leader
carismatico e autoritario, convinto che lo spazio sia la soluzione
ai problemi ambientali della Terra e che gli esseri umani siano
sacrificabili per il progresso. I riferimenti alla contemporaneità
si sprecano!
Un nucleo narrativo diluito
Anche se visivamente
potente e coinvolgente, pensato (per fortuna) per il grande
schermo, Mickey 17 diluisce il suo nucleo
narrativo, soprattutto nella seconda parte, e si dilunga, spingendo
lo spettatore fuori dal flusso narrativo legato alla storia
principale focalizzata sul protagonista. I temi portanti del film,
legati come detto soprattutto all’identità, passano totalmente in
secondo piano, e Bong comincia a raccontare un’altra storia, di
invasioni e lotte inter-specie, che sembrano portare il film fuori
dal suo asse di racconto. Questa deviazione, forse necessaria per
inserire nella storia un elemento di azione spettacolare in più,
rende il film molto meno incisivo rispetto alle opere precedenti di
Bong.
Uno degli aspetti più
intriganti nelle intenzioni del film è la questione della morte e
della rinascita. Mickey, avendo sperimentato la morte sedici volte,
viene continuamente interrogato su cosa significhi morire e se sia
un’esperienza che lascia traccia. Eppure, nonostante la sua
esperienza unica, il protagonista non sembra avere una risposta
definitiva, lasciando intendere che la coscienza umana sia qualcosa
di inafferrabile e misterioso. Peccato che anche questo aspetto
appaia superficiale e sacrificato a parti della storia che ne
annacquano il cuore filosofico.
Robert Pattinson
al meglio delle sue capacità
D’altro canto, però,
Robert Pattinson offre
un’interpretazione notevole, alternando momenti di smarrimento
comico a scene di intensa introspezione, regalando al suo
personaggio una grande tenerezza che, almeno per la prima parte
della storia, riesce a creare una connessione intima con lo
spettatore. Il suo Mickey è un eroe improbabile, un uomo comune
costretto a confrontarsi con il suo stesso doppio e con un destino
apparentemente scritto. Il contrasto con Mickey 18, più aggressivo
e determinato, aggiunge un elemento di tensione alla narrazione,
mentre la sua relazione con Nasha (Naomi Ackie) introduce una
componente emotiva che rende il personaggio ancora più
sfaccettato.
Non mancano riferimenti a
classici della fantascienza, come Alien di Ridley Scott, ma, a differenza di altri film del
genere, Mickey 17 non si abbandona al puro horror o alla
disperazione. Bong Joon-ho introduce un’insolita vena ottimistica,
suggerendo che l’umanità possa trovare una via per sopravvivere
senza distruggere tutto ciò che incontra.
Al netto dei troppi
momenti di stallo narrativo e una durata forse eccessiva (due ore e
diciassette minuti), Mickey 17 potrebbe anche essere visto
come un film affascinante e stimolante. Conferma la bravura e la
capacità immaginativa di Bong Joon-ho, anche se non è il capolavoro
che era stato Parasite, né l’efficace adattamento
che avevamo visto con Snowpiercer.
La serie drammatica
soprannaturale School
Spiritsdi Paramount+ ha il potenziale per diventare
un successo di lunga durata, ma lo show sarà presto rinnovato per
la terza stagione? Creata da Megan e Nate Trinrud, la serie è
incentrata su Maddie (Peyton List), un’adolescente di Split River,
nel Wisconsin, che si ritrova bloccata nell’aldilà dopo essere
apparentemente morta in circostanze strane. Con l’aiuto dei
fantasmi che abitano anche nella sua scuola, Maddie deve arrivare
al fondo del suo mistero, svelando un intero mondo di sorprese
soprannaturali. Mescolando elementi di drammi scolastici con il
soprannaturale, School Spirits è una sintesi
affascinante.
La prima stagione ha ricevuto
recensioni per lo più positive ed è stata rinnovata a metà del
2023. Purtroppo, gli scioperi di Hollywood del 2023 hanno tenuto la
serie in disparte per il resto dell’anno, e non è tornata fino
all’inizio del 2025. Nonostante questa enorme battuta d’arresto, la
seconda stagione di School Spirits ha continuato
lo slancio positivo del suo predecessore e ha già aggiunto una
serie di nuove sfaccettature all’esperienza ultraterrena di Maddie.
Tuttavia, resta da vedere se Paramount+ riporterà
lo show per la terza stagione, e la decisione dipenderà in gran
parte dal successo della seconda puntata.
Ultime notizie
suSchool Spirits 3
Sebbene la notizia non riguardi
direttamente una potenziale terza stagione, le ultime notizie
confermano che la seconda stagione di School
Spirits ha visto un enorme aumento del pubblico. Gli
episodi di debutto della seconda stagione sono stati visti da 1,7
milioni di spettatori nei primi sette giorni, il che
segna un miglioramento del 104% rispetto alla
prima stagione. Con la messa in onda della prima stagione
su un secondo servizio di streaming, Netflix, è chiaro
che School Spirits ha effettivamente aumentato il
suo pubblico durante il lungo periodo di inattività tra le
stagioni. Non è chiaro se questo porterà a un rinnovo della terza
stagione, ma sicuramente aiuta.
La terza stagione di School
Spirits non è confermata
School Spirits ha
ottenuto il rinnovo per la seconda stagione dopo un debutto
acclamato dalla critica e l’ordine è arrivato piuttosto
rapidamente, tutto sommato. A poche settimane dalla conclusione
della prima stagione, il rinnovo della seconda stagione ha
dimostrato che la serie ha fatto qualcosa di giusto durante la
prima stagione per garantirne un’altra. I ritardi che hanno tenuto
la serie fuori onda per tutto il 2024 sono stati scoraggianti, ma
dati recenti mostrano che il pubblico della serie è
effettivamente cresciuto durante la pausa. La seconda stagione
di School Spirits ha debuttato con un pubblico più
vasto rispetto al suo predecessore, un buon segno per il suo
futuro.
Con un aumento così massiccio di
spettatori (senza dubbio stimolato dall’arrivo della prima stagione
su Netflix), Paramount+ probabilmente terrà
d’occhio la stagione 2 di School
Spirits man mano che procede. Uno degli svantaggi di
un programma di uscite settimanali è che non c’è alcuna garanzia
che gli spettatori rimangano nel tempo. Il binge-watching richiede
meno impegno, ma a volte non è così accurato nel giudicare la vera
popolarità di uno show. Se la seconda stagione di School
Spirits mantiene il suo pubblico (o addirittura lo
aumenta), la terza stagione è una certezza.
Dettagli del cast
diSchool Spirits 3
Il cast di School
Spirits è cresciuto nella seconda stagione e questa
tendenza probabilmente continuerà anche nella terza. Tuttavia, è
impossibile indovinare chi saranno i nuovi arrivati finché non
emergeranno maggiori dettagli. Oltre a questo, è altamente
probabile che il cast principale tornerà a riprendere i propri
ruoli, anche se la seconda stagione promette ancora
qualche colpo di scena. Maddie Nears, interpretata da Peyton List,
è il fulcro della serie e tornerà sicuramente nella terza stagione.
Insieme a lei ci sarà Kristian Ventura nel ruolo di Simon Elroy, il
migliore amico di Maddie, l’unica persona in vita che può
interagire con lei.
Milo Manheim tornerà probabilmente
nei panni del fantasma Wally Clark, mentre Spencer MacPherson
dovrebbe riprendere il ruolo di Xavier Baxter, l’ex fidanzato di
Maddie. Anche Rhonda Rosen, l’adolescente assassinata, dovrebbe
tornare nella terza stagione, e il suo cinico senso dell’umorismo è
fornito da Sarah Yarkin nel ruolo del fantasma. Nick Pugliese
interpreta il fantasma timido e amichevole, Charley, mentre Josh
Zuckerman appare come il fantasma del misterioso signor Martin. A
completare il cast dei vivi, Nicole Herrera è interpretata da Kiara
Pichardo, una persona vicina a Simon e a Maddie quando era in
vita.
Il cast della terza stagione
di School Spirits includerà probabilmente:
Peyton List Maddie Nears
Kristian Ventura Simon Elroy
Milo Manheim Wally Clark
Spencer MacPherson Xavier Baxter
Sarah Yarkin Rhonda Rosen
Nick Pugliese Charley
Josh Zuckerman Mr. Martin
Kiara Pichardo Nicole Herrera
Dettagli della trama della
terza stagione di School Spirits
La prima stagione si è conclusa con
la sconvolgente rivelazione che Maddie non è morta e che uno
spirito di nome Janet ha preso possesso del suo corpo. Anche se
questa trama potrebbe concludersi nella seconda stagione, crea un
precedente per ciò che ci si può aspettare dalla terza.
Il finale della seconda stagione ha
già promesso di lasciare agli spettatori più domande che risposte
(secondo Peyton List in un’intervista con Collider),
e questo significa che un enorme colpo di scena scuoterà di
nuovo le cose.
Quale sarà questo colpo di scena
sarà impossibile da prevedere fino al finale della seconda
stagione, ma probabilmente significa che Maddie non si
riunirà al suo corpo fisico in tempi brevi. Con le regole
dei fantasmi e dell’aldilà ancora da definire, non è chiaro cosa
accadrebbe se Maddie tornasse alla normalità. Probabilmente
significherebbe la fine della sua amicizia con i fantasmi, ma solo
il tempo potrà dirlo. La terza stagione di School
Spirits ha già molto su cui lavorare, ma la seconda
stagione aggiungerà senza dubbio altro carburante al proverbiale
fuoco della storia.
Jess Gabor, che
interpreta Janet nella serie School
SpiritsParamount+,
spiega perché il suo personaggio sceglie di non passare oltre nel
finale della seconda stagione. La serie drammatica soprannaturale
vede Maddie (Peyton List) intrappolata nell’aldilà
della Split River High dopo che Janet ha dirottato il suo corpo e
si è avventurata fuori dalla scuola. Dopo molte riflessioni, Janet
torna alla Split River High e offre a Maddie il suo corpo. Quando
viene a galla la verità sulla sua morte, Janet sblocca l’uscita
prendendo il controllo della sua cicatrice. Tuttavia, sceglie di
rimanere piuttosto che passare oltre.
In un’intervista con The
Wrap, Gabor parla della decisione di Janet di rimanere.
Spiega come il tempo trascorso da Janet con gli amici di Maddie
l’abbia cambiata in meglio e fa luce sulle dinamiche tossiche che
ha con il signor Martin (Josh Zuckerman). Mentre Janet ha fatto
pace con ciò che le è successo, l’attrice sottolinea anche come
l’identità fondamentale del suo personaggio di scienziata entri in
gioco nel suo processo decisionale dopo aver capito che potrebbe
esserci dell’altro. Gabor sottolinea che Janet ha preso “una
decisione coraggiosa” per aiutare i suoi amici. Ecco cosa ha
detto:
Janet inizia finalmente a
entrare in empatia con Maddie vedendola attraverso i suoi amici.
Quando è nella capanna con tutti gli amici di Maddie, che
chiaramente le vogliono abbastanza bene da
rapirla,Janet non sa cosa significhi avere amici
che ti coprono le spalleo cosa significhi fidarsi
di nuovo di qualcuno.La persona su cui contava di più
al mondo, il signor Martin (Josh Zuckerman), l’ha maltrattata e ha
approfittato completamente di lei e della sua innocenza.
Si rende conto che quello che
sta facendo non è il modo giusto di comportarsi e forse c’è un
altro modo. Forse c’è una seconda possibilità di una seconda vita
da qualche altra parte, ma non può essere rubando il corpo di
Maddie.
È una scienziata. Vuole
risposte. Vuole capire le cose. Anche se la sua porta è aperta e ha
accettato il suo trauma e quello che le è
successo,questo non significa che possa aiutare
anche tutti gli altri a uscirne.Si rende conto che
forse c’è di più nella vita di quanto pensasse. Forse non è tutto
bianco o nero. Deve decidere: “Ci sto o non ci sto?”E
fa questa scelta davvero coraggiosa di entrare nella zona grigia e
aiutare questi nuovi amici a capire come possono uscirne anche
loro.
Cosa significa questo per Janet
in School Spirits
I commenti di Gabor offrono un po’
di chiarezza sull’arco del personaggio di Janet. Nello show, Janet
scherza dicendo di avere “affari in sospeso” mentre decide
di chiudere la porta di uscita per ora. In precedenza era stato
anche rivelato che Janet potrebbe sapere di più su una potenziale
minaccia che si sta profilando a Split River. Anche se il finale
della seconda stagione non ha le risposte a queste domande, i
commenti di Gabor rivelano che la decisione di Janet di rimanere
alla fine della seconda stagione è motivata dal suo
desiderio di svelare il mistero e aiutare i suoi amici, il che
significa anche che il personaggio ha davvero voltato pagina.
In un’intervista separata, lo
showrunner Oliver Goldstick ha rivelato che la seconda stagione
di School Spirits ha quasi avuto un finale
diverso, in cui Janet avrebbe trovato la sua via d’uscita.
Tuttavia, la scelta di rimanere dimostra che Janet è
diventata una persona a sé stante, che ha il potere di aiutare
gli altri e di scegliere come apportare un cambiamento, anche
nell’aldilà. Il colpo di scena è un momento di empowerment
nell’arco del personaggio, e anche di redenzione.
La serie thriller
politica Paradisedi
Hulu e Disney+ è stata
un successo immediato e lo streamer ha rapidamente rinnovato lo
show per una seconda stagione all’inizio del 2025. Interpretata
da Sterling K. Brown, la serie è ambientata
all’interno di un enorme bunker sotterraneo creato dal governo
degli Stati Uniti per ospitare figure politiche chiave in caso di
catastrofe mondiale. Tre anni dopo che un misterioso scenario
apocalittico ha costretto tutti a rifugiarsi sottoterra, l’agente
dei servizi segreti Xavier Collins (Brown) è determinato a scoprire
la verità dietro l’evento catastrofico e a scoprire chi ha davvero
ucciso il presidente degli Stati Uniti.
Mescolando gli elementi sconvolgenti
di un mistero con la tensione avvincente di un thriller
politico, Paradise è un’offerta unica nel moderno
mondo dello streaming. Inoltre, le brillanti interpretazioni
contribuiscono a elevare il materiale sopra le righe, dando
concretezza a Xavier e rendendo il suo viaggio ancora più
credibile. Sebbene la prima stagione abbia risolto il mistero
di chi
ha ucciso il presidente Bradford, ha semplicemente preparato il
terreno per un mondo molto più vasto oltre il bunker titolare. Con
Hulu che ha rinnovato rapidamente la seconda stagione dello show, è
chiaro che la prima stagione era solo un assaggio di ciò
che Paradise ha da offrire.
Ultime notizie su Paradise –
stagione 2
Dopo una prima
stagione dinamica che ha lasciato molte domande senza
risposta, le ultime notizie arrivano sotto forma di un’anticipazione
della trama della seconda stagione di Paradise.
Sterling K. Brown ha parlato candidamente di ciò che accadrà nella
seconda puntata, ed è chiaro che Paradise sta
ampliando i propri orizzonti. “Quindi penso che nella seconda
stagione,” ha detto Brown, “l’idea sia quella di
esplorare cosa è successo al resto del mondo.” Questo
è stato ampiamente suggerito dal finale della prima stagione, ed è
il passo logico successivo per Xavier dopo aver appreso che sua
moglie è viva e che il mondo al di fuori di Paradise è
abitabile.
Leggi qui i commenti completi di
Brown:
“Sappiamo cosa hanno fatto i
miliardari e le persone al potere. Hanno costruito una città,
giusto?Poi abbiamo scoperto nell’episodio 4 che c’è
ancora aria respirabile. Nell’episodio 7 si vede che le bombe
atomiche non sono esplose, che c’è ancora vita come la conosciamo,
ma forse molto diversa perché il disastro naturale è ancora in
corso. Quindi penso che nella seconda stagione l’idea sia quella di
esplorare cosa è successo al resto del mondo, come si
presenta?
Paradise: confermata la seconda
stagione
Hulu rinnova la serie prima del
finale della prima stagione
A differenza di altri programmi in
streaming che spesso languiscono nel limbo tra una stagione e
l’altra, Hulu non ha perso tempo nel decidere il destino
di Paradise. Il thriller politico è stato rinnovato per
una seconda stagione nel febbraio 2025, diverse settimane prima
ancora della fine della prima stagione. La decisione non è stata
particolarmente difficile per Hulu, dato che la creazione di Dan
Fogelman è stata un enorme successo fin dall’inizio.
La prima stagione di Paradise, composta da tre
episodi, ha attirato 7 milioni di spettatori nella prima
settimana e non è mai uscita dalla top 15 di Hulu per tutta la sua
durata di otto episodi.
Non sorprende che non siano
stati ancora rivelati dettagli sulla seconda stagione,
probabilmente per evitare spoiler. Tuttavia, con la prima stagione
completata, le informazioni sul prossimo episodio potrebbero
iniziare ad arrivare prima piuttosto che dopo. Il rinnovo
anticipato dà ai creatori la possibilità di iniziare subito a
lavorare alla seconda stagione e Paradise può
evitare i ritardi che hanno iniziato a tormentare le esclusive in
streaming di alto profilo. Se Paradise riesce a
ottenere una clip annuale, potrebbe mantenere il suo status di una
delle serie originali di maggior successo di Hulu. La prima
stagione di Paradise si è conclusa il 4 marzo
2025.
Dettagli sul cast della seconda
stagione di Paradise
Sebbene non sia ancora stato annunciato il cast della seconda
stagione di Paradise, ci sono molti
personaggi che presumibilmente torneranno nella seconda puntata.
Forse la cosa più importante è che è certo che Sterling K.
Brown tornerà a riprendere il suo ruolo di agente dei
servizi segreti Xavier Collins, e il suo viaggio alla ricerca della
verità è appena iniziato. Inoltre, si scopre che la moglie di
Xavier è ancora viva, il che significa che Eunuka Okuma potrebbe
avere un ruolo molto più importante nella stagione 2 nei panni
della dottoressa Teri Rogers-Collins. Anche se è sempre possibile
un altro flashback, è improbabile che James Marsden torni nei panni
del defunto presidente Bradford.
Anche se le hanno sparato nel finale della prima stagione, è
probabile che Julianne Nicholson tornerà nei panni di Samantha
“Sinatra” Redmond, dato che è stata vista in convalescenza in
ospedale. Svelando le sue cattive intenzioni e il suo amore per i
videogiochi, anche l’agente Jane Driscoll (interpretata da Nicole
Brydon Bloom) dovrebbe tornare a creare problemi. Il vicepresidente
di Matt Malloy, Henry Baines, ha assunto più potere in assenza di
Sinatra e Cal, e tornerà, anche se le sue vere intenzioni non sono
ancora note. Con Xavier che si avventura nel mondo
dell’aldilà, incontrerà senza dubbio anche nuovi
personaggi.
Dettagli della storia della seconda stagione di
Paradise
Il creatore della serie Dan Fogelman ha rivelato di avere un
piano di tre stagioni
per Paradise (tramite TV
Line) e questo aiuta a indovinare cosa accadrà nella
seconda stagione. Il finale della prima stagione non solo ha smosso
le acque all’interno di Paradise, ma ha visto Xavier
lasciare il bunker per cercare sua moglie. Il colpo di scena
che il mondo esterno non è un disastro completamente inabitabile
apre le porte a toccanti riunioni, ma rappresenta anche una seria
minaccia per Paradise. Se gli oltre 50 milioni di persone che
ancora vivono sulla Terra scoprono il rifugio di lusso, potrebbero
venire a cercare risorse.
La ricerca di Xavier per sua moglie sarà probabilmente il punto
cruciale dell’intera seconda stagione, ma ci sono molti colpi di
scena previsti prima che lui possa trovarla. La vera natura della
fine del mondo è ancora piuttosto vaga e le cospirazioni portano ad
altre cospirazioni nel mondo di Paradise. Nel
frattempo, una lotta di potere si sta preparando
all’interno del bunker, poiché Cal e Sinatra sono stati
neutralizzati (almeno per ora), il che significa che è necessaria
una nuova leadership. Baines si è fatto avanti, ma le sue vere
intenzioni non sono note.
Il finale della stagione 1
di Paradise risponde
alla domanda su chi abbia ucciso il presidente Cal Bradford (James
Marsden), ma la rivelazione è solo uno dei tanti colpi di scena
della trama. Nel finale dell’episodio 7 di Paradise, Samantha “Sinatra” Redmond dice a
Xavier Collins (Sterling K. Brown) che se vuole rivedere sua figlia
Presley (Aliyah Mastin), deve trovare l’assassino del
presidente Bradford e porre fine alla ribellione. Xavier
obbedisce e scopre che l’assassino si è nascosto in bella vista per
tutto il tempo.
Risolvere il mistero dell’omicidio
di Paradise è
l’obiettivo del finale della prima stagione, ma ci sono anche altre
trame che devono essere risolte. Tra queste, spiegare il
significato dei numeri sulla sigaretta lasciata dal presidente
Bradford e Jeremy Bradford (Charlie Evans) che racconta ai
cittadini di Paradise le bugie che sono state dette loro. Grazie a
queste rivelazioni, le vite dei personaggi di Paradise
sono cambiate per sempre, mentre si preparano ad affrontare nuove
sfide nella seconda stagione.
L’assassino del presidente
Bradford e le sue motivazioni
L’assassino del presidente Bradford
è Trent (Ian Merrigan), che ha vissuto a Paradise sotto le
spoglie di un bibliotecario di nome Eli. Trent era il
responsabile dei lavori di costruzione quando Paradise è stata
costruita sotto una montagna del Colorado. Durante questo processo,
Trent si rese conto che i suoi lavoratori venivano avvelenati da
sostanze chimiche pericolose a cui erano esposti durante la
demolizione e la costruzione. Quando Trent lo disse al suo
superiore e insistette affinché il progetto venisse interrotto, fu
licenziato e gli fu impedito l’accesso al cantiere poiché le
sostanze chimiche sarebbero state letali solo durante lo scavo e il
cantiere sarebbe stato alla fine sicuro.
Trent sapeva solo che la costruzione
continuava perché stava per accadere qualcosa di catastrofico.
Cercò di avvertire i suoi ex dipendenti e di allertare i media su
quanto stava accadendo, ma nessuno lo ascoltò. Ciò portò infine a
un tentativo di assassinio del presidente Bradford, lo stesso
tentativo in cui Xavier si gettò davanti al proiettile e salvò il
presidente. Trent fu mandato in prigione, ma il giorno della fine
del mondo di Paradise, ci fu una rivolta di massa nella
struttura in cui era incarcerato e lui fuggì.
Questo tentativo di omicidio è stato
mostrato in un flashback dell’episodio 1, ma il volto
dell’assassino non è stato mostrato in quel momento.
Ha trovato il vero bibliotecario
diretto a Paradise, lo ha ucciso e ha preso il suo posto, e ha
fatto in modo che una donna incontrata lungo la strada sostituisse
la moglie del bibliotecario. Trent intendeva finire ciò che aveva
iniziato, ma si è abituato alla sua nuova vita. Solo dopo che il
presidente Bradford venne in biblioteca per fare una compilation,
Trent si ricordò del motivo per cui si era infiltrato a Paradise.
Uccise il presidente e intendeva andare in superficie e rivelare al
resto del mondo la posizione di Paradise.
Perché Jane spara a Sinatra e
non a Presley
Sinatra ordina a Jane Driscoll
(Nicole Brydon Bloom) di impedire a Presley di rivelare le
informazioni compromettenti di cui è a conoscenza. Jane chiede in
cambio i videogiochi del presidente Bradford, in particolare la sua
Wii. Sinatra non accetta queste condizioni e definisce
Jane “fottutamente pazza”. Jane termina la
conversazione, facendo credere a Sinatra che abbia preso in mano la
situazione e ucciso Presley. Invece, Jane lascia andare
Presley e spara a Sinatra perché è stanca di essere usata come una
pedina non apprezzata e non le piace essere
chiamata “pazza”.
Sinatra è ora in coma, ma
quando si sveglierà, Jane avrà un vantaggio significativo su di
lei.
Jane fa sembrare che abbia trovato
Presley e che abbia membri della ribellione di Xavier di guardia
per proteggerla. Tutto ciò che Jane voleva in cambio di anni di
fedele servizio erano i videogiochi del presidente. Sparando a
Sinatra e aiutando Xavier e i suoi alleati, Jane si libera dal
controllo di Sinatra. Sinatra è ora in coma, ma quando si
sveglierà, Jane avrà un vantaggio significativo su di lei.
Soprattutto, Jane ora ha la Wii e gli altri videogiochi che Sinatra
le aveva negato.
Cosa sono i numeri sulla
sigaretta e come aiutano Xavier
Uno dei misteri della stagione è
stato cosa fossero i numeri 812092 che il presidente Bradford ha
scritto su una delle sue sigarette prima di morire. Mentre ascolta
un CD che il presidente ha fatto per Jeremy, Xavier capisce che i
numeri si riferiscono a un libro nel sistema decimale Dewey. Questi
numeri sono utilizzati per organizzare e trovare i libri in una
biblioteca. Quando Xavier va al posto 812.092 della biblioteca,
trova un libro su Frank Sinatra, e dietro c’è un altro libro
intitolato L’uomo che custodiva i segreti.
All’interno di The Man Who
Kept the Secrets, il presidente Bradford ha scritto tutto ciò
che ha appreso dal suo tablet sulla superficie, insieme alle
istruzioni su come aprire la porta esterna verso il mondo
esterno. Con le informazioni lasciate dal presidente
Bradford, Xavier è in grado di lasciare Paradise e cercare sua
moglie, Teri (Enuka Okuma), che ora sa essere
sopravvissuta al giorno dell’evento catastrofico. Il presidente
Bradford si è assicurato di lasciare tutto ciò che poteva per
aiutare Xavier a trovare Teri.
Come Xavier sta tornando in
superficie Impostazione di Paradise – Stagione 2
Ora che Xavier sta tornando in superficie per trovare Teri, la
stagione 2 sarà molto diversa dalla stagione 1. Invece di essere
divisa tra flashback e una storia attuale a Paradise,
la stagione 2 sarà divisa tra la storia di Xavier in
superficie e la storia di coloro che sono ancora nella
comunità sotterranea. Si sa molto poco della superficie,
se non che alcune parti sono ancora abitabili e che ci sono ancora
numerosi sopravvissuti, tra cui la moglie di Xavier. Gli appunti
del presidente Bradford indicano che potrebbero esserci fino a 55
milioni di sopravvissuti.
Gli appunti del presidente Bradford menzionano anche che le
estati stanno diventando più calde e che la vegetazione e la fauna
selvatica sono tornate più del previsto.
Con Sinatra in coma, c’è un vuoto di potere a Paradise, mentre
la classe superiore bisticcia su come procedere in sua assenza e
dopo i segreti che sono stati rivelati. Jeremy continua a entrare
in contatto con il pubblico, che si fida e lo rispetta dopo aver
condiviso la verità con loro. L’agente Robinson (Krys Marshall) si
sta occupando dei figli di Xavier e Jane rimane un jolly. Si tratta
di una situazione precaria che potrebbe diventare più instabile se
milioni di sopravvissuti in superficie venissero a conoscenza di
Paradise e cercassero di infiltrarsi per ottenere risorse.
Il vero significato del finale della prima
stagionedi Paradise
Indipendentemente dagli errori che una persona ha commesso, la
prima stagione di Paradise dimostra che
non è mai troppo tardi per fare la differenza e rendere il mondo un
posto migliore. Il presidente Bradford ha trascorso gran
parte della sua vita come pedina di suo padre, Kane Bradford
(Gerald McRaney), e di altri individui potenti come Sinatra.
Eppure, anche quando il mondo stava per finire, il presidente
Bradford ha ripreso il controllo della sua vita disarmando tutti i
missili nucleari e, in seguito, lasciando tutto ciò che Xavier e
Jeremy avevano bisogno di sapere per poter condividere la verità
sulla superficie.
Xavier, la dottoressa Gabriela Torabi (Sarah Shahi), Robinson,
Billy Pace (Jon Beavers) e persino Jane fanno tutti dei passi per
imparare dai propri errori passati e rifiutano di continuare a
cooperare con un sistema ingiusto. Vogliono giustamente creare una
società migliore in cui la classe superiore non controlli tutto
attraverso l’inganno e l’abuso di potere. La storia di Trent, che
termina con la sua tragica morte, è un esempio straziante del danno
arrecato alla gente comune in una società distrutta. Si spera che
venga creato un mondo migliore e che Xavier e i suoi figli si
riuniscano a Teri nella seconda stagione
di “Paradise”.
La storia de Il
Gattopardo di Giuseppe Tomasi di
Lampedusa rivive sul piccolo schermo grazie alla
nuova serie Netflix, disponibile
dal 5 marzo 2025. A oltre sessant’anni dalla storica
e sublime
trasposizione cinematografica di Luchino Visconti,
la produzione italo-britannica diretta da Tom Shankland,
Giuseppe Capotondi e Laura Luchetti si
misura con un capolavoro della letteratura e del cinema italiano.
Il cast, guidato dal carismatico Kim
Rossi Stuart nel ruolo del principe Fabrizio di
Salina, vede protagonisti i volti del giovanissimo cinema
italiano Saul Nanni (Tancredi), Deva
Cassel (Angelica), Benedetta
Porcaroli (Concetta) e la partecipazione
di Paolo Calabresi nel ruolo di padre
Pirrone.
L’impresa non è semplice:
il testo originale è un romanzo storico, ma anche un affresco della
Sicilia e dell’Italia intera nel delicato passaggio dall’Ancien
Régime al nuovo ordine post-unitario, con un racconto che intreccia
politica, società e sentimenti in una riflessione profonda sui
cambiamenti storici e sul concetto di potere. Da questo punto di
partenza, il progetto certamente ambizioso aveva un grande
potenziale, ma il risultato finale lascia l’amaro in bocca.
Un confronto
impossibile con Il Gattopardo di
Visconti
Chiunque
affronti Il Gattopardo sullo schermo deve
inevitabilmente confrontarsi con la titanica versione di Visconti,
con le sue immagini sontuose, la ricostruzione storica impeccabile
e interpretazioni che hanno segnato la storia del cinema. Il
confronto, ovviamente, è impari. Se invece si fa lo sforzo di
aggirare il confronto con il capolavoro del ’63, questa nuova
versione appare un’opera dignitosa, soprattutto dal punto di vista
della cura nei dettagli della messa in scena, dei costumi in
particolare modo e dell’interpretazione di Kim Rossi
Stuart al cui fascino è difficile rimanere indifferenti:
il suo principe di Salina ha tutta la gravitas di cui il
personaggio necessita, compresa una modernità nello sguardo che lo
traghetta nell’oggi con credibilità.
Intorno al protagonista,
si muovono i tre giovani rampolli attorno ai quali ruota la parte
principale del racconto. Saul Nanni dà
il volto a Tancredi; non ha nulla da invidiare all’estetica del suo
illustre predecessore Alain Delon, se non un pizzico di talento e
una presenza scenica più adulta e grave che forse arriverà con
l’esperienza. Alla piccola diva per diritto di
nascita, Deva Cassel, invece spetta il ruolo
della bella Angelica e certamente l’attrice sostiene adeguatamente
il ruolo che fu di Claudia Cardinale, anche
se la scrittura trasforma la vitale e esuberante Sedara in
una femme fatale dotata di consapevolezza,
ambizione e disincanto, spogliando il ruolo della poesia quasi
adolescenziale che il corrispettivo cinematografico portava con sé.
Discorso diverso invece va fatto per la Concetta
di Benedetta Porcaroli. La migliore del cast
di giovani, Porcaroli si trova a essere il vettore principale della
storia, il punto di vista (progressista e femminista) da cui ci
viene concesso di seguire la storia; e la riscrittura del suo
personaggio è l’unico momento di modernità e vicinanza che viene
concesso allo spettatore moderno, certamente ormai lontano dal
punto di vista del mondo dei nobili in declino che venivano
raccontato nel romanzo originale e che nel film di Visconti
assumevano una dimensione esistenziale, oltre a un sentimento
politico molto più evidente e sentito.
Completano il
cast Francesco
Colella e Francesco Di Leva, come sempre
estremamente efficaci e credibili in ognuna delle loro
interpretazioni, siano esse da protagonisti o da spalle. In
particolare l’arrivista Sedara di Colella è un personaggio a prima
vista sgradevole che però non evita una crisi dello spettatore,
dimostrandosi molto più vicino e riconducibile al sentire
contemporaneo che promuove l’impegno e l’ambizione come strumenti
per la scalata sociale, non certo un diritto divino dato alla
nascita (posizione inamovibile del Principe di Salina).
Il principale difetto
de Il Gattopardo in versione Netflix è la sua
ri-lettura in chiave moderna. Nonostante il formato seriale
consenta di approfondire i personaggi e le dinamiche storiche, la
serie fatica a sviluppare un racconto coeso e avvincente. Il ritmo
è incerto, e le scelte narrative privilegiano la componente
sentimentale a scapito della profondità storica e politica del
romanzo, con degli episodi molto buoni nella parte centrale e un
finale piatto, che perde il tempo di climax del racconto.
Il vero punto di forza
del romanzo e del film è il tema del cambiamento storico e della
lotta tra vecchio e nuovo, incarnato nella celebre frase: «Se
vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». Questo
concetto, centrale nell’opera originale e per Visconti, viene
relegato in secondo piano nella serie, a una ripetizione della
storica citazione, mentre si preferisce concentrarsi su dinamiche
romantiche e individuali, sacrificando la portata politica e
sociale della storia, probabilmente perché in un contesto politico
e sociale governato dalla sfiducia nel futuro è difficile assumere
una posizione che possa essere anche solo vagamente sfidante.
Sicilia, dove
sei?
La Sicilia, barocca e
struggente dall’atmosfera decadente, è un elemento chiave del
romanzo e del film, e in parte riesce a ritagliarsi un suo spazio
anche in questa produzione, sfociando a volte troppo nella
“promozione del territorio” e meno in quel personaggio ingombrante
ma profondamente amato dei predecessori. Qui, invece, la sua
presenza è marginale, ridotta a scenari di sfondo e mai realmente
approfondita nelle sue sfumature culturali, storiche e
linguistiche. Anche la componente dialettale, che avrebbe potuto
dare maggiore autenticità ai dialoghi, è quasi del tutto
assente.
Netflix aveva tra le mani
un materiale straordinario, ma ha scelto di trasformarlo in un
dramma romantico patinato, dimostrandosi non in grado di gestire la
complessità e la ricchezza della storia originale. La serie rimane
comunque un prodotto fruibile, grazie a una buona produzione e ad
alcune interpretazioni solide, ma non riesce a essere incisiva.