Questa sera, sulla montée
de marches di Cannes 2019 ha sfilato
Elton John, in compagnia di Taron
Egerton, il giovane attore inglese che lo interpreta in
Rocketman,
l’evento di questa edizione del Festival francese, presentato fuori
concorso.
Ecco fi seguito le immagini dal
tappeto rosso, con John e Egerton accompagnati da Richard
Madden, Bryce Dallas Howard, David Furnish e il regista
Dexter Fletcher.
Rocketman,
ambientato nel mondo delle canzoni più amate di Elton John e
interpretato da Taron Egerton, segue la sorprendente avventura che
ha visto il timido pianista prodigio, Reginald Dwight, diventare la
superstar internazionale Elton John. Queste vicende, che sono state
d’ispirazione per tanti, rappresentano una storia assolutamente
universale, di come un ragazzo di provincia sia diventato una delle
figure più iconiche della cultura pop.
Rocketman
vede nel cast anche Jamie Bell nei panni del
paroliere di lunga data di Elton, Bernie Taupin, Richard
Madden nel ruolo del primo manager di Elton, John
Reid, e Bryce Dallas Howard nei panni
della madre di Elton, Sheila Farebrother.
Bacurau è un
villaggio brasiliano, piccolo e sperduto, dove, improvvisamente,
alla morte della matriarca del villaggio, cominciano ad accadere
cose strane, bizzarre: i telefoni cellulari smettono di funzionare,
il villaggio scompare dalle mappe, stranieri misteriosi fanno la
loro comparsa. Improvvisamente, comincia a scorrere il sangue degli
abitanti del paesello.
Il film, diretto da Kleber
Mendonça Filho con Juliano Dornelles, fa
parte della selezione ufficiale, sezione concorso, al Festival di Cannes
2019 e senza dubbio riesce ad intrattenere il
pubblico, a patto che questo sia disponibile a farsi scuotere un
po’, a seguire un racconto apparentemente anarchico e divincolato
dalle regole della narrazione tradizionale.
Giocando con i genere, i registi
mettono insieme una storia che mescola western, thriller e un
surrealismo sottile, presente in tutto il film ma mai preponderante
o invadente, sempre in equilibrio con il plausibile.
Impossibile non farlo notare,
Bacurau presenta anche una forte e manifesta
componente politica: gli Stati Uniti invasori si approfittano
dell’intero Brasile, che passivamente accetta l’invasione; ma
questo non si verifica in questo villaggio, che invece combatte con
tutte le armi che ha a disposizione e anche con quelle che non ha,
con tutti i membri della piccola comunità, che sembrano una sorta
di campione rappresentativo dell’intera popolazione brasiliana, con
le sue fasce sociali e le sue caste. Sono pochi ma agguerriti e
pronti a tutto, anche a ciò che è illecito.
Meglio di quanto fatto nel 2016 con
Aquarius, presentato sempre a Cannes,
Mendonça Filho racconta questo micro universo
rimanendo in equilibrio tra l’indulgenza verso i suoi protagonisti
e la loro piccola realtà e la compiaciuta messa in scena della
trivialità; i registi evitano entrambi gli eccessi, rimanendo in un
equilibrio vivace. Tuttavia è chiara la volontà di voler scuotere
lo spettatore e di coinvolgerlo in un gioco basato sulla libertà
espressiva e sull’anarchia dell’immagine, senza mai perderne il
controllo.
Classe 1991, il regista russo
Kantemir Balagov torna
al Festival di Cannes
2019 con la sua opera seconda,
Beanpole, selezionata all’interno della sezione
Un Certain
Regard. Il titolo è traducibile con “spilungona”,
l’aggettivo con cui viene spesso appellata la protagonista, Iya, il
cui appassionante racconto d’amore e speranza, si snoda all’interno
di un contesto traumatico come quello che segue di poco la fine
della seconda guerra mondiale. Con un film tanto poetico, Balagov
dà nuovamente prova del suo talento, dimostrando di meritare
l’attenzione che ora gli si rivolge.
Il film si apre a Leningrado, nel
1945. La guerra ha devastato la città, demolendo i suoi edifici e
lasciando i suoi cittadini in uno stato fisico e mentale
particolarmente fragile. Con la fine dell’oppressione e delle
ostilità, la vita sembra riprendere il suo normale corso. È qui che
si svolge la storia di Iya (Viktoria
Miroshnichenko) e Masha (Vasilisa
Perelygina), le quali cercano, ognuna a suo modo, di
ricostruire la propria vita tra le rovine.
Prima di abbagliare visivamente con
una delle tante bellissime composizioni di cui è ricco il film, il
regista cattura l’attenzione facendo udire su schermo nero un
boccheggiamento, che riesce a presentarci allo stesso tempo il
personaggio protagonista e, metaforicamente, anche la situazione di
sfinimento di un popolo logorato dalla guerra. Con l’avanzare della
narrazione, si tende a dimenticare il contesto storico, visto come
qualcosa da lasciarsi alle spalle il più in fretta possibile, per
concentrarsi su una dimensione più intima, che è quella messa in
gioco dalle due bellissime e bravissime protagoniste.
Balagov racconta così di personaggi
alla disperata ricerca di vita e speranza, un bisogno che fino a
quel momento sembrava essere stato spento dagli orrori subiti e
visti e che facilmente può trasformarsi in ossessione. È una
ricerca che però si scontra inevitabilmente con l’apparente
incapacità di riuscire ad aprirsi a nuove emozioni. L’insolita
altezza della protagonista non è, a tal proposito, un caso. Tramite
questa scelta il regista ci sottolinea la volontà di affrontare la
storia attraverso gli occhi di una “diversa”, non vista come tale
dagli altri quanto da sé stessa. Questa condizione fisica porta la
protagonista ad assumere un atteggiamento che la pone al margine,
facendola ben presto diventare succube di quanto la circonda. La
sua è una condizione difficile, è in maniera del tutto naturale si
arriva ad empatizzare per lei.
Merito anche di una meravigliosa
Viktoria Miroshnichenko, attrice di grande grazia che riesce a
comunicare la sua instabilità emotiva con pochi gesti del corpo o
del volto. La sua Iya è un personaggio fin troppo buono, alla
ricerca di un sentimento vero in un mondo che invece non sembra
averne più. Balagov tratta con grande rispetto lei e la sua storia,
firmando una sceneggiatura che fugge da ogni cliché e colpisce
invece per il risvolto poetico di molte delle vicende. Tutto ciò è
accompagnato da una regia che non cerca di colpire con virtuosismi
o simili, ma trova nella scelta di una messa in scena contenuta,
come l’emotività della protagonista, la possibilità di un maggior
impatto emotivo.
Con Beanpole,
Balagov regala al Festival un piccolo grande gioiello, dotato di
sentimenti sinceri, che pervadono l’intera opera di un’atmosfera
incantevole, capace di rubare gli occhi e il cuore dello
spettatore. Attraverso i desideri e le speranze delle due affiatate
protagoniste, il regista ritrae un’umanità intera, ferita, ridotta
in ginocchio, ma capace ancora di cullare un sogno di rinascita ad
ogni costo.
All’interno di un film intitolato
Les Misérables, l’eco di Victor Hugo e della sua
celebre opera risuonano in ogni dove. Il regista Ladj
Ly chiama in causa il celebre romanziere per compiere così
un doppio debutto: quello alla regia del suo primo lungometraggio,
e quello nel Concorso del Festival di Cannes 2019.
Un film che poco sembra avere a che fare con l’omonimo romanzo, ma
che ne riprende invece le tematiche fondanti per riflettere se e
quanto sia cambiata la Francia dal 1800 ad oggi. I miserabili di
cui Ly vuole parlare differiscono di nome e carattere, ma sembrano
ricoprire ancora lo stesso ruolo che Hugo identificò a suo
tempo.
Il film segue il punto di vista di
Stephane (Damien Bonnard), nuovo arrivato nella
squadra anticriminalità di Montfermeil, uno dei sobborghi di
Parigi. Trovandosi ad affiancare due agenti con metodi poco
ortodossi, Stephane farà presto la conoscenza della tensione
sociale che abita quelle strade. Quando infine un arresto sfocerà
nella tragedia, tutto sembrerà portare sull’orlo di una sanguinosa
rivolta.
Ly decide di raccontare di
situazioni che spesso non ottengono un adeguato dibattito sociale,
rimanendo per lo più un problema di chi le vive in prima persona. È
una volontà ben precisa la sua, che costruisce un racconto
scendendo alla radici di gruppi sociali tenuti insieme da precari
accordi di pace. Non è di questi però che il regista assume il
punto di vista ma, più sorprendentemente e meno banalmente, quello
dei tre poliziotti in costante perlustrazione del quartiere. In
particolare seguiamo il personaggio di Stephane, l’ultimo arrivato,
e proprio per questo il più adatto per permettere di far entrare
anche lo spettatore all’interno del mondo raccontato.
La sua innocenza è quella dello
spettatore, che si trova a confrontarsi con un continuo
oltrepassare il limite tra bene e male. Quello di Stephane è
infatti l’unico personaggio con cui sembra possibile intraprendere
un’identificazione. Poiché a infrangere i limiti sono
rispettivamente, ognuno con i propri tempi e modi, sia gli
innocenti che i carnefici, portando così ad un totale annullamento
di queste definizioni. Con un linguaggio documentaristico, il
regista conduce infatti l’occhio della cinepresa in mezzo ai
personaggi del film, facendo sentire lo spettatore in mezzo a loro
ma non uno di loro, mostrandogli entrambi i lati della medaglia e
impedendo così il favoreggiamento per l’una o l’altra
parte.
Perché quello de Les
Misérables non è un racconto di buoni e cattivi, ma
di vittime, così come lo erano quelle del romanzo di Hugo. La
Francia dunque non sembra essere cambiata poi molto secondo il
regista, e benché le sue battaglie siano mutate, altrettanto non si
direbbe per i loro motivi. Certamente il film vive di una lenta
introduzione, che potrebbe inizialmente inficiare sul ritmo, ma
questa appare sempre più necessaria per comprendere a fondo le
regole che agitano il tessuto sociale di cui si narra.
Quando infine il film raggiunge il
suo apice, ci troviamo di fronte ad una brutalità che sorprende per
il suo essere nata improvvisamente. Una lunga e claustrofobia
sequenza finale ci consegna un film più duro di quello che ci si
poteva aspettare, che non consegna una morale ma una riflessione
ogni giorno più attuale: dalla violenza si genera esclusivamente
altra violenza. Ly ce lo ricorda senza pietismi, ma con un ritratto
sincero e, per questo, particolarmente incisivo.
Selezione parallela al Festival di Cannes, la
Quinzaine Des
Réalisateurs assegna ogni anno, durante la cerimonia
d’apertura il prestigioso premio Carrosse d’Or,
ideato nel 2002 dalla Société des Réalisateurs. Il
premio, assegnato a quegli autori che hanno segnato la storia del
cinema con la loro audacia e intransigenza, è stato conferito
quest’anno a John
Carpenter, per celebrare la sua carriera composta da
opere come Halloween,
Essi Vivono, La
Cosa e 1997: Fuga da New
York, film che nella loro cruda, fantastica e
spettacolare unicità hanno plasmato l’immaginario di
generazioni.
“Sono diventato un regista
perché non c’era altro che potessi fare.” – dichiara Carpenter
salendo sul palcoscenico, dopo aver ricevuto una lunga e calorosa
standing ovation – “Ero ossessionato da ciò, sentivo che era
l’unica cosa che potessi fare. Volevo diventare un regista, e
realizzare i miei film. Gli studios di produzione invece erano
interessati ai soldi, e questo mi ha posto davanti a molti bivi.
Dovevo fare in modo di essere certo che i miei film rimanessero
miei, e allo stesso tempo dovevo soddisfare le esigenze che mi
venivano richieste, affinché potessi ottenere la fiducia, e i
soldi, per continuare in ciò che desideravo fare.”
All’interno dell’incontro che lo ha
visto protagonista assoluto, Carpenter ha avuto modo di
ripercorrere l’intera sua carriera, sin dal primo film che lo ha
reso celebre: Halloween. “Ancora oggi
non riesco a spiegarmi il successo di quel film. Ero convinto che
sarebbe stato un fallimento. Non riuscivamo a trovare una
produzione, e quando la trovammo questa si rivelò scontenta per
ogni cosa, dagli attori alle riprese. Quando invece uscii, il film
venne accolto con entusiasmo, e questo mi catapultò da una
situazione in cui nessuno sembrava voler lavorare con me ad una in
cui tutti aspiravano a produrre i miei film… questo perché avevo
dimostrato di poter far guadagnare molto con poco. Ed in fondo è
sempre stata la mia idea, per fare un film non occorrono soldi,
basta avere qualcosa per riprendere, reclutare i propri amici,
realizzare un buon prodotto, farlo vedere in giro, e convincere i
produttori a farsi dare i soldi per realizzare qualcos’altro. Io ho
sempre fatto così.”
Altro grande successo
cinematografico è quello de La Cosa, per
la quale Carpenter rivela di aver avuto le idee ben precise sin da
subito riguardo la natura dell’opera. “Ad Hollywood c’è questa
regola non scritta per cui il mostro deve sempre nascondersi nel
buio, nell’ombra. Io invece volevo che il mio fosse ben visibile,
che si presentasse anche alla luce. Così facendo era possibile
farlo uscire dalla dimensione onirica dell’incubo e farlo diventare
reale. E se qualcosa di spaventoso è reale, anche la paura che
proviamo lo sarà. Per quanto riguarda il finale, ha sempre generato
molti dibattiti… io so quale dei due personaggi rimasti è “la
cosa”, ma non ve lo dirò mai.”
Interrogato sull’attuale panorama
cinematografico, Carpenter, il cui ultimo film intitolato
The Ward risale al 2010, espone il suo punto di
vista partendo da una domanda che spesso gli viene rivolta.
“Molti mi chiedono come mai abbia rallentato la mia produzione.
Io mi ritengo un regista che ha sempre cercato di raccontare la
realtà che lo circondava, attraverso il filtro del genere. Devo
ammettere che oggi sono piuttosto spaventato dalla società che
popola questo mondo. Sinceramente non voglio immaginare come
potrebbe essere un mio film basato su di essa. È una paura che non
sono sicuro di voler affrontare. Oggi preferisco dedicarmi ad
altro. Ho una carriera da musicista, sono spesso in tour, quando
sono a casa mi guardo un film in DVD o gioco ai videogiochi… la mia
vita è completa.”
A conclusione dell’incontro,
Carpenter lancia un ultimo monito a tutti gli aspiranti registi:
“dovete combattere per realizzare il vostro film, perché è
vostro non di altri. E chiunque che non sia voi deve
categoricamente tenere giù le mani dalla vostra idea.”. Il
regista viene così salutato nuovamente da un’ovazione, a
dimostrazione che l’affetto del pubblico non ha mai abbandonato,
contrariamente alle case di produzione, l’autore di un tale
immaginario cinematografico.
Stavolta il soggetto della
discussione è Billie Lourd, la figlia di
Carrie Fisher già apparsa in un piccolo ruolo nel
franchise, che secondo il sito avrebbe girato non soltanto le scene
relative al suo personaggio, ma anche altro materiale. In
particolare, si fa riferimento ad una sequenza di flashback
ambientata durante gli eventi di Il Ritorno dello
Jedi che mostrerebbe il dialogo tra il giovane Luke
Skywalker e la Principessa Leia su una questione importante che
cambierà il modo in cui vediamo alcuni dei protagonisti
coinvolti.
Insomma, sembra che Episodio
IX offrirà al pubblico un altro punto di vista sulla
storia già raccontata e una prospettiva inedita su quanto accaduto
in Episodio VI. Ma chi ha interpretato Leia sul
set al posto della Fisher, scomparsa prima dell’inizio delle
riprese? Il rumor spiega che proprio la Lourd abbia vestito i panni
della madre e che in post-produzione è stato necessario
l’intervento della CGI. Una situazione del genere si era già
verificata in Rogue One: A Star Wars Story, dove
l’attrice norvegese Ingvild Deila aveva interpretato il personaggio
nel breve cameo.
Vi ricordiamo che Star
Wars: The Rise Of Sywalker, capitolo conclusivo della
nuova trilogia del franchise diretto da J.J.
Abrams, arriverà nelle sale a dicembre
2019.
Nel cast Daisy
Ridley, Oscar
Isaac, John
Boyega, Kelly Marie
Tran, Naomi
Ackie, Joonas Suotamo,Adam
Driver, Anthony Daniels, Billy
Dee Williams Lupita Nyong’o, Domhnall
Gleeson, Billie Lourd e il veterano del
franchise Mark Hamill. Tra le new entry
c’è Richard E. Grant.
Il ruolo di Leia Organa sarà
interpretato di nuovo da Carrie Fisher, usando del
girato mai visto prima da Star Wars: Il Risveglio della
Forza. “Tutti noi amiamo disperatamente Carrie
Fisher – ha dichiarato Abrams – Abbiamo cercato
una perfetta conclusione alla saga degli Skywalker nonostante la
sua assenza. Non sceglieremo mai un altra attrice per il ruolo, né
mai potremmo usare la computer grafica. Con il supporto e la
benedizione della figlia, Billie, abbiamo trovato il modo di
onorare l’eredità di Carrie e il ruolo di Leia in Episodio IX,
usando del girato mai visto che abbiamo girato insieme per Episodio
VII.”
Star Wars: The
Rise Of Skywalker, le teorie sul significato del titolo
I viaggi nel tempo e gli eventi
eventi di Avengers:
Endgame potrebbero aver confuso il pubblico sui
cambiamenti delle timeline “originali” e quindi sulla creazione di
universi paralleli e realtà ramificate come conseguenza diretta
delle imprese di Captain
America da una parte (che torna nel passato per
restituire le gemme) e Loki dall’altra (che è
fuggito dall’arresto del 2012 con il Tesseract).
Dunque cosa è successo realmente in
Endgame? A spiegarcelo una volta per tutte sono i registi,
Anthony e Joe Russo, in un’intervista con Business
Insider, e si, a quanto pare il Dio dell’Inganno ha modificato il
suo destino e quello della gemma dello spazio in un colpo solo:
“Lo scopo di Steve Rogers era
correggere le linee temporali passate nei punti in cui le gemme
erano state prese…quindi è qui che la questione diventa complicata,
e sarebbe impossibile per lui aggiustare la linea temporale fino a
che non trova Loki. Perché lui, nel frattempo, ha creato un’altra
realtà. Nell’istante in cui Loki fa qualcosa di così drastico come
prendere la gemma dello Spazio, questo evento crea una sorta di
ramificazione della realtà.”
Anthony Russo ha poi aggiunto che
“Ora abbiamo a che fare con questa idea di multiverso e realtà
ramificate, quindi si, considerate l’esistenza di più
realtà“.
Viaggi nel tempo, multiverso, e nuovi
inganni sono tre concetti che circolano da tempo durante le
discussioni sul futuro del MCU. Sappiamo che Endgame ha in
qualche modo legittimato la possibilità di tornare indietro nel
tempo (ma cosa succederebbe in caso contrario, ovvero andando nel
futuro?) e che in Spider-Man: Far
From Home vedremo in azione Mysterio,
un abitante di un pianeta speculare al nostro proveniente da
un’altra realtà. Che tutto questo sia un indizio su ciò a cui
assisteremo nella serie tv di Disney +
dedicata al personaggio di Tom Hiddleston?
Dopo gli eventi devastanti di
Avengers: Infinity War (2018), l’universo è in rovina a causa degli
sforzi del Titano Pazzo, Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti
in vita dopo lo schiocco, i Vendicatori dovranno riunirsi ancora
una volta per annullare le azioni del villain e ripristinare
l’ordine nell’universo una volta per tutte, indipendentemente dalle
conseguenze che potrebbero esserci.
Durante un Q&A lanciato dal
forum Reddit Kevin Feige ha risposto a varie
domande dei fan parlando del futuro del Marvel Cinematic Universe, della
morte di Stan Lee e il suo ultimo cameo sul grande
schermo, di alcuni retroscena relativi ai personaggi di Avengers:
Endgame e alle loro imprese nel film, toccando poi
misteri lasciati in sospeso nel corso del lungo racconto della
Infinity Saga.
Uno di questi dubbi ancora irrisolti
è lo stato del “vero” Mandarino, il villain
annunciato in Iron Man 3 e presentato invece come
un attore che stava soltanto interpretando la parte per conto di un
terrorista che è là fuori, chissà dove, a governare i Dieci Anelli.
Senza questo avversario, e senza questa organizzazione criminale,
Tony Stark non sarebbe mai diventato un supereroe e non avrebbe mai
costruito la sua prima armatura; ma cinque anni dopo il rilascio
del cortometraggio All Hail the King che
dimostrava l’esistenza del vero Mandarino, cosa ne è stato dei Ten
Rings?
Sulla questione è intervenuto Feige
dichiarando che si, potremmo vederli in azione insieme al loro
leader nei prossimi anni nel MCU. Ovviamente la risposta del
presidente dei Marvel Studios non è stata chiara su quale dei
personaggi tornerà, tuttavia le speranze sembrano riaccese e
abbiamo già un indizio su ciò che arriverà nella prossima fase del
franchise.
Sui personaggi di
Endgame, e in particolare la scelta di far
indossare a Hulk il guanto dell’infinito per
riportare indietro le vittime dello schiocco di Thanos, Feige è
tornato a spiegare le caratteristiche e le conseguenze di quel
gesto compiuto da Bruce Banner.
Dal momento che l’eroe è ora
Smart Hulk, non soltanto si era reso abbastanza
forte da impugnare il guanto, ma era anche in grado di resuscitare
tutte le persone polverizzate riportandole in luoghi dove non
sarebbero stati immediatamente in pericolo. Da qui arriva infatti
la denominazione di “Smart Hulk”. È dunque possibile che Banner,
una volta schioccate le dita, non abbia solo riportato indietro le
vittime, ma anche in un posto sicuro.
Tra le domande dei fan c’è anche
quella relativa alla morte di Stan Lee e al cameo di Endgame in cui
il fumettista scomparso a Novembre recita nei panni di un hippie a
bordo di una macchina d’epoca che arriva sfrecciando nella sede
originale dello S.H.I.E.L.D. gridando “Fate l’amore,
non la guerra!“. Come già raccontato, la scena è
stata girata nell’estate del 2018, e da quanto dichiara Feige, Lee
non ha mai visto il film montato:
“Stan amava aspettare per vedere
la versione finale durante la premiere, ma sfortunatamente stavolta
non è riuscito a farlo con Endgame. Gli abbiamo consegnato la
sceneggiatura completa il giorno in cui è arrivato sul set per
girare il suo cameo.“
Intervistato al Festival di Cannes,
dove ha presentato in apertura il nuovo film di Jim Jarmusch
The Dead Don’t
Die, Bill Murray si è lasciato andare
ad alcune dichiarazioni sul prossimo capitolo di
Ghostbusters – il terzo della saga – ora affidato
alla regia di Jason Reitman nel quale è atteso il suo ritorno.
A quanto pare l’attore sarebbe
disponibile a re-indossare ancora una volta i panni del Dottor
Peter Venkman senza alcun problema:
“Questo franchise ha pagato la
retta del college di mio figlio. L’abbiamo fatto e ne siamo i
custodi. Mi sono divertito a girare i primi due e il mio buon
rapporto con Ghostbusters è stato determinato dal legame con gli
altri. Sono persone meravigliose, Danny [Ackroyd], Ernie [Hudson],
Harold [Ramis], Rick Moranis, Annie Potts, tra le persone più
interessanti che conosca e che hanno avuto una vera carriera.
“
“Il rapporto che hai con quelle
persone come collaboratori non è necessariamente il rapporto che ho
con la Sony“, ha spiegato. “Per anni mi è stato detto che
non avrebbero potuto fare un altro Ghostbuters perché io non avrei
cambiato l’accordo che ha stipulato nel 1984. Beh, no, non l’ho mai
fatto. E sai cosa? Hanno fatto il film. Sono i ragazzi nuovi, e io
sono il vecchio.”
Murray, che fra poche settimane
inizierà le riprese di On the Rocks (seconda
collaborazione, dopo Lost in Translation, con
Sofia Coppola), ha inoltre ammesso di aver
partecipato al reboot tutto al femminile di Ghostbusters del 2016,
diretto da Paul Feig, solo perché spinto
dall’ammirazione e la stima verso le colleghe del Saturday Night
Live Melissa McCarthy e Kate
McKinnon:
“Ero in quel film solo perché me
l’hanno chiesto, e sapevo che se avessi detto no, avrebbero detto
che non stato sostenendo quel film. Quindi ho pensato, si, li
appoggerò perché li sostengo come persone. Così l’ho fatto e farei
nel prossimo“.
Ghostbusters 3,
terzo film del franchise, arriverà nelle sale il 10 luglio
2020. “Rust City” è il titolo di lavorazione
mentre le riprese inizieranno il 25 Giugno a Calgary e
proseguiranno per circa 15 settimane.
Nel cast sono stati confermati
Mckenna Grace (vista di recente in Captain
Marvel, dove interpreta
Carol Danvers da bambina), Finn Wolfhard (la star
della serie Stranger Things) e Carrie Coon (The
Leftlovers), che interpreteranno rispettivamente il fratello
maggiore e la madre del personaggio della Grace.
La produzione non ha diffuso
ulteriori dettagli sulla pellicola, che come saprete sarà il sequel
diretto dei due Ghostbusters diretti da Ivan Reitman (papà di
Jason), senza nessun collegamento con il reboot al femminile di
Paul Feig del 2016, e che la storia ruoterà
intorno a due ragazzi e due ragazze di età compresa fra i 12 e i 13
anni.
“Ho sempre pensato a me stesso
come il primo fan di Ghostbusters, quando avevo 6 anni ero a
visitare il set. Volevo fare un film per tutti gli altri fan.”
ha raccontato Reitman in una recente intervista con Entertainment
Weekly. Questo è il prossimo capitolo della serie originale.
Non è un riavvio. Quello che è successo negli anni ’80 è accaduto
negli anni ’80, e questo è ambientato nel presente.”.
Moltissimi retroscena sulla
realizzazione di Avengers:
Endgame sono emersi grazie alle dichiarazioni di
registi, attori e produttori dopo la fine dell’embargo sugli
spoiler, e di recente sono stati i montatori Jeffrey Ford e Matthew
Schmidt a rivelare qualche dettaglio ancora inedito sul film che ha
concluso la saga delle gemme dell’infinito.
Come saprete, in Endgame i
Vendicatori sopravvissuti allo schiocco usano il Regno Quantico per
tornare nel passato agli eventi di The Avengers
nel 2012, con l’obiettivo di recuperare il Tesseract e lo
scettro di Loki. Ma a quanto pare la decisione sulla timeline da
sfruttare e gli elementi in gioco per i viaggi nel tempo non è
stata presa fino alla post-produzione, dunque in sala di
montaggio.
“La sceneggiatura mostrava Tony
volare attraverso il Leviatano che faceva esplodere
dall’interno“, ha spiegato Ford, “Ma quando abbiamo
proiettato il film per il pubblico ai test screening ci siamo resi
conto che ci volevano alcuni minuti per acclimatarsi. Non era
quello il modo in cui volevamo che funzionasse e quindi abbiamo
provato altre versioni“.
Era infatti prevista una sequenza,
poi eliminata, in cui gli eroi sarebbero comparsi nel momento in
cui Hulk abbatte Loki, mentre per la versione finale il team
creativo ha optato per un ritorno all’iconico Avengers
Assemble tra le macerie. “L’idea vincente era quella n
cui entriamo in scena direttamente nel primo assemblaggio dei
Vendicatori. Si trattava della transizione più pulita ed
epica“.
Per quanto riguarda il destino di
Vedova
Nera e la scena alternativa mai utilizzata per
Endgame, i montatori hanno raccontato che inizialmente lo scontro
tra Natasha e Clint Barton su Vormir per decidere chi dei due si
sarebbe sacrificato era stato concepito in maniera differente.
“Sul copione e per quello che
abbiamo girato la prima volta c’era una scena eccellente: Thanos e
i suoi soldati sarebbero apparsi su Vormir e tra loro si sarebbe
scatena una piccola battaglia contro Natasha e Clint, dove lei
decideva di saltare dalla scogliera e Clint cercava di fermarla
mentre respingeva l’attacco.“
E secondo quanto riferito, questa
versione della sua morte aveva incontrato perfino il favore del
pubblico delle proiezioni di prova: “Decidemmo di rendere quel
momento ancora più intimo tra i personaggi, e siamo felici che
abbia pienamente funzionato nel film, soprattutto per ciò che è
servito a Nat“.
Ford e Schmidt hanno infine svelato
tutti i trucchi di montaggio sfruttati durante il ritorno ad Asgard
ambientato durante The Dark World, dove compare
anche Natalie Portman nei panni di Jane Foster.
Sappiamo già che l’attrice non ha girato
nessuna scena per Endgame sfruttando del materiale scartato dal
film del 2013, ma che dire invece degli altri segmenti
impegnati?
“L’inquadratura di Loki che
lancia la sua coppa nella cella e Thor e Rocket che passano di
nascosto sullo sfondo è un negativo digitale tratto dai quotidiani
di The Dark World che abbiamo riproposto qui, e lo stesso per la
scena di Natalie Portman“.
Dopo gli eventi devastanti di
Avengers: Infinity War (2018), l’universo è in rovina a causa degli
sforzi del Titano Pazzo, Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti
in vita dopo lo schiocco, i Vendicatori dovranno riunirsi ancora
una volta per annullare le azioni del villain e ripristinare
l’ordine nell’universo una volta per tutte, indipendentemente dalle
conseguenze che potrebbero esserci.
Intervistato da Deadline
James Gunn ha finalmente rotto il silenzio sugli
argomenti che l’hanno visto al centro del circuito mediatico da
quest’estate ad oggi, complice l’improvviso licenziamento dalla
regia di Guardiani della
Galassia Vol.3 (a Luglio 2018), l’assunzione della
concorrenza Warner Bros. per il progetto del reboot di
Suicide Squad, infine il ritorno inaspettato alla
guida del terzo capitolo del franchise da lui condotto per i
Marvel Studios e l’affetto del
cast, della famiglia e dei fan.
“Stavo per iniziare le
prime discussioni su The Suicide Squad con la DC e ne ero
entusiasta, quando Alan Horn della Disney mi chiese se potevamo
parlare. Credo davvero che sia un brav’uomo e che mi abbia
reintegrato perché pensava che fosse la cosa giusta da fare. Mi è
sempre piaciuto e l’ho ammirato per quello che ha fatto,
soprattutto per la compassione mostrata nei miei
confronti“, ha confessato Gunn.
“Si sentono tante storie sul
fatto che a Hollywood sono tutti spietati. Questo è vero per una
parte di questo settore, ma ci sono anche molte persone davvero
buone, e voglio sempre trovare quella bontà in posti che non ci
aspettiamo, anche nei personaggi dei miei film. Ho pianto
un po’ nel suo ufficio, e poi sono andato da Kevin Feige per
comunicargli che avevo appena deciso di fare The Suicide Squad…e la
cosa mi rendeva molto nervoso.”
Sulla difficoltà di conciliare i due
progetti, il regista ha spiegato che mentre scriveva la
sceneggiatura di The Suicide Squad era convinto dell’annullamento
di Guardiani 3: “Sì, mi stavo occupando della stesura di
Suicide Squad e pensavo che il film fosse al capolinea da tempo.
Immagino che i Marvel Studios abbiano considerato quella
possibilità per un po’, ma le conversazioni iniziali con Alan non
riguardavano il mio ritorno, quanto invece le cose che avremmo
dovuto riparare. È come quando divorzi: termini un
matrimonio, e dopo discuti legalmente con la tua ex-moglie, e si
può andare d’accordo ed essere gentili l’uno con l’altro perché
siamo entrambi una grande parte della vita
dell’altro“.
“Al tempo stesso ripensi ai sei
anni passati insieme, e a come quel periodo mi abbia aiutato a
crescere molto. C’erano sicuramente dei problemi, forse non
dovevamo sposarci, ma valeva la pena vivere quei sei anni con la
mia ex. Ecco come mi sentivo con la Disney. Non volevo guardare
indietro e sentirmi amareggiato o arrabbiato, ma solo a mio agio
nel salutarci e dividerci”.
Sul licenziamento e le sensazioni provate Gunn si è lasciato
andare liberamente:
“Non incolpo nessuno. Mi sento e
mi sono sentito male per i modi con cui mi sono espresso
pubblicamente…alcune delle battute che ho fatto, e gli obiettivi
del mio umorismo, sono solo le conseguenze involontarie del non
essere più compassionevole. So che le persone sono rimaste
ferite dalle cose che ho detto, mi sento male per questo e mi
assumo la piena responsabilità. La Disney aveva tutto il
diritto di licenziarmi, e non si tratta di un problema di libertà
di espressione. Ho detto qualcosa che non mi piaceva“.
“Il giorno dopo è stato uno dei
più intensi della mia vita. Ho avuto altri giorni difficili, come
quando da giovane sono diventato sobrio fino alla morte di
amici che si sono suicidati. Ma questo è stato incredibilmente
intenso. Improvvisamente sembrava che tutto fosse finito. Sapevo
solo che, senza prevederlo, ero stato licenziato. Sembrava che la
mia carriera fosse finita.“
E poi è arrivata la chiamata della Warner Bros. per
Suicide Squad:
“Gli studios mi dicevano che gli
sarebbe piaciuto avermi in squadra. Non ci credevo, all’epoca. Sarò
sincero: a livello teorico, pensavo “Beh, forse ho un futuro.” A
livello emotivo, ero a pezzi. Non volevo che la mia carriera fosse
l’unica cosa a rendermi utile o che mi facesse star bene con me
stesso […] Per quanto riguarda Suicide Squad, tutto ha
immediatamente iniziato a funzionare in modo fluido. Non penso di
essermi mai divertito così tanto a scrivere una sceneggiatura. Ecco
cos’è stato per me: puro divertimento“.
Ma non dimentichiamoci che,
terminati i lavori su The Suicide Squad, James Gunn tornerà a
dedicarsi a Guardiani della
Galassia Vol.3.
“Sapete qual era la cosa più
triste a cui ho pensato dopo il licenziamento? La fine del mio
rapporto con Rocket. Rocket sono io, davvero, anche se sembra un
pensiero narcisistico. Groot è come il mio cane. Lo amo in un modo
completamente diverso. Ma Rocket sono io e provo
compassione per lui, perché sento che la sua storia non è stata
completata. Ha un arco narrativo che è iniziato nel primo
film, proseguito nel secondo e che ha attraversato Infinity War e
Endgame. Quindi l’obiettivo ora è finire quell’arco in Guardiani
3“.
A pochi giorni dall’inizio delle
riprese di Bond 25 la
produzione si vede costretta a interrompere i lavori a causa di un
infortunio del suo protagonista, Daniel Craig. La
notizia, diffusa dal quotidiano britannico The Sun e rilanciata da
Variety nelle ultime ore parla di una caduta dell’attore sul set in
Giamaica la scorsa settimana e del successivo spostamento negli
Stati Uniti per il controllo medico.
La fonte riporta: “Craig stava
correndo durante un ciak quando è scivolato cadendo in maniera
piuttosto imbarazzante. Era un po’ dolorante e si lamentava della
sua caviglia“. Non è chiaro a quanto ammonti il ritardo sulla
tabella di marcia, né per quanto tempo potrebbe essere posticipata
la produzione, ma è stato riferito sempre dal The Sun che le
riprese nei Pinewood Studios di Londra, originariamente programmate
alla fine della settimana, sono state cancellate.
Non si tratta del primo infortunio
per Craig, che è solito eseguire la maggior parte delle sue
acrobazie e sequenze d’azione nel franchise di Bond: era già
successo sul set di Casino Royale con qualche
ferita, su quello di Quantum of Solace con lo
strappo di un muscolo della spalla, senza contare l’incidente al
ginocchio provocato da una scena di combattimento in
Spectre.
Vi ricordiamo che Bond
25 sarà diretto da Cary
Fukunaga (il primo regista non britannico che siede dietro
la macchina da presa di un film di 007), mentre la sceneggiatura è
stata riscritta da Scott Z. Burns (The Bourne
Ultimatum, Contagion).
Secondo quanto riportato dal The
Guardian, la MGM ha assunto Phoebe Waller Bridge
(Killing Eve, Fleabag) per “ravvivare” lo script del
venticinquesimo film del franchise ancora senza titolo ufficiale,
sotto speciale richiesta di Daniel Craig, per
portare nel progetto l’humor e l’intelligenza tipiche dello stile
della sceneggiatrice.
Una parte importante delle riprese
si terrà nella città di Matera, capitale europea della cultura per
2019, fornendo l’ambientazione perfetta per quella che dovrebbe
diventare la sequenza d’azione del prologo, simile al segmento
di apertura di Spectre a Città del
Messico durante le celebrazioni del Giorno dei Morti.
Gli ultimi due film
di James Bond sono stati diretti
da Sam Mendes che ha incassato con i
suoi film rispettivamente 1,1 miliardo di dollari
per Skyfall (il Bond di maggior successo
di sempre, con un Oscar all’attivo) e 880 milioni
con Spectre. Dato il successo che Mendes ha
raggiunto con i film, quando ha annunciato che non avrebbe più
diretto un Bond Movie, la EON e la MGM si
sono date da fare per cercare un rimpiazzo all’altezza.
Film d’apertura di Un
Certain Regard, edizione 2019, Bull è il lungometraggio
d’esordio della texana Annie Silverstein, che già
nel 2014 aveva vinto a Cannes per il miglior cortometraggio,
Skunk, Bull è la storia di Kris e Abe, un incontro
insolito, inedito per il cinema che racconta il sud degli States e
un racconto che si definisce molto bene per quello che non è, o che
è solo in parte.
Bull non è una storia di infanzia
rubata, non è una storia di integrazione, non parla
dell’abbattimento delle barriere “razziali”, né critica o commenta
in alcun modo i margini della società che occupano i due
protagonisti. Quella che racconta Silversetein è una storia piena
di dignità, non solo nelle persone ma anche nei luoghi che
racconta, anch’essi sottratti dal luogo comune. Sembra proprio il
primo pensiero della regista, quello di fuggire dal cliché e
offrire uno sguardo onesto su una particolare realtà.
Come detto, la storia si concentra
su Kris, una quattordicenne turbolenta, con una situazione
familiare complicata (padre assente e madre in prigione, vive con
la nonna malata e la sorellina), e Abe, un afroamericano, vera
stella del rodeo, che però relega al passato la sua gloria in
questa pratica. Il loro incontro è dettato prima dal caso e dalla
prossimità, sono infatti vicini di casa e il cane della ragazzina
ammazza una delle galline di Abe, e poi da un’attrazione umana che
viene fuori a poco a poco con crescente intensità.
Entrambi i personaggi, inoltre,
vengono raccontati con lo stesso sguardo onesto e umano delle
situazioni e dei luoghi, senza luoghi comuni: Abe infatti è un
cowboy nero, Kris una ragazzina in difficoltà che non cede mai per
un attimo il passo, non diventando mai un oggetto di ciò che gli
accade.
Il film è abile a concentrarsi
sulle due individualità, da una parte Abe e dall’altra Kris,
seguendole anche in maniera indipendente nei loro problemi e nella
risoluzione di questioni a volte più grandi di loro, tuttavia
raggiunge i momenti migliori nel confronto trai due, tratteggiato
sempre con grande delicatezza e onestà, soprattutto con uno sguardo
affettuoso.
È un peccato che però che
l’attenzione riservata alla fase di scrittura non corrisponda alla
ricerca di soluzioni registiche altrettanto originali e lontane
dagli schermi, ma Annie Silverstein è un
talento che vale la pena seguire e con lei, in Bull, le
interpretazioni dei due protagonisti Rob Morgan e
l’esordiente Amber Havard.
“Vedere il declino della natura
è terrificante”. Nonostante abbia parlato di zombie e
poliziotti invischiati nel’Apocalisse, Jim
Jarmusch ha dimostrato di avere a cuore un tema molto
preciso, durante la conferenza stampa di The Dead don’t
Die a Cannes 2019. Il regista
statunitense ha dichiarato: “La politica non mi interessa, mi
interessa la consapevolezza delle persone. La politica è una forma
di distruzione, è politica delle multinazionali. La questione è
nelle nostre mani, chiunque di noi può scegliere di
boicottarle.”
Non è la prima volta che Jarmusch si
avvicina al genere horror, ma come ogni autore con una voce propria
e riconoscibile, prende il genere e lo trasforma, lo usa come
strumento per raccontare cosa gli passa per la testa. Tuttavia il
legame con l’horror per Jarmusch sembra cominciare da molto
lontano: “La notte dei morti viventi è il primo horror che ho
visto. Romeo ha cambiato l’idea degli zombie e dei mostri. Non sono
mostri stranieri, che vengono dall’esterno della comunità, ma sono
tra noi e non sono solo degli avversari ma sono anche delle
vittime”.
E ancora di Romero parla il regista,
in merito alle tante letture che sono state offerte del film da
parte della stampa: “Le metafore inventate da Romero sono così
forti che molte delle cose che ho letto sul film non le avevo
neanche pensate.” E si ferma anche a commentare le voci che
sono circolare all’indomani dell’annuncio del film, che lo volevano
in qualche modo collegato a Solo gli amanti sopravvivono: “Non
guardo indietro, ma per me quel film era una storia d’amore che
utilizzava la metafora dei vampiri, in questo caso è diverso. Non
volevo fare uno splatter, per cui gli zombie finiscono essiccati in
un mare di polvere, non volevo che ci fosse un bagno di sangue, mi
sono limitato solo alla scena della loro prima
apparizione”.
E come ogni personaggio famoso che
ha i propri miti, anche Jim Jarmusch si emoziona
come un ragazzino di fronte ai registi che ammira: “Parlando di
horror, posso dire che è stato molto fico incontrare per la prima
volta qui, l’altra sera, Dario Argento e John Carpenter”.
Ci sono momenti che definiscono il
percorso di un eroe, e altri che cambiano radicalmente il loro
viaggio di accettazione di sé e dei propri poteri. Questo accade
quando i personaggi mettono i bisogni della comunità davanti a
tutto, sacrificando ciò che hanno per un bene superiore.
Lo sanno bene i valorosi
protagonisti del MCU, che dal 2008 ad oggi
hanno compiuto imprese indimenticabili. Ripercorriamole insieme qui
sotto:
1Lo schiocco di Iron Man
Schioccando il guanto dell’infinito, Tony
Stark spazza via Thanos e il suo esercito. L’equilibrio è di nuovo
ripristinato, ma quanto tempo e ostacoli ci sono voluti per per
arrivarci? Finalmente Iron Man afferma se stesso nel migliore dei
modi: dimostrando una volta per tutte di avere un cuore.
La
morte di Tony Stark è un evento che peserà sul futuro del MCU, come
suggerito dal trailer di Spider-Man: Far From
Home, e sembra che il lutto verrà affrontato diversamente
a seconda del personaggio. Di sicuro siamo felici che Avengers:
Endgame ci abbia consegnato la versione più emozionante dell’eroe e
che la sua dipartita non è stata vana.
La battaglia finale di Avengers:
Endgame ha riunito sul grande schermo, e per la prima
volta nella storia del MCU, quasi tutti i personaggi
finora introdotti al cinema in un’epica sequenza d’azione che non
dimenticheremo facilmente. E tra i momenti più importanti c’è anche
il female-assemble delle supereroine (esclusa Vedova Nera,
morta per ottenere la gemma dell’anima su Vormir) che proteggono la
corsa del guanto dell’infinito in mano a Spider-Man fino al Regno
Quantico.
Tuttavia, ironia della sorte,
l’unico attore assente sul set durante le riprese della scena era
proprio Tom
Holland, come spiegato dal supervisore della WETA (la
società degli effetti speciali che si è occupata del film),
Matt Aiken in un’intervista con Cinemablend:
“Tom Holland era l’unico del
cast che non era in grado di essere lì quel giorno, e sapevamo che
Spider-Man avrebbe dovuto consegnare il guanto a Captain Marvel
all’inizio di quella sequenza. Quindi abbiamo ricreato il supplente
di Spidey in digitale e terminato le riprese un paio di settimane
più tardi, quando Tom Holland è diventato disponibile, e aggiunto
la sua sagoma digitalmente.”
Ecco cosa succede quando decidi di
riunire nello stesso film più di cinquanta attori, e il ritmo della
lavorazione procede spedito senza possibilità di pause lungo il
percorso… Di fatto Peter Parker interagisce con tutte le eroine per
finzione, perché in realtà il suo interprete ha girato questa
sequenza da solo.
Nel frattempo possiamo dare uno
sguardo ad una manciata di nuove immagini ufficiali e in alta
risoluzione di Endgame che mostrano, tra le altre cose, anche la
battaglia che ha portato alla sconfitta di Thanos e del suo
esercito.
Dopo gli eventi devastanti di
Avengers: Infinity War (2018), l’universo è in rovina a causa degli
sforzi del Titano Pazzo, Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti
in vita dopo lo schiocco, i Vendicatori dovranno riunirsi ancora
una volta per annullare le azioni del villain e ripristinare
l’ordine nell’universo una volta per tutte, indipendentemente dalle
conseguenze che potrebbero esserci.
La rivista Empire ha dedicato uno
spazio del suo prossimo numero a Dark
Phoenix, descritto come il gran finale della saga
degli X-Men in mano alla Fox. Come saprete la
Disney ha di recente acquisito tutti i diritti sui personaggi ed è
facile ipotizzare che i Mutanti arriveranno presto nel Marvel Cinematic Universe per
unirsi al franchise.
Per l’occasione il magazine ha
raggiunto il regista Simon Kinberg per
un’intervista, pubblicando qualche foto inedita dal film, per
parlare del lavoro sul set e del processo creativo:
“Credo che tutti abbiamo fatto
pace con l’idea che questi personaggi siano giunti alla conclusione
del loro percorso. Quindi se questo doveva essere il nostro ultimo
film, facciamo in modo che resti impresso, no? […] Mi sono
avvicinato a questa sceneggiatura immaginandola come il culmine di
questo ciclo. Si tratta dell’ultima storia degli X-Men, ed era
diversa dagli altri capitoli a cui ho lavorato in veste di
produttore, dove ci chiedevamo cosa sarebbe successo dopo. Stavolta
ho messo in gioco tutto“.
E quando gli si chiede se abbia già discusso con Kevin
Feige della possibilità di vedere gli X-Men nel MCU,
Kinberg risponde che “Tutto ciò di cui abbiamo parlato era il
funzionamento della macchina marketing della Disney, perché non gli
è stato permesso di dire altro. Onestamente non so cosa intendano
fare con l’universo dei Mutanti“.
Qui sotto potete dare uno sguardo al cast sul set di Dark
Phoenix.
Dark Phoenix è già
stato apostrofato da Kinberg come l’inizio di un nuovo capitolo per
la serie di film di X-Men.
“Lo vedo come un nuovo capitolo.
Lo vedo come qualcosa che prende il franchise e lo lancia in una
direzione diversa con toni diversi. E questo non significa che il
prossimo avrà lo stesso tono, significa solo che il prossimo può
avere un tono diverso. Penso che per molti anni, gli X-Men di Bryan
[Singer] abbiano davvero trasformato il genere dei supereroi nel
2000 o 2001 quando è uscito il primo. Questo arriva quasi 20 anni
dopo. È molto tempo fa. E a quel tempo, i film sui supereroi non
erano molto popolari, in realtà. C’erano stati alcuni fallimenti a
metà degli anni ’90, e non c’erano stati molti film sui
supereroi, e in quel periodo l’approccio sugli X-Men era
davvero rivoluzionario.”
Il produttore Hutch
Parker l’ha inoltre inscritto nella categoria “thriller
hitchcockiano”, in omaggio al maestro del genere, parlandone in
un’intervista con ScreenRant durante il WonderCon di Anaheim,
California, confermando la linea editoriale del franchise che ha
sempre dato un tono specifico ad ogni film.
A pochi giorni dall’uscita nelle
sale Disney, via IGN, ha diffuso una nuova clip tratta da Aladdin,
il live action che rivisiterà il classico d’animazione del 1992 con
attori in carne e ossa e i brani della colonna sonora originale di
Alan Menken. Nel video Will Smith, che sullo
schermo interpreta il Genio della lampada, intona le note di “Il
principe Alì”, fanfara che accompagna l’ingresso ad Agrabah del
protagonista.
Vi ricordiamo che Aladdin è
diretto da Guy Ritchie e
vede Mena Massoud nel ruolo dell’affascinante
furfante Aladdin, Naomi Scott nel ruolo
della bellissima e indipendente principessa Jasmine
e Will Smith nei panni dell’incredibile
Genio con il potere di esaudire tre desideri per chiunque entri in
possesso della sua lampada magica.
Aladdin vanta
una colonna sonora composta dall’otto volte Premio
Oscar Alan Menken(La Bella e la
Bestia, La
Sirenetta), che comprende nuove versioni dei brani
originali scritti da Menken e dai parolieri, vincitori
dell’Oscar, Howard Ashman (La
Piccola Bottega degli Orrori) e Tim
Rice (Il Re Leone), oltre a due brani
inediti realizzati dallo stesso Menken e dai compositori vincitori
dell’Oscar e del Tony Benj Pasek e Justin
Paul (La
La Land, Dear Evan Hansen).
Il cast del film vede
inoltre la presenza di Marwan
Kenzari nel ruolo del potente stregone Jafar,
mentre Navid Negahban veste i panni del
Sultano, preoccupato per il futuro di sua
figlia; Nasim Pedrad è Dalia,
la migliore amica e confidente della principessa
Jasmine, Billy Magnussen interpreta il
principe Anders, il bellissimo e arrogante pretendente di Jasmine,
e Numan Acar è Hakim, braccio destro di Jafar
e capitano delle guardie del palazzo.
Nella versione italiana
Naomi Rivieccio, finalista a X Factor 2018,
interpreterà le canzoni della Principessa
Jasmine offrendo al pubblico una nuova versione degli
indimenticabili brani inclusi nella celebre colonna sonora del film
originale, tra cui la canzone premiata con l’Oscar “Il Mondo È Mio”
(“A Whole New World”). “Come tutti, anche io sono
cresciuta con i film d’animazione Disney”, racconta
Naomi, “e Aladdin è sempre stato uno
dei miei preferiti. È una storia ricca di azione, comicità, magia e
amore. Ha delle sonorità a dir poco travolgenti. Un mondo
incredibile. È un vero onore poter interpretare le canzoni di una
delle Principesse Disney che amo di più e in cui più mi identifico
perché Jasmine, come me, è una ragazza indipendente, ironica e
tenace. Inoltre l’attrice che la interpreta nel film si chiama come
me: Naomi! Forse era destino…”
In apertura di Cannes
2019, presentato in Concorso, The Dead don’t
Die è il nuovo film di Jim Jarmusch,
che sulla carta si presentava come un instant cult. Uno zombie
movie hipster, apparentemente stralunato, che piuttosto che seguire
la lezione vincente di Shaun of the Dead o dei
classici di Romero, traccia una propria strada,
perfettamente in linea con lo stile del suo autore.
Siamo a Centerville, “un posto
davvero carino”, come recita l’insegna all’ingresso della
cittadina, un luogo comune di ogni piccolo centro ddella provincia
americana, con una tavola calda, un motel, una stazione di benzina,
una centrale di polizia, un carcere, tutti i “luoghi comuni” nel
senso stretto della parola, che caratterizzano questi centri
abitati. I protagonisti sono una coppia di poliziotti, Cliff e
Ronnie (Bill
Murray e Adam Driver); i due, di pattuglia, si
accorgono che gli strumenti elettronici sono in tilt. La causa è il
fracking polare che ha spostato l’asse di rotazione della Terra,
una motivazione scientifica che però dà inizio all’apocalisse
zombie, evento che sembra non sorprendere troppo il razionale
Ronnie.
Gli zombie di The Dead
don’t Die sono esattamente come la storia del cinema ce li
ha raccontati prima, solo che non fanno eccessivamente paura, sono
piuttosto degli stereotipi delle abitudini e dei vizi della società
contemporanea, non solo dell’America Trumpiana, una società pigra,
spinta dall’inerzia. E questo sembra essere il ritmo del film
stesso, che procede lentamente come i nostri amici zombie, per i
quali non si può non provare simpatia, soprattutto se sono
interpretati da Iggy Pop. Il nodo, se così
possiamo chiamarlo, del film di Jarmusch arriva proprio nella
contrapposizione tra la volontà di raccontare la contemporaneità,
senza farlo con la dovuta cattiveria, e la tranquillità con cui il
regista traccia un ritratto con toni apparentemente svogliati ma
che risultano fedeli al suo modo di comunicare con pubblico, attori
e generi.
Il risultato è la dichiarazione,
inequivocabile, che per Jarmusch quella che stiamo vivendo noi
adesso sia già un’Apocalisse e che gli zombie siamo affettivamente
noi. La metafora, inevitabile per un film sui non morti, è
lapalissiana, forse meno incisiva di quanto il genere ci ha
mostrato all’inizio della sua storia cinematografica con Romero.
Forse c’è dell’autocompiacimento nei riferimenti meta-testuali,
nelle gag che strizzano l’occhio alla cultura pop, nello giocare a
carte scoperte con una scrittura che infrange non solo la
comunicazione tra personaggi e pubblico, ma anche quella tra
personaggio e attore che lo interpreta. Tuttavia si può comunque
godere di un sorriso compiaciuto per buona parte del film.
Certo, la sostanza sembra latitare
e il film si riduce proprio a questo, a un sorriso soddisfatto per
aver colto l’ennesima citazione, condizione che in assoluto non
rappresenta un male, ma che senza dubbio lascia una sensazione di
insoddisfazione rispetto a ciò che ci si aspetta dal regista.
Resta, del film, la bellezza di un cast che sebbene non è sfruttato
al 100% delle possibilità, regala personaggi incredibili, tra cui
spiccano quelli interpretati da Tilda Swinton e da Adam Driver.
Avengers:
Engdame è stato il film delle “ultime volte”, come
quella di Robert Downey Jr. nei panni di Iron Man,
forse quella di Chris Evans con il costume di
Captain America e, ovviamente, quella di Stan Lee
e dei suoi cameo nel Marvel Cinematic Universe. Il
celebre fumettista è infatti morto qualche mese dopo aver girato la
sua ultima apparizione, e per ricordarla i fratelli Russo hanno
condiviso su Twitter una foto scattata sul set.
Chi ha visto il film saprà che Lee
interpreta un hippie a bordo di una macchina d’epoca che arriva
sfrecciando nella sede originale dello S.H.I.E.L.D. gridando
“Fate l’amore, non la guerra!“. La scena
è stata girata nell’estate del 2018, pochi mesi prima della sua
scomparsa.
Sull’apparizione di Endgame e il
“ritorno” negli anni Settanta, dove è ambientata una parte del
cinecomic, i Russo hanno poi spiegato che si trattava di “un
ultimo cameo commovente, con un tono completamente diverso dagli
altri. Dovevamo inserirlo in una zona dove esatta per quel tono, e
quella ci sembrava l’area del film che faceva al caso nostro
[…]“
“Winter Soldier fu la nostra
prima volta con Stan, e quando venne sul set si respirava
un’energia incredibile e stimolante. Si vedeva che era eccitato
all’idea di essere lì. Parlava con tutti, faceva battute, insomma
era una persona magnetica.”, ricordano i Russo. “Per
qualche ragione, ogni volta che giravamo il suo cameo, aumentavano
gli spettatori sul set…e se c’è una cosa che amavamo di lui, che ci
confondeva da morire, era che voleva sempre più battute“.
Dopo gli eventi devastanti di
Avengers: Infinity War (2018), l’universo è in rovina a causa degli
sforzi del Titano Pazzo, Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti
in vita dopo lo schiocco, i Vendicatori dovranno riunirsi ancora
una volta per annullare le azioni del villain e ripristinare
l’ordine nell’universo una volta per tutte, indipendentemente dalle
conseguenze che potrebbero esserci.
Più di un anno fa la Lucasfilm
annunciava che David
Benioff e D.B. Weiss,
showrunner e sceneggiatori di Game of
Thrones, avrebbero scritto e prodotto una nuova trilogia
di Star
Wars, ma ora abbiamo la conferma ufficiale che il
primo film ad arrivare nelle sale dopo Episodio IX: The Rise Of
Skywalker sarà proprio il loro.
Sapevamo che D&D stavano
lavorando ad un progetto per il franchise e che nel frattempo anche
Rian Johnson, regista di Episodio VIII:
Gli Ultimi Jedi avrebbe sviluppato una nuova serie di
film, ma non era chiaro quale team avrebbe avuto la precedenza.
Grazie alle dichiarazioni del CEO Disney Bob Iger possiamo
finalmente toglierci ogni dubbio.
Resta da capire se Benioff e Weiss
daranno vita ad una trilogia o a tre titoli separati e non
collegati (anche se il contratto ufficiale comprende di fatto tre
film), ma staremo a vedere. I due sono attualmente nell’occhio del
ciclone a causa dei riscontri negativi sulla stagione conclusiva
del Trono di Spade, giudicata fin troppo distante
dalla bellezza degli esordi. Riusciranno a farsi perdonare con Star
Wars e a conquistare l’affetto dei fan?
Vi ricordiamo che Star
Wars: The Rise Of Sywalker, capitolo conclusivo della
nuova trilogia del franchise diretto da J.J.
Abrams, arriverà nelle sale a dicembre
2019.
Nel cast Daisy
Ridley, Oscar
Isaac, John
Boyega, Kelly Marie
Tran, Naomi
Ackie, Joonas Suotamo,Adam
Driver, Anthony Daniels, Billy
Dee Williams Lupita Nyong’o, Domhnall
Gleeson, Billie Lourd e il veterano del
franchise Mark Hamill. Tra le new entry
c’è Richard E. Grant.
Il ruolo di Leia Organa sarà
interpretato di nuovo da Carrie Fisher, usando del
girato mai visto prima da Star Wars: Il Risveglio della
Forza. “Tutti noi amiamo disperatamente Carrie
Fisher – ha dichiarato Abrams – Abbiamo cercato
una perfetta conclusione alla saga degli Skywalker nonostante la
sua assenza. Non sceglieremo mai un altra attrice per il ruolo, né
mai potremmo usare la computer grafica. Con il supporto e la
benedizione della figlia, Billie, abbiamo trovato il modo di
onorare l’eredità di Carrie e il ruolo di Leia in Episodio IX,
usando del girato mai visto che abbiamo girato insieme per Episodio
VII.”
Star Wars: The
Rise Of Skywalker, le teorie sul significato del titolo
Arrivano nuovi aggiornamenti su
Cruella,
il live action Disney che porterà sul grande schermo le avventure
di Crudelia De Mon e che vedrà Emma
Stone nel ruolo di protagonista: secondo Variety infatti,
Emma Thompson sarebbe alle prime fasi di una
trattativa per il film, ma non è chiaro quale personaggio potrebbe
interpretare.
L’attrice era già comparsa in due
altri titoli della casa di Topolino, ovvero La bella e la
bestia, nei panni di Mrs. Potts, e Saving Mr.
Banks, dove prestava il volto all’autrice di Mary Poppins,
P. L. Travers. Per quanto riguarda il live action, dietro la
macchina da presa siederà Craig Gillespie
(I,Tonya, Lars e
una ragazza tutta sua e Fright Night – Il vampiro
della porta accanto) mentre la sceneggiatura è stata
curata da Tony McNamara.
Alex Timbers, acclamato
sceneggiatore di Broadway e della serie Mozart in the
Jungle, era stato il primo nome associato al progetto,
tuttavia il cambio di piani di lavorazione e la voglia di
affrettare la schedule ha costretto la Disney a scegliere un altro
regista e a programmare l’inizio delle riprese l’anno prossimo. Vi
ricordiamo che la celebra antagonista de La carica dei
101 era già stata ritratta al cinema nel classico animato
del 1961 e in carne o ossa da Glenn Close nella
pellicola del 1996 prodotta da John Hughes.
Si è aperta sotto un cielo che
prometteva pioggia (che poi è arrivata) la settantaduesima edizione
del Festival di Cannes 2019, e lo ha fatto in
grande stile, con il ritorno sulla croisette, in concorso, di
Jim Jarmusch.
Il regista statunitense ha portato
al Festival il suo ultimo film, una zombie comedy hipster,
perfettamente in linea con il suo cinema. Per raccontare questa
storia, Jarmusch ha scelto una serie di attori con cui aveva già
lavorato, come Bill Murray,Adam
Driver e Tilda Swinton, ma presenti alla
cerimonia inaugurale del festival c’erano anche Sara
Driver, Luka Sabbat, Adam Driver, Selena Gomez, Chloe
Sevigny, che hanno salito la montée de marches insieme a
Thierry Frémaux.
Il film è scritto e diretto da
Jarmusch e nella prima sinossi si legge: il più grande cast di
zombie mai smembrato, con Bill Murray, Adam Driver, Tilda
Swinton, Chloë Sevigny,
Steve Buscemi, Danny Glover, Caleb Landry Jones, Rosie Perez,
Iggy Pop, Sara Driver, RZA, Selena Gomez, Carol Kane, Austin
Butler, Luka Sabbat e Tom Waits.
Non c’è niente di meglio di un
avversario comune per unire dei nemici giurati, così alla vigilia
del 72° Festival di Cannes 2019, i pennuti arrabbiati ed incapaci
di volare e i maialini verdi di Angry
Birds 2 – nemici amici per sempreAngry
Birds 2 – nemici amici per sempre si sono
presentati insieme di fronte alle telecamere. Qualcosa di insolito
è accaduto in occasione di un photo-call avvenuto nel pomeriggio di
oggi al molo del Carlton Hotel quando i protagonisti del film hanno
fronteggiato il loro nuovo nemico armati delle loro caratteristiche
fionde. L’attore Josh Gad (“Chuck”), il filmmaker
John Cohen e il regista Thurop Van
Orman hanno svelato una nuova scena del sequel che uscirà
nelle sale italiane il 12 settembre distribuito da Warner Bros.
Entertainment Italia.
“È fantastico essere a Cannes,
soprattutto per un film di cui sono molto orgoglioso” dice il
regista Van Orman. “Josh ed io eravamo qui a
Cannes nel 2016 per presentare il film – dice Cohen, che aggiunge –
anche questo ci ha aiutato ad essere il film più visto in 52 paesi
nel mondo. Dopo il videogame, ora che Angry Birds è diventato anche
un successo cinematografico, siamo davvero entusiasti di poter
raccontare nuove storie e divertirci con questi
personaggi”.
Chi ha visto Avengers:
Endgame saprà che Steve Rogers, una volta archiviata
la battaglia contro Thanos e dopo aver celebrato la morte di Tony
Stark insieme ai colleghi Vendicatori, decide di viaggiare ancora
una volta nel Regno Quantico per restituire tutte le gemme
dell’infinito alla rispettiva timeline in cui erano custodite. In
una di queste realtà passate incontra Peggy, l’amore della sua
vita, e si concede quel famoso ballo promesso in Captain
America: Il Primo Vendicatore. Ma cosa è accaduto negli
altri salti temporali? Chi ha incontrato?
A quanto pare, come confermato da
Anthony e Joe Russo in un’intervista, Cap è
tornato su Vormir per riportare la gemma dell’anima al suo
protettore originario, Teschio Rosso,
confrontandosi dunque con il suo primo vero antagonista del
MCU.
“Si, Steve dovrebbe aver
incontrato Teschio Rosso” hanno dichiarato, “Ma nessuno sa
come funzionino le regole quando si restituisce la gemma
dell’anima. Conoscendo il personaggio, probabilmente avrà applicato
la sua politica del ‘niente soldi indietro’ “. Ovviamente i
registi fanno riferimento alla questione della morte di Vedova Nera
o di Gamora, che non possono essere resuscitate semplicemente
restituendo la gemma.
Forse le variabili di queste
timeline alterate e dei viaggi nel tempo saranno approfondite nella
serie animata What If? in arrivo su Disney +? Che
ne pensate?
Dopo gli eventi devastanti di
Avengers: Infinity War (2018), l’universo è in rovina a causa degli
sforzi del Titano Pazzo, Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti
in vita dopo lo schiocco, i Vendicatori dovranno riunirsi ancora
una volta per annullare le azioni del villain e ripristinare
l’ordine nell’universo una volta per tutte, indipendentemente dalle
conseguenze che potrebbero esserci.
Nelle settimane successive
all’uscita di Avengers:
Endgame diversi titoli del MCU sono tornati al centro della
discussione (merito forse della grande capacità di intreccio di
questa saga durata undici anni), compreso l’allora criticato e
snobbato Age of
Ultron, non esattamente il più amato capitolo sui
Vendicatori. Tuttavia, e ciò si evince dalle parole dei fratelli
Russo intervistati da Slate, quel film ricopre ancora oggi un ruolo
fondamentale per come ha portato avanti la costruzione del
personaggio di Iron Man e le sue ragioni.
In particolare, i registi di Endgame
pongono l’accento sulla scelta compiuta da Tony, discutibile
all’epoca, di progettare un androide che servisse come prototipo di
una difesa globale da eventuali minacce esterne (quello che si è di
fatto realizzato in Infinity War):
“Tony non aveva torto, stava
arrivando una grande minaccia e i Vendicatori avevano bisogno di
costruire un’armatura in giro per il mondo. Ma quand’è che le
libertà civili vincono e vengono prima della capacità del governo
di proteggere i suoi cittadini? Pensiamo che un discorso del genere
sia interessante e che, in una certa misura, gli eroi sono dovuti
passare passare attraverso questo conflitto. C’era un senso di
destino già scritto, che dovevano affrontare per vincere, quindi
sia lui e che Cap avevano ragione.”
I Russo fanno riferimento a due
scene precise del MCU: la prima, di Age of Ultron,
in cui Cap e Tony discutono apertamente su cosa sia giusto e cosa
sbagliato in termini etici nell’idea di Ultron; la seconda, di
Endgame, quando Iron Man torna sulla Terra dopo la battaglia su
Titano urlando in faccia a Steve e sostenendo di aver previsto
tutto, l’arrivo di Thanos e l’insufficienza delle difese
disponibili per evitare il disastro.
Come dare torto a Stark, visto
l’evolversi della situazione da Civil War a oggi?
Della stessa opinione sembrano i registi, che hanno accompagnato
questi personaggi e i loro viaggi esistenziali per lungo tempo.
Dopo gli eventi devastanti di
Avengers: Infinity War (2018), l’universo è in rovina a causa degli
sforzi del Titano Pazzo, Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti
in vita dopo lo schiocco, i Vendicatori dovranno riunirsi ancora
una volta per annullare le azioni del villain e ripristinare
l’ordine nell’universo una volta per tutte, indipendentemente dalle
conseguenze che potrebbero esserci.
Chiuso il sipario della Fase 3 i
Marvel Studios si preparano a
spalancare le porte della Fase 4 con l’ambizione e l’entusiasmo
maturati negli anni, da Iron Man fino a Avengers:
Endgame, che ha segnato la fine di un’era e l’inizio di un
futuro ancora più luminoso.
Ma quali eroi e quali villain
potrebbero popolare il MCU nei prossimi anni? Ecco
qualche candidato:
1Doctor Doom
Victor Von Doom (aka
Dottor Destino) è uno degli uomini più
intelligenti dell’universo Marvel, oltre che uno dei più malvagi
mai incontrati nei fumetti. Insomma, il candidato perfetto ad
entrare nel MCU contro i nostri eroi. Con l’addio di Loki
(almeno al cinema) il franchise avrà bisogno di qualcuno della sua
stessa statura, popolarità e importanza, e il Dottor Destino
potrebbe essere la scelta più adeguata.
Quanto contano gli effetti speciali
nella riuscita di un cinecomic? Che ruolo hanno all’interno del
film? Il successo di un blockbuster dipende unicamente dalla cgi e
dalla magia delle immagini? Sono domande a cui si può rispondere
abbastanza velocemente. E le immagini che vedete qui sotto, a cura
di Framestore (società che si occupa della
post-produzione dei film Marvel) dove vengono confrontate le
scene di Avengers:
Endgame prima e dopo l’intervento dei vfx, sono più
che esaustive.
Degli ottimi effetti visivi
immergono lo spettatore nell’avventura dei supereroi, lo
trasportano in altre dimensioni e annullano il senso di
incredulità, tanto sono ormai vicini al realismo. Lo dimostrano
queste foto del backstage dove vengono illustrate le varie fasi che
portano al risultato visto in sala.
Ovviamente quando parliamo di
cinecomic, non basta saper raccontare una buona storia e avere
personaggi di spessore, ma è necessario che questi siano inseriti
in un contesto che – per quanto immaginario – possa avvicinarsi
alla realtà, a qualcosa che si riesce a toccare con mano.
Qui sotto trovate frame relativi
alla battaglia finale di Endgame, la creazione del nuovo Hulk e la
scena del guanto dell’infinito, gli eroi in azione tra cui Captain
Marvel e Captain America e la parentesi della New Asgard con Korg e
Thor.
Dopo gli eventi devastanti di
Avengers: Infinity War (2018), l’universo è in rovina a causa degli
sforzi del Titano Pazzo, Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti
in vita dopo lo schiocco, i Vendicatori dovranno riunirsi ancora
una volta per annullare le azioni del villain e ripristinare
l’ordine nell’universo una volta per tutte, indipendentemente dalle
conseguenze che potrebbero esserci.
La carriera di un regista è
determinata in parte dalle scelte che si fanno lungo un percorso di
affermazione: c’è chi preferisce passare dalla gavetta al cinema
d’autore, rimanendo nell’ambiente underground dell’industria, chi
si getta in progetti ambiziosi e meno in vista, chi invece accetta
di servire i bisogni e le strategie degli studios dirigendo grossi
blockbuster sacrificando la propria identità.
Il caso di Peter
Jackson, ad esempio, è interessante per capire i
meccanismi del potere hollywoodiano e al tempo stesso la capacità
del filmaker di rimanere fedele a se stesso nonostante il successo
e il corteggiamento delle major. Dopo un inizio con produzioni a
basso budget è arrivata la trilogia del Signore degli
Anelli, la consacrazione e i remake (King
Kong), poi la parentesi intimista di Amabili
Resti e il ritorno in grande stile con i tre capitoli de
Lo Hobbit, e diversi lavori come produttore e
supervisore.
È però Empire a rivelare che anni
fa, prima dell’annuncio di James Wan al timone del
progetto, Jackson venne considerato per la regia di
Aquaman e contattato dalla Warner Bros non una, ma
ben due volte, rifiutando l’offerta dell’ex ceo Kevin Tsujihara.
Insomma, la prova del fatto che il regista non ama scendere a
compromessi a meno che non sia coinvolto sentimentalmente con la
storia.
“Kevin mi chiese se ero un fan
di Aquaman. Risposi no, e sei mesi dopo mi rifece la stessa
domanda. Dissi di no, Kevin te l’ho già detto. Non sono un tipo da
supereroi. Leggo Tintin ….e quei film sono difficili. Voglio solo
girare qualcosa per cui nutro una profonda passione, e ora sono più
contento di lavorare sui miei documentari. Non prevedo di fare un
altro film nei prossimi due anni.”
Non stupisce affatto che Tsujihara
avesse puntato Jackson per un cinecomic come Aquaman, dala la sua
esperienza con gli effetti speciali e la gestione delle scene in
larga scala. E non sorprende che abbia ripiegato con un altro
esperto in materia di action-horror come Wan, che si era fatto
notare per la saga di Conjuring e l’ottimo lavoro
svolto in Fast & Furious 7. Fortunatamente il box
office ha sorriso alla Warner, che grazie al miliardo superato dal
re dei mari può tornare a respirare dopo il quasi flop di Justice
League.
Aquaman 2: ecco quando arriverà al
cinema
Vi ricordiamo che Aquaman 2 uscirà al
cinema il 16 dicembre 2022. Lo studio ha
annunciato ufficialmente il sequel del film con Jason
Momoa all’inizio di questo mese, confermando
che David Leslie Johnson-McGoldrick scriverà
la sceneggiatura.
Attualmente l’incasso del film lo
ha fatto classificare al 20° posto della classifica mondiale di
tutti i tempi. Johns-McGoldrick ha
collaborato con Will Beall nella sceneggiatura
di Aquaman. Johnson-McGoldrick ha
iniziato a lavorare sulla sceneggiatura tre anni fa dopo aver letto
i fumetti di Aquaman mentre era sul set
di The Conjuring 2 di Wan.
L’uso del guanto dell’infinito è
stato fatale per tre personaggi del MCU da Infinity
War ad Avengers:
Endgame, come mostrato dalla coppia di film che ha
concluso la saga delle gemme dell’infinito: prima
Thanos, che una volta raccolte tutte le gemme ha
schioccato le dita per realizzare il suo folle piano (riequilibrare
le sorti dell’universo e dimezzare la sua popolazione), poi
Hulk, indicato come l’eroe più adatto per
resistere agli effetti dello schiocco, che ha riportato indietro le
vittime della Decimazione, e infine Iron
Man, l’ultimo a sacrificarsi in Endgame per
sconfiggere definitivamente il Titano e il suo esercito.
Ma quale altro eroe avrebbe potuto
indossare il guanto? Forse Captain America, che
durante la battaglia in Wakanda si era ritrovato faccia a faccia
con Thanos resistendo alla sua furia? A questa domanda ha risposto
uno degli sceneggiatori, Christopher Markus, in
una recente intervista con L’Hollywood Reporter:
“Penso che Steve Rogers ne
sarebbe capace, perché è abbastanza forte da impugnare il guanto e
sopravvivere. In quel momento di Infinity War Thanos è
impressionato dalla volontà di Steve. Non crede che un ragazzo
apparentemente senza poteri riesca a contrastarlo. Non se ne
capacita“.
A differenza di Cap, uscito indenne
dalla lotta con il Titano, lo stesso villain e Bruce Banner sono
rimasti gravemente feriti e compromessi dopo l’utilizzo
dell’artefatto, per non parlare di Tony Stark, letteralmente ucciso
dallo schiocco come abbiamo visto sul finale di Endgame. Se non
altro Steve ha avuto l’occasione di restituire tutte le gemme alle
relative timeline, ma non ci saranno più possibilità di sfidare la
sorte o tentare imprese assurde nel MCU. Ora è un anziano supereroe
in pensione che non ha nessuna intenzione di rimettersi al
lavoro…
Dopo gli eventi devastanti di
Avengers: Infinity War (2018), l’universo è in rovina a causa degli
sforzi del Titano Pazzo, Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti
in vita dopo lo schiocco, i Vendicatori dovranno riunirsi ancora
una volta per annullare le azioni del villain e ripristinare
l’ordine nell’universo una volta per tutte, indipendentemente dalle
conseguenze che potrebbero esserci.