Esponente della sesta generazione
di registi cinesi, Diao
Yinan debutta per la prima volta nel concorso
ufficiale del Festival di
Cannes 2019 con il film The Wild Goose
Lake. Già vincitore nel 2014 dell’Orso d’Oro al
Festival di Berlino con Fuochi
d’artificio in pieno giorno, il regista ritrova
qui tutti i temi a lui più cari, racchiusi all’interno di un
torbido noir che svela un talento maturato, sempre più capace di
arricchire il racconto di invenzioni registiche degne di un
autore.
Il film ha inizio in una fredda
notte di pioggia. Zhou Zenong (Hu Ge) è un
gangster in fuga dopo aver ucciso un poliziotto. Sulla sua testa
grava una taglia che fa gola a molti, e che lo costringe ad una
fuga disperata. È proprio durante questa che incontra Liu Aiai
(Gwei Lun Mei), una prostituta che sbucata dal
nulla si propone di aiutarlo. A lei Zenong confida la sua storia,
ripercorrendo una scia di sangue e violenza.
Ancora un noir dunque per Diao
Yinan, ma stavolta l’ispirazione sembra provenire in buona parte
dal cinema europeo, tra Michelangelo Antonioni e Jean-Luc Godard, e
dal cinema di Wong Kar-Wai. Un noir che dunque si macchia di più
origini, che fonde al suo interno le varie nature a formare un
prodotto che garantisce intrattenimento e malinconiche riflessioni
sull’essere umano, la solitudine, la sua crisi.
Yinan ci fornisce da subito tutti
gli elementi, tra un protagonista dalla dubbia moralità ad una
femme fatale quanto mai criptica, dall’oscurità alla luce, dalla
luce che produce ombre deformate a improvvise esplosioni di
violenza. È una cura formale che si è andata raffinando con gli
anni quella del regista cinese, che sfoggia in questo caso un gusto
per la composizione dell’inquadratura da puro cinema d’autore. Lo
aiutano in questo gli sporchi e logori ambienti in cui si svolge la
narrazione, le abbaglianti luci al neon che sembrano donare ai
personaggi ogni volta nuove sfumature e nuove possibili
interpretazioni delle loro pulsioni.
Alla cura per il dettaglio si
affianca poi la consolidata abilità di Yinan di dar vita a grandi
scene d’azione, coreografate con cura e riprese dalle prospettive
meno consone. Il pericolo appare così essere sempre dietro
l’angolo, e ben presto si diviene preda dell’intricato numero di
personaggi, sempre più impenetrabili, sempre più impossibili da
conoscere e a cui sempre meno è possibile affidare la propria
fiducia.
Yinan non abbandona dunque il
genere a lui caro, attraverso il quale gli è invece possibile
ritrarre una contemporaneità sempre più cupa, individualista, dove
per sopravvivere si deve considerare chiunque un nemico. Con
The Wild Goose Lake il regista aggiunge
un nuovo affascinante capitolo al suo discorso, confezionando un
noir elegante e d’impatto, capace di intrattenere e non in una
maniera convenzionale.
A otto anni dalla Palma d’Oro a
Cannes con The Tree of
Life, Terrence Malick torna in
concorso sulla croisette con A Hidden Life. Gli
anni che separano il film con Brad
Pitt da questo nuovo progetto del regista di Austen
sono stati i peggiori della sua produzione, anche se i più fertili.
Tuttavia, di fronte a questa nuova prova, si ha la sensazione che
Malick sia tornato alle sue suggestioni originali, realizzando
un’altra delle sue opere d’arte.
La storia di A Hidden
Life è quella vera di Franz Jägerstätter, un contadino
austriaco che visse nel borgo di Sankt Radegund: fervente
cattolico, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si rifiutò di
arruolarsi, definendosi obbiettore di coscienza.
Malick racconta il legame carnale
che l’uomo ha con la sua terra, che coltiva, smuove, cura per
provvedere alla sua famiglia; a questo legame che sembra
indissolubile fa da appendice e naturale continuazione la
forte passione che lega Franz a sua moglie, che con lui lavora la
terra e nutre la famiglia. Con una regia che coniuga la classicità
della forma cinematografica con intuizioni e invenzioni che ne
confermano il ruolo rivoluzionario, Malick realizza un ritratto
emozionante, profondo delle contraddizioni di un piccolo villaggio,
della decisione difficile ma conscia del protagonista, dell’amore
fortissimo, puro, cristallino di questa donna, ennesimo incredibile
ritratto femminile, che si dà completamente al suo uomo, mostrando
devozione e comprensione.
A Hidden Life, il film
Con A Hidden Life,
il regista torna alle sue migliori suggestioni, sia formali che
visive. Riesce a piazzare la macchina da presa in posizioni mai
tentate prima, rende canone ciò che lui stesso inventa, dà vita e
luminosità alle immagini, sfruttando la luce naturale e conferendo
ad ogni ambiente una personalità propria. A questa caratteristica
classica per il suo cinema, Malick aggiunge delle fortissime
suggestioni pittoriche, che vanno dai Mangiatori di Patate di
Van Gogh alle luci e le fiamme di De La
Tour, elementi che contribuiscono a donare al film la
bellezza formale per la quale il regista è diventato celebre.
Non solo, a queste caratteristiche
ben note del suo stile, il regista si rivela anche abile
costruttore di suspance, legando l’immanenza degli eventi a suoni o
personaggi particolari, simboli di una svolta narrativa attesa e
temuta. In questo film, Malick ritrova un racconto meno rarefatto,
più classico, un elemento che permette di entrare in connessione
con i protagonisti e con il loro dramma, ma evolve anche la sua
poetica sul contrasto tra natura e cultura, dove, in questo caso,
la seconda si fa spettatrice, mentre la prima è rappresentata dalla
fede, dalla scelta di rimanere coerenti con il proprio credo,
qualunque sia il costo.
A Hidden Life
propone anche un ulteriore sviluppo della figura femminile, un
percorso di umanizzazione che dall’anestetizzata Holly de
La Rabbia Giovane, procede verso l’alto fino alla
Madre/Grazia di
The Tree of Life. Con Franziska, Malick
propone una mater dolorosa (et operosa), un
ricongiungimento con la Terra, con la materia che si fa portatrice
di vita e di concretezza, anche di fronte alla decisione
ineluttabile che la storia imponeva.
Torna il voice over che
entra dentro le menti e i cuori dei personaggi, il grandangolo
a deformare i primi piani e ad avvicinarli allo spettatore, la
durata importante, fondamentale al regista per affondare il suo
stiletto appuntato nel cuore della storia. Torna anche la
dimensione della guerra, sempre la Seconda Mondiale che aveva così
magistralmente rappresentato in La Sottile Linea
Rossa. Ma a differenza del capolavoro del 1998, così come
è obbiettore il suo protagonista, anche il regista rinuncia in
questa occasione alla violenza ostentata; non sentiamo un solo
colpo di pistola, non vediamo una goccia di sangue. In compenso
l’orrore della guerra non è più quella “nel cuore della natura” di
cui parlava il Soldato Witt, ma è un’esperienza tutta umana alla
quale si può decidere, come Franz, di non partecipare, rimanendo
fedeli a se stessi.
In A Hidden Life,
Terrence Malick sembra suggerirci che il Bene, nel
mondo, cresce con i gesti privati, piccoli, nascosti, come la vita
che vorrebbero condurre i protagonisti del film, come la vita che
conduce lui stesso.
Stand By Me è uno di quei
film che ha rivoluzionato il mondo del cinema, diventando simbolo
della gioventù di allora, come per quella di adesso, e del cinema
degli anni ’80 in senso più generale.
Questo film, intitolato anche
Stand By Me – Ricordo di un’estate, è diventato un vero e
proprio cult, un punto di riferimenento per i prodotti audiovisivi
odierni. Adattamento cinematografico del racconto Il Corpo
di Stephen King, questo film rimarrà sempre
nell’immaginario collettivo.
Ecco, allora, dieci cose da
sapere su Stand By Me.
Stand By Me film
1. Per Stephen King questo
film è stato il miglior adattamento dei suoi libri. I
lavori di Stephen King sono spesso stati soggetti ad
adattamenti cinematografici e anche Stand By Me lo è in
quanto è stato tratto dal racconto Il corpo, appartenente
alla raccolta Stagioni diverse. Sembra che dopo una
proiezione privata del film, alla presenza anche del regista
Rob Reiner, King non si mise a parlare e uscì
dalla sala a fine film. Al suo ritorno, disse al regista che questo
era il miglior adattamento dei suoi racconti che avesse mai
visto.
2. Di questo film venne
cambiato il titolo. Il racconto sul quale il film di basa
è intitolato Il Corpo e, inizialmente, il film si sarebbe
dovuto chiamare così. In seguito, la Columbia Pictures decise di
ribattezzarlo Stand By Me perché pensava che Il
Corpo potesse essere un titolo fuorviante.
3. Sono stati usati dei
teleobiettivi appositi per la scena del treno. In
Stand By Me, la scena in cui Gordie e Vern stanno correndo
verso la macchina da presa con il treno alle spalle è stata
realizzata con i due attori all’estremità opposta rispetto al
treno. Infatti, la crew del film usò un teleobiettivo con delle
lenti che riuscissero comprimere l’immagine in maniera tale che il
treno sembrasse alle spalle dei ragazzi
Stand By Me frasi
4. Un film con frasi
diventate cult. Non sono molti i film che riescono a
rimanere nell’immaginario collettivo per diversi anni grazie anche
a delle frasi particolarmente incisive. Eppure, Stand By
Me è uno di questi. Ecco alcuni esempi:
Non ho mai più avuto amici come
quelli che avevo a 12 anni. Gesù, ma chi li ha? (Gordie
adulto)
Non avevo ancora 13 anni la prima
volta che vidi un essere umano morto. Fu nell’estate del 1959,
molto tempo fa. Ma solo misurando il tempo in termini di anni.
(Gordie adulto)
È come se Dio ti avesse dato
qualcosa. Tutte quelle storie che ti vengono in mente… Dio ha
detto: “questa è roba tua, cerca di non sprecarla.” Ma i ragazzini
sprecano tutto, se non c’è qualcuno che li tiene d’occhio. E se i
tuoi vecchi sono troppo incasinati per farlo, dovrei farlo io,
forse! (Chris)
Un giorno tu diventerai un grande
scrittore, Gordie. Potrai anche scrivere di noi, se sarai a corto
di idee. (Chris)
Ragazzi, vi va di vedere un
cadavere? (Vern)
Io ci scommetto che se con te mi
metto ci rimetto! (Teddy, Chris, Vern)
Stand By Me streaming
5. Il film è disponibile su
diverse piattaforme streaming. Chi volesse vedere Stan
By Me – Ricordo di un’estate per la prima volta o volesse
rivederlo, è possibile farlo grazie alla sua presenza su diverse
piattaforme in streaming digitale, come Rakuten Tv, Chili e
iTunes.
Stand By Me canzone
6. La canzone di Ben E.
King ha avuto una nuova vita. Il successo del film ha
suscitato un rinnovato interesse per la canzone Stand By
Me presente nella colonna sonora e ispirando il titolo
definitivo del film. La versione di Ben E. King fu
originariamente pubblicata nel 1961 e poi venne ri-pubblicata in
seguito all’uscita del film. Questa nuova pubblicazione fece
arrivare la canzone al numero 9 della Top Ten dell’autunno
1986.
7. Michael Jackson voleva
fare una cover di Stand By Me. Nella colonna sonora del
film, la canzone Stand By Me è forse la più famosa,
realizzata da Ben E. King. Pare che Michael
Jackson volesse realizzare una cover della canzone per il
film e che Ron Reiner, pur restando in dubbio, preferì utilizzare
la canzone della sua versione originale.
Stand By Me cast
8. Corey Feldman ha provato
tanti diversi tipi di risata. Per realizzare una risata
vera, che sembrasse somigliare a quella descritta nella storia di
King, Corey Feldman e il regista Rob Reiner si
misero a provare ben 30 tipi di risate diversi, prima di decidere
quale potesse essere quella ottimale per il personaggio di Teddy
Duchamp.
9. River Phoenix aveva
ottenuto un altro ruolo. Quando venne preso dopo il
provino per far parte del film, River Phoenix venne scelto per il ruolo di
Gordie Lachance. Fu il regista Rob Reiner ad intervenire, pensando
che sarebbe stato meglio se avesse interpretato il personaggio di
Chris Chambers.
10. Il ruolo di Gordie
Lachance era uno dei più gettonati. Sebbene il ruolo di
Gordie sia andato a Will Wheaton, erano diversi
gli attori considerati per interpretare il personaggio. Tra questi,
vi erano i famosi
Sean Astin,
Stephen Dorff e Ethan Hawke.
Il sale della terra è uno
di quei film che ha dato nuova linfa al genere documentario,
raccontando il punto di vista di uno dei fotografi più rinomati,
Sebastião Salgado.
Win Wenders, che
ha scoperto questo fotografo per caso, è rimasto immediatamente
affascinato dal suo talento, riuscendo, con questo film, a
raccontare la storia della sua vita e la comunicazione messa in
atto dal suo lavoro.
Ecco, allora, dieci cose da
sapere sul film documentario Il sale della terra.
Il sale della terra film
1. Il regista ha raccontato
il punto di vista del fotografo. Con Il sale della
terra, Wim Wenders ha voluto
raccontare come viene data vita ad una vocazione, portando alla
luce l’umanità e la curiosità del mondo in un trotto intorno al
mondo, come un dialogo riconoscente alla visione risoluta del
fotografo.
2. Il montaggio è stato
difficile. Sia Wim Wenders che Juliano
Salgado (co-regista) hanno descritto il processo di
montaggio come estremamente difficile e dispendioso in termini di
tempo. C’erano false partenze e vicoli ciechi e i due hanno
combattuto per mesi con quello che il regista tedesco chiamava
“problemi dell’ego” su quello che sarebbe stato utilizzato o meno,
prima di stabilire un metodo e di avere un risultato che li
soddisfacesse.
Il sale della terra streaming
3. Il documentario è
dispobile in streaming digitale. Chi volesse vedere o
rivedere questo
documentario di Wim Wenders, è possibile farlo grazie alla sua
presenza sulle piattaforme digitali legali come Rakuten Tv e
Chili.
Il sale della terra trailer
4. Un trailer per
emozionarsi. Se non è chiaro di cosa parli il film Il
sale della terra, è possibile visionare per prima cosa il
trailer, rendendosi conto che se già esso riesce ad emozionare, non
si può non guardare subito il documentario per intero.
Il sale della terra Salgado
5. Salgado ha spiegato la
foto del gorilla. Per quanto riguarda la fotografia che
ritrae un gorilla con si mette un dito in bocca, Sebastião
Salgado ha dichiarato nel film che l’animale riconosce la
propria immagine per la prima volta dopo aver visto il suo riflesso
nella lente. Tuttavia, diversi studi hanno smentito questo fatto,
dimostrando che i gorilla non riescono a riconoscere il proprio
riflesso.
6. Wim Wenders ha
conosciuto l’arte di Salgado per caso. Il regista tedesco,
verso la fine degli anni ’80, stava camminando lungo La Brea Avenue
a Los Angeles quando, con la coda dell’occhio scorse alcune
fotografie nella finestra di una galleria. Entrò incuriosito e
conobbe il nome dell’artista, un fotografo brasiliano, tale
Sebastião Salgado, uscendo dalla galleria, dopo qualche ora, con
delle stampe in mano.
7. Wenders ha incontrato
Salgado a Parigi, nel suo studio. Dopo molti anni dalla
scoperta, il regista tedesco ha incontrato il fotografo solo nel
2009. Dal loro incontro è nato il progetto Il sale della
terra, con Salgado che ha portato il regista a concepire e ad
imparare dagli angoli più remoti del mondo, realizzando il film con
il figlio del signor Salgado, Juliano Ribeiro.
Il sale della terra
significato
8. Il titolo del film ha un
riferimento biblico. Il sale della terra, film
del regista Wim Wenders, si riferisce ad un passaggio biblico,
specialmente a Matteo 5:13: “Sei il sale della
terra. Ma se il sale perde la sua salinità, come può essere reso di
nuovo salato? Non è più buono a nulla, tranne che ad essere buttato
fuori e calpestato”.
9. Il titolo si riferisce
ad un fotografo. Salgado è un termine portoghese
utilizzato per definire una cosa salata. Se si aggiunge il sale a
qualcosa, questo diventa salgado. Ciò può essere interpretato, in
maniera più ampia, come un contributo che il fotografo Sebastião
Salgado ha dato al pianeta Terra o, in maniera più letterale, come
il cambiamento che lui e la sua famiglia hanno apportato alla loro
terra, riportando la foresta pluviale nativa all’Istituto della
Terra (The Earth Insitute).
10. Il riferimento è alle
persone di grande valore. Al di là della connotazioni
religiose, Il sale della terra è una frase che rappresenta la
positività. Infatti, le persone che vengono così descritte sono
quello che vengono considerate di grande valore e di grande
affidabilità.
Ai tempi di Solo Dio
Perdona, Nicolas Winding Refn
aveva promesso che il suo stile e il suo linguaggio cinematografico
e narrativo sarebbero sempre più evoluti nella direzione di
un’estetica abbagliante, come appunto quella riscontrabile nel
succitato film presentato in concorso a Cannes
nel 2013. Promessa fatta, promessa mantenuta. Dopo aver turbato
ulteriormente con The Neon Demon,
Refn ha proseguito la sua ricerca spostandosi sulla serialità,
realizzando così la sua prima serie intitolata Too Old
To Die Young, di cui gli episodi 4 e 5 sono stati
presentati fuori concorso al Festival di Cannes 2019.
La serie, che sarà distribuita su Amazon Prime Video dal 14 giugno, sembra
promettere un concentrato di tutte le cifre stilistiche del regia
danese, tra avvincente intrattenimento e disincantata
contemplazione sulla società odierna.
Too Old To Die Young, la serie tv Prime Original
Protagonista assoluto è Miles
Teller, il quale interpreta un detective dalla doppia
vita: di giorno garante della legge, di notte spietato assassino.
Martin, questo il nome del protagonista, soffre di una crisi
esistenziale, la quale lo conduce sempre più all’interno di un
inferno fatto di omicidi, violenza e sangue. Questa cupa odissea lo
porterà a scontrarsi con strani e temibili personaggi.
Sono particolarmente diversi l’uno
dall’altro i due episodi presentati in anteprima. Dove uno sembra
vivere della rarefazione di Solo Dio
Perdona, l’altro sfoggia invece un dinamismo alla
Drive. Dove uno
sembra avere i toni disillusi e le atmosfere decadenti di un film
sulla crisi della società e dei suoi abitanti, l’altro è invece un
adrenalinico noir tra feroci inseguimenti e personaggi dalla
perversa natura. Difficile dunque immaginare come possa realmente
essere la serie firmata da Refn, quali delle due strade percorrerà,
e a quali conclusioni arriverà.
Ciò che è certo, è che il regista
sembra aver dato sfogo a tutte le sue ossessioni, che all’interno
di un prodotto della durata complessiva di 13 ore potrebbero aver
trovato la giusta collocazione. Potrà certamente infastidire l’uso
che Refn fa della messa in scena, totalmente prevalente rispetto
all’elemento narrativo. Questo appare infatti un pretesto per
mettere in relazione alcune immagini chiave, e l’intrattenimento è
dato in primo luogo da una ricerca e una cura per l’aspetto visivo
che sbalordisce nuovamente. Refn è sempre più un esteta, e le sue
opere vivono di colori forti, dal giallo al verde, dal rosso al
viola. Colori che sono diretta esternalizzazione delle pulsioni dei
personaggi.
Il mondo che sembra aver costruito
stavolta ha un sapore già conosciuto, eppure difficilmente si
riesce a staccare gli occhi dallo schermo. Refn sa come ottenere
l’attenzione, come riprenderla qualora la si avesse persa. Lo
dimostra con continui cambi di tono, continue accelerazioni di
ritmo che costringono lo spettatore a vivere sulla propria pelle il
metaforico viaggio verso l’inferno che il protagonista ha
intrapreso. Miles
Teller incarna qui il nuovo volto senza
espressioni né emozioni del cinema dell’autore danese. Pur privato
di ciò, l’attore riesce comunque a calamitare su di sé
l’attenzione, imponendosi come una figura tanto attraente quanto
provocante.
Refn è dunque tornato, ed è pronto
a far discutere nuovamente, proponendo un prodotto che certamente
porrà a dura prova lo spettatore, marcando sempre di più la
divisione tra chi lo ama e chi lo odia. Con Too Old To
Die Young conferma di sapere perfettamente come
provocare e intrattenere, come sorprendere, scioccare e anche
divertire. Se la serie vivrà bilanciando al suo interno la
differente natura dei due episodi proposti, avrà certamente la
possibilità di affermarsi come un nuovo punto cruciale nella
filmografia del suo autore.
Interpretata da Miles Teller, la serie
ha per protagonista un detective dalla doppia vita: di giorno
garante della legge, di notte spietato assassino. Martin, questo il
nome del protagonista, soffre di una crisi esistenziale, la quale
lo conduce sempre più all’interno di un inferno fatto di omicidi,
violenza e sangue. Questa cupa odissea lo porterà a scontrarsi con
strani e temibili personaggi.
Arrivato in conferenza stampa,
insieme a Miles Teller, Refn viene chiamato a raccontare da dove
nasca l’idea di questa serie dal titolo così suggestivo. “Tutto
nasce in un auto, a Los Angeles. Stavo lavorando a The Neon
Demon a quel tempo. Era il periodo in cui Netflix si
affermava sempre più come realtà grazie ai suoi contenuti. Tutti
intorno a me sembravano volersi spostare in televisione. Io non la
guardo molto in realtà, ma ero incuriosito dalle possibilità del
mezzo. Era come accettare ed esplorare un modo totalmente nuovo di
comunicare.”
“Contemporaneamente ho iniziato
ad avere il desiderio di lavorare su qualcosa che avesse come
tematiche la religione e la morte, – continua il regista –
e il titolo Too Old To Die Young venne
spontaneo. Chiamai Ed Brubaker, il co-creatore della serie, e gli
esposi la storia, chiarendo che desideravo sviluppare una linea
narrativa particolarmente lunga.”
“Quando inizi a lavorare ad una
storia hai un’idea, un’intenzione, ma poi qualcosa di veramente
strano accade durante il processo di scrittura. – prosegue
Refn – Quando abbiamo iniziato a scrivere la serie era il
periodo delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Io mi
sentivo come un alieno, e mi sentivo influenzato da tutto quello
che stava accadendo. Stavo sperimentando l’evoluzione di un Paese,
e tutto ciò è finito inevitabilmente all’interno della serie, che
parla a suo modo del collasso della società. E volevo indirizzarla
in particolare ai giovani, che sono il futuro. Loro qui sono visti
come una speranza, mentre gli uomini come un decadente
fallimento.
La parola passa poi a Miles
Teller, al quale viene chiesto di raccontare il rapporto
lavorativo con Refn e il lavoro svolto su di un personaggio tanto
impegnativo. “Quando fui contattato per il progetto lessi solo
la sceneggiatura del primo episodio. Ero attratto, pur non avendo
idea di come sarebbe evoluta la cosa. Ma desideravo lavorare con
Nicolas, che adoro, e lui mi ha garantito che avremmo girato le
scene in ordine cronologico. Questo mi ha portato ad affrontare la
sfida di tenere con me un personaggio per un periodo di tempo
veramente lungo, ed è stato affascinante poterne scoprire sempre
nuove sfumature e poter apprendere sempre di più sull’arte del
filmmaking da Nicolas.”
Refn torna poi a parlare sulla
natura del progetto e sul particolare stile che a partire dal film
Drive ha raffinato sempre di più.
“Questa non è una serie tv, è un film. Un film di 13 ore. E
all’interno volevo che tutto dipendesse da due elementi: l’immagine
e il silenzio. La prima è fondamentale per me, credo sia l’elemento
più comunicativo che abbiamo. Il silenzio invece è un arma usata
per rivelare, il più delle volte qualcosa di cui abbiamo paura. Il
silenzio può dar vita a situazioni poco confortevoli, e questo era
proprio ciò che desideravo esplorare.”
Nicolas Winding Refn è anche
proprietario di un proprio servizio streaming attraverso il quale
mette a disposizione degli utenti alcuni film classici o quelli che
più hanno influenzato la sua carriera. “Qualche anno fa ebbi
l’idea di creare la mia propria forma di piattaforma
streaming. – racconta Refn in proposito – Volevo dar
vita ad una fondazione che si occupasse di preservare la cultura
cinematografica, e volevo che fosse gratis. È nato come un
esperimento, ma con il tempo la cosa è cresciuta ed è veramente
interessante vedere le forme che sta assumendo.
Concludendo la
conferenza stampa, al regista viene chiesto se abbia inserito, come
suo solito, una scena cardine anche in questo nuovo progetto.
“In ogni mio film c’è una scena madre che racchiude il cuore
del prodotto. C’è anche qui, certo. È nell’episodio 9 ma non vi
dirò qual è. Dovrete scoprirlo da soli.”
In occasione della presentazione a
Cannes 2019 di Dolor y Gloria,
ecco la nostra intervista alla co-protagonista del nuovo film di
Pedro Almodovar, Penelope
Cruz.
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Gloria Cannes 2019″]
Dolor y Gloria
racconta una serie di ricongiungimenti di Salvador Mallo, un
regista cinematografico oramai sul viale del tramonto. Alcuni sono
fisici, altri ricordati: la sua infanzia negli anni ‘60 quando
emigrò con i suoi genitori a Paterna, un comune situato nella
provincia di Valencia, in cerca di fortuna; il primo
desiderio; il suo primo amore da adulto nella Madrid degli anni
‘80; il dolore della rottura di questo amore quando era ancora vivo
e palpitante; la scrittura come unica terapia per dimenticare
l’indimenticabile; la precoce scoperta del cinema ed il senso del
vuoto, l’incommensurabile vuoto causato dall’impossibilità di
continuare a girare film. “Dolor y Gloria” parla della creazione
artistica, della difficoltà di separarla dalla propria vita e dalle
passioni che le danno significato e speranza. Nel recupero del suo
passato, Salvador sente l’urgente necessità di narrarlo, e in quel
bisogno, trova anche la sua salvezza.
Uno dei momenti più emozionanti di
Avengers: Endgame è stato quello che ha visto
protagoniste tutte le eroine schierate contro Thanos, a proteggere
Captain Marvel che custodiva il
Guanto dell’Infinito completo di Gemme. La scena ha infiammato i
cuori degli spettatori anche se non sappiamo con certezza se
rivedremo le eroine tutte insieme in un film sulla
A-Force.
Adesso, forse a irrobustire le voci
che vorrebbero che tale film fosse già in produzione, l’account ufficiale dei Marvel Studios
pubblica una foto di squadra dal backstage di
Endgame in cui compaiono tutte le eroine Marvel,
eccetto, ovviamente, Vedova Nera.
Dopo gli eventi devastanti di
Avengers: Infinity War (2018), l’universo è in rovina a causa degli
sforzi del Titano Pazzo, Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti
in vita dopo lo schiocco, i Vendicatori dovranno riunirsi ancora
una volta per annullare le azioni del villain e ripristinare
l’ordine nell’universo una volta per tutte, indipendentemente dalle
conseguenze che potrebbero esserci.
Il grande colpo di scena di
Avengers: Endgame che ha visto Captain
America impugnare il Mjolnir ha scatenato la gioia dei fan
e ha concretizzato un sospetto che avevamo avuto già in Age
of Ultron, ovvero che Steve Rogers è
degno del potere del Martello di Thor.
Di seguito potete ammirare le foto
di una statua che raffigura proprio Cap con il mano la potente arma
e il suo scudo, un oggetto dettagliato e prezioso.
Dopo gli eventi devastanti di
Avengers: Infinity War (2018), l’universo è in rovina a causa degli
sforzi del Titano Pazzo, Thanos. Con l’aiuto degli alleati rimasti
in vita dopo lo schiocco, i Vendicatori dovranno riunirsi ancora
una volta per annullare le azioni del villain e ripristinare
l’ordine nell’universo una volta per tutte, indipendentemente dalle
conseguenze che potrebbero esserci.
All’interno del Festival di Cannes 2019,
arriva in concorso alla Quinzaine des
Réalisateurs il regista giapponese Takashi Miike con il suo
nuovo film dal titolo First Love.
All’interno di questo è possibile ritrovare tutti i principali
stilemi del regista, dalla violenza esagerata all’umorismo nero,
dall’amore alla natura ambigua dei personaggi. Con il suo nuovo
lungometraggio Miike si conferma uno dei registi più controversi e
affascinanti dell’odierno panorama cinematografico.
Ambientato nell’arco di una notte a
Tokio, il film segue la storia di Leo, un giovane boxer solitario,
e di Monica, giovane ragazza costretta a prostituirsi per debiti.
Mentre tra i due sboccia l’amore, si ritroveranno anche a doversi
difendere da pericolosi personaggi della malavita, i quali li
cercano per motivi a loro ignoti. In un tripudio si sangue,
comicità e sentimento, i due ragazzi dovranno riuscire a
sopravvivere alla notte per consolidare il loro rapporto.
Le premesse della trama non vengono
disilluse, in un film che si dimostra dinamico sin dall’inizio.
Miike ci presenta da subito, ognuno nel suo contesto i vari
personaggi. Molti di questi non si conoscono minimamente, e sembra
impensabile che possano presto o tardi ritrovarsi a combattere gli
uni contro gli altri per la vita e la morte. Se all’inizio si può
quindi rimanere frastornati dalla presenza di molteplici linee
narrative da seguire, ben presto si ci si ritroverà sempre più
catapultati nel vivo della storia.
Appare sempre più chiaro che Miike
desidera raccontare una storia che esce dai binari del realistico,
quasi una favola, chiedendo un po’ di partecipazione e fiducia allo
spettatore per condurlo all’interno di un incubo notturno dove
tutto è possibile. Incubo per i protagonisti, poiché per lo
spettatore il film è invece una gioia per gli occhi.
Particolarmente violento, ai limiti dello splatter, il regista
unisce a quest’elemento quello della comicità. Ogni scena brutale
presenta allo stesso tempo situazioni per cui è impossibile non
provare divertimento, con trovate particolarmente brillanti.
All’interno di questo delirio
visivo, non manca ciò che il titolo promette, ovvero l’amore. I due
protagonisti, moderni Romeo e Giulietta, si ritrovano coinvolti in
qualcosa di più grande di loro. La loro presenza aggiunge
sentimento a quanto avviene intorno a loro, e anche i più cattivi
infine sembrano costretti a piegarsi alla forza del loro amore.
Il solito Miike dunque, che com’è
giusto che sia non si allontana dai temi a lui cari, ma li
riformula per realizzare un film dinamico, particolarmente
coinvolgente e divertente. Sua intenzione era infatti quella di dar
maggior rilevanza all’aspetto comico, che nel film è ben dosato e
costruito. Se anche tutto sembra crescere fino all’inverosimile,
ciò non risulta un disturbo. Ormai assuefatti dalla storia si è
pronti a seguire il regista in ogni strada intrapresa, e
First Love si rivela l’ennesimo
interessante progetto di uno dei maestri della cinematografia
orientale.
In occasione della presentazione a
Cannes 2019 di Dolor y Gloria,
ecco la nostra intervista al protagonista del nuovo film di
Pedro Almodovar, Antonio
Banderas.
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Dolor y Gloria Cannes 2019″]
Dolor y Gloria
racconta una serie di ricongiungimenti di Salvador Mallo, un
regista cinematografico oramai sul viale del tramonto. Alcuni sono
fisici, altri ricordati: la sua infanzia negli anni ‘60 quando
emigrò con i suoi genitori a Paterna, un comune situato nella
provincia di Valencia, in cerca di fortuna; il primo
desiderio; il suo primo amore da adulto nella Madrid degli anni
‘80; il dolore della rottura di questo amore quando era ancora vivo
e palpitante; la scrittura come unica terapia per dimenticare
l’indimenticabile; la precoce scoperta del cinema ed il senso del
vuoto, l’incommensurabile vuoto causato dall’impossibilità di
continuare a girare film. “Dolor y Gloria” parla della creazione
artistica, della difficoltà di separarla dalla propria vita e dalle
passioni che le danno significato e speranza. Nel recupero del suo
passato, Salvador sente l’urgente necessità di narrarlo, e in quel
bisogno, trova anche la sua salvezza.
Ci sono film che dimostrano di
meritare la partecipazione al concorso ufficiale di un festival
prestigioso come quello di Cannes. Little
Joe, di Jessica Hausner,
tuttavia non è tra quelli. Presentato al Festival di Cannes 2019,
il nuovo lungometraggio della regista austriaca rivela una storia
debole, penalizzata in particolare da scelte di regia che
disturbano anziché attrarre.
Il film ha per protagonista Alice
(Emily
Beecham), una madre single e particolarmente devota al
suo lavoro di sperimentatrice di nuove specie di piante. La sua
ultima ricerca riguarda un particolare tipo di fiore, chiamato
Little Joe, che, oltre ad attrarre per la sua bellezza, è in grado
grazie al suo profumo di rendere felice chi si trova nelle
vicinanze. Con l’avvicinarsi del lancio sul mercato di questo però,
strane cose iniziano ad accadere e Alice comincia a nutrire
sospetti su Little Joe, il quale potrebbe non essere innocuo come
sembrerebbe.
Sulla carta il film aveva il
potenziale per rivelarsi buon thriller sci-fi. La trama infatti
consente numerose strade percorribili, ma al momento della
realizzazione del film evidentemente sono state prese quelle
errate. Benché le premesse fossero interessanti, la sceneggiatura
acquista ben presto un tono di innaturalità che porta al
manifestarsi di diversi buchi di sceneggiatura e, in particolare,
la mancanza di un vero e proprio sviluppo del conflitto.
Nel momento in cui la protagonista
inizia a nutrire sospetti sulla sua creazione, nulla di veramente
significativo accade perché lo spettatore possa essere sempre più
coinvolto. I sospetti continuano, fino a concretizzarsi ma
risolvendosi in un nulla di fatto. Si aspetta così qualcosa che è
destinato a non arrivare, e il fatto che le domande poste
rimarranno senza risposta diventa chiaro ben prima del finale. Ciò
che sembra mancare più di tutto è poi la minaccia che le piante del
film portano con sé. Impariamo a conoscerle ma, benché la loro
natura appaia pericolosa, si rimane all’oscuro di quale realmente
sia il pericolo che si corre. Chi vi entra in contatto subisce
effettivamente un cambiamento, ma che non porta a sviluppi né
intelligenti né inquietanti.
La regista e sceneggiatrice sembra
più che altro interessata a generare un atmosfera di tensione che
possa supportare la storia. All’inizio il suo intento sembra
riuscire, ma nel momento in cui lo spettatore comprende che ben
poco accadrà di nuovo, la tensione viene presto a sgretolarsi
lasciando il posto ad un senso di noia e irritazione. Certamente
non aiutano i costanti movimenti di macchina, i più dei quali
risultano ingiustificati. Se l’intento era quello di generare una
tensione nello spettatore, come detto prima, questa viene ben
presto a scemare. Altro elemento particolarmente fastidioso è una
colonna sonora eccessivamente presente, particolarmente ricca di
suoni e rumori. Questa è marcatamente posta sia nei momenti
più cruciali che in quelli meno adatti, finendo per ottenere
l’effetto opposto a quello desiderato.
Non è chiaro quale fosse l’intento
della Hausner con Little Joe, ma la
sensazione generale è di un’occasione sprecata. Un’idea che poteva
racchiudere un potenziale ma che, come il fiore protagonista del
film, sembra emanare solo una pallida parte di ciò che poteva
essere.
Con la voglia di gridare contro
l’ingiustizia e a favore dei più deboli, Ken Loach
torna sulla croisette, nel concorso di Cannes
2019, con Sorry we missed you, il suo
nuovo film che racconta sempre con occhio lucido e a volte brutale
la realtà degli ultimi.
Il regista ha raccontato così il suo
film: “Quando ero giovane la vita era fatta di tappe, dopo lo
studio si cercava un lavoro, poi si metteva su famiglia. Oggi non è
più così, è subentrata l’insicurezza, i contratti sono sempre più
precari, le persone devono lottare per sopravvivere, a volte è
necessario inventarsi un lavoro che non c’è prendendo rischi.
Quello che volevo fare col mio film era mostrare come questa
situazione si rifletta sulla vita familiare”.
Per raccontare questa storia, Loach
ha unito le sue forze con lo sceneggiatore Paul
Laverty, che ha fatto ricerca sul campo: “Questa è la
storia di una famiglia. L’Inghilterra sta percorrendo lo stesso
cammino degli USA, le disuguaglianze si stanno intensificando. Per
cinquant’anni la rabbia sociale è stagnata e ora sta esplodendo
mentre la povertà aumenta e la ricchezza è concentrata nelle mani
di pochissimi”.
E poi passa a raccontare del suo
confronto con i testimoni diretti, le fonti di ispirazione per
questa dolorosa storia: “Proprio nei giorni in cui parlavo con
questo corriere stanco, con gli occhi rossi, la barba lunga, Jeff
Bezos è diventato l’uomo più ricco del mondo. Amazon si arricchisce
facendo profitto su corrieri e magazzinieri che lavorano a ritmi
disumani guadagnando poco. Secondo un rapporto di Oxfam gli otto
uomini più ricchi del mondo possiedono la stessa ricchezza del 50%
del pianeta. Le innovazioni tecnologiche vengono usate per
arricchire pochi, mentre i lavoranti non hanno possibilità di avere
un contratto né diritti sindacali. La logica conseguenza del
mercato è lavorare sempre di più e passare sempre meno tempo con la
propria famiglia”.
E in generale, sulla condizione dei
lavoratori e sulla crisi che sta attraversando il mondo, Loach
dichiara: “Credo che la crisi continuerà fino a che non faremo
cambiamenti strutturali. Le grandi aziende puntano a fornire il
miglior sevizio al minor prezzo, e lo fanno tagliando i costi. A
subirne le conseguenze sono i lavoratori, l’anello debole della
catena. Se crediamo nel libero mercato questo porta alle grandi
corporation, al lavoro precario. L’unico modo per combattere questa
situazione è rivalutare l’individuo, la gente comune” cosa che
lui puntualmente e con grande onestà fa in tutti i suoi film.
Ha conquistato il cuore della
stampa (e del pubblico, visto che è in sala in Italia dal 17
maggio) Dolor y Gloria, il nuovo film di
Pedro Almodovar che torna a lavorare con
Antonio Banderas e Penelope Cruz e realizza uno dei migliori film
della sua carriera.
Dalla trasgressione dei primi film,
fino al tono meditabondo delle pellicole della sua produzione più
recente, il regista non ha mai rinunciato a raccontare la grande
vitalità dell’essere umano, anche di quello più sofferente,
derelitto e solitario. Almodovar ha sempre riversato la sua vita
nei suoi film, tanto che è sempre molto difficile capire dove sta
il confine tra l’autobiografismo e la finzione, tra ciò che
appartiene alla sua storia personale e ciò che invece è stato
inventato per l’occasione. E man mano che passa il tempo, la sua
produzione si fa sempre più insistente riflessione sul suo passato,
sulla sua crescita, la sua infanzia e ovviamente sulle donne della
sua vita, in particolare sulla figura materna.
Dolor y Gloria, il film
Biografia, vitalità, ricordo e
dolore sono i fili che si intrecciano in Dolor y
Gloria, in cui Almodovar racconta la storia di Salvador
Mallo, un regista che, arrivato ai 60 anni, ha smesso di realizzare
film, pur continuando ad avere una fortissima pulsione verso il
racconto e una grande esigenza di scrivere. Salvador affronta una
serie di ricongiungimenti, sia fisici sia solo nel suo ricordo: la
sua infanzia negli anni ‘60 quando emigrò con i suoi genitori a
Paterna; il primo desiderio; il suo primo amore da adulto nella
Madrid degli anni ‘80; la scrittura come unica terapia per
dimenticare l’indimenticabile; la precoce scoperta del cinema ed il
senso del vuoto causato dall’impossibilità di continuare a girare
film.
Come molti altri film di Almodovar,
ma in maniera più intima e dolorosa, Dolor y
Gloria racconta della creazione artistica e della
difficoltà di separare la stessa dalla propria vita personale, ma
anzi continuando a nutrire l’una con l’altra e viceversa. Per
Salvador, la gloria è quella passata che lui però sembra non
rimpiangere affatto ma sembra soltanto ricordare con nostalgia, il
dolore invece è quello fisico e spirituale, il corpo che cede, la
mente che soccombe, le emicranie e il bisogno di buio e
silenzio.
È difficile distinguere la realtà
dalla finzione, in una storia che interseca passato e presente,
dentro e fuori, voglia di dimenticare e di ricordare, e un soffuso
costante e struggente senso di malinconia che sbatte contro i
colori vivaci della scenografia, dell’abbigliamento, della messa in
scena almodovariana che, di nuovo, non può evitare di mostrarsi
anche incredibilmente sensuale e vitale, anche di fronte alla
depressione e alla sofferenza più nera.
Sembra chiaro però che Salvador
Mallo è in qualche modo il risultato dell’unione di Almodovar
stesso e di
Antonio Banderas, che scompare completamente nel
personaggio, consegnando la sua migliore interpretazione in
carriera, per alcuni rivelandosi per altri confermandosi un
interprete intenso e delicato, che con questo ruolo è riuscito a
rimettersi completamente in gioco e a dare una nuova vita alla sua
carriera.
All’ottavo film con Pedro, Antonio
ha trovato il modo di mettere da parte la sua fisicità da latin
lover e di mettere a nudo un aspetto intimo e profondo che fino ad
ora non gli era stato possibile mostrare, complice l’età o forse le
esperienze personali (è sopravvissuto a un infarto nel 2017).
Servendosi della ritrovata musa,
Almodovar riscrive la sua storia, ripercorrendola e affidando a
Penelope Cruz, sempre a suo agio davanti alla
macchina da presa del suo amico e regista, il ruolo dell’amata
madre. Dolor y Gloria è l’accettazione dei dolori
del presente, un ritratto di uomo e di artista, in cui il cinema è
la cura e la malattia insieme, con il cuore sempre al passato senza
però soccombere alla malinconia.
In Avengers:
Endgame i viaggi nel tempo attraverso il Regno
Quantico e l’intervento dei Vendicatori in determinati momenti del
passato hanno creato inavvertitamente delle nuove timeline
alternative a quelle che conoscevamo. In questo modo Captain
America si è riunito con Peggy e Loki non è mai tornato ad Asgard
con Thor dopo la battaglia di New York del 2012.
Ma andiamo con ordine e rivediamo di seguito tutte le linee
temporali:
12013: Asgard senza
protezione
Mentre Captain America restituisce il
Mjolnir ad Asgard durante l’ultimo viaggio nel
tempo, c’è ancora una linea temporale in cui il Dio del Tuono non
ha il suo martello per respingere l’attacco di Malekith. In tal
senso Thor potrebbe aver incontrato il suo creatore insieme a sua
madre, o qualcosa che ha aperto la porta all’Elfo Oscuro che è
stato in grado di liberare il potere dell’Etere.
Il successo al botteghino di
Pokémon Detective Pikachu (nonostante la
concorrenza di Avengers: Endgame) ha spinto la
Legendary Pictures ad affrettare i lavori sul sequel, già
confermato lo scorso gennaio, e sull’espansione dell’universo
cinematografico con vari spin-off. Nel frattempo Comicbookmovie
riporta che il secondo capitolo delle avventure di Pikachu sarà il
primo progetto ufficiale a cui ne seguiranno altri probabilmente
dedicati ai personaggi del marchio.
Vi ricordiamo che Detective Pikachu
ha messo a segno numeri incredibili nel weekend di apertura, pari a
54 milioni di dollari solo negli Stati Uniti e a 175 milioni in
tutto il mondo. La prima avventura Pokémon in live-action vede
Ryan Reynolds doppiare il protagonista Pikachu, il
volto iconico del fenomeno globale e uno dei brand di
intrattenimento multigenerazionale più popolari al mondo ed il
franchise multimediale di maggior successo di tutti i tempi.
La storia inizia quando
il geniale detective privato Harry Goodman scompare
misteriosamente, costringendo il figlio di 21 anni Tim a scoprire
cosa sia successo. Ad aiutarlo nelle indagini l’ex compagno Pokémon
di Harry, il Detective Pikachu: un adorabile, esilarante e
saggio super-investigatore che sorprende tutti, persino se stesso.
Avendo scoperto che i due sono equipaggiati per comunicare tra loro
in modo singolare, dato che Tim è l’unico essere umano in grado di
parlare con Pikachu, uniscono le loro forze in un’avventura
elettrizzante per svelare l’intricato mistero. Si trovano così ad
inseguire gli indizi lungo le strade illuminate al neon di Ryme
City, una moderna e disordinata metropoli dove umani e Pokémon
vivono fianco a fianco in un iperrealistico mondo live-action. Qui
incontreranno una serie di Pokémon, scoprendo una trama
sconvolgente che potrebbe distruggere la loro coesistenza pacifica
con gli umani e minacciare l’universo stesso dei Pokémon.
Fanno parte del cast di
Pokémon Detective Pikachu anche Justice Smith
(“Jurassic World: il regno distrutto”) nel ruolo di Tim; Kathryn
Newton (“Lady Bird,” “Big Little Lies – piccole grandi bugie” in
TV) nei panni di Lucy, una giovane reporter alle prese con la
sua prima storia importante; al fianco di Suki Waterhouse
(“Insurgent”), Omar Chaparro (“Overboard”), Chris Geere (“Modern
Family” in TV) e Rita Ora, con il candidato all’Oscar Ken Watanabe
(“Godzilla”, “L’ultimo Samurai”) e Bill Nighy (“Harry Potter e i
Doni della Morte Parte 1”).
A poche settimane dall’inizio delle
riprese di Vedova
Nera, i Marvel Studios non hanno ancora
reso noti i dettagli sulla trama del film, né sull’ambientazione di
questo capitolo solista dedicato alle avventure di Natasha
Romanoff. Le ipotesi che possa trattarsi di un prequel sono state
confermate da Avengers:
Endgame, dove abbiamo visto l’eroina morire prima
dell’atto finale, ma secondo quanto riportato da un rumor il film
potrebbe svolgersi dopo gli eventi di Captain America:
Civil War, e non alla fine degli anni Novanta come
teorizzato negli ultimi mesi.
L’indiscrezione è stata diffusa
durante la convention italiana a cui ha partecipato SebastianStan nei giorni scorsi, tuttavia finché non
arriverà la conferma da parte dei Marvel Studios non può
esserci l’ufficialità.
Di certo questo scenario inatteso
apre un ventaglio di possibilità per la scoperta di quanto accaduto
in seguito agli accordi di Sokovia. Sappiamo che Scott Lang e Clint
Barton hanno patteggiato per gli arresti domiciliari, e che Steve
Rogers, Sam Wilson e Natasha hanno continuato a combattere il
crimine nel mondo sotto copertura; eppure ci sarebbero innumerevoli
trame da esplorare in merito ai Secret Avengers
che il pubblico non ha visto finora nel MCU e che si adatterebbero
bene al tipo di film che Vedova Nera può e deve essere.
Deadline ha confermato che
O-T Fagbenle (Luke Bankole nella pluripremiata
serie The Handmaid’s Tale) è entrato nel cast del
film e interpreterà il principale antagonista.
Le riprese inizieranno a Giugno in
Inghilterra con la regia di Cate Shortland, con la
sceneggiatura riscritta nei mesi scorsi da Ned
Benson (The Disappearance of Eleanor Rigby).
Insieme alla Johansson ci saranno anche David
Harbour, Florence Pugh, e Rachel
Weisz, ma i loro ruoli non sono stati ancora rivelati.
Al momento non ci sono ulteriori
aggiornamenti sul film, né sui personaggi o le direzioni della
trama. Lo studio è invece determinato a mantenere la massima
segretezza intorno al progetto che, come saprete, rivedrà la
Johansson nei panni della spia sovietica Natasha Romanoff
presumibilmente prima degli eventi che l’hanno portata a diventare
un membro del team dei Vendicatori.
Quasi tre ore di montaggio non sono
bastate a inserire nella versione finale tutte le scene girate dai
fratelli Russo per Avengers:
Endgame. A quanto pare i registi si sono visti
costretti a sacrificare del materiale che speriamo di ritrovare
almeno nell’edizione homevideo del film.
Ma quali sono le sequenze tagliate? Scopriamole insieme qui
sotto:
1Lo strano addio fra Thor e
Valchiria
Alla fine di Avengers:
Endgame, Thor lascia la nuova Asgard
nelle mani di Valchiria e si imbarca con i
Guardiani della Galassia verso le prossime avventure.
Originariamente però il loro addio sarebbe stato diverso da quello
visto al cinema: secondo Anthony Russo, Thor si sarebbe approcciato
alla guerriera come per darle un bacio dopo la pacca sulla spalla
di lei.
“Che cosa stai facendo?“, diceva
Valchiria, e Thor “Oh, pensavo che quel gesto…“, e lei
“È una pacca sulla spalla di addio“.
La
scena è stata effettivamente girata, quindi ci sono buone
probabilità che venga inserita negli extra della versione
homevideo.
Dopo aver appreso che Robert
Pattinson e Nicholas
Hoult si contenderanno il ruolo da protagonista in
The Batman, nuovo adattamento delle avventure del
crociato di Gotham al cinema, arrivano ulteriori aggiornamenti sui
villain che potrebbero essere nel film affidato a Matt
Reeves e ora in fase di pre-produzione.
Secondo l’Hollywood Reporter,
Pinguino e Catwoman saranno i
primi due celebri antagonisti di Bruce Wayne nel cinecomic che
riavvierà le sorti del personaggio dopo la versione di Zack Snyder
per il DCEU (la cui corsa è terminata due anni fa con Justice
League).
Voci su una possibile comparsa
dell’alter ego di Oswald Cobblepot erano circolate già la scorsa
estate, con diverse fonti che parlavano anche di una sua incursione
nel cast di Birds of Prey, lo spin-off con
Margot Robbie sulle eroine DC. Ora però sembra che
Pinguino affiancherà effettivamente Batman nel film di Reeves
insieme ad una figura “purrfect” (scrive l’Hollywood Reporter),
gioco di parole che suggerisce senza indugi la presenza di
Catwoman.
Vi ricordiamo che gli stessi villain
erano stati interpretati rispettivamente da Danny
DeVito e Michelle Pfeiffer in
Batman Returns del 1992, mentre Anne
Hathaway ha vestito i panni di Selina Kyle nel terzo
capitolo della trilogia sul cavaliere oscuro di Christopher Nolan.
Sul piccolo schermo i personaggi sono riapparsi nella serie TV
Gotham, grazie alle prove di Robin Lord Taylor e
Camren Bicondova.
Alcune indiscrezioni su The
Batman circolate online hanno ipotizzato un’ambientazione
negli anni Novanta, epoca tornata di moda nel corso dell’ultima
stagione anche grazie al successo di un altro cinecomic,
Captain Marvel dei Marvel Studios,
confermando così l’ipotesi del casting di un attore molto più
giovane di Affleck che possa calarsi nei panni del supereroe.
Per alcuni 1990 fa rima con gli
adattamenti di Batman di Tim
Burton che prepararono le basi per i futuri cinefumetti e
che sono stati fonte di ispirazione per Zack
Snyder per quanto riguarda una scena particolare di
Batman V
Superman: Dawn of Justice(dove il regista aveva
omaggiato lo scontro tra il cavaliere oscuro e Pinguino di
Batman Returns del 1992), per non parlare del
fatto che alcune delle più importanti trame a fumetti sul
personaggio provengono proprio da quel decennio.
Secondo i report, Reeves ha optato
per le storie di Batman: Anno Uno come possibile
punto di riferimento, proprio per conferire al suo film un tono da
genere noir enfatizzando le capacità investigative dell’eroe.
Nessuna notizia ufficiale invece sul casting, con la Warner Bros.
impegnata a trovare il perfetto sostituto di Affleck e altri
interpreti che possano riempire la ricca galleria di villain
prevista.
Vi ricordiamo che per The
Batman è stata già fissata l’uscita in sala il 25
giugno 2021. Durante la promozione della
serie The Passage, di cui è produttore
esecutivo, Revees ha confermato che la pre-produzione del suo film
sul Cavaliere Oscuro è in atto e che sta
lavorando a una nuova riscrittura del copione.
Pedro Almodovar
torna a dirigere Antonio Banderas e
Penelope Cruz nel suo nuovo film, Dolor y
Gloria, presentato a Cannes 2019 e già in
odore di Palma, soprattutto grazie alla straordinaria
interpretazione di Banderas che si cala nei panni di un alter ego
del regista stesso, ma anche di lui attore, alle prese con l’età
che avanza.
Ecco di seguito le foto dalla montée de marches appena prima
della premiere del film:
Dolor y Gloria
racconta una serie di ricongiungimenti di Salvador Mallo, un
regista cinematografico oramai sul viale del tramonto. Alcuni sono
fisici, altri ricordati: la sua infanzia negli anni ‘60 quando
emigrò con i suoi genitori a Paterna, un comune situato nella
provincia di Valencia, in cerca di fortuna; il primo
desiderio; il suo primo amore da adulto nella Madrid degli anni
‘80; il dolore della rottura di questo amore quando era ancora vivo
e palpitante; la scrittura come unica terapia per dimenticare
l’indimenticabile; la precoce scoperta del cinema ed il senso del
vuoto, l’incommensurabile vuoto causato dall’impossibilità di
continuare a girare film. “Dolor y Gloria” parla della creazione
artistica, della difficoltà di separarla dalla propria vita e dalle
passioni che le danno significato e speranza. Nel recupero del suo
passato, Salvador sente l’urgente necessità di narrarlo, e in quel
bisogno, trova anche la sua salvezza.
The Staggering Girl
diretto da Luca Guadagnino sarà presentato alla
72ª edizione del Festival di Cannes nella sezione La
Quinzaine des Réalisateurs. Il film nasce dal dialogo
artistico tra il regista Luca Guadagnino e il direttore creativo
della Maison Valentino, Pierpaolo Piccioli: insieme realizzano un
esperimento narrativo che unisce il linguaggio cinematografico e
quello della Couture raccontando i capitoli della vita di una donna
attraverso il rapporto madre-figlia. Il cast d’eccezione,
fortemente voluto da Luca Guadagnino e
Pierpaolo Piccioli, dà vita ad un insieme di
personaggi complessi interpretati da Julianne Moore, Kyle
MacLachlan, Marthe Keller, Kiki Layne, Mia Goth e
Alba Rohrwacher.
Muovendosi tra Roma e New York, il film racconta una storia
intima, fatta di simboli, gesti, immagini, la forza del legame di
sangue e di genere tra due donne giunte alla resa dei conti con
loro stesse. Le creazioni Alta Moda Valentino percorrono la
pellicola, partecipando alla sua atmosfera onirica e amplificando,
con una sofisticata sotto-trama visiva, la brillante sceneggiatura
di Michael Mitnick, autore di serie cult come Vinyl e del
film The Current War. The Staggering Girl è
caratterizzato dalla fotografia di Sayombhu Mudkeeprom e dalle
musiche originali composte dal Premio Oscar® Ryuichi Sakamoto. Il
film è prodotto da Valentino SpA, Ibla Film, Frenesy Film, Rai
Cinema e in collaborazione con Rai Com. Rai Cinema, da sempre
attenta ad un cinema che riflette l’identità culturale del nostro
Paese, non poteva non essere al fianco di questo progetto.
“Una storia può essere narrata in infiniti modi e questo è stato
il nostro – spiega Pierpaolo Piccioli – Ognuno di noi ha lavorato a
un’idea osservandola dai rispettivi punti di vista, incoraggiati da
un’affinità estetica e di intenti che non è venuta mai meno. Luca è
un interprete sottile, che sa adattare alla realtà circostante una
sensibilità ironica e gentile al tempo stesso. Abbiamo condiviso la
nostra quotidianità lavorativa, io mostrandogli la collezione di
Alta Moda che stavo disegnando, lui offrendomi la lente della sua
cinepresa per osservare la scena da un’altra prospettiva. Proprio
come la collezione, il film è sospeso nel Kairos, il momento
opportuno che la persona ha per riflettere, andando avanti e
indietro nel suo tempo interiore. Questo film è un racconto
apparentemente slegato dallo scorrere del tempo cronologico, un
flusso di coscienza attraverso immagini ed emozioni. Il Cinema,
come l’Alta Moda, consente una dilatazione del tempo nell’eterno, è
pura magia”.
“L’estate scorsa ho avuto il privilegio di incontrare Pierpaolo
Piccioli a Roma nel quartier generale di Valentino a Palazzo
Mignanelli – spiega Luca Guadagnino – Pierpaolo, di cui ammiro da
lungo tempo la strepitosa arte di couturier, mi ha portato
attraverso l’atelier dell’Alta Moda. La collezione Autunno/Inverno
2018-19 stava nascendo attraverso il lavoro instancabile e sublime
delle Premiere, delle sarte e dei sarti. In quell’incontro con
Pierpaolo decidemmo che avremmo tentato qualcosa di mai provato,
fare un film basato su una collezione di Alta Moda. La profondità
artistica ed emotiva, la capacità trasfigurante del lavoro di
Pierpaolo Piccioli sono stati il ‘testo’, come un grande romanzo,
sul quale basare il copione di questo film sognato. Da questo
incontro e dalla triangolazione tra Pierpaolo Piccioli, il
brillante sceneggiatore Michael Mitnick e me nasce questo short
film”.
È stata annunciato il programma
completo della quinta edizione dell’ARF! Festival, il festival del
fumetto a Roma che si svolgerà dal 24 al 26 maggio prossimo al
Mattatoio di Roma, ex Macro Testaccio.
Si comincia con l’ARF!
Kids, il luogo dedicato all’immaginario dei bambini (a
ingresso gratuito fino ai 12 anni) con un ricco programma di
laboratori creativi curati da alcuni dei più rinomati illustratori
italiani, letture ad alta voce, disegni, giochi e tanti libri a
disposizione di tutti.
Spazio Baby 0-3: La
novità di ARF!5 è un intero angolo allestito in maniera stabile con
uno spazio allattamento e gioco per i più piccolini (0-12 mesi);
per i più grandicelli 2-3 anni sono a disposizione giochi di logica
e incastri durante le giornate di sabato 25 e domenica 26 dalle 10
alle 20. Gestito da Il Giardino della
Talpa negozio dedicato ai bambini e alle
famiglie nei pressi della storica Piazza Testaccio.
Tavoli Gioco:
Tavoli gioco per tutti senza l’obbligo di prenotazione, nelle
giornate di sabato 25 e domenica 26, dalle 10 alle 20, grazie alla
collaborazione con Djeco, azienda europea
specializzata in giochi e giocattoli per l’infanzia e con
Fatatrac, casa editrice tra l’altro, di
Activity book e libri gioco.
KIKI Face Painter:
A colorare l’atmosfera durante i tre giorni del Festival ci sarà
come sempre KIKI Face Painter
professionista del trucco per bambini.
La
libreria: Anche quest’anno sarà presente un ampio
spazio dedicato alle Libreria dei bambini gestita da
Giufà che offre una selezione dei titoli
a fumetti e illustrati destinati alle lettrici e ai lettori dei 3
ai 12 anni.
Per la prima volta il «Festival di
storie, segni e disegni» ospita la MangARF!, uno
spazio interamente dedicato al fumetto
giapponese con la presenza
di editori, accademie e
un bookshop specializzato, un mare di libri e
volumetti che aspettano solo di essere sfogliati, due workshop
gratuiti al giorno, «Colorare con Copic»,
insieme alla Lucca Manga School (età
minima: 14 anni) e una
bellissima mostra per ripercorrere
insieme un viaggio lungo trent’anni: la storia editoriale del manga
in Italia!
Tra gli ospiti troveremo, tra gli
altri, J-Pop con tutte le sue novità,
l’Associazione Culturale Leiji Matsumoto (con il
nuovissimo libro dedicato all’acclamato Maestro giapponese celebre
per il suo Capitan Harlock), il corner di
Mangasenpai con le sue autrici in dedica e
firmacopie e un bookshop con tutti i titoli di Planet
Manga!
E ancora, la
mostra“つづく– Trent’anni di manga in
Italia”. Dai cartoni animati alle edicole,
dalla Goldrake Generation alla Golden Age degli
anni ’90, dal manga d’autore alle prospettive future: sono gli
argomenti trattati dall’esposizione a cura di Susanna Scrivo. Un
viaggio iniziato nel 1989 che ha cambiato radicalmente la
percezione del termine Fumetto nel nostro Paese.
Sempre in collaborazione con Lucca
Manga School, ARF! organizza inoltre una super Masterclass con
Yoshiyasu Tamura venerdì 24 dalle ore 10 alle
13 dal titolo “KOMAWARI. L’uso della vignetta nella
narrazione del manga”. Una parte del successo del
manga nel mondo è anche dovuto alla facilità di lettura.
La Masterclass spiegherà come usare
i diversi elementi per guidare l’occhio del lettore all’interno
della pagina. Inoltre verrà spiegato come rendere scorrevole la
lettura di un fumetto, approfondito l’uso delle vignette, dei
balloon oltre alla direzione dell’azione del personaggio per far sì
che il lettore si immerga appieno nella storia.
Tre Lectio
Magistralis, tre appuntamenti in tre giorni, tre
imperdibili performance di disegno dal vivo, tre pietre miliari
della storia del fumetto.
I grandi protagonisti del fumetto
d’autore si racconteranno mentre disegneranno dal vivo nella Sala
Talk, rispettivamente nelle giornate di venerdì 24, sabato 25 e
domenica 26 maggio dalle 14.30 alle 16.00.
Ogni lectio presenterà le medesime
condizioni: un maestro, un foglio bianco ed un
interlocutore. L’ospite sarà messo a suo agio, con gli
strumenti del mestiere a sua disposizione e in un clima colloquiale
instaurerà una conversazione con un moderatore d’eccezione, come se
discutessero senza altri attorno, realizzando nel frattempo
un’opera in tempo reale.
José Muñoz
(la leggenda del fumetto argentino, il creatore di Alack Sinner e
altri indimenticabili personaggi), Angelo
Stano (Il disegnatore di Dylan Dog, l’autore
dell’indimenticabile numero 1 ma anche degli albi più amati della
serie dell’indagatore dell’Incubo), Riccardo
Mannelli (fumettista, illustratore, pittore,
disegnatore satirico, insegnante, un Maestro dell’arte visiva al
servizio di un talento che ha pochi eguali nel mondo della nona
arte), accompagnati rispettivamente
da Laura Scarpa, Paulonia Zumo
e Adriano Ercolani.
Nessuno sa di cosa parleranno o cosa
disegneranno, non c’è nessun canovaccio o domanda concordata. Un
flusso di coscienza improvviso che solo un grande maestro può
concepire, come accadeva un tempo (basti pensare alle esperienze
di Hugo Pratt ed Andrea
Pazienza che hanno raccontato loro stessi davanti al
foglio da disegno), un dono unico e irripetibile per gli spettatori
della Sala Talk dell’ARF! Festival.
Per quanto riguarda invece le mostre
di ARF! 5, il festival ospiterà quest’anno TEX. 70 ANNI
DI UN MITO, aperta dal 24 maggio 2019 al 14 luglio
2019 al MATTATOIO – TESTACCIO. Curata da Gianni Bono, storico
e studioso del fumetto italiano, in collaborazione con la redazione
di Sergio Bonelli Editore, COMICON e ARF! Festival, la mostra
racconterà come Tex sia riuscito ad entrare a far parte delle
abitudini di lettura degli italiani trasformandosi negli anni in un
vero e proprio fenomeno di costume.
Un viaggio per ripercorrere l’epopea
di Tex Willer, che è anche quella della Frontiera americana, dalla
sua creazione ai giorni nostri, attraversando gli eventi e i
personaggi della serie e gli straordinari artisti della matita e
del pennello che hanno reso Tex il mito che noi tutti
conosciamo.
Oltre ai 70 anni di Tex, le Mostre
del festival per l’edizione 2019 sono:
ALL STAR QUITELY –
Per la prima volta assoluta in Italia, Frank
Quitely presenta all’ARF! la sua
mostra in esclusiva nazionale. Dal 24 al 26 maggio
2019 al Mattatoio di Roma.
PALUMB-O-RAMA
–L’autore del manifesto della quinta
edizione di ARF!, capace di lasciare il suo personalissimo segno
ovunque, sarà in mostra dal 24 al 26 maggio al Mattatoio di
Testaccio per la quinta edizione del Festival. L’autore inconterà
il pubblico del festival e sarà presente in ARFist Alley.
LA NOSTALGIA DEI LUOGHI MAI
VISTI – Da Petra
Chérie a Titanic, da L’uomo del
Tanganyka a Roy Mann passando
per Bab-el-Mandeb, Mermoz, Marcel
Labrume, gli Air Mail e Rosso
Stenton, fino ad arrivare a svelare l’incredibile serie di
tavole inedite, mai viste prima, della sua meravigliosa, ultima
storia. Tutto il genio, l’estro, il talento
di Attilio Micheluzzi, in mostra
all’ARF! La mostra è realizzata in
collaborazione con Fox Gallery.
ARF! & Instituto Cervantes
Roma presentano“BEYOND
BLACKSAD”L’arte di Juanjo Guarnido in mostra a
Roma! 16 maggio/29 giugno 2019. Animatore, illustratore e
fumettista, da Granada agli USA – dove oltre alla collaborazione
con la Marvel è stato tra gli animatori di
punta del Tarzan della Disney – fino alla vera e
propria consacrazione in Francia, Juanjo Guarnido
torna in Italia con una mostra su BlackSad, suo
personaggio più celebre, e una straordinaria
anteprima: le tavole originali del suo nuovo lavoro ancora
inedito in Europa! Le tavole di Guarnido saranno in mostra nella
Sala Dalì dell’Instituto
Cervantes di Roma (Piazza Navona), dal 16 maggio, dal
mercoledì al sabato, dalle 16.00 alle 20.00 con ingresso
gratuito.
CORPI PERICOLOSI
Maneggiare con cautela – L’autoproduzione torna in prima
linea all’ARF! Festival, e presenta quest’anno diverse novità tra
cui una mostra molto speciale: una doppia
personale che introduce al grande pubblico due
artisti che operano nel mondo delle produzioni indipendenti e che,
al primo impatto, possono apparire molto diversi.
Uno sguardo più approfondito alle opere di Gloria
Pizzilli e Tommy Gun rivela
tuttavia che, al di sotto delle innegabili differenze, i due autori
dialogano tanto sul piano visionario quanto nello studio del corpo
e delle anatomie dei loro personaggi.
L’attenzione che entrambi dedicano al disegno del corpo non è volta
alla ricerca di un’armonia delle forme né esclusivamente a una
rappresentazione realistica dell’anatomia umana; piuttosto, è
orientata a esplorare le infinite possibilità che il movimento e
l’immaginazione imprimono nella “materia corporea”. Nei disegni di
Gloria e Tommy i personaggi ruotano le anche, contorcono gli arti,
svuotano il viso spingendosi fino a oltrepassare i limiti imposti
dalla natura per esplodere, fluttuare nel vuoto, trasformarsi in
qualcosa di diverso dall’originario. Assenza di
gravità, deflagrazione, entropia, caos sono temi che,
seppure con risultati nettamente diversi, soggiacciono al segno dei
due artisti accomunati anche da un virtuosismo stilistico a tratti
ineccepibile. Ulteriore punto di raccordo delle opere di Gloria
Pizzilli e Tommy Gun è la sensazione di perdizione, a tratti quasi
di violenza, che lo spettatore ne ricava. Non siamo di fronte a
storie e disegni che vogliono rassicurare chi le guarda; al
contrario, la scompostezza delle forme proposte è studiata per far
accendere un campanello di allarme e dare un segnale di pericolo.
Le donne di Gloria sono bellissime e fatali: indossano abiti fatti
di teschi e lame, si trasformano in tentacoli, giocano ad
avvinghiare gli amanti con capelli simili a liane. Altrettanto
pericolose sono le composizioni di Tommy che ricreano un universo
di ispirazione marcatamente underground fatto di occhi vuoti, arti
monchi e volti prosciugati come il guscio di un’arachide.
La mostra CORPI
PERICOLOSI – Maneggiare con cautela è realizzata in
collaborazione con Fox
Gallery & Press Up.
I VINCITORI DEL PREMIO
BARTOLI 2018
Dal quel triste 5 ottobre del 2014
in cui ci ha lasciati, molti hanno ricordato e omaggiato le grandi
doti di Lorenzo Bartoli come
sceneggiatore di fumetti.
Sarebbe d’altronde impossibile
dimenticare la penna felice che ha dato vita a tanti memorabili
personaggi del fumetto italiano, da quell’Arthur
King, filibustiere romantico e sognante come il suo
sceneggiatore, fino a John Doe, O’
Malamente, Il dono di
Eric, Detective Dante e tutti
quei Cuori da Bar di cui ha narrato, come diceva
lui: “le piccole storie, l’epica delle briciole”.
Un’epica che si è riverberata anche
nelle opere di Akira Mishima e Franklin Douglas Erwin, il primo suo
pseudonimo nei romanzi Bambole e Overminder, il
secondo nel poetico pamphlet “Lontre in amore”.
Ma Lorenzo non era solo un grande
raccontatore di storie, era soprattutto un eccellente
scopritore di talenti e la lista dei giovani autori
che ha lanciato è sterminata. Buona parte di loro, oggi,
lavora ai massimi livelli del fumetto italiano e tutti concordano
nel riconoscere in Lorenzo il mentore che li ha scoperti e messi
sotto i riflettori.
Per questo motivo è nato il
PREMIO LORENZO BARTOLI ALLA MIGLIOR PROMESSA DEL FUMETTO
ITALIANO che ARF! si onora di assegnare in suo nome e che
punta, di anno in anno, a riconoscere il talento di una giovane
promessa del fumetto italiano.
Per gli orari e il programma completo di ARF! 5 consulta il
sito ufficiale.
È finalmente online il primo
trailer ufficiale di Un Giorno di Pioggia a New York (A Rainy Day
in New York), il nuovo film scritto e diretto da Woody
Allen che arriverà nelle nostre sale il prossimo 3
ottobre grazie a Lucky Red.
Nel cast figurano Jude
Law, Elle Fanning, Timothée
Chalamet, Selena Gomez,
LievSchreiber, Suki
Waterhouse e Kelly Rohrbach.
Vi ricordiamo che il regista ha da
poco presentato una causa contro Amazon
Studios (che ha scelto di non distribuire la pellicola tradendo
così gli accordi iniziali). Nel
frattempo Allen tornerà ufficialmente sul set
per girare il suo prossimo lavoro in Spagna, finanziato dalla
compagnia di produzione Mediapro che aveva già collaborato sui
progetti di Vicky Cristina Barcelona e
Midnight In Paris.
È l’evento glamour di quest’anno,
sul tappeto rosso del Festival di Cannes, e a
presentarlo al mondo, nella serata del 16 maggio, è intervenuto
proprio il protagonista del film, Elton John.
Parliamo di Rocketman,
il biopic musical dedicato alla vita della rockstar inglese,
interpretato da Taron Egerton e diretto da Dexter
Fletcher, che lo scorso anno è stato partecipe del travolgente
successo di Bohemian Rhapsody, altro film musicale
silla vita di Freddie Mercury. E sembra proprio
inevitabile quindi partire da qui e dal paragone con il film che ha
visto Rami Malek conquistare un premio Oscar per
la migliore interpretazione.
Ma Taron Egerton
non sembra troppo felice di parlarne, e si libera rapidamente della
curiosità altrui: “Sono orgoglioso di essere citato anche solo
nella stessa frase con Rami Malek. Lo conosco un po’, so
quanto sia talentuoso e preparato. Il nostro film però è molto
diverso, è un musical vero e proprio e c’era bisogno di qualcuno
che cantasse in prima persona le canzoni.”
Allo stesso modo è stato
inevitabile parlare della calorosa accoglienza che il pubblico
della Salle Lumière ha riservato al film, alla fine della prima
proiezione mondiale: “È stato uno dei giorni migliori della mia
vita. Sono orgoglioso di aver partecipato a questo film. Ci siamo
presi delle libertà rispetto alla verità, per esempio le canzoni
non sono in ordine cronologico, ma non non abbiamo tradito la
verità emotiva della vita e dei personaggi centrali per Elton
John. È un fenomeno globale e la sua musica significa molto
per tante persone, ha accompagnato momenti cruciali nella vita di
ognuno di noi. È stata una grande responsabilità, ne sentivo il
peso, poi l’ho conosciuto, ho avuto occasione di trascorrere alcuni
giorni con un uomo gentile e generoso, parlando di tutto con lui,
perché risponde a tutto, ve lo posso assicurare.”
Fletcher ha invece spiegato che la
forza del film è senz’altro l’onesta con cui Elton ha accompagnato
il progetto: “Una delle sue forze è il non aver mai nascosto il
suo appetito smodato per la vita. Non ci ha vietato di sondare
luoghi specifici della sua vita o del suo carattere, ci ha permesso
di giocare e raccontare la nostra versione della sua storia. In
questo, tutti i personaggi sono stati importanti, dalla madre
interpretata da Bryce Dallas Howard, al grande amore e
manager John Reid (Richard Madden).”
Taron Egerton ha
cantato dal vivo ogni brano che ascoltiamo nel film, una scelta
che, a suo dire, gli ha permesso una immedesimazione completa e
autentica con il personaggio: “È stato un privilegio
fantastico, la musica così cantata, a cuore aperto, permette una
particolare immedesimazione. Elton è stato generoso, ma senza mai
entrare nei dettagli della sceneggiatura, che è stata comunque
scritta a partire da lunghe conversazioni con lui, sempre
disponibile e comprensivo.”
Rocketman
arriverà il 29 maggio nelle sale italiane e, forte del successo che
sta riscuotendo sulla croisette, potrebbe essere un buon successo
di pubblico.
Atteso e temuto,
Rocketman ha fatto bella mostra di sé al 72°
Festival di Cannes. Il film, accompagnato dal regista
Dexter Fletcher e da entrambi i suoi protagonisti,
Taron Egerton interprete e Elton
John personaggio, hanno ricevuto i caldi applausi di una
platea commossa, alla fine della proiezione di gala, applausi
guadagnati grazie a un musical che si trasforma in dramma e biopic,
con passaggi fluidi da un momento all’altro, seguendo soltanto il
filo delle emozioni.
Il racconto è infatti quello del
giovane Reginald Kenneth Dwight e del suo cammino
che lo ha portato a diventare Elton Hercules John,
la rockstar amata in tutto il mondo, con una vita travolgente,
immersa negli eccessi e nei vizi. La parabola narrativa è
abbastanza lineare: la scoperta del talento, lo studio, i primi
successi, i primi eccessi, la grandezza e la caduta, poi la
riabilitazione. Tutta questo però raccontato attraverso le canzoni
di Elton John (cantate davvero da Egerton), che
non sono utilizzate secondo un ordine cronologico, legate quindi al
successo che hanno rappresentato nella vita dell’artista, ma
accompagnano i momenti biografici in base al contenuto e al
racconto che ogni volta propongono.
Il film si apre su una seduta di
terapia di gruppo, a cui partecipa un Elton provato, già all’apice
del successo, ma perso in se stesso e nei suoi stessi vizi. Il
cantate gioca a carte scoparte: “Sono un alcolista, un drogato,
un sesso dipendente”, e da questa confessione e ammissione
scendiamo tutti insieme lungo il viale dei ricordi dove, un piccolo
Reggie già vuole fuggire dalla normalità, essere strano, essere
altro, trovare una sua voce e quell’affetto che non ha mai trovato
nelle mura domestiche.
Il ritratto, dunque, è quello di
una figura isolata, che continua a cercare appigli, figure di
riferimento che possano attenuare la sua solitudine e tenerlo in
qualche modo ancorato al suolo, dal quale i suoi vizi e le sue
scelte di vita tendono vertiginosamente ad allontanarlo. Su tutti,
sembra siano state fondamentali le figure di John
Reid, manager e per un breve periodo amante di John, e
ovviamente Bernie Taupin, l’autore di tutti i
testi più belli delle sue canzoni.
Dal canto suo, Dexter
Fletcher riesce a proporre diverse intuizioni di regia,
sfruttando anche le coreografie dei numeri musicali, momenti che
impreziosiscono il film e ne fanno un musical perfettamente
riuscito. Bellissima, ad esempio, è la sequenza accompagnata
proprio dal brano che dà il titolo al film, Rocketman, che
riesce a trasmettere con potenza l’altalena tra la vita e la morte,
tra l’altezza artistica e la bassezza umana, che Elton
John ha dovuto attraversare all’apice del successo.
E come Elton John
è sempre stato il one man show della sua vita, tra alti e bassi,
luci e ombre, così Taron Egerton è il cuore del
film, il centro di ogni emozione e il veicolo attraverso cui la
storia arriva al pubblico. Non era facile, ma il giovane interprete
di Kingsman ha consegnato alla storia una
performance incredibile, sia nelle interpretazioni delle canzoni,
che nei momenti più drammatici e delicati, che in quelli esuberanti
ed eccentrici, tipici della vita e della carriera della rockstar
inglese.
Rocketman è un’ode
all’artista, una preghiera all’uomo, un musical autentico che non
ha paura di mostrare le ombre buie del passato del protagonista, un
racconto che si esaurisce nella redenzione e nelle seconde
possibilità che decidiamo di regalarci, che siamo persone normali,
o, come Elton, eccezionali.
“Sorry we missed
you” è una tipica frase riportata sui bigliettini che
i fattori rilasciano nel momento in cui, alla consegna del pacco,
non trovano il destinatario in casa. All’interno del nuovo film di
Ken Loach, intitolato appunto
Sorry We Missed You, e in Concorso al Festival di Cannes 2019, questa
formula assume significati ben più profondi, primo tra tutti quello
di una mancanza, in questo caso genitoriale, che può portare a
gravi conseguenze. Dopo aver vinto la Palma d’Oro tre anni fa con
I, Daniel
Blake Loach torna a parlare della classe lavoratrice
con un film sincero e di forte impatto, approfondendo stavolta la
dura realtà che investe chi svolge il lavoro di fattorino.
Difficoltà che si riversano, di conseguenza, anche sui relativi
famigliari.
Il film segue la
storia di Ricky (Kris Hitchen) Abby (Debbie
Honeywood) e i loro due figli Seb e Liza. Una famiglia
particolarmente unita, messa in crisi solamente dalle difficili
condizioni economiche. Dopo aver provato ogni tipo di lavoro, Ricky
decide di puntare tutto sull’acquisto di un van, intraprendendo la
carriera di fattorino freelance. Benché questa possa rivelarsi una
buona soluzione ai loro problemi, il nuovo lavoro sembra tuttavia
sottoporre la famiglia a nuove e inaspettate crisi.
Si sente spesso
parlare delle difficoltà lavorative dei fattorini, ma a volte non
si immagina quanto profondamente le loro vite siano influenzate dal
sistema capitalista che li governa. Ken Loach cerca con questo film
di scavare oltre le polemiche e i dibattiti, andando alla scoperta
di ciò che realmente significa lavorare per più di dodici ore al
giorno, con la preoccupazione della puntualità e della
responsabilità che si ha sulle proprie consegne.
Il regista e lo
sceneggiatore Paul Laverty
arrivano a dare una risposta a queste e altre domande partendo da
un’immagine semplice ma significativa: una famiglia che, pur
vivendo sotto lo stesso piccolo tetto, si ritrova insieme con
difficoltà, i cui membri sono costantemente divisi durante il
giorno da impegni che li portano a stare lontani gli uni dagli
altri. È dunque chiaro il messaggio che Loach vuole trasmettere, e
per farlo usa il suo consolidato stile fatto di grande imparzialità
e controllo.
Non occorre
sottolineare con particolari scelte di regia la difficoltà di
queste situazioni, esse stesse raccontano già abbastanza a
riguardo. Senza calcare la mano, Loach riesce a dare la giusta
importanza alla storia, trasmettendo con genuinità le
emozioni che desidera far provare allo spettatore. Un ritratto
lucido di una realtà a noi vicinissima, dove non manca una certa
comicità, la quale con l’avanzare del film sembra però cedere
sempre più il passo ad un pessimismo che non concede grandi
speranze.
Loach sembra
raccontare sempre la stessa storia, e il confronto con I, Daniel Blake arriva inevitabile, eppure
arricchisce questo racconto di nuove sfumature, stavolta
concentrandosi non tanto sul rapporto tra l’uomo e il lavoro quanto
appunto sui membri di una famiglia. I quattro protagonisti si
affermano ognuno come un mondo a sé stante da poter esplorare,
tutti legati dalle medesime radici e posti dinanzi allo stesso
conflitto. Sopra le loro teste grava una realtà che sembra
schiacciarli ogni volta di più, costringendo i genitori a divenire
assenti, a poter adempiere ai loro doveri famigliari
prevalentemente tramite l’utilizzo del cellulare, e i figli di
conseguenza sembrano smarrire la strada, acquisendo non meno
nevrosi dei loro padri.
Il nuovo trailer di
Spider-Man: Far
From Home ha rivelato che lo schiocco avvenuto in
Endgame ha
“squarciato” la dimensione spazio tempo creando una realtà
alternativa, la stessa da cui proviene Quentin Beck aka Mysterio. A
quanto pare quindi esiste un altro pianeta speculare al nostro che
conferma l’esistenza di un Multiverso, concetto
fin troppo familiare ai fan dei fumetti.
A tal proposito stanno circolando
diverse teorie, e queste sono sicuramente le più intriganti:
1Mysterio è lo “Spider-Man” del suo
universo
Sempre nel secondo trailer di
Spider-Man: Far From Home, Quentin Beck sostiene
di provenire da un’altra Terra in cui non esiste Spider-Man e che
sicuramente avrebbe avuto bisogno di un eroe come lui. Da qui i fan
hanno teorizzato che Mysterio sia in realtà l’Uomo Ragno della sua
linea temporale.
Saprete sicuramente che, durante le riprese di
Spider-Man 2 Tobey Maguire subì un infortunio
abbastanza grave tale da spingere la produzione a considerare un
altro attore per sostituirlo. All’epoca il nome individuato fu
quello di Jake Gyllenhaal…insomma, se questa teoria fosse fondata,
sarebbe un modo divertente per l’attore di interpretare
Spidey!
Quando Martin Starr
è comparso in Spider-Man: Homecoming nei panni
dell’insegnante di scienze a capo del Decathlon accademico in molti
si sono chiesti se potesse trattarsi dello stesso personaggio visto
in L’incredibile Hulk del 2009, all’epoca
accreditato semplicemente con “Nerd del computer” e al quale Bruce
Banner (Edward Norton) consegnava una pizza a
domicilio. Ebbene questa teoria è stata appena confermata da
Kevin Feige in persona durante il recente Q&A
con i fan lanciato dal forum Reddit.
E a chi chiedeva se l’attore avesse
interpretato lo stesso ruolo sia nello standalone su Hulk, sia
nelle prime avventure in solitario di Peter Parker nel MCU, il
presidente dei Marvel Studios ha risposto con un
diretto “Si“.
Dunque è vero, ed è possibile che
nel momento in cui ha incontrato Banner, Roger
Harrington era ancora uno studente liceale che finirà col
diventare un professore della Midtown School of Science and
Technology, proprio l’istituto dove si sta formando Spider-Man.
Nei fumetti dell’Incredibile Hulk il
personaggio di Martin Starr è in realtà Amadeus
Cho, giovane americano di origini asiatiche tra gli
individui più intelligenti del pianeta. Ovviamente, come avrete
notato, nel MCU questa parte del racconto è stata evitata e ripresa
tramite il cameo della madre di Amadeus, Helen, in
Avengers: Age of Ultron.
Starr tornerà presto sul grande
schermo in Spider-Man: Far From Home, il sequel diretto ancora una
volta da Jon Watts e in arrivo nelle sale il2 Luglio (invece che il
5). Confermati nel cast del film il
protagonista Tom
Holland nei panni di Peter
Parker, Marisa Tomei in quelli di zia
May e Zendaya in quelli di
Michelle, Samuel L. Jackson in quelli di
Nick Fury e Cobie Smulders in quelli
di Maria Hill.
Le riprese del film sono durate
circa tre mesi, e nella maggior parte delle foto circolate in rete
abbiamo visto Peter Parker alle prese con Michelle. Naturalmente il
film vedrà tornare anche Flash Thompson (Tony
Revolori) e Ned Leeds (Jacob Batalon),
gli altri compagni di scuola di Peter. Ma cosa conosciamo realmente
della trama e quali teorie circolano intorno al nuovo titolo dei
Marvel Studios?
Per quanto riguarda le novità del
sequel, la tuta di metallo di Peter dovrebbe essere una
versione rimodellata di quella di Iron
Spider. vista in Avengers: Infinity
War. Questa nuova tuta, prevede anche una nuova maschera,
con degli occhiali al posto delle orbite bianche, come da
tradizione, questo perché è ovvio che il personaggio abbia bisogno
di una nuova maschera dopo che la sua precedente è andata distrutta
su Titano, durante il confronto con Thanos e prima della sua
disintegrazione.
Michelle Rodriguez
sale in cattedra e conferma, durante il suo intervento al Bloomberg
Future of Equality Summit di Londra, la sua presenza in
Fast and Furious 9 spiegando che la scelta è
dipesa da un fattore specifico: ottenere finalmente una voce
femminile nel team di sceneggiatori e cambiare il corso di un
franchise che finora aveva offerto al pubblico una prospettiva
sugli eventi e sul racconto prettamente maschile.
L’attrice, che interpreta Letty
Ortiz dal 2001, anno di uscita del primo film della saga
automobilistica con Vin Diesel, si era già
espressa a favore dei diritti e sulla questione delle disparità
lavorative a Hollywood, pubblicando nel 2017 un post su Instagram
in cui scrisse che avrebbe lasciato Fast and Furious nel caso in
cui i produttori non avessero mostrato “un certo amore verso le
donne nel nuovo capitolo”.
Questa la dichiarazione della Rodriguez sul palco dell’evento
tenutosi ieri:
“Non posso non pensare
all’incredibile esposizione che questo franchise ha nel mondo. O al
modo in cui questo franchise riesce a raggiungere le persone sparse
in tutto il mondo. Credo che questo sia un privilegio e che per
questo motivo abbiamo l’obbligo di evolverci insieme ai cambiamenti
del nostro tempo […] Sono troppo vecchia per accettare lavori solo
per soldi, e ora che sono in una situazione economicamente
vantaggiosa non posso più giustificare le ineguaglianze in questo
settore. Come il fatto che in Fast and Furious non ci fossero voci
femminili abbastanza forti…sono nel franchise da sedici anni e non
mi ricordo una singola scena di dialogo con una mia collega donna.
È patetico. Quindi si, sarei tornata nel prossimo film soltanto se
la produzione avesse aggiunto una voce femminile, e così è
stato.”
Vi ricordiamo che la release di
Fast and Furious 9 è stata spostata al 22
maggio 2020, con le riprese che dovrebbero iniziare a
breve con il cast originale e il ritorno dietro la macchina da
presa di Justin Lin.
Non sono state fornite spiegazioni
ufficiali che hanno motivato questa scelta, ma è evidente che nei
piani della Universal Pictures ci sia la volontà di garantire alla
saga il miglior posizionamento al box office possibile in una
stagione già ricchissima di blockbuster molto attesi.
Per quanto riguarda il film, tempo
fa era stato lo stesso Vin Disel a spiegare che
Lin sarebbe tornato anche per la regia dell’episodio 10, cosa che
faceva pensare che i due episodi venissero girati in contemporanea.
Il rumor non è stato confermato e, visti i numerosi impegni degli
attori, non sembra un’ipotesi facilmente realizzabile.
Si aspettano nel frattempo gli
aggiornamenti sul cast che, oltre ai soliti nomi, dovrebbe
presentare anche delle new entry ed un nuovo villan.
A quanto pare Robert
Pattinson non sarebbe l’unico nome in lizza per vestire i
panni del crociato di Gotham in The Batman, nuovo
adattamento che riavvierà le avventure del supereroe DC al cinema
con la regia di Matt Reeves: dopo il report di Variety,
secondo cui la star di Twilight è il candidato numero uno della
Warner Bros e si troverebbe ora in trattative con lo studio, è
Deadline a spiegare che anche Nicholas Hoult è
nella shortlist.
Mentre si aspettano aggiornamenti
ufficiali sul casting vi ricordiamo che Hoult sarà presto al cinema
con Dark Phoenix, capitolo conclusivo della saga
degli X-Men (che molto probabilmente passeranno nelle mani dei
Marvel Studios dopo la recente
fusione tra Disney e Fox), e in Tolkien, biopic
che ripercorre gli anni giovanili e meno conosciuti della vita
dello scrittore e filologo autore de Il Signore degli Anelli e Lo
Hobbit.
Alcune indiscrezioni su The
Batman circolate online hanno ipotizzato un’ambientazione
negli anni Novanta, epoca tornata di moda nel corso dell’ultima
stagione anche grazie al successo di un altro cinecomic,
Captain Marvel dei Marvel Studios, confermando
così l’ipotesi del casting di un attore molto più giovane di
Affleck che possa calarsi nei panni del supereroe.
Per alcuni 1990 fa rima con gli
adattamenti di Batman di Tim
Burton che prepararono le basi per i futuri cinefumetti e
che sono stati fonte di ispirazione per Zack
Snyder per quanto riguarda una scena particolare di
Batman V
Superman: Dawn of Justice(dove il regista aveva
omaggiato lo scontro tra il cavaliere oscuro e Pinguino di
Batman Returns del 1992), per non parlare del
fatto che alcune delle più importanti trame a fumetti sul
personaggio provengono proprio da quel decennio.
Secondo i report, Reeves ha optato
per le storie di Batman: Anno Uno come possibile
punto di riferimento, proprio per conferire al suo film un tono da
genere noir enfatizzando le capacità investigative dell’eroe.
Nessuna notizia ufficiale invece sul casting, con la Warner Bros.
impegnata a trovare il perfetto sostituto di Affleck e altri
interpreti che possano riempire la ricca galleria di villain
prevista.
Vi ricordiamo che per The
Batman è stata già fissata l’uscita in sala il 25
giugno 2021. Durante la promozione della
serie The Passage, di cui è produttore
esecutivo, Revees ha confermato che la pre-produzione del suo film
sul Cavaliere Oscuro è in atto e che sta
lavorando a una nuova riscrittura del copione.