L’estate 2023 è stata
caratterizzata dalla riscoperta dei cinema per molti, grazie
all’arrivo nelle sale italiane di due pellicole che hanno saputo
attirare il grande pubblico: stiamo parlando di
Barbie ed
Oppenheimer! Quest’ultimo conquista per la seconda
settimana consecutiva il primo posto nella classifica Box office,
con un incasso di €1.308.936 nel solo fine settimana, su un totale
che sfiora i 18 milioni solo in Italia.
Al secondo posto, con un notevole
distacco, ritroviamo The equalizer 3- senza tregua, terzo capitolo
della serie cinematografica con Denzel Washington come protagonista. Il film
incassa €197.764 al suo primo week end nei cinema, essendo nelle
sale italiane dal 30 agosto.
Terzo classificato è
Tartarughe ninja: caos mutante, film animato basato
sui noti personaggi della serie di fumetti. Il cartone incassa
€167.967 a fronte di un totale di circa 743 mila euro dalla sua
uscita nei cinema il 30 agosto.
Box office: il resto della
classifica
Rispettivamente al quarto ed al
quinto posto ritroviamo La casa dei fantasmi, remake dell’omonimo film
del 2003 con Eddie Murphy, e
Jeanne Du Barry- la favorita del re, pellicola che
sigla il ritorno di
Johnny Depp sulla scena dopo il lungo processo con
Amber Heard. La casa dei fantasmi raggiunge un incasso
di €140.137 su un totale che sfiora i due milioni di euro dalla
prima uscita il 23 agosto, mentre Jeanne Du Barry incassa €132.847
nel suo primo week end. Scende vertiginosamente di posizione
Barbie, sesta classificata, con un incasso di
€132.143, a fronte però di un totale che supera i 31 milioni di
euro dalla sua uscita nelle sale italiane il 20 luglio.
Al settimo ed ottavo posto si
trovano due pellicole italiane:
L’ordine del tempo, diretto da Liliana
Cavani e tratto dall’omonimo saggio di Carlo Rovelli, e
Una
commedia pericolosa. L’ordine del tempo incassa
€57.683, mentre Una commedia pericolosa raggiunge un guadagno di
€34.368.
Ultimi due classificati nel Box
office del fine settimana appena concluso sono
Mastaney, pellicola indiana, e
Manodopera, film d’animazione prodotto da Francia,
Italia e Svizzera. Mentre Mastaney incassa €29.103, Manodopera
raggiunge un guadagno di soli €17.304.
Paramount+ ha annunciato l’arrivo di
The Caine Mutiny Court-Martial – scritto
e diretto dal celebre regista premio Oscar William
Friedkin e basato sull’omonima opera teatrale di Hermon
Wouk, vincitrice del premio Pulitzer – prossimamente in Italia e in
tutti i mercati internazionali in cui il servizio è attualmente
attivo.
L’avvincente film, che è stato
presentato ieri in anteprima all’80° Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica di Venezia, segue le vicende di un primo ufficiale
della Marina degli Stati Uniti che viene processato per aver
orchestrato un ammutinamento dopo che il suo capitano inizia a dare
segni di squilibrio, mettendo a repentaglio la vita del suo
equipaggio. Interpretato da un cast eccezionale,
The Caine Mutiny Court-Martial vede il
coinvolgimento di Kiefer Sutherland (24), Jason Clarke (Oppenheimer), Jake
Lacy (White Lotus), Monica Raymund
(Chicago Fire), Lewis Pullman (Top Gun: Maverick),
Jay Duplass (Transparent), Tom
Riley (The Nevers) e Lance Reddick (John
Wick).
All’inizio della corte marziale
della Marina, Barney Greenwald (Clarke), uno scettico avvocato
della Marina, accetta con riluttanza di difendere il tenente Steve
Maryk (Lacy), un primo ufficiale della Marina che ha preso il
controllo della U.S.S. CAINE dal suo capitano autoritario, il
tenente Philip Francis Queeg (Sutherland) durante una violenta
tempesta in acque ostili. Con l’avanzare del processo, Greenwald si
preoccupa sempre di più e si chiede se gli eventi a bordo del Caine
siano stati un vero ammutinamento o semplicemente atti di coraggio
di un gruppo di marinai che non si fidavano del loro leader
instabile.
Il lungometraggio della Republic
Pictures, The Caine Mutiny Court-Martial, è un
film di William Friedkin (The French Connection,
L’esorcista) basato sull’opera teatrale di Herman Wouk.
Scritto e diretto da Friedkin, il film è
prodotto da Annabelle Dunne (Joan Didion: The Center Will Not
Hold, Everything Is Copy And Fake Famous) e Matt Parker
(Beasts of the Southern Wild) con Michael Salven (Dungeons &
Dragons: Honor Among Thieves) e Mike Upton (John Wick)
come produttori esecutivi. Il film è distribuito da
Paramount Global Content Distribution.
Il film, The Caine Mutiny
Court-Martial, è stato completato poco prima della morte
di William Friedkin, avvenuta il 7 agosto scorso.
Un presentimento oscuro attanaglia i
protagonisti del film La Bête di Bertrand
Bonello, presentato in concorso alla Mostra del
Cinema di Venezia 2023. Una bestia pronta a scatenarsi,
un’esitazione che provocherà una catastrofe: Lea
Seydoux e George McKay incarnano due
anime unite da più passati, che cercano un modo di comunicare nel
presente per potersi aprire al futuro in uno dei film, finora, più
interessanti di Venezia 80, che potrebbe andare a premi.
La Bête: ripulendo le emozioni del passato
In un futuro prossimo in cui regna
suprema l’intelligenza artificiale, le emozioni umane sono ormai
considerate una minaccia. Per liberarsene,
Gabrielle deve purificare il suo DNA: si immerge
quindi in vite precedenti, dove rincontra Louis,
suo grande amore. Ma la donna è vinta dalla paura, un presagio che
la catastrofe è vicina.
Nel 2024 del film di Bonello, il 67%
della popolazione è disoccupata: per dedicarsi a percorsi
professionali di un certo livello, infatti, bisogna disfarsi di
ogni emozione, estrarre ogni trauma e paura che ci hanno segnati
nel passato dal nostro DNA. I personaggi di La
Bête vivono in un mondo ormai completamente automatizzato,
eppure, non fanno altro che parlare di emozioni: si dicono che
l’ansia rende vive, si confrontano con la paura che l’amore porta
con se, vivono scenari in cui devono affrontare lutti, si cercano e
non si trovano, o incidenti spiacevoli. In ogni immersione
purificante, il pattern di vita dei protagonisti è sempre lo
stesso, con dettagli si adattano alle diverse realtà temporali. Si
corteggiano, si allontanano, cercano di incontrarsi per scacciare
questo infasto presentimento che passa di rimbalzo dall’uno
all’altro.
Tra melodramma e fantascienza
Con La Bête,
Bonello riadatta la fantascienza al melodramma, in
un gioco di specchi, possibilità mancate e senso di allerta, in cui
una singola esitazione potrebbe pregiudicare l’intero corso della
storia. Una visione che non incontrerà il favore di tutti, che è
facile confondere con una complessità egoriferita. D’altronde, come
la Bestia del titolo, il film di Bonello mette il
pubblico di fronte alla stessa scelta dei suoi protagonisti, che
oppone le emozioni alla performance, in un incontro tra passato,
presente e futuro repentino quanto i suoi cambi stilistici.
Lea
Seydoux si presta a un’interpretazione che riecheggia
quella di Scarlett Johansson in Under the Skin di Jonathan Glazer,
adattandosi a ogni cambio di registro che l’alternanza temporale
porta con se. Si passa dall’atmosfera bohémien del 1914, che
ricorda l’House of Tolerance di Bonello, a una parte
ambientata in una Los Angeles del 2014 – molto The Neon Demon – per tornare al futuro prossimo nel
2044, qualcosa di non molto distante a ciò a cui ci ha abituati
Black Mirror.George McKay, che ha
sostituito Gaspard Ulliel dopo la morte del
giovane attore, si mette alla prova con un ruolo insidioso,
dimostrando non solo di saper reggere il confronto con una veterana
come la Seydoux, ma anche di accompagnare l’arco
della sua amata coerentemente, sfuggevole, inquietante, innamorato
o angosciato a seconda delle circostanze.
Volutamente imponente nella
dimensione estetica e strutturale, La Bête
racconta un’idea di cinema estremamente personale, che attrae e
respinge in ugual misura, confondendoci e disseminando la trama di
indizi nella sua parte iniziale per poi esplodere in un terzo atto
da amare od odiare. Bertrand Bonello ne è
consapevole, non ha mai forzatamente cercato di arrivare al cuore
degli spettatori con i suoi film. Tuttavia, aggiungendo un certo
livello di emotività alla vicenda di Gabrielle e
Louis, confeziona il suo film più maturo, che
vuole essere ricordato, sopravvivere all’annientamento tecnologico
e diventare memoria.
Reduce dalla vittoria agli Oscar per
il suo Drive my Car, il
regista giapponese Ryūsuke
Hamaguchi porta in concorso alla Mostra del Cinema di
Venezia il suo nuovo film, dal titolo
Evil Does Not Exist, storia di
Takumi e sua figlia Hana, che
vivono nel villaggio di Mizubiki, nei pressi di Tokyo. Come altre
generazioni prima di loro, conducono una vita modesta assecondando
i cicli e l’ordine della natura. Un giorno, gli abitanti del
villaggio vengono però a conoscenza del progetto di costruire,
vicino alla casa di Takumi, un glamping, inteso a offrire ai
residenti delle città una piacevole fonte di “evasione” nella
natura.
Quando due funzionari di Tokio
giungono al villaggio per tenere un incontro, diventa chiaro che il
progetto avrà un impatto negativo sulla rete idrica locale, e ciò
causa il malcontento generale. Le intenzioni contraddittorie
dell’agenzia mettono in pericolo sia l’equilibrio ecologico
dell’altopiano sia lo stile di vita degli abitanti. “In questo
film ho avuto la meravigliosa opportunità di lavorare nuovamente
con il compositore di Drive My Car, Eiko
Ishibashi. – racconta Hamaguchi – Il progetto del
film è iniziato quando mi ha chiesto di creare alcune riprese per
la sua performance dal vivo e ho concepito il film come un
“materiale originale” per le riprese”.
“Man mano che mi legavo sempre
di più al film che stavamo creando, anche Eiko e le sue amiche mi
hanno aiutato molto nelle riprese. Era un modo molto libero di fare
cinema, cosa che mi ha rivitalizzato molto. Dopo le riprese,
sentivo di aver catturato le interazioni delle persone nella natura
e di aver completato il lavoro come un unico film con il bellissimo
tema musicale di Eiko Ishibashi. Spero che il pubblico senta la
forza vitale delle figure che si agitano nella natura e nella
musica di Evil Does Not Exist”.
Il lavoro degli attori sui personaggi
“Per quanto riguarda il mio
personaggio, – racconta Ryuji Kosaka,
interprete di Takumi – mi ha molto interessato il suo stile di
vita così vicino alla natura, il tagliare la legna, raccogliere
l’acqua del fiume o cercare funghi e altre piante del bosco. Era un
modo di vivere che mi interessava poter esplorare”. “Io
invece ho pensato ad Hana come una bambina molto vivace e curiosa
– aggiunge la giovane RyoNishikawa, interprete della figlia di Takumi.
Aiko Masubuki,
interprete di uno dei due funzionari, afferma invece che
“c’erano aspetti del mio personaggio con cui potevo
immedesimarmi ma sin da subito ho scelto di non stringermi troppo
alla sua personalità e mantenere un minimo di distacco“.
“Per il mio personaggio mi sono invece chiesta come poter dar
vita ad una personalità confusa, divisa tra il proprio lavoro e il
bisogno di mantenersi vicino al bene comune”, spiega
Ayaka Shibutani, interprete dell’altro funzionario
presente nel film.
Il rapporto con la natura di Hamaguchi
“Prima di girare Evil Does Not
Exist, in realtà, non avevo una grande connessione con la natura,
mi limitavo a frequentare i parchi di Tokyo. – spiega
Hamaguchi – Dopo averlo girato mi sono reso conto di quanto
essa sia importante per sentirci ispirati ma anche per guarirci dai
mali di ogni giorno. Ho notato che di questi tempi quando poni
degli elementi naturali in un film emerge subito il tema della
salvaguardia ambientale, quindi sapevo di non poter evitare questa
idea e per questo mi sono concentrato sul mostrare come un dialogo
sincero possa essere, forse, l’opzione migliore per cercare delle
concrete soluzioni su tale questione”, conclude Hamaguchi.
Scritto e diretto da Sofia
Coppola, Priscilla,
in concorso al
Festival di Venezia 2023, è basato sul libro di
memorie del 1985 Elvis and Me, scritto da
Presley e Sandra Harmon. Nel
film, la giovanissima Priscilla Beaulieu (incontra
Elvis a una festa, quando è già una superstar del
rock-and-roll, ma diventa per lei una persona del tutto
inaspettata nei momenti privati: una cotta entusiasmante, un
alleato nella solitudine, un migliore amico vulnerabile. Dal punto
di vista di Priscilla, il film esamina il lato inedito di un grande
mito americano nel lungo corteggiamento e nel turbolento matrimonio
di Elvis e Priscilla.
Alla conferenza stampa di
presentazione del film, la regista
ha spiegato cosa l’abbia spinta a dedicarsi a questo progetto:
“sono rimasta colpita dal fatto che l’ambientazione è così
insolita, ma lei attraversa tutte le cose che tutte le ragazze
attraversano crescendo verso la femminilità – il suo primo bacio e
il diventare madre – tutti questi momenti a cui potevo riferirmi,
ma in questa ambientazione così insolita che siamo così curiosi di
conoscere“.
In un momento molto emozionante
della conferenza stampa, la stessa Priscilla
Presley ha raccontato come è stato affiancare Coppola e il
cast condividendo con loro momenti della sua vita: “È molto
difficile stare seduti a guardare un film che parla di te, della
tua vita e del tuo amore. Sofia ha fatto un lavoro straordinario,
ha fatto il suo dovere… E io ho dato tutto quello che potevo per
lei“.
“È stato molto difficile per i
miei genitori capire che Elvis si interessasse così tanto a me e
penso davvero che, poiché ero più una persona che ascoltava, Elvis
mi riversava il suo cuore, le sue paure, le sue speranze, la
perdita di sua madre che non aveva mai superato, e io ero la
persona che si sedeva davvero per ascoltarlo e confortarlo. Ero un
po’ più grande nella vita che nei numeri e questa era l’attrazione.
La gente pensa: “Oh, era sesso, era questo”. Non è affatto così.
Non ho mai fatto sesso con lui. Era molto gentile, molto tenero,
molto affettuoso, ma rispettava anche il fatto che avessi solo 14
anni“.
Presley ha anche
chiarito che quando se ne andò, anni dopo, “non fu perché non
lo amavo, era l’amore della mia vita. Era lo stile di vita che era
così difficile per me… Avevamo nostra figlia e mi assicuravo che
lui la vedesse sempre, era come se non ci fossimo mai lasciati.
Voglio che questo sia chiaro“.
Il film è interpretato da
Cailee Spaeny nel ruolo di Priscilla
Beaulieu Presley e da Jacob Elordi nel
ruolo di Elvis. Il cast ha potuto recarsi a
Venezia per sostenere il film dopo aver ricevuto un accordo
provvisorio SAG-AFTRA. Proprio in merito allo sciopero,
Coppola ha detto: “È un lavoro duro lottare
per un giusto compenso e spero che si risolva presto perché ci sono
così tante persone che vogliono tornare a lavorare“.
Spaeny ha detto di
aver accettato il ruolo: “Con molto timore, ma sono stato molto
fortunato ad avere un po’ di tempo con Priscilla. È stata molto
generosa con il suo tempo e molto gentile con me e mi ha
sostenuto“. Elordi ha commentato:
“L’intera prospettiva che avevo di fronte era una specie di
enorme montagna e mi ha detto: “Mettiti i paraocchi e vai fino in
fondo”. Non c’era spazio per non farlo“.
Parlando della relazione tra
Priscilla ed Elvis, il giovane
protagonista di Euphoria
ha attirato gli applausi dei giornalisti: “La cosa più
impressionante per me è la portata di questo amore e la potenza di
questo amore. E ancora oggi, anche se lui non è qui, quando parli
con Priscilla puoi ancora sentire l’amore. È vero, è imperituro ed
è semplicemente bellissimo… È questo legame che unisce due persone
e penso che sia per l’eternità“.
Priscilla
arriverà nelle sale statunitensi il 27 ottobre tramite A24.
Mubi ha
anche acquisito i diritti in diversi territori, tra cui il Regno
Unito.
Woody Allen arriva a Venezia 80 per presentare la qua cinquantesima
pellicola. Il regista torna in Francia, ormai una seconda casa per
i suoi film anche se il nuovo Coup de
Chance è girato internamente in francese. Parigi,
ambientazione che nel 2010 Woody Allen porta in scena in
Midnight in Paris e in Tutti dicono I
Love You: “Quando ero giovane i film che più mi colpivano
erano quelli francesi e italiani, tutti volevamo realizzare film
come gli europei e per tutta la mia vita ho cercato di fare così e
da tempo volevo realizzare la storia di due americani che vivono a
Parigi e sono così innamorato della Francia che ho voluto
realizzarlo in lingua francese. Volevo unirmi a quel gruppo di
registi composto da Truffaut, Godard, Renoir e tanti altri ancora
che considero maestri”, afferma il regista.
In Coup de Chance, già dal
titolo appare chiaro il risultato dell’opera. Il colpo di fortuna,
il caso, il destino sono tutti argomenti ricorrenti. Per Woody Allen sono anche argomenti con cui ha un
forte legame: “Sono stato fortunato per tutta la mia vita, ho
una famiglia, non sono mai stato in ospedale, non mi è mai accaduto
nulla di male. Quando ho iniziato a fare film altrettanto sono
stato fortunato, ho ricevuto molto rispetto e spero che continui ad
essere così”. Continua dicendo: “Coupe de Chance e
Match Point riflettono entrambi su come il caso e la fortuna
possano avere un impatto nella nostra vita. Non penso ci sia nulla
che possiamo fare con la morte. Alla fine di questo film abbiamo
lasciato che il sottotitolo “non farci troppo caso” rimanesse
più a lungo delle immagini perché è così che dovremmo rapportarci
con la morte e il caos della vita.
Coup de Chance, Vittorio
Storaro: “Chiamatemi autore della fotografia non direttore”
Quella tra Allen e Vittorio
Storaro è una collaborazione che va è iniziata nel 2016
per Café
Society. Autore della fotografia la sua impronta nei film
di Allen contribuisce una resa delle immagini particolarmente
curiosa. “Bisogna dare rispetto al regista e all’autore della
fotografia. Noi non siamo director, noi siamo co-autori della
fotografia cinematografia, ovvero scrivere con la luce in
un’immagine. Noi dobbiamo avere un rapporto con i colori e le ombre
per analizzare il concetto delle parole e presentarle al regista e
se lui approva quella mia lettura allora mi sento soddisfatto,
perché ho saputo comprendere le intenzioni del solo e unico
regista”, racconta Vittorio Storaro in conferenza stampa.
“Io senza uno scritto e senza
un regista non esisto. Quando ho letto la sceneggiatura di questo
film ho quindi ritrovato una cosa che amo molto, ovvero la dualità:
con il marito Fanny ha un preciso tono cromatico, mentre quando è
con l’amante ne ha un altro che è più concentrato sui toni caldi e
solari. Quando è con il marito è invece tutto azzurro, freddo.
Questo è stato il concetto visivo che ho presentato a Woody e lui
lo ha ritenuto coerente con quanto aveva scritto”,
conclude.
Nonostante da ormai diversi anni
giri voce di un possibile addio alla sedia da regista per Woody Allen, 87 anni, c’è ancora molto lavoro
da fare: “Ho una nuova buona idea per un film a New York e se
qualcuno si offrirà di finanziarlo alle mie strette condizioni,
allora sì, lo farò”.
Ecco il trailer di Enea,
che sarà presentato in Concorso alla 80° Mostra Internazionale
d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia. Nel suo
nuovo film,
Pietro Castellitto recita anche al fianco di
Giorgio Quarzo Guarascio,
Benedetta Porcaroli,Chiara Noschese, Giorgio
Montanini, Adamo Dionisi, Matteo Branciamore,
Cesare Castellitto, Clara Galante, Paolo Giovannucci e con
Sergio Castellitto.
Enea rincorre
il mito che porta nel nome, lo fa per sentirsi vivo in un’epoca
morta e decadente. Lo fa assieme a Valentino, aviatore appena
battezzato. I due, oltre allo spaccio e le feste, condividono la
giovinezza. Amici da sempre, vittime e artefici di un mondo
corrotto, ma mossi da una vitalità incorruttibile. Oltre i confini
delle regole, dall’altra parte della morale, c’è un mare pieno di
umanità e simboli da scoprire. Enea e Valentino ci voleranno sopra
fino alle più estreme conseguenze. Tuttavia, droga e malavita
sono l’ombra invisibile di una storia che parla d’altro: un padre
malinconico, un fratello che litiga a scuola, una madre sconfitta
dall’amore e una ragazza bellissima, un lieto fine e una lieta
morte, una palma che cade su un mondo di vetro. È in mezzo alle
crepe della quotidianità che l’avventura di Enea e Valentino
lentamente si assolve. Un’avventura che agli altri apparirà
criminale, ma che per loro è, e sarà, prima di tutto, un’avventura
d’amicizia e d’amore.
L’Esorcista, che ha sconvolto il mondo
terrorizzando generazioni di spettatori ed è tuttora considerato un
capolavoro della storia del cinema, viene presentato oggi all’80.
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella sua
versione restaurata Director’s Cut 4K nell’ambito della sezione
Venezia Classici.
In occasione del
50° anniversario di quest’opera epocale tratta dal romanzo omonimo
di William Peter Blatty, il film sarà proiettato nei cinema
italiani nei giorni25, 26 e 27 settembre nella sua spettacolare
versione Director’s Cut, completamente restaurata in 4K da Warner
Bros. Discovery. Questo evento senza precedenti porterà nuovamente
l’orrore e il brivido nelle sale cinematografiche, illuminando il
buio con immagini straordinarie che terranno gli spettatori
incollati allo schermo, proprio come ha fatto con le generazioni
passate.
‘Credo
che The Exorcist sia tanto intenso oggi, a
distanza di cinquant’anni, quanto lo fu al momento della sua prima
uscita. È questa la genialità della storia di William P.
Blatty’ – dichiarava il compianto regista
William Friedkin, scomparso nelle scorse settimane, in
occasione dell’annuncio della presenza della versione restaurata
del film alla Mostra del Cinema.
L’Esorcista è molto più di un semplice film
horror; è un’icona del cinema, una pietra miliare nella storia del
grande schermo. Da quando è stato presentato per la prima volta nel
lontano 1973, ha spaventato, affascinato e incantato il pubblico di
tutto il mondo. Le sue scene indimenticabili, i personaggi iconici
e l’atmosfera da brivido lo rendono un’opera d’arte cinematografica
senza tempo. Anche dopo cinque decenni, continua a esercitare un
impatto culturale straordinario, influenzando il genere horror e
l’arte del cinema in generale. È una testimonianza del potere
duraturo del cinema nel catturare l’immaginazione e spingere gli
spettatori al limite del terrore e della suspense.
In occasione di
questo anniversario epocale, Warner Bros. Discovery ha dedicato un
impegno straordinario per restaurare L’Esorcista
in una magnifica versione Director’s Cut, con una qualità visiva
ineguagliabile grazie alla tecnologia 4K. Ogni dettaglio è stato
curato con precisione, dal suono inquietante ai dettagli visivi
mozzafiato, creando un’esperienza cinematografica completamente
immersiva.
Per celebrare
questa ricorrenza straordinaria, “L’Esorcista Director’s Cut – 4K
Restaurata” farà il suo ritorno spettacolare nei cinema di tutta
Italia. L’evento si terrà nei giorni 25-26-27 settembre e offrirà
agli spettatori una rara opportunità di rivivere l’angosciante
storia di possessione e fede su uno schermo grande come la vita
stessa. Questa tre giorni di evento esclusivo promette di essere
un’esperienza imperdibile per gli amanti del cinema, sia per coloro
che conoscono già l’opera, sia per chi vuole sperimentarla per la
prima volta. Questo evento epico è un omaggio a un capolavoro
senza tempo, che ha spaventato, incantato e influenzato
innumerevoli spettatori attraverso le generazioni.
“Tutti i film che ho realizzato,
che ho scelto di realizzare, riguardano la sottile linea tra il
bene e il male. E anche la sottile linea che esiste in ognuno di
noi. Questo è ciò di cui parlano i miei film”. Con questa
citazione del regista William Friedkin viene introdotto
alla Mostra del Cinema di Venezia il suo
nuovo film dal titolo The Caine Mutiny
Court-Martial, che arriva a dodici anni dal suo precedente
lungometraggio, Killer Joe, dopo
essersi scolpito un posto nella storia del cinema grazie a film
come Il braccio violento della legge, L’esorcista e Vivere e
morire a Los Angeles.
Si tratta, come noto, dell’ultima
fatica cinematografica di Friedkin, venuto a mancare nell’agosto di
quest’anno, prima di poter dunque presentare il nuovo film al
grande pubblico. Arrivato a Venezia senza il proprio regista,
The Caine Mutiny Court-Martialsi
dimostra essere in ogni caso la testimonianza di un Friedkin in
piene forze, che adatta l’opera teatrale di Herman
Wouk dal titolo Corte marziale per l’ammutinamento del
Caine con meticolosa precisione, gusto per la parola e completa
padronanza del ritmo, facendo dunque di questo nuovo lungometraggio
un’opera di grande valore.
The Caine Mutiny Court-Martial, la trama del
film
La vicenda narrata vede l’avvocato
Greenwald (Jason Clarke)
difendere con riluttanza Maryk (Jake
Lacy), l’ufficiale della Marina che ha sollevato dal
comando il tirannico capitano Queeg
(Kiefer
Sutherland), accusato di instabilità mentale nel corso
di una violenta burrasca. Man mano che il processo va avanti,
Greenwald diventa sempre più interessato a fare chiarezza,
domandandosi se quello del Caine sia stato un vero ammutinamento o
semplicemente l’atto coraggioso di un gruppo di marinai che non
potevano più fidarsi del loro instabile capitano.
Dal testo allo schermo
Legal drama a tutti gli
effetti, The Caine Mutiny
Court-Martialera un film che Friedkin
ambiva a realizzare da tempo, affascinato dai dubbi che il racconto
morale solleva e da quel confine tra bene e male esistente in ogni
essere umano e che per tutta la sua carriera il regista ha
esplorato. Lo spettatore viene dunque fatto entrare in una piccola
aula dove si svolge il processo tra Maryk e Queeg e qui rimarrà
sostanzialmente fino alla fine, ascoltando le testimonianze dei due
diretti in causa come anche quelle di una serie di testimoni ed
esperti. Ci si trova dunque di fronte ad un film dalla forte
economia narrativa, dove alla parola è conferita massima
attenzione.
Friedkin, anche sceneggiatore del
film, riadatta il testo non solo per aggiornarlo ma anche per
incrementare la musicalità delle battute, delle parole, dando così
vita ad un film che è un piacere ancora solo da ascoltare.
The Caine Mutiny Court-Martialè
però non solo una vera e propria lezione di adattamento, quanto
anche di costruzione delle immagini. Quelle che potrebbero apparire
delle limitazioni – la sola location e il forte uso della parola –
non impediscono a Friedkin di lavorare su una ricerca del ritmo e
in generale della messa in scena degni di un maestro quale è lui.
Non è un film facile questo, specialmente se non si è amanti di
questo genere di opere, ma è davvero difficile staccare gli occhi
dallo schermo.
Il confine tra bene e male
Friedkin riesce dunque a rendere
appassionante la vicenda narrata, fornendo indizi, testimonianze,
prove o suggestioni che permettono di far emergere tutta
l’ambiguità e l’universalità di quanto proposto. Lo spettatore si
trova infatti a dover scegliere egli stesso da che parte stare, se
da quella dell’ufficiale Maryk o quella del capitano Queeg. Per
scegliere, occorre ascoltare quanto viene detto, cercare di
formulare il proprio giudizio, che può essere naturalmente
influenzato da innumerevoli fattori personali. Il regista sceglie
di rimanere volutamente ambiguo, proponendo sì una risoluzione dei
fatti ma concentrandosi sul far emergere, una volta di più, quel
confine tra bene e male e la sua facilità nell’oltrepassarlo, sia
in un senso che nell’altro.
Jacob Elordi ha
ottenuto il ruolo da co-protagonista in
Saltburn anche se la regista Emerald
Fennell non ha mai visto un episodio di
Euphoria, la serie HBO che ha regalato a Elordi il
primo assaggio di fama.
Meglio conosciuto per aver
interpretato il personaggio di Nate Jacobs nel cast principale
della serie HBO, Jacob Elordi sarà sul grande schermo accanto a
Barry Keoghan (Gli spiriti dell’isola) in
Saltburn. Il film segue uno studente di Oxford di nome Oliver Quick
(Keoghan) che viene trascinato in un mondo sensuale di intrighi e
opulenza durante una visita alla sontuosa tenuta del suo
irresistibile compagno di classe Felix (Elordi).
Emerald Fennell
(vincitrice dell’Oscar per la sceneggiatura del suo debutto alla
regia Una donna promettente, e parte del cast di
Barbie) ha recentemente parlato con Vanity Fair
prima dell’uscita di Saltburn, prevista per il 24 novembre negli
USA, commentando il fatto che non ha mai visto un solo episodio di
Euphoria. Tuttavia, ha scelto Elordi per un ruolo
importante nel suo film grazie al provino dell’attore:
“Ha offerto una performance incredibilmente potente, rilassata e
reale di una persona che potrebbe facilmente non essere reale. Puoi
capire perfettamente che nessuno sarebbe capace di resistere a
questa persona. Ma allo stesso tempo puoi anche capire che è anche
una sorta di illusione, un’illusione che altre persone proiettano
su di lui – e in realtà non è necessariamente particolarmente
speciale o interessante. Sembra proprio che lo sia.”
Woody Allen
presenta al Festival del cinema di Venezia il suo ultimo
film, Coup de Chance, un thriller romantico che sarà
il suo cinquantesimo e che potrebbe essere il suo ultimo film. Il
film in lingua francese, proiettato in uno dei maggiori festival
europei, rappresenta il continuo abbraccio reciproco tra il
regista e il continente, dice
Variety, dopo che le controversie legali che lo hanno visto
protagonista lo hanno allontanato dagli Stati Uniti.
“Ho così tante idee per i film
che sarei tentato di realizzarli, se fosse facile finanziarli
– ha spiegato Woody Allen – Ma oltre a ciò, non so se ho
la stessa verve di un tempo per andare a cercare i
fondi.”
Nel corso dell’intervista con
Variety, il regista ha anche ribadito il fatto di essere un
sostenitore del #MeToo. “Penso che qualsiasi
movimento in cui ci sia un beneficio reale, in cui si fa qualcosa
di positivo, in questo caso per le donne, sia una buona cosa.
Quando diventa sciocco, è sciocco. Ho letto casi in cui è stato
molto vantaggioso, in cui la situazione è stata molto vantaggiosa
per le donne, e questo è positivo. Quando leggo di alcuni casi in
un articolo sul giornale in cui il movimento diventa sciocco,
allora lo è.”
E quando gli viene chiesto di
spiegarsi meglio, Woody Allen risponde: “È sciocco, sai, quando
non è realmente una questione femminista o una questione di
ingiustizia nei confronti delle donne. Quando si è troppo estremi
nel cercare di trasformarlo in un problema quando, in realtà, la
maggior parte delle persone non considererebbe la situazione
specifica per nulla offensiva.”
E per quello che riguarda la sua
esperienza personale, Allen conferma di non aver mai ricevuto
lamentele riguardo ai suoi set e al suo modo di lavorare: “Non
ho mai ricevuto lamentele. Anni fa ho detto che avrei dovuto essere
un manifesto [del movimento #MeToo] e ne sono rimasti tutti
entusiasti. Ma la verità è che è proprio così. Ho realizzato 50
film. Ho sempre avuto ottime parti femminili, ho sempre avuto donne
nella troupe, le ho sempre pagate esattamente la stessa cifra che
pagavamo agli uomini, ho lavorato con centinaia di attrici e non ho
mai, mai avuto una sola lamentela da parte di nessuna di loro in
nessun caso. Punto. Nessuno ha mai detto: “Lavorando con lui, era
cattivo o molesto”. Questo non è stato un problema. I miei
redattori sono state donne. Non ho alcun problema con questo. Non è
mai stato nella mia mente in alcun modo. Assumo chi penso sia
adatto al ruolo. Come ho detto, ho lavorato con centinaia di
attrici, attrici sconosciute, star, attrici di medio livello.
Nessuno si è mai lamentato e non c’è niente di cui
lamentarsi.”
E sulla cancel culture e sull’eventualità di esserne vittima,
Woody Allen spiega: “Sento che se questa cultura vuole
cancellarti, allora va bene. Trovo che sia tutto così sciocco. Non
ci penso. Non so cosa significhi essere cancellato. So che nel
corso degli anni per me è stato tutto uguale. Faccio i miei film.
Ciò che è cambiato è la presentazione dei film. Sai, lavoro e per
me è la stessa routine. Scrivo la sceneggiatura, raccolgo i soldi,
realizzo il film, lo giro, lo monto, esce. La differenza non è
dovuta alla cultura dell’annullamento. La differenza è il modo in
cui presentano i film. È questo il grande cambiamento.”
Woody Allen presenterà al Festival di
Venezia 80, nel
Fuori Concorso, Coup de Chance.
Guillermo Del Toro - Leone
d'Oro - Foto de La Biennale
Guillermo Del Toro ha fatto da regista di
riserva per il suo amico, il grande William Friedkin, durante le riprese
dell’ultimo film di Friedkin The Caine Mutiny
Court-Trial, presentato in anteprima mondiale al Festival
del cinema di Venezia.
Friedkin, morto il 7 agosto a Los
Angeles all’età di 87 anni, aveva bisogno contrattualmente di un
sostegno per poter realizzare il film, “È molto comune come
pratica, Hollywood è discriminatoria verso l’età”, ha detto la
produttrice Annabelle Dunne che ha deciso di non
rivelare la cosa fino alla conferenza stampa di presentazione al
Lido e ha raccontato che quando ha sollevato la questione con
Friedkin lui ha detto: “Lasciatemi pensare” prima di dirle che
aveva il nome: “Ok, tesoro, ho il ragazzo. Prendi una penna: è
Guillermo Del Toro, hai capito?”.
Quando Dunne ha poi contattato Del
Toro, che all’epoca stava promuovendo il suo
Pinocchio, le disse: “Verrò sul set ogni
singolo giorno e mi siederò accanto a te”. “È stata una gioia per
tutti noi, compresi gli attori, avere la sua presenza lì”, ha
ricordato. “Ha chiarito abbondantemente che era il film di
Billy. Ha detto che era la nostra mascotte.” Il film è
stato completato prima della morte di William Friedkin.
The Caine Mutiny
Court-Trial vede Kiefer Sutherland
nei panni del tenente comandante Queeg, sotto processo per
ammutinamento per aver usurpato il comando di una nave dopo che le
azioni del comandante di diritto erano state ritenute pericolose
per la nave e per il suo equipaggio.
L’ultimo film di William Friedkin della Republic Pictures
è basato sull’opera teatrale vincitrice del Premio Pulitzer di
Hermon Wouk. La storia è stata precedentemente
adattata per lo schermo in un film del 1954 di Edward
Dmytryk con Humphrey Bogart nel ruolo di
Queeg e in un film per la TV del 1988 diretto da Robert
Altman.
The Caine Mutiny
Court-Martial, distribuito da Paramount Global Content
Distribution, uscirà su Paramount+ questo autunno in tutti i
mercati internazionali in cui il servizio di streaming è attivo e
verrà trasmesso su Showtime negli Stati Uniti. Non sarà distribuito
nelle sale.
Alla conferenza stampa di
presentazione di Povere
Creature (leggi
la recensione) alla Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica della Biennale di Venezia 80, il regista
Yorgos Lanthimos ha detto che avrebbe davvero
desiderato che
Emma Stone fosse al Lido per parlare, tra le
altre cose, del fatto che Bella Baxter, il personaggio che
interpreta, ha molte scene di sesso nel film.
“È un peccato che Emma non
possa essere qui per parlarne di più”, ha detto il regista.
“Prima di tutto il sesso è una parte intrinseca del personaggio
del romanzo stesso, la sua libertà su tutto, compresa la sessualità
(…) In secondo luogo, per me era molto importante non fare un film
che fosse pudico, perché sarebbe stato come tradire completamente
il personaggio principale”, ha continuato. “Dovevamo essere sicuri
che Emma non dovesse vergognarsi del suo corpo, della sua nudità,
del coinvolgimento in quelle scene e lei lo ha capito
subito.”
“La cosa bella di me ed Emma è
che abbiamo realizzato quattro film insieme; c’è una scorciatoia e
possiamo comunicare senza dover spiegare o parlare molto delle
cose”, ha continuato a spiegare Lanthimos. “Appena
cominciavo a dire qualcosa su quelle scene, lei diceva: ‘sì’,
certo, è Bella. Faremo quello che dobbiamo fare”.
Basato sul romanzo omonimo di
Alasdair Gray,Povere
Creature è una storia ispirata a Frankenstein e
vede
Emma Stone nei panni di una giovane donna che viene
riportata in vita da uno scienziato (Willem
Dafoe) che le impianta il cervello del suo bimbo mai
nato. Nel film recitano anche
Mark Ruffalo, Ramy Youssef e
Jerrod Carmichael. Il film uscirà nelle sale
italiane il 25 gennaio 2024.
Damien Chazelle ha
reso omaggio al defunto William Friedkin in un commovente discorso al
Festival del cinema di Venezia, dove l’ultimo film di Friedkin,
The Caine Mutiny Court-Trial, è stato presentato
in anteprima fuori concorso tra calorosi applausi.
Friedkin, morto il 7 agosto a Los
Angeles all’età di 87 anni, aveva completato il film, che vede
Kiefer Sutherland nei panni del tenente comandante
Queeg, sotto processo per ammutinamento per aver usurpato il
comando di una nave dopo che le azioni del comandante di diritto
erano state ritenute pericolose per la nave e per il suo
equipaggio.
“Quando ho sentito per la prima
volta il nome Billy Friedkin ero un bambino, e il nome stesso mi ha
riempito di paura”, ha detto Chazelle, che presiede la giuria
di Venezia
80. “Probabilmente avevo in mente L’Esorcista. Non
avevo ancora visto il film, ma avevo visto le lettere scritte con
quel carattere e il suono della parola “Fried-kin” sembrava
suggerirmi i recessi più oscuri e proibiti dell’immaginazione. Il
genere di cose che ispirano incubi per il resto della tua
vita”, ha aggiunto Chazelle.
“Quindi per me William Friedkin
significava paura. Ma oggi penso al suo nome, e penso all’amore.
Penso all’amore per il cinema, all’amore per tutta l’arte e alla
visione di come le arti possano intersecarsi e informarsi a
vicenda. Una visione del cinema non separata, ma indissolubilmente
legata alla musica, alla letteratura, alla pittura. Ovviamente
all’opera”, ha sottolineato Chazelle. “Penso alla
gentilezza e alla generosità che mi ha mostrato quando avevo
iniziato a lavorare come regista”, ha continuato
Damien Chazelle raccontando che quando aveva
appena realizzato il suo film del 2014, Whiplash,
Friedkin lo ha invitato a casa sua.
“E non dimenticherò mai
l’esperienza di scoprire che un uomo responsabile di film che mi
hanno dato un pugno nello stomaco così spietato, come “Sorcerer”,
“French Connection”, “Cruising” e “Killer Joe”, era di persona così
affettuoso, così accogliente, così dolce, umile, amorevole.
Conoscere Billy e trascorrere del tempo con lui e Sherry [Lansing]
è stato uno dei più grandi onori della mia vita” ha continuato
il regista.
“Era impavido in ogni senso
della parola. Nei suoi film si ha la sensazione di un regista e dei
suoi personaggi che si spingono oltre i confini di ciò che è
possibile e alla fine li superano.“
L’ultimo film di William Friedkin della Republic Pictures
è basato sull’opera teatrale vincitrice del Premio Pulitzer di
Hermon Wouk. La storia è stata precedentemente
adattata per lo schermo in un film del 1954 di Edward
Dmytryk con Humphrey Bogart nel ruolo di
Queeg e in un film per la TV del 1988 diretto da Robert
Altman.
The Caine Mutiny
Court-Martial, distribuito da Paramount Global Content
Distribution, uscirà su Paramount+ questo autunno in tutti i
mercati internazionali in cui il servizio di streaming è attivo e
verrà trasmesso su Showtime negli Stati Uniti. Non sarà distribuito
nelle sale.
Ha avuto luogo a Venezia la nuova
edizione del FILMING ITALY BEST MOVIE AWARD, in
cui Tiziana Rocca, Direttore Generale Filming
Italy Award e Vito Sinopoli, Amministratore Unico
Duesse Communication e Presidente onorario del Premio, annunceranno
tutti i premiati di quest’anno. Il FILMING ITALY BEST MOVIE
AWARD conta sulla collaborazione e il supporto della
Biennale di Venezia e del Direttore Artistico
della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia
Alberto Barbera, e gode del patrocinio della
Direzione Generale Cinemae
Audiovisivodel MIC, di
ANEC, di ANICA e del
Centro Sperimentale di Cinematografia.
La giuria di qualità è composta da
diversi esponenti tra le eccellenze della cinematografia italiana:
Alberto Barbera, Direttore Artistico della
Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia;
Paolo Del Brocco, AD di Rai Cinema; Chiara
Sbarigia, Presidente di Cinecittà; Guglielmo
Marchetti, Presidente e AD di Notorious Pictures;
Tinny Andreatta, VP delle serie originali italiane
Netflix; Giampaolo Letta, VP e AD di Medusa; il
giornalista Antonello Sarno; Maria Pia
Ammirati, Direttore Rai Fiction; Luciano
Sovena, Presidente della Fondazione Roma Lazio Film
Commission; Nicola Maccanico, AD di Cinecittà;
Roberto Stabile, Responsabile delle relazioni
internazionali di ANICA; Massimiliano Orfei, AD di
Vision Distribution; Marta Donzelli, Presidente
del Centro Sperimentale di Cinematografia; Mario
Lorini, Presidente di ANEC; Stefano
Sardo, Presidente dell’Associazione 100autori;
Franco Montini, Presidente del Sindacato Nazionale
Critici Cinematografici Italiani (SNCCI). Ecco tutte le foto dei
protagonisti che hanno sfilato sul red carpet del lido:
Si è tenuta nella serata la
premiere del film Originale Netflix
The Killer di David Fincher in concorso a
Venezia
80. Assente il cast per via dello sciopero in corso ad
hollywood
Michael Fassbender,
Tilda Swinton, Charles Parnell, Arliss Howard, Kerry O’Malley,
Sophie Charlotte, Sala Baker.
Dopo un disastroso passo falso, un assassino sfida i propri
committenti, e se stesso, in una caccia all’uomo su scala globale
che giura non essere personale.
In merito al film il regista ha
commentato. The
Killer rappresenta il mio personale tentativo di
conciliare la visione che ho da anni delle storie cinematografiche
con la maniera di raccontarle. Penso da sempre che la frase: “Cosa
ci facevi a Chinatown?… Il meno possibile” sia la più riuscita
evocazione di una retroscena che io abbia mai sentito. Nutrivo
anche una certa curiosità per il genere revenge,
come strumento per creare tensione. Così quando il Sig. Walker ha
deciso di unirsi a noi e ha abbracciato le mie idee/domande sulle
ampie pennellate di senso che lasciano il posto all’invisibile
“espansione del momento”, ho capito che dovevamo inventarci
qualcosa. La risposta tre ore dopo del Sig. Fassbender: “Si,
facciamolo!” ci ha convinto entrambi, e, ovviamente, volevamo tutti
Tilda (Il Sig. Walker ha scritto la storia intorno a lei – ma per
favore non diteglielo, potrebbe diventare insopportabile se
scoprisse che letteralmente tutti pensano questo di lei).
Julio Cesar ha quasi quarant’anni e
vive ancora con sua madre, una donna colombiana dalla personalità
trascinante. I due condividono praticamente tutto: una casetta sul
fiume piena di ricordi, i pochi soldi guadagnati lavorando per uno
spacciatore della zona, la passione per le serate di salsa e
merengue. Un’esistenza ai margini vissuta con amore, al tempo
stesso simbiotica e opprimente, il cui equilibrio precario rischia
di andare in crisi con l’arrivo di Ines, giovane ragazza colombiana
reduce dal suo primo viaggio come “mula” della cocaina. Tra
desiderio e gelosia la situazione precipita rapidamente, al punto
che Julio si troverà a compiere un gesto estremo, in un viaggio
doloroso che lo porterà per la prima volta nella sua terra di
origine.
“Prima la fisica e poi le
donne“: una battuta pronunciata da uno scienziato nel corso
del film Die Theorie Von Allem, presentato in
concorso a
Venezia 80, che strappa una risata al pubblico. Solo
il corso degli eventi del film di Timm Kröger ci
farà capire che questa frase potrebbe sintetizzare il conflitto del
suo protagonista, Johannes, un dottorando in
fisica che sta scrivendo la tesi finale da due anni con non poche
difficoltà e il cui percorso verso la laurea potrebbe venire
ulteriormente messo in crisi da una serie di doppi femminili.
Die Theorie Von Allem, la
trama
1962. Johannes
Leinert, insieme al suo consulente di dottorato, si reca a
un congresso di fisica sulle Alpi svizzere, dove uno scienziato
iraniano dovrebbe rivelare una “teoria rivoluzionaria della
meccanica quantistica”. Ma quando i fisici arrivano all’hotel a
cinque stelle, l’ospite iraniano non si trova da nessuna parte. In
assenza di una nuova teoria da discutere, la comunità dei fisici si
rivolge pazientemente allo sci. Johannes, invece,
rimane in albergo per lavorare alla sua tesi di dottorato, ma
presto si distrae, sviluppando una particolare attrazione per
Karin, una giovane pianista jazz. Qualcosa in lei sembra strano,
sfuggente. Sembra che lei sappia delle cose su di lui, cose che lui
pensava di conoscere soltanto. Quando una mattina uno dei fisici
tedeschi viene trovato morto, due ispettori arrivano sulla scena,
indagando su un caso di omicidio. Mentre nel cielo appaiono
formazioni nuvolose sempre più bizzarre, il pianista scompare senza
lasciare traccia e Johannes si ritrova trascinato
in una sinistra storia di falsi ricordi, incubi reali, amori
impossibili e un oscuro, ruggente mistero nascosto sotto la
montagna.
Una teoria di bianchi e neri
Timm Kröger, che è
stato per anni direttore della fotografia, usa la fotografia come
veicolo principale per la costruzione di un’atmosfera immersiva e
avvolgente, consacrata da un bianco e nero d’impostazione
estremamente classica. Dal punto di vista visivo e d’immaginario,
il film ha un’impronta precisa e sicura, che convince senza
sovrastare la narrazione, almeno in una prima parte.
Come la tesi di
Johannes, incentrata sulla probabilità e un’idea
venutagli in sogno, Die Theorie Von Allem ci
catapulta in un racconto di doppi, punti di vista differenti,
orbite sconosciute, intrecciando la declinazione di sci-fi che un
fortunatissimo prodotto televisivo sempre tedesco, Dark, ha portato in auge, alla
cospirazione e all’impianto da noir classico. Purtroppo, la sua
struttura sfilacciata e lacunosa, tanto quanto la tesi di Johannes
– idea di partenza più che brillante – fatica a tenere alta
l’attenzione dello spettatore, sempre più confuso sul ruolo che i
personaggi giocano nella storia.
Timm Kröger
assicura alla trama una notevole direzione degli attori, che
riescono quasi sempre a rimanere dei punti di riferimento per gli
spettatori, anche quando il tessuto narrativo inizia a vacillare.
Jan Bülow e Olivia Ross, in
particolare, convincono in una dinamica amorosa alla
Vertigo, che ci fa dubitare di ogni
immagine e parole pronunciate da questa famme fatale, una pianista
jazz, che potrebbe saperne molto più di lui di fisica. La loro
storia d’amore sopravvive all’ipertrofia semantica del film, che
sta sempre su un gradino più in alto dello spettatore, sul
cucuzzolo delle montagne svizzere, mentre rimaniamo intrappolati
nelle grotte sotteranee dove spazio e tempo divergono.
Presentato oggi in concorso a
Venezia
80, La bête, il film francese diretto
da Bertrand Bonello con Léa Seydoux e
George MacKay, entrambi assenti. Sul red ha sfilato il
regista e parte del cast.
In merito al film il regista ha
dichiarato: “Per prima cosa, volevo ritrarre una donna e occuparmi
di amore e di melodramma. Dopodiché, inserire il tutto nel cinema
di genere, visto che secondo me le storie d’amore e il cinema di
genere sono una buona combinazione. Ho voluto mescolare l’intimo e
lo spettacolare, classicismo e modernità, il noto e l’ignoto, il
visibile e l’invisibile. Parlare, forse, del più straziante dei
sentimenti, la paura dell’amore. Il film è anche il ritratto di
una donna, che diventa quasi documentario su un’attrice.”
1 di 9
Bertrand Bonello
Nel film In un futuro prossimo in cui regna suprema
l’intelligenza artificiale, le emozioni umane sono ormai
considerate una minaccia. Per liberarsene, Gabrielle deve
purificare il suo DNA: si immerge quindi in vite precedenti, dove
rincontra Louis, suo grande amore. Ma la donna è vinta dalla
paura, un presagio che la catastrofe è vicina.
Fondato nel 1930 nella Francia
centrale, il ristorante della famiglia Troisgros detiene 3 stelle
Michelin da 55 anni e da quattro generazioni. Frederick
Wiseman racconta questa storia attraverso i membri della
storica brigata di cucina. Michel Troisgros, terza
generazione a capo del ristorante, ha passato la responsabilità
della cucina al figlio César, quarta generazione di chef Troisgros.
Dal mercato per la raccolta delle verdure fresche, all’impianto di
lavorazione del formaggio, al vigneto, all’allevamento di bestiame
biologico, fino all’orto che rifornisce il ristorante, Wiseman ci
accompagna in un viaggio goloso e piacevole nelle cucine dei tre
ristoranti della famiglia. Un’esperienza coinvolgente, che mostra
la grande maestria, l’ingegno, l’immaginazione e il duro lavoro
dello staff del ristorante nel creare, preparare e presentare
piatti di altissima qualità.
Michel Troisgros,
Léo Troisgros e Frederick Wiseman hanno presentato il film Fuori
Concorso a Venezia 80. Un film che ruota intorno al tema della
gastronomia e della cucina unito all’amore per la famiglia. Lo
stesso regista è affascinato da questo processo creativo e della
preparazione: “Penso che la preparazione e la creazione del
cibo siano una forma d’arte. Ogni piatto prima di lasciare la
cucina viene esaminato con cura da Michel e Leo e ho voluto
soffermarmi anche su questi piccoli dettagli come mettere in ordine
gli elementi sul piatto attraverso l’uso delle pinze da
cucina”.
Frederick Wiseman presenta Menus Plaisirs – Les
Troisgros
Anche dalla parte degli attori e
protagonisti di questa storia familiare hanno commentato la
collaborazione con il regista e sono rimasti colpiti dalla sua
dedizione al progetto. “Non conoscevo il cinema di Fred. Il
progetto è iniziato l’anno prima del Covid. È venuto a visitarci al
ristorante e ha incontrato mio figlio e ha amato il piatto che gli
hanno preparato dimostrando una certa attenzione al nostro mondo,
alla nostra eredità e alla nostra storia di famiglia. Ogni
generazione appartiene a questo mondo. Quando ci è venuto a trovare
subito dopo ci ha parlato del progetto. Poi ho recuperato tutti i
suoi film, ho visto Crazy Horse [ride]”., racconta Michel.
Un progetto che ha messo a dura
prova il regista con delle scene particolari e dettagliate sul
lavoro di preparazione dei piatti: “La famiglia mi ha dato il
permesso di girare e introdurmi ovunque, senza nessuna restrizione.
Le parti da girare in cucina sono state le più difficili perché
c’erano sempre molte persone e volevo essere sicuro di dare uno
sguardo accurato al loro lavoro all’interno della cucina. La
famiglia ci ha aiutato ad ottenere i permessi anche per gli ospiti
che venivano serviti durante il servizio. Ho voluto anche
soffermarmi su quello che riguarda la preparazione del piatto
quindi elementi di quotidianità come la spesa al mercato”.
La narrazione fuori dal ristorante è
stata necessaria per raccontare il dietro le quinte della
composizione e preparazione dei piatti e ha sottolineato ancora una
volta la cura e la dedizione al progetto da parte di Frederick
Wiseman: “È stata una parte importante perché fa parte del
nostro quotidiano perché è come se facessero parte della famiglia,
sono più dei compagni di viaggio che dei fornitori, sono la risorsa
che porta avanti il ristorante”.
Entrambe le parti si sono spesa
anima e corpo per la riuscita di Menus Plaisirs e anche per la brigata di
cucina è stato intenso condividere uno spazio così riservato con le
telecamere: “È stata una sfida anche per noi ma ci siamo
abituati. C’erano solo un paio di persone che si muovevano attorno
a noi mentre cucinavamo. Cercava di dare consigli per rendere la
scena sempre più fluida ma allo stesso tempo gli conferisce
rispetto e trasmette la complicità della squadra anche attraverso i
dialoghi. C’è molta intensità in cucina, Fred vuoel dare a vedere
la forza dei gesti nella successione tra le varie tecniche che si
accavallano in cucina, che seguono un certo ritmo” ha detto
Michel.
La storia della famiglia Troisgros
va avanti da moltissime generazioni e come racconta Leo, è una
passione che è cresciuta con il tempo: “La passione si è
trasmessa a noi dai nostri genitori davvero in modo naturale.
Abbiamo sempre visto fare questo all’interno della nostra famiglia,
siamo cresciuto così e questa passione si è ampliata crescendo. I
nostri genitori ci hanno permesso di farde moltissime esperienze
all’interno della haute cuisine e sono tutti molto
interessanti”.
Bertrand Bonello ha
presentato quest’oggi in conferenza stampa il suo nuovo film,
La Bête, melodramma sci-fi da una sceneggiatura
scritta insieme a Guillaume Bréaud e
Benjamin Charbit, liberamente ispirata al racconto
di Henry James del 1903 La bestia nella giungla. Il film è
interpretato da Léa
Seydoux e George MacKay, con Guslagie
Malanda e Dasha Nekrasova nei ruoli
secondari. È stato presentato in anteprima mondiale in concorso
ufficiale alla
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia
2023 e sarà distribuito nelle sale francesi da Ad
Vitam il 28 febbraio 2024.
La trama del film è ambientata in un
futuro prossimo in cui le emozioni sono diventate una minaccia,
Gabrielle decide finalmente di purificare il suo
DNA in una macchina che la immergerà nelle sue vite passate e la
libererà da ogni sentimento forte. Incontra Louis
e sente un forte legame, come se lo avesse sempre conosciuto. La
storia si svolge in tre periodi distinti: 1910, 2014 e 2044.
Lo sci-fi di Bonello, tra amore e paura
La Bête costituisce
la prima incursione del regista francese nel genere
fantascientifico: “Avevo molti desideri per questo film, uno
tra questi era che sarebbe dovuto essere un melodramma. Il libro di
Henry James, che è stato per tantissimo tempo sulla mia scrivania,
mi è sembrato il perfetto punto di partenza, che ho poi combinato
con lo sci-fi, l’horror e altri generi. Ho pensato di dover portare
all’estreme conseguenze i temi dell’amore e della paura, questa è
stata la mia interpretazione e il modo in cui ho “tradito” il
romanzo“. La fantascienza non fa davvero parte della mia
cultura, è la prima volta che mi ci immergo come regista. Ho voluto
trovare una via di mezzo tra i grandi temi dello sci-fi e
l’apocalittico. Il mio film è ambientato nel futuro, ma un futuro
vicinissimo, il nostro domani: è il 2044. Ho voluto eliminare delle
cose del nostro presente: non c’è internet, non ci sono i
cellulare, gli schermi, non ci sono le macchine: ho cercato una
maniera personale di inventare un futuro“.
“La struttura del film è
complessa, come un gioco matematico, ma tutte le sequenze al suo
interno sono molto semplici. Tutte le emozioni proposte sono molto
semplici e basiche, anche quello che si dicono i personaggi, tutto
è molto più semplice rispetto ai miei altri film“. “Ci
sono due tipi di paura, paralizzante e che ti spinge a fare cose.
Ma la paura ci fa sentire vivi, è la parte migliore dell’umanità.
Ci fa voler agire, trovare delle soluzioni. Film sulla paura
dell’amore. Quando c’è amore c’è paura: la paura di perdere, di
qualcosa che finisca“.
La Bête: la minaccia dell’IA e il futuro del cinema
Bertrand Bonello ha anche affrontato il tema
dell’IA, e quanto questa possa essere vista come opportunità o
minaccia al contempo: “Quando ho iniziato a scrivere il
copione, mai mi sarei aspettato che sarebbe stato così attinente
alle attualiti discussioni sull’IA. Durante l’editing, abbiamo
capito pienamente quanto spaventoso fosse quello che avevamo
scritto”. è un mix di entrambe, sappiamo che potrebbe essere
utilissima in alcuni ambiti, come quello medico. Ma è uno
strumento, e gli strumenti diventano minaccia quando sono ormai più
grandi di noi: è tutta una questione di etica e morale“.
La Bête parla di futuro e di presente,
intrecciandoli costantemente. A questo proposito, il regista
francese ha riflettuto sullo stato attuale del cinema e su come
quest’arte cambierà, alla luce dei recenti avvenimenti che hanno
interessato l’industria. “I capolavori della Settima Arte sono
nati da momenti di crisi. Il cinema non morirà mai, il modo di
vedere i film cambierà e non so come ma, se li vorremo vedere, ci
sarà il modo. Ovviamente siamo tutti preoccupati, è sempre più
difficile ottenere i fondi per far partire una produzione.
C’è stato un momento, soprattutto durante il covid, che il pubblico
ha iniziato ad allontanarsi dal cinema e avvicinarsi alle serie. In
questo momento ci sono dei problemi interni all’industria del
cinema, non so cosa succederà, ma non penso che il cinema
morirà“.
Reduce dalla vittoria del Gran
Premio della Giuria alla 76ª Mostra internazionale d’arte
cinematografica di Venezia con L’ufficiale e la
spia, Roman Polanskitorna al Festival,
stavolta fuori concorso, con The
Palace. Il film segna inoltre il suo ritorno al
genere della commedia satirica e dissacrante, da cui
sostanzialmente mancava dal 2011, anno di Carnage.
Questo nuovo lungometraggio, da Polanski scritto insieme a
Jerzy Skolimowski (regista del recente EO) e Ewa
Piaskowska, va dunque a riunire un gruppo di ricchi
viziati all’interno di un unico ambiente, con l’intento di portare
alla luce tutto il loro squallore.
Benvenuti al The Palace
Il racconto si svolge dunque
all’interno del Palace Hotel, uno straordinario castello progettato
all’inizio del 1900 che si trova nel bel mezzo di una valle
svizzera innevata, dove ogni anno convergono da tutto il mondo
ospiti ricchi e viziati, in un’atmosfera gotica e fiabesca. La
festa di Capodanno 2000 li ha ora riuniti tutti in un evento
irripetibile. Al servizio delle loro stravaganti esigenze c’è uno
stuolo di camerieri, facchini, cuochi e receptionist.
Hansueli (Oliver Masucci),
zelante direttore dell’albergo, passa in rassegna lo staff prima
dell’arrivo degli ospiti, ribadendo che, pur essendo l’alba del
nuovo millennio, non sarà la fine del mondo, nonostante le paure
nei confronti del Millennium Bug.
Fortunato Cerlino John Cleese Oliver Masucci in una scena di The
Palace. Foto di M. Abramowska.
Un film dalle buone premesse…
C’era grande attesa per questo nuovo
film di Polanski, capace come pochi di mettere davvero alla berlina
i suoi personaggi e l’umanità tutta. Le premesse di
questo The Palace facevano inoltre immaginare una
nuova cinica rappresentazione di un’alta società ultimamente molto
spesso posta in ridicolo (si veda ad esempio Triangle of Sadness,
con cui certamente The Palace dovrà scontrarsi in un
insensato paragone). Probabilmente nessuno si aspettava però di
trovarsi di fronte ad un film così spiazzante, purtroppo in senso
negativo. Perché The Palace non ha per nulla l’aspetto di
una pungente satira, bensì di un’opera che non sa sfruttare il
proprio potenziale.
Perché va riconosciuto che l’idea
alla base del racconto è del tutto propria del cinema di Polanski,
con questo luogo chiuso che impedisce ogni contatto con l’esterno e
costringendo quanti all’interno a relazionarsi con sé stessi e con
gli altri con cui non vorrebbero avere a che fare. Diversi sono
inoltre i personaggi che sfoggiano da subito un certo fascino e
potenziale comico, basti pensare al ricco Bill Crush di Mickey Rourke o
al direttore dell’albergo Hansueli, per non dimenticare il Tonino
di Fortunato Cerlino o l’Arthur William Dallas III
di John Cleese, protagonista probabilmente del
segmento narrativo più divertente.
Ciò che poi va riconosciuto a
Polanski è la capacità di tenere in equilibrio questa grande
varietà di protagonisti, passando dall’uno all’altro con grande
disinvoltura ed eleganza. Polanski si aggira quasi con fare
documentaristico tra i corridoi e gli spazi del Palace Hotel,
indagando quanto avviene ai suoi ospiti. Assistiamo così ad una
serie di microepisodi dai quali è intenzione del regista far
emergere tutta una serie di sfumature sull’umanità alla fine del
millennio, che tramontando sembra portare la notte anche su
un’intera generazione, le sue paure e i suoi vizi.
Milan Peschel in una scena di The Palace. Foto di M.
Abramowska.
… che non vengono però mantenute
Che Polanski si sia divertito a
realizzare The Palace si percepisce ed è sempre bello
vedere un regista che, anche a 90 anni da poco compiuti, sa
infondere una tale passione nel proprio lavoro. Qualcosa deve
essere andato storto in fase di produzione, tuttavia, poiché il
film inizia, si svolge e finisce senza che vi sia stato un arco
evolutivo particolarmente significativo, senza che si sia proposta
una reale critica nei confronti di quanto vediamo. Certo, Polanski
non è sguaiato come lo è RubenÖstlund, regista appunto di
Triangle of Sadness, e dunque il suo messaggio può
presentarsi in modo più tacito. Ma in questo caso, tuttavia, questo
manca proprio di arrivare a destinazione.
Più che una satira nei confronti di
questa classe sociale, del film si potranno ricordare una serie di
gag piuttosto grottesche, che stanno già portando a definire
The Palace come “il cinepanettone di Polanski”.
Se fare tale accostamento risulta davvero facile, più difficile è
capire cosa possa essere accaduto ad un regista sempre così attento
a ciò che avviene sul proprio set. Ciò che è certo, è che The
Palace manca nel far ridere, manca nel riuscire a dire
qualcosa di nuovo sull’argomento trattato e manca di dotarsi di una
messa in scena che si possa dire memorabile. Il risultato è dunque
un film molto sottotono, che si spera possa venire rapidamente
messo in ombra dall’arrivo di un nuovo lungometraggio del Polanski
che tutti conosciamo e amiamo.
Il nuovo film di David
Fincher, The Killer, è tra i titoli più
attesi della
Mostra del Cinema di Venezia 2023. Il regista di
Fight Club e Zodiac ha raccontato quest’oggi in conferenza stampa
il suo nuovo progetto, dalla scelta di Michael Fassbender come “protagonista
perfetto”, alla sinergia tra ogni reparto per creare il ritratto
perfetto di un killer metodico, apparentemente ineccepibile, che
non lascia spazio all’empatia ma di cui, paradossalmente attraverso
pochissime parole, scopriremo tanto.
The Killer è un
film d’azione psicologico neo noir americano diretto da David
Fincher da una sceneggiatura di Andrew Kevin
Walker, basato sull’omonima serie di graphic novel
francese scritta da Alexis “Matz” Nolent e
illustrata da Luc Jacamon. Il film è interpretato
da Michael Fassbender nel ruolo dell’assassino protagonista, che
viene coinvolto in una caccia all’uomo internazionale dopo un colpo
andato male. Arliss Howard, Charles
Parnell, Kerry O’Malley, Sala
Baker, Sophie Charlotte e Tilda
Swinton appaiono in ruoli secondari. Sarà distribuito in
sale limitate il 27 ottobre 2023, prima di approdare su Netflix il
10 novembre 2023.
The Killer: il codice dell’assassino
David Fincher ha
svelato cosa lo ha spinto a creare una versione tanto peculiare di
un serial killer: “Ho usato tante altre volte il voice over nei
film: mi piace come strumento narrativo ma, in questo caso, ho
aggiunto un tassello ulteriore. Mi sono chiesto se quello che ci
racconta il personaggio è effettivamente vero. Tramite il
voiceover, il killer crea in un qualche modo un suo codice, si
impone di non allontanarsene mai, eppure sarà costretto a
improvvisare nel corso del film. Quando c’è il voice over,
le scene sono molto più rigorose, quando questo manca, cambia lo
stile e la fotografia. C’è una scissione tra il suo mantra e il
comportamento che deve aggiustare in corso d’opera“.
Michael Fassbender, tra imperturbabilità ed eleganza
Michael Fassbender, interprete duttile, capace
di straordinarie azioni fisiche mantenedo sempre compostezza ed
eleganza, torna con un ruolo da protagonista in The
Killer: “Michael ha un set di skills incredibili, il
nostro interprete doveva essere in grado di muoversi dentro uno
spazio piccolissimo ma raccontandoci tanto, e Michael è il tipo di
attore che riesce a tirare fuori tutte le sfumature necessarie in
ogni sequenza“. “Non avevo bisogno di qualcuno che facesse
paura anche a livello estetico, ma che sembrasse rigoroso. Non
capiamo che quello che ripete ogni giorno è un mantra finchè non
arriviamo al secondo omicidio. Pian piano, il mantra viene
modificato, interrotto da qualcuno che arriva nella stanza ad
esempio. Michael è riuscito a inglobare la totalità dei significati
che il killer rappresenta“.
Il sound editing di The Killer
La musica occupa una parte
fondamentale nella routine del killer e nella diegesi: “Il mio
approccio è stato molto diverso rispetto a Fight Club, soprattutto
per quanto riguarda la colonna sonora, il sound editing. Questa
volta volevamo sfruttare la lente dell’intimità per entrare nel
mondo del killer. Non volevo nemmeno che si sentissero i suoi
vocalizzi“. “Gli Smiths sono stati un’aggiunta della
post-produzione. Adoravo l’idea che potessimo usare la musica per
incanalare le sue ansie o aiutarlo a meditare. La musica è la
nostra finestra sulla sua personalità“.
Fincher ha inoltre sottolineato come il lavoro di
sound design di The Killer sia stato completamente
innovativo rispetto alle sue altre produzioni: “Volevo dare
un’idea quasi documentartista. In un montaggio normale, non si
avvertono quasi i tagli, le immagini sono fluide. Qui, abbiamo
voluto sfidare questa estetica rendendo molto più netto l’editing,
in modo da aumentare il senso di ansia e disagio“.
Alla domanda se il codice del killer
e quello del regista coincidano, Fincher ha
risposto: “In un certo senso sì. Hai in entrambi i casi una
posta in gioco molto alta, tecnologie avanzate. Così come il killer
è maniacale, volevo concepire qualcosa che, nella sua semplicità,
fosse mentalmente estenuante per lo spettatore. Tutto dipende da
come scegli di raccontare un punto di vista e fare immergere lo
spettatore nella vicenda“.
Oggi in concorso a Venezia
80 è il giorno anche di nu altro pezzo da novanta del
cinema mondiale, Roman Polanski che presenta il
suo ultimo film The
Palace, assente per ovvie ragioni il regista ma
presente il cast della pellicola, una produzione
Italia/Francia.
Parlando di The Palace il regista
ha commentato “Per quasi mezzo secolo ho frequentato in
Svizzera il Gstaad Palace, dove soggiorna un’élite estremamente
ricca e poliglotta, attorno alla quale si muove il proletariato
dell’hotel. Questi due mondi sono, a loro modo, esilaranti, a volte
persino grotteschi. Tutto li separa, a partire dalle loro opinioni
politiche. Li unisce solo la figura del direttore dell’albergo, che
si prende cura di tutti e cerca di accontentare tutti, a volte in
verità dovendo sopportare sia i clienti sia il personale. Con
abilità diplomatica, trova una via d’uscita dalle situazioni più
improbabili.L’idea di fare un film su questo mondo
esotico mi è venuta immediatamente. Doveva essere una commedia, un
po’ brusca e sarcastica, severa nei confronti dei personaggi del
film, ma non priva di un tocco di indulgenza e simpatia.”
Il direttore del festival
Alberto Barbera e il membro della giuria Jane Campion partecipano
ad un Flash Mob in solidarietà con il popolo iraniano dopo la
condanna di Saeed Roustaee
Si è tenuta la premiere del film
originale Netflix
in concorso a Venezia
80Maestro di e con Bradley Cooper, prodotto da Martin
Scorsese e
Steven Spielberg. Nel cast anche
Carey Mulligan,
Bradley Cooper,
Matt Bomer,
Maya Hawke, Sarah Silverman, Josh Hamilton, Scott Ellis, Gideon
Glick, Sam Nivola, Alexa Swinton e Miriam Shor. Purtroppo
per i fan e per il Festival nessuno dei protagonisti era presente
sul tappeto rosso per via dello sciopero del sindacato degli attori
e degli sceneggiatori che giustamente manifestano per giusto
compenso.
Lo stesso
Bradley Cooper e il cast non sono arrivati a Venezia per unirsi
alla protesta. Prima del red carpet il direttore del festival
Alberto Barbera e i membri della giuria hanno partecipato ad
un Flash Mob in solidarietà con il popolo iraniano dopo la condanna
di Saeed Roustaee durante un tappeto rosso per il film
“Maestro”.
Il direttore del festival
Alberto Barbera e il membro della giuria Jane Campion partecipano
ad un Flash Mob in solidarietà con il popolo iraniano dopo la
condanna di Saeed Roustaee
Il direttore del festival
Alberto Barbera e il membro della giuria Jane Campion partecipano
ad un Flash Mob in solidarietà con il popolo iraniano dopo la
condanna di Saeed Roustaee
Il direttore del festival
Alberto Barbera e il membro della giuria Jane Campion partecipano
ad un Flash Mob in solidarietà con il popolo iraniano dopo la
condanna di Saeed Roustaee
Il film è un tributo agli
estasianti alti e angoscianti bassi che accompagnano una vita alla
ricerca di amore, famiglia e arte. È interpretato dalla due volte
candidata agli Oscar
Carey Mulligan (Una donna promettente), nei panni
dell’acclamata attrice, artista e attivista Felicia Montealegre
Cohn Bernstein, e dal nove volte candidato agli Oscar Bradley Cooper, nel ruolo del leggendario
musicista, direttore d’orchestra, compositore, insegnante e autore
Leonard Bernstein. A partire dal duetto tra Cooper e Josh Singer
(Il caso Spotlight, The Post), coresponsabili della
sceneggiatura, per arrivare all’ensemble di acclamati produttori e
al coro di artigiani che ha creato un’armonia visiva, Maestro è un
entusiasmante sinfonia di gruppo allineata alla visione di Cooper,
conduttore sia davanti sia dietro la cinepresa.
In merito al film il regista ha
dichiarato “Quando ero piccolo in casa ascoltavamo spesso
l’opera e la musica classica. Ho passato molte ore a condurre
un’orchestra immaginaria con le capacità limitate di un bambino di
otto anni. In particolare, ascoltavamo spesso un disco di Leonard
Bernstein. Perciò la fiaccola che mi avrebbe mostrato la via per
realizzare Maestro era già accesa molti anni prima che mi capitasse
il progetto tra le mani. Dopo aver completato un anno di ricerche
su Lenny e sulla famiglia, e aver digerito tutte le informazioni,
ho capito che l’aspetto più interessante e toccante per me era il
matrimonio tra Lenny e Felicia. Era un amore non convenzionale e
sincero, che trovavo estremamente intrigante. Ed era questa la
storia che ho voluto raccontare. Sarò per sempre riconoscente a
Jamie, Nina e Alex per avermi aperto le porte della loro famiglia e
dei loro cuori. È stata una delle più grandi gioie della mia
carriera”. MAESTRO in cinema selezionati a dicembre e su
Netflix dal 20 dicembre.
E’ stato attribuito il secondo
Leoni d’Oroalla carriera
all’attore Tony Leung Chiu-wai alla
80. Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica della Biennale di
Venezia.
Tony Leung
Chiu-wai – che ha interpretato tre film Leoni d’Oro a
Venezia, Città dolente (1989)
di Hou
Hsiao-hsien, Cyclo (1995) di
Tran Anh Hung e Lust,
Caution (2007) di Ang Lee – nell’accettare
la proposta ha dichiarato: “Sono colpito e onorato dalla notizia
della Biennale di Venezia. Condivido idealmente questo premio con
tutti i cineasti con cui ho lavorato. Questo riconoscimento è anche
un omaggio a tutti loro”.
Manuel ha sedici anni e cerca di
godersi la vita come può, mentre si prende cura dell’anziano
padre. Vittima di un ricatto, va a una festa per scattare alcune
foto a un misterioso individuo ma, sentendosi raggirato, decide di
scappare, ritrovandosi invischiato in questioni ben oltre la sua
portata. Infatti i ricattatori che lo inseguono si rivelano essere
estremamente pericolosi e determinati a eliminare quello che
ritengono uno scomodo testimone e il ragazzo dovrà chiedere
protezione a due ex-criminali, vecchie conoscenze del padre.
“Dopo le esperienze all’estero,
finalmente sono tornato a raccontare la mia città. Roma è
cambiata e anch’io. L’ho osservata con occhi diversi percorrendo le
sue strade con un altro passo. Un adagio. Questo è il racconto del
declino inesorabile, struggente, di tre vecchie leggende della Roma
criminale alla ricerca di una redenzione impossibile in un mondo
ancora più cinico, caotico e feroce di quello che avevano
governato negli anni d’oro. Un mondo che schiaccia relazioni
familiari, amichevoli e fraterne senza lasciare altri legami tra
gli uomini al di fuori del denaro. Una città governata dal caos,
dalla corruzione, dal cinismo e asfissiata dal caldo torrido,
devastata dagli incendi e dal buio dei blackout… Ma c’è uno
spiraglio di luce. La nuova generazione“. Stefano
Sollima
Nello squallido dominio del ventre
criminale di Miami, un sicario esperto si lancia all’inseguimento
implacabile del suo prossimo obiettivo. Girato interamente con
lenti termiche, AGGRO DR1FT naviga in un
mondo contorto dove la violenza e la follia regnano sovrane. Le
tensioni si sciolgono, portando a un viaggio psichedelico che
confonde i confini tra predatore e preda. Se l’obiettivo di
Harmony Korine era lasciare il segno in questa
Venezia 80 allora il risultato è assicurato. Tra i Fuori Concorso
di questa Mostra del Cinema, il film del regista
di Spring Breakers torna al Lido. Un film
che racconta in maniera cruda uno spaccato di realtà americana e lo
fa in una modalità visiva disturbante.
AGGRO DR1FT, la trama
È chiara nella pellicola di Korine
l’intenzione di non tracciare una linea retta per AGGRO
DR1FT il che deve essere stata una vera e prossima
sfida. Se a questo aggiungiamo gli effetti visivi del film appare
ancora più chiaro che il film è un’esperienza, quasi come se fosse
un videogioco. Lo stesso regista ha specificato che questa storia
andava raccontata in modo sensoriale – grazie all’uso delle lenti
termiche – concimando immagini e suoni per creare un’esperienza a
360°. Le immagini vanno odi pari passo con i rumori e con i suoi
che la colonna sonora riesce a calibrare così come vengono
calibrati i colori della lente distorta. La musica ha un ruolo
preponderante e rende l’atmosfera ancora più disturbante. Le voci
dei protagonisti sono distorte e questo aspetto descrive il mondo
criminale che viene rappresentato nella pellicola.
Nel film la trama è semplice e allo
stesso tempo lo spettatore è impossibilitato a empatizzare con i
personaggi è solo, per l’appunto, lo spettatore esterno della
vicenda. E, infatti, quello che più si apprezza del film è la resa
delle immagini che lo stesso regista chiama narrazione liquida e
come tale assume la forma del contenitore che la contiene. È
mutevole così come lo sono le immagini che si alternano a momenti
di banalità delle stesse quando vogliono rappresentare ancora di
più la realtà.
Tra visione ed esperienza
Dove inizia però la visione e dove
parte l’esperienza questa è la lettura chiave di AGGRO
DR1FT. Korine fa di tutto per abbandonare i classici
dettami della psicologia, delle emozioni semplicemente si è
prefissato di creare una visione a tutto tondo delle tecniche
cinematografiche, esplorarle e giocare con esse. Non mancano i
riferimenti più moderni al nuovo cinema digitale ai visori VR. In
aiuto al regista per la gestione delle immagini il direttore della
fotografia, Arnaud Potier, che ha sperimentato con le immagini
termiche creando scene ipnotiche e fluide, che lasciando i
personaggi nudi, come se fossero sotto una radiografia. Sicuramente
un film dove Korine ha azzardato e si è lasciato
spingere oltre la macchina da presa sperimentando un nuovo tipo di
immagini.
Una visione che ha portato sul
grande schermo immagini oniriche e reali giocando molto su questo
contrasto tra finzione e realtà. Come se la realtà descritta, quel
ventre criminale di Miami nascondesse molto di più: dei mostri, dei
demoni che controllano gli uomini. Così la lotta tra le parti
diventa non solo reale ma anche fittizia quando compaiono sullo
schermo le proiezioni mitiche. Anche l’ambientazione di Miami non è
del tutto casuale e si mescola alla parte narrativa del film.
Miami ha un posto speciale nel cuore del regista –
è la città dove vive – ed ha contribuito alla realizzazione del
racconto. È una città in continuo cambiamento, la sua storia è
fatta di reinvenzione.
La Ruota del
Tempo è la serie tratta dalla lunga saga di libri
scritti da Robert Jordan agli inizi degli anni 90. Il ciclo dei
romanzi vanta una media di ottocento pagine per volume per un
totale di quattordici pezzi, gli ultimi tre dei quali scritti da
Brandon Sanderson a causa della morte di Jordan. Un ricchissimo
universo descritto in ogni minimo dettaglio a partire dalle origini
della creazione del mondo, aspetto caratteristico del genere
fantasy.
Adattata per una prima
stagione di otto puntate uscite due anni fa su Prime Video,
La Ruota del Tempo aveva già visto altre volte la
possibilità di una trasposizione filmica della storia, tanto che il
suo stesso autore aveva venduto i diritti nel 2004 alla Red Eagle
Entertainment, la quale ha poi aderito all’attuale progetto avviato
da Prime nel 2018. Scritta da Rafe Judkins, che ne
è anche produttore esecutivo, esce sulla piattaforma con la stessa
formula che era stata prevista per la prima stagione: dal 1°
settembre sono disponibili le prime tre puntate su un totale di
otto, e le seguenti lo saranno ogni venerdì, una per volta, fino al
6 ottobre. E secondo quanto annunciato l’anno scorso al San Diego
Comic-Con, è già in lavorazione la terza stagione, che avrà come
riferimento il quarto capitolo della saga di Jordan intitolato
L’ascesa dell’Ombra.
La Ruota del Tempo, seconda
stagione, la trama
La Ruota del Tempo è
quella che agli inizi della nascita della vita è stata creata per
tessere le esistenze degli uomini e le epoche storiche che si
susseguono. A permetterne il movimento continuo è l’Unico Potere,
la forza magica che viene incanalata dalle donne (e solo da loro),
in particolare quelle appartenenti alla casta delle Aes Sedai, che
da millenni sono addette alla difesa, alla protezione della vita,
alla formazione di nuove allieve della loro organizzazione e,
soprattutto, alla scoperta di chi sia il Drago Rinato, cioè l’unico
che sia in grado di fermare il Tenebroso, l’oscura creatura che
vuole la distruzione di tutto.
Durante tutta la prima
stagione Moiraine (RosamundPike) e il suo fedele custode Lan
(Daniel Henney) avevano condotto il gruppo di
giovani composto da Rand (Josha Stradowski),
Egwene (Madeleine Madden), Perrin (Marcus
Rutherford), Mat (oggi interpretato da Dónal
Finn, prima da Barney Harris) e Nynaeve
(Zoë Robins) in un insidioso viaggio verso la
Torre Bianca per scoprire tra chi di loro si celasse, appunto,
l’incarnazione del Drago.
The Seanchan Empire, Loial played by Hammed Animashaun, The Dark
One played by Fares Fares
Se nello svolgimento
della prima parte della trasposizione de La Ruota del Tempo
emergeva un po’ d’ingenuità nella riproduzione del mondo fantasy
con tutti i suoi codici e presupposti impliciti, forse in questo
secondo ciclo di episodi la profondità verso la quale
inevitabilmente la storia si dirige, avvantaggia per una maggiore
credibilità del contesto ricreato da Rafe Judkins.
Adesso la fragilità umana
di Moiraine dà una nuova prospettiva da cui guardare tutti i
rapporti tra i personaggi, anche perché il suo è uno dei ruoli
principali su cui si regge la serie (tra l’altro, RosamundPike è anche produttrice). L’intreccio
diventa così più coinvolgente, specialmente perché l’aspetto magico
e il discorso da cui nasce sono estremamente interessanti.
Quell’Unico Potere che
muove la Ruota del Tempo era un tempo dono anche degli uomini ma, a
causa di un attacco del Tenebroso, è stato contaminato dal germe
della follia, rischio che tutt’ora sussiste, soprattutto per quanto
riguarda il Drago Rinato: potrà salvare il mondo o agevolarne la
devastazione. Ed è una tematica curiosa con la quale confrontarsi,
sicuramente non nuova, anzi.
In ogni caso,
l’esordio di questa seconda stagione pare
interessante, sempre considerando che l’impatto maggiore è
soprattutto dato dalla tensione narrativa e dalla curiosità che
genera nello spettatore e dall’affascinante messa in scena.
Nel film Gli anni più belliMicaela
Ramazzotti interpreta Gemma, una donna che ad un certo
punto del racconto si confessa e ammette di star attraversando
innumerevoli tempeste, ma che nonostante questo è alla ricerca
della propria felicità e che prima o poi è certa che la troverà.
Sembra quasi nascere da qui la storia di Desirè, la protagonista
del primo film da regista della Ramazzotti che si intitola, non a
caso, Felicità. Presentato nella sezione
Orizzonti Extra della Mostra del Cinema di
Venezia, il film è un’opera prima che colpisce sia per
l’attenzione della debuttante regista ai dettagli, sia per
l’argomento che sceglie di raccontare.
La Ramazzotti, anche protagonista
del film, sceglie sì – saggiamente – di rimanere vicina a contesti
che cinematograficamente conosce bene, dalle periferie romane a
personaggi calamite di problemi, ma anche di affrontare tematiche
dal forte impatto in quanto particolarmente urgenti nell’attuale
società italiana. Relazioni tossiche, inadeguatezza ad essere
genitori e, soprattutto, disagio e depressione giovanile. Il suo
Felicità è dunque ricco di contenuti che potremmo definire
tosti da affrontare e digerire, ma che la Ramazzotti sa stemperare
con una leggerezza e una comicità amara che ha appreso dalle sue
tante collaborazioni.
Felicità, tra genitori oppressivi e figli
smarriti
In Felicità si racconta la storia di una
famiglia “storta”, di genitori egoisti e
manipolatori (Max Tortora e Anna
Galiena), un mostro a due teste che divora ogni speranza
di libertà dei due figli. Desirè (la stessa
Ramazzotti), acconciatrice per set cinematografici, si rivela
allora la sola che può salvare suo fratello
Claudio (Matteo Olivetti), frustrato
dall’incapacità di trovarsi un lavoro e smarcarsi dall’ombra dei
due genitori. Per lui, ma anche per sé stessa, Desirè si troverà
allora a lottare contro tutto e tutti, anche contro l’oppressivo
compagno Bruno (Sergio Rubini),
in nome dell’unico amore che conosce, per inseguire un po’ di
felicità.
La prima volta di Micaela
Le opere prime, si sà, sono
pericolose. Bisogna avere qualcosa da dire, bisogna sapere come
dirlo altrimenti si rischia di non offrire nulla al proprio
pubblico. La Ramazzotti sembra essere stata consapevole di tali
rischi, evitati grazie al suo decidere di raccontare una storia in
parte ispirata a qualcosa di autentico, come da lei dichiarato.
Qualcosa che conosce, che sa indagare e rappresentare. Ci si
potrebbe lamentare che di storie su famiglie problematiche se ne
vedono tante nel cinema, ma l’ambizione con Felicità non è
necessariamente quella di raccontare una storia originale,
l’importante è che sia autentica.
Questa autenticità la regista la
trova grazie ad una serie di dettagli che ci raccontano i
personaggi meglio di tante parole. Basta un’inquadratura di Desirè
che fruga nella borsa del fratello, trovandovi pasticche e un
gratta e vinci usato, per raccontarci ciò che sullo schermo non
viene mostrato. Un “dietro le quinte” che apre dunque le porte
dell’immaginazione dello spettatore, arricchendo così il racconto.
Allo stesso tempo, la Ramazzotti limita i virtuosismi che si
potrebbe essere tentati di utilizzare, specialmente alla prima
esperienza come regista, confezionando un film contenuto,
focalizzato sui personaggi e le loro vicende.
Scritto dalla Ramazzotti insieme a
Isabella Cecchi e Alessandra
Guidi, Felicità non è esente da alcune ingenuità
tipiche delle opere prime, come la rappresentazione di alcune
situazioni o la risoluzione di alcune linee narrative. Lo stesso
finale, ad esempio, avrebbe probabilmente meritato una maggiore
attenzione in fase di scrittura, in quanto così com’è potrebbe
risultare troppo brusco nel suo svolgersi, smorzando le emozioni
che sì sono fin lì suscitate. Ma davanti a tali difetti si può
chiudere un occhio, considerando che si ha con Felicità
avuto il coraggio di portare sul grande schermo una serie di
tematiche che raramente trovano spazio, nel cinema con nei
dibattiti quotidiani.
Parlare di disagio giovanile è un
conto, addentrarsi nel bosco oscuro della depressione un altro
ancora. La Ramazzotti non si fa però spaventare e sceglie di andare
a raccontare ciò che non si può vedere, quella malattia della mente
tanto sottovalutata quanto pericolosa. Sono dunque capaci di
catturare l’attenzione le scene dove si prende di petto tale
argomento, che il giovane Matteo Olivetti prende
in modo convincente sulle proprie spalle. Il suo volto diventa la
lavagna su cui la regista va a lavorare, costruendo per Claudio un
netto abisso tra mondo interiore ed esteriore.
C’è dunque molta attenzione nei
confronti di un tema così delicato, così come ce ne è nel
raccontare di quanto i genitori o in generale gli appartenenti ad
una generazione differente, sottovalutino il problema. In questo
deserto delle emozioni, il rapporto tra Desirè e Claudio è allora
un punto di calore particolarmente forte. Dal loro rapporto si
sprigionano una serie di sensazioni, sentimenti e preoccupazioni
che arrivano anche allo spettatore, rendendolo partecipe del loro
legame. Insomma, la Ramazzotti si contiene da un punto di vista
formale per lavorare sui contenuti, rendendo così Felicità
un’opera prima decisamente notevole.